I due nobili cugini

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WILLIAM SHAKESPEARE

JOHN FLETCHER

I DUE NOBILI CUGINI

Tragicommedia in 5 atti

Traduzione e note di Goffredo Raponi

Titolo originale:

“THE TWO NOBLE KINSMEN”


NOTE PRELIMINARI

1)Poiché “The Two Noble Kinsmen” non è compresa nell’edizione curata dal prof. Peter Alexander, il cui testo inglese è stato adottato per la traduzione delle altre 37 opere teatrali di Shakespeare (W. Shakespeare -“The Complete Works”, Collins, London & Glasgow, 1960, pp. XXXII-1376), il testo adottato è sostanzialmente quello curato da S. Wells e G. Taylor per la Clarendon Press di Oxford, Usa (“The Oxford Shakespeare”, 1994).

2)Alcune didascalie sono state aggiunte dal traduttore di sua iniziativa, per la migliore comprensione dell’azione scenica alla lettura, cui questa traduzione è essenzialmente ordinata ed intesa, il traduttore essendo convinto della irrapresentabilità del testo di Shakespeare sulle moderne ribalte. Si è lasciata comunque invariata, all’inizio e alla fine della scena o all’entrata e uscita dei personaggi nel corso della stessa scena, la rituale indicazione “Entra/Entrano” (“Enter”) e “Esce/Escono” (“Exit/Exeunt”), avvertendo peraltro che non sempre essa indica movimenti di entrata/uscita, potendosi dare che i personaggi cui si riferisce si trovino già in scena all’apertura, o vi restino alla chiusura di questa.

3)Il metro è l’endecasillabo sciolto, intercalato da settenari, come l’abbia richiesto al traduttore lo scorrere della verseggiatura. Altro metro si è usato per citazioni, canzoni, proverbi e altro, laddove sia stato richiesto uno stacco di stile in accordo con il testo originale.

4)Trattandosi di vicenda ambientata nella Grecia antica, che non conosceva altra forma dialogale che il “tu”, è sembrato grottesco, in italiano, far parlare i personaggi con il “voi” per rendere la forma “you” del testo.

5)Il traduttore riconosce di essersi avvalso di traduzioni precedenti, dalle quali ha preso in prestito, oltre all’interpretazione di passi controversi, intere frasi e costrutti, dandone opportuno credito in nota.

6)La divisione in atti e scene, com’è noto, non si trova nell’“in-folio”; essa è stata elaborata, spesso anche con l’elenco dei personaggi, da vari curatori nel tempo, a cominciare da Nicolas Rowe (1700). La si riproduce come figura nel citato testo dell’“Oxford Shakespeare”, salvo che nel V atto, in cui si è seguita la divisione del “Riverside Shakespeare” di G. Blakemore Evans, Boston, 1974, che prevede 4 scene invece di 6.


PERSONAGGI

TESEO, duca d’Atene

IPPOLITA, regina delle Amazzoni, poi moglie di Teseo

EMILIA, sua sorella

PIRITOO, amico di Teseo

PALAMONE e ARCITE, nobili cugini tebani, nipoti di Creonte, re di Tebe

IMENE (o IMENEO), dio delle nozze

Un RAGAZZO, cantore

ARTESIO, soldato ateniese

Tre REGINE, vedove di re uccisi nell’assedio di Tebe

VALERIO, cittadino tebano

Un ARALDO

Una DONNA, serva di Emilia

Un GENTILUOMO ateniese

Sei CAVALIERI, scorta, tre a tre, di Palamone e Arcite

CARCERIERE, della prigione d’Atene

La FIGLIA del Carceriere

Il CORTEGGIATORE della Figlia del Carceriere

Due AMICI del Carceriere

Un DOTTORE

Sei CONTADINI, di cui uno vestito da scimmia

GERALDO, maestro di scuola

NELLA e altre quattro Ragazze di campagna

TIMOTEO, tamburino

Ninfe, servitori, contadini, fanciulle, portatore di ghirlande, cacciatori, un carnefice, soldati.

SCENA: in Grecia, parte in Atene, parte in Tebe


PROLOGO

Fanfara

Entra il PROLOGO

PROLOGO -

Buone commedie e femmine illibate,

fan quasi il paio: entrambe ricercate,

entrambe ben pagate,

se buone e ben formate.

E una buona commedia teatrale

le cui scene arrossiscon di pudore

il giorno delle sue nozze,([1])

e tremano di perdere l’onore,

è come una che dopo il sacrale

congiungimento della prima notte,

invece di mostrare

la nuziale fatica del consorte,

è tutta ancor pudore virginale.

Così speriamo sia questo lavoro;

poiché da nobile progenitore

esso discende, uomo puro e dotto,

e poeta, del quale fino ad oggi

mai nessun altro nacque di più alto

fra il Po e l’argenteo Trent.([2])

Chaucer, infatti, da tutti ammirato,

ci dà la trama; ed essa nel suo nome

vive costante nell’eternità.([3])

Se tanta nobiltà

faremo noi cadere tanto in basso,

che sia soltanto un fischio il primo suono

udito dall’infante alla sua nascita,

ohimè, come quel suono

farà fremere l’ossa di quel grande

e gli farà gridar da sottoterra:

“Ah, lontano da me la vuota lolla

di questo scrittorello da strapazzo

che fa strame dei miei gloriosi allori

e riduce le illustri mie fatiche

a ballatette da cantor girovago”.([4])

È con questa paura dentro al cuore

che siamo qui, ché, ad esser sinceri,

sarebbe interminabile fatica

oltre che ambiziosissima pretesa

aspirare noi stessi ad eguagliarlo.

Deboli come siamo, e senza fiato

per nuotare per acque sì profonde,

non possiamo che chiedere a voi tutti

di prestarci una mano di salvezza,

sì che possiamo dirigere il corso

altrove, e far qualcosa per salvarci.

Voi sentirete recitare scene

impari certamente alla sua arte,

ma che potranno forse apparir degne

di due ore di sforzo ad ascoltarle.

Dolce riposo dunque alle sue ossa,

e speranza per noi di accontentarvi.

Se poi questa commedia non valesse

a distoglierci un poco dalla noia,

allora veramente sarà il segno

che la perdita nostra([5]) è così grossa,

che saremo costretti a rinunciare.([6])


ATTO PRIMO

SCENA I

Musica

Entra IMENE, con una torcia accesa in mano; dinanzi a lui, cantando e danzando e spargendo fiori, un RAGAZZO con indosso una tunica bianca; dietro, una NINFA, quasi avvolta dai lunghi capelli sciolti, che reca una ghirlanda di spighe di grano; quindi TESEO affiancato da due altre Ninfe incoronate di spighe; quindi IPPOLITA, la sposa, anch’essa coi capelli sciolti, condotta per mano da PIRITOO mentre un altro le tiene librata sulla testa una corona; dopo di lei EMILIA, che le regge lo strascico; poi ARTESIO con altri del seguito([7])

RAGAZZO -

(Cantando)

“Rose prive di loro aguzze spine,

“regali nell’olezzo e nel colore;

“garofani dall’incarnato roseo

“e dal soave odore; margherite

“senza fragranza, ma così leggiadre;

“ed odoroso aromatico timo;

“primule, della gaia Primavera

“araldi, con le pallide campanule

“precorritrici della dolce Dea;

“e bocche di leone ancora in boccio;

“calendole, fiorite sulle tombe;

“consolide nei loro magri grappoli,

“tutti della Natura dolci figli,

“ai piedi dello sposo e della sposa

“si spargano, a blandire i loro sensi”.

“Da questa casa uccello

“angiol dell’aria melodioso e bello,

“assente mai non sia;

“mai vi si posino a portar discordia

“col suo sinistro canto la cornacchia,

“il cùculo insolente,

“il corvo menagramo, il grigio graccio,

“la petulante gazza, ma lontano

“voli da questa casa ogni uccellaccio”.

Entrano TRE REGINE, in gramaglie, con velo nero e corona imperiale in testa. La prima cade ai piedi di Teseo, la seconda ai piedi di Ippolita, la terza davanti a Emilia

1a REGINA -

(A Teseo)

In nome dell’umana compassione

e della mia regale nobiltà

prestami ascolto e considerazione!

2a REGINA -

(A Ippolita)

Per l’amore che tu porti a tua madre

e per l’augurio che fai al tuo grembo

d’esser fruttifero di bei rampolli,

prestami ascolto e considerazione.

3a REGINA -

Per amor di colui che il sommo Giove

ha designato a onorare il tuo letto,

in nome della pura e immacolata

verginità, sii tu buona avvocata

di noi e delle nostre aspre sventure

presso di loro. Questa buona azione

cancellerà dal Libro del Signore

ogni debito iscritto là a tuo nome.

TESEO -

(Alla 1a Regina)

Alzati, afflitta donna.

IPPOLITA -

(Alla 2a Regina)

Sorgi in piedi.

EMILIA -

(Alla 3a Regina)

Niente ginocchi avanti a me. Obbligata

mi fa ogni donna cui io possa mai

recar soccorso nella sua sventura.

TESEO -

(Alla 1a Regina)

Qual è la vostra supplica?

Parla per tutte.

1a REGINA -

Siamo tre regine

i cui mariti re sono caduti

sotto l’ira del barbaro Creonte;([8])

i lor corpi lasciati abbandonati

nei desolati campi intorno a Tebe

han subìto lo scempio degli adunchi

becchi dei corvi, gli artigli dei nibbi,

lo straziante beccar delle cornacchie.

Egli ci nega di bruciarne l’ossa,

per riporne le ceneri ne l’urne,

e per sottrarre al sacro occhio di Febo([9])

l’oscena vista d’una morte immonda;

ma lascia ai venti d’ammorbare l’aria

col fetore dei nostri sposi uccisi.

Pietà, Duca! Tu, purgator del mondo,([10])

snuda tu la terribile tua spada

che tanto bene fa su questa terra,

a noi l’ossa dei nostri morti re

rendi, per ripararle in luogo sacro;

e nella sconfinata tua bontà

non disdegnare di considerare

che sulle coronate nostre teste

non c’è tetto, all’infuor di questa volta

ch’è del leone, dell’orso e di tutto.([11])

TESEO -

Ti prego, non restare inginocchiata.

Tutto compreso da questo tuo dire,

non ho pensato che le tue ginocchia

restavano a soffrir piegate a terra.

Ascoltare le lacrimose sorti

dei vostri sposi uccisi è tal dolore

per il mio animo, da suscitarlo

a un empito di rabbia e di vendetta.

Re Capaneo era il tuo signore;

io conobbi il tuo sposo il giorno stesso

che stava appunto per condurti a nozze.

Tu, all’ara di Marte, eri bellissima:

non fu più bello il manto di Giunone([12])

delle disciolte tue trecce fluenti,

né su di lei con più ricchezza sparso;

né era il grano della tua ghirlanda

battuto ancora né marcito dentro.

Fortuna fossettava le sue guance

sorridendoti. Mio cugino Eràcle,

più debole d’un tratto degli occhi tuoi,([13])

abbandonò la clava e stravaccato

si lasciò andare sulla nemèa pelle([14])

giurando che i suoi muscoli

si scioglievano in acqua. O tempo, o affanni,

consumatori orribili del mondo,

finirete per divorare tutto!

1a REGINA -

(Ancora in ginocchio)

Ah, lasciami sperar che un qualche dio

ha infuso nella tua virilità

il suo potere, sì da darti forza,

e indurti a sostener la nostra causa!

TESEO -

Non più in ginocchio, vedova, per me;

(La donna si alza)

usale, invece, quelle tue ginocchia,

per prosternarti alla marzial Bellona,([15])

e pregarla per questo tuo soldato.

(Volgendo il capo altrove)

Sono commosso e turbato.

2a REGINA -

(Sempre in ginocchio)

Ippolita onorata temutissima,

Amazzone e regina, che hai ucciso

il cinghiale dalle falcate zanne:([16])

che con la forza delle bianche braccia

stavi per sottomettere al tuo sesso

il maschio, se Natura, nel suo ordine,

non l’avesse plasmato tuo signore,

all’origine della creazione,

sì ch’ei doveva quindi ricondurti

entro l’argine donde stavi uscendo,

a lui sottomettendo la tua forza

e il tuo amore di donna;

cuor di soldato, che forza e clemenza

sai giustamente bilanciare in te,

e tanto più potere su di lui

possiedi, io so, che non lui su di te,

e che sempre hai tenuto in tuo potere

la sua forza e il suo cuore,

sì ch’egli si può dir sempre al servizio

del tuo volere e della tua parola;

o tu, prezioso specchio della donna,

digli che noi, bruciate come siamo

dalle vampe di guerra,

possiam trovare solo refrigerio

all’ombra della sua possente spada;

digli che l’alzi sulle nostre teste;

parlagli a nota di semplice donna,

di donna debole come noi tre;

e come donna sappi lacrimare

prima di cedere ad un suo diniego.

Prestaci il tuo ginocchio,

senza toccar però con esso il suolo

più del sussulto d’una tortorella

nell’atto che le staccano la testa;

digli quel che faresti tu per lui,

se foss’egli a giacere tutto gonfio

su un campo di battaglia insanguinato,

mostrando i denti al sole,

sogghignando alla luna.

IPPOLITA -

Basta, basta!

Povera donna, non parlare più.

Farei con voi di questa buona azione

il cammino con non minore gioia

che su quello su cui sto ora andando,

e mai percorsi con più grato animo.

Il mio sposo è compreso nel profondo

della vostra sventura; ma in quest’ora

convien che lo lasciate ai suoi pensieri.

Gli parlerò di ciò subito dopo.

3a REGINA -

(A Emilia)

Ah, che ho scritto nel ghiaccio la mia supplica,

e, sciolto dal calore del mio duolo,

esso si scioglie in gocce; e la mia pena

privata della sua solida forma

è schiacciata da più profonda angoscia.

EMILIA -

Alzati, su, ti prego; la tua pena

t’è scritta sulle guance.

3a REGINA -

Ohimè, che là, signora, non puoi leggerla;

ché queste guance tu le puoi vedere,

attraverso le lacrime, distorte

come ciottoli di greto sul fondo

dell’acqua cristallina d’un torrente.

(Rialzandosi)

Ah, signora, signora,

chi vuol conoscere tutto il tesoro

della terra vi deve penetrare

fino al centro; chi al fondo del mio cuore

vuol pescare il più picciol pesciolino

deve mettere piombo alla sua lenza.

Oh, perdonami! La disperazione,

che a molta gente fa aguzzar l’ingegno,

mi fa farneticare.

EMILIA -

Non dire più, ti prego, non dir più;

chi non riesce a sentire o a vedere

la pioggia quando vi si trova sotto,

non può sapere s’è bagnato o asciutto.

Se tu fossi una statua dipinta,([17])

io mi ti comprerei,

per istruirmi a protegger me stessa

da un dolore mortale come quello

di cui tu sei sì straziante modello;

ma essendo a me tu natural sorella

in virtù del comune nostro sesso,

il tuo dolore batte su di me

con tale ardore, che sarà riflesso

e rinviato al cuor di mio fratello,

e son sicura che lo scalderà

fosse pure di sasso. Via, fa’ cuore.

TESEO -

Avanti, al tempio! Non un solo jota

si perda della sacra cerimonia.

1a REGINA -

Oh, che a queste tue supplici infelici

questa tua cerimonia

sarà più lunga ancora e più costosa

che non sia stata per loro la guerra.

Ricorda che la fama del tuo nome

risuona come un tocco di campana

nell’orecchio del mondo;

il tuo rapido agire

non è precipitosa avventatezza;

il tuo solo intuire

è più concreto dell’agire altrui;

le tue azioni, o Giove,

basta ch’abbiano avuto appena inizio,

e soggiogano prima di toccare,

come le procellarie con i pesci.

Pensa, benigno Duca, in quali letti

si giacciono gli uccisi nostri re.

2a REGINA -

E quale angoscia è per i nostri letti

il pensiero che i nostri amati sposi

non ne hanno alcuno.

3a REGINA -

Un letto per i morti!

Anche a coloro che contro se stessi

si son fatti di morte orridi agenti

con corde, con pugnali, con veleni,

con precipizi, la pietà degli uomini

concede terra ed ombra.

1a REGINA -

I nostri sposi

vissuti invece come buoni re,

se ne giacciono a imputridire al sole.

TESEO -

È vero, ed io vi lenirò la pena,

dando una tomba ai vostri morti sposi;

il che imporrà ch’io muova a qualche azione

contro Creonte.

1a REGINA -

E che una tale azione

sia fatta subito, che il ferro è caldo;

domani si sarà già raffreddato,

e allora l’infruttuosa tua fatica

non potrà che trovare il suo compenso

nel suo stesso sudore;

ora è il momento, ei si sente sicuro,

e non si sogna che noi stiamo qui

davanti alla tua Altezza,

lavando questa nostra santa supplica

negli occhi nostri, a renderla più limpida.

2a REGINA -

Sì, ora tu puoi coglierlo ubriaco

ancor del suo successo, ed il suo esercito

sazio di cibo e di rilassatezza.

TESEO -

Artesio, tu che sai meglio d’ogni altro

come scegliere gli uomini migliori

e il loro numero per questa impresa,

procùrati e raduna, per condurla,

gli strumenti di guerra più appropriati,

mentre noi ci accingiamo a consumare,

con il rito nuziale,

questo grande atto della nostra vita,

questa sfida al destino.

1a REGINA -

(Alle altre due regine)

Oh, allora, vedove,

diamoci pur la mano, e siamo vedove

al nostro duolo;([18]) l’indugio del Duca

ci affida a una speranza evanescente.([19])

LE TRE REGINE -

Addio.

2a REGINA -

Siamo venute fuori tempo.

Ma come può una mente addolorata

come la nostra, scegliere il momento

più adatto a muovere la propria supplica?

TESEO -

Buone signore, questa cui m’accingo

è impresa più importante d’una guerra;

più importante per me

di tutte quelle compiute in passato

e di quant’altre sosterrò in futuro.

1a REGINA -

Tanto più chiaramente proclamando,

così, quanto negletta resterà

la nostra supplica presso di te,

quando le braccia di lei,

(Indicando Ippolita)

la cui stretta

può trattenere Giove da un concilio,

ti stringeranno, pronuba la luna.

Oh, quando le sue tumide ciliege

verseranno nell’avide tue labbra

la lor dolcezza, come potrai tu

volgere il tuo pensiero

a re marciti ed a regine in lacrime?

Come potrai curarti, in quel momento,

di qualche cosa che non senti dentro,

mentre quello che senti

può far lasciar da parte pure a Marte

il tamburo di guerra?

Oh, se pur tu ti giacerai con lei,

per una sola notte ogni sua ora

ti farà prigioniero di altre cento

e non ricorderai più nulla d’altro

che ciò a cui t’invita quel banchetto.

IPPOLITA -

(Inginocchiandosi a Teseo)

Se pure è assai improbabile

che tu possa cambiar proponimento,

come è probabile che ti dispiaccia

che a domandartelo sia proprio io,

il mio pensiero è questo tuttavia:

che s’io, per non privarmi della gioia

d’appagar sì profondo desiderio,

non mi curassi della loro ambascia,

susciterei contro di me lo sdegno

delle donne del mondo.

(Inginocchiandosi)

Perciò, Sire,

poiché qui voglio mettere alla prova

le mie preghiere, per aver contezza

s’abbiano qualche presa su di te,

o se sia condannato il lor vigore

a restar muto, proroga quest’atto

cui ci accingiamo ed appendi il tuo scudo

avanti al cuore… appendilo al tuo collo

ch’è mio feudo, sì ch’io possa disporne

liberamente a rendere servizio

a queste tre sconsolate regine.

LE TRE REGINE -

(A Emilia)

Oh, aiutaci anche tu! La nostra causa

a gran voce reclama il tuo ginocchio!

EMILIA -

(Inginocchiandosi a Teseo)

Se non esaudirai la petizione

di mia sorella, con tutta la forza

e la celerità e la passione

ch’ella ci ha messo, non oserò più

di domandarti nulla, d’ora innanzi,

dovesse pur trattarsi del consenso

a prendere un marito.

TESEO -

Riàlzatevi. Mi sto scongiurando

dentro di me di far quello che tutte

mi supplicate in ginocchio ch’io faccia.

(Tutte le donne si alzano)

Piritoo,([20]) conduci tu per me

la sposa: andate e pregate gli dèi

che mi diano successo e buon ritorno;

e badate a non tralasciare nulla

del predisposto rito… Voi, Regine,

seguite il vostro soldato di scorta.

(Ad Artesio)

Tu, come prima detto, parti subito

e raggiungici sulla riva d’Aulide

con le forze che avrai potuto togliere;

là troveremo noi l’altra metà

degli effettivi che ci serviranno

per un’impresa di maggior impegno.

(Esce Artesio)

(A Ippolita)

Poiché, mia cara, il nostro imperativo

è la rapidità, io stampo questo bacio

sul tuo fuggente labbro… e tu conservalo,

dolcissimo, a mio pegno d’amore.([21])

Andate, voglio vedervi partire.

(Il corteo nuziale muove verso il tempio)

(A Emilia)

Arrivederci, mia bella sorella.

Piritoo, bada tu, mi raccomando,

a mantener la festa nel suo pieno,

non risparmiarne un’ora.

PIRITOO -

Ma io ti seguirò immediatamente,

mio signore, la festa può aspettare

finché sia tornato.

TESEO -

No, cugino,

t’ordino di non muoverti da Atene.

Saremo di ritorno ancora prima

voi possiate por fine a questa festa,

a cui non far, ti prego, nessun taglio.

(Esce Piritoo, offrendo il braccio a Ippolita che s’incammina con lui e con Emilia, seguiti da tutto il corteo nuziale)

1a REGINA -

Ecco che tu confermi in questo modo

la fama di cui godi in tutto il mondo.

2a REGINA -

E ti conquisti una divinità

uguale a Marte.

3a REGINA -

Se non superiore;

in quanto, essendo un semplice mortale,

pieghi la volontà a divine imprese,

mentre gli stessi dèi, come si dice,

soggiacciono a tal loro signoria.([22])

TESEO -

Così dev’essere, poiché siam uomini.

Se soggiacciamo all’impero dei sensi

perdiamo il nostro titolo di umani.

(Alle tre regine)

Signore, fate cuore, i nostri sforzi

si rivolgono adesso a confortarvi.

(Escono)

SCENA II - Tebe, una strada

Entrano PALAMONE e ARCITE

ARCITE -

Palamone, cugino mio diletto,

più caro per affetto che per sangue,

poiché induriti ancor non siamo entrambi

nelle dissolutezze della carne,

andiamocene via da questa Tebe,

e dalle tentazioni ond’essa è piena,

a scanso di macchiare ulteriormente

lo smalto della nostra gioventù.

Vivere in astinenza è qui per noi

vergogna simile all’incontinenza;

ché non nuotar secondo la corrente

è quasi come voler affogare…

o almeno compiere uno sforzo inutile;

mentre seguire il flusso generale

rischia di trasportarci dentro un gorgo

dentro il quale avvitarci, o annegare;

ed anche a faticare per uscirne,

ne avremmo guadagnato un’esistenza

priva d’ogni vigore.

PALAMONE -

Il tuo consiglio

è giusto, e confermato dagli esempi.

Quali strani relitti umani, infatti,

non vediamo aggirarsi noi per Tebe,

dal tempo della nostra età scolare?

Cicatrici e cenciose vestimenta

sono la ricompensa del guerriero

che pose a mira delle sue ambizioni

gloria e lingotti d’oro, e, pur vincendo,

nulla ottenne e si trova ora schernito

dalla pace per cui ha combattuto.

Qual uomo potrà più recare offerte

all’altare d’un Marte sì beffato?

A vedere costoro il cuor mi sanguina,

e mi vien da augurarmi che Giunone

possa cader di nuovo in un sussulto

della sua radicata gelosia,

per mettere in attività il soldato,([23])

sì che la pace trovi un buon purgante

per la sua attuale indigestione,

e risvegli il suo cuore generoso,

ora indurito e reso più insensibile

che non in tempo di contesa o guerra.

ARCITE -

E bastasse!([24]) Non esci tu di casa?

Nei vicoli e negli angoli di Tebe

non vedi altri relitti che il soldato?

Pareva, quando avevi cominciato,

che vedessi relitti d’ogni specie,

oltre al trascuratissimo soldato;

non riesci a vederne nessun altro

che susciti la tua desolazione?

PALAMONE -

Sì, tutti i segni della decadenza

mi fanno pena, dovunque li trovi;

ma quel che mi colpisce soprattutto

è chi tanto sudore avendo speso

in onorevol opra, è ripagato

col ghiaccio, a raffreddare quel sudore.

ARCITE -

Non è però di questo che parlavo

nell’avviar da prima il mio discorso;

questo è valore che non trova in Tebe

alcun rispetto; parlavo di Tebe,

dove ogni vizio è tenuto in onore,

e come sia per noi pericoloso,

se vogliamo serbare la virtù,

continuare a vivere in un luogo

dove ogni cosa, buona all’apparenza,

è una magagna certa; e dove noi,

a voler esser da lor diversi,

ci farebbe apparire agli occhi loro

degli stranieri, e ad esser come loro

nient’altro che dei mostri agli occhi nostri.

PALAMONE -

È in poter nostro essere padroni

delle nostre maniere,

se non vogliamo viver nel timore

d’aver come maestri delle scimmie.

Quale bisogno ho io di scimmiottare

la maniera d’incedere di un altro,

se per me non ha il minimo interesse

la maniera d’incedere in se stessa;

o d’ammirarne il modo di parlare,

quando col mio, parlando franco e schietto

posso farmi capire… e perdonare?

Perché dovrei sentirmi vincolato

da non so quale nobile dovere

a seguire chi segue il proprio sarto,

magari fino a tanto che il seguìto

non si converta in un inseguitore?([25])

O sapere perché il mio barbiere

- e con esso la povera mia barba -

è un miserabile barbitonsore,

che mai usò la forbice allo specchio

del tale e del tal altro bellimbusto?([26])

Quale regola c’è a farmi obbligo

di dondolar la spada con la mano,

mentre la porto al fianco camminando,

o di procedere in punta di piedi

se non cammino in una strada sporca?([27])

O io mi sento d’essere

il cavallo di testa della torma,

o comunque non sono sono certo il tipo

che si fa trascinare in coda ad altri.

Ma queste sono povere piaghette

che non richiedono manco un impiastro;

quel che mi spezza il petto fino al cuore

è…

ARCITE -

Nostro zio Creonte.

PALAMONE -

Proprio lui!

Il più sfrenato di tutti i tiranni,

che i facili successi hanno privato

del timor degli dèi, e la cui infamia

vuol che non vi sia nulla superiore

al suo potere; ha posto in quarantena

la religione, ed eretto a sua dea

l’incostante fortuna;

attribuisce a sé, e a sé soltanto,

alle sue proprie decisioni e azioni;

gli altrui meriti; manda in guerra gli uomini,

e poi s’appropria delle lor conquiste,

delle lor prede, della loro gloria;

è uno che non teme di far male,

ed ha un ritegno innato a far del bene.

Vorrei che il sangue mio, parente al suo,

fosse succhiato via dalle mignatte!

E che queste potessero scoppiare

cascando via da me con quella peste!

ARCITE -

Caro ed illuminato mio cugino,

abbandoniamo dunque la sua corte,

sì da non farci in nulla compartecipi

della sua spudorata nefandezza;

il nostro latte sentirà altrimenti

di questo pascolo, e vili o ribelli,

noi non saremo suoi parenti in sangue

se riusciamo a non esserlo nei fatti.

PALAMONE -

Nulla di più conforme a verità.

Credo che l’eco delle sue vergogne

abbia assordato persino le orecchie

della divina giustizia;

sì che anche i lamenti delle vedove

tornano loro in gola, e dagli dèi

non sono più ascoltati… Ecco Valerio.

Entra VALERIO

VALERIO -

Il re cerca di voi;

vi converrà però non affrettarvi

fino a che la sua rabbia furibonda

si sia placata. Appetto alle sue urla,

quelle di Febo quando la sua frusta

spezzò gridando ai destrieri del sole,([28])

non furon che bisbigli.

PALAMONE -

Un lieve soffio basta a farlo far fremere.

Ma che è successo? Di’…

VALERIO -

È che Teseo,

la cui sola minaccia rende pallidi,

gli ha mandato una sfida perentoria,

con cui proclama distruzione a Tebe;

e a suggello di questa sua minaccia,

è già qui, non lontano.

ARCITE -

E che ben venga.

Se pur temiamo i numi che lo ispirano,

lui non ci ispira il minimo terrore;

anche se chi, convinto, come noi,

di lottare per una causa ingiusta,

avendo qualche remora ad agire,

riduce di tre volte il suo valore.([29])

PALAMONE -

Lascia da parte queste riflessioni;

ora si tratta di servire Tebe,

non Creonte; sarebbe un disonore

per noi due disertarlo proprio adesso,

ed una ribellione contrastarlo;

perciò dobbiamo rimaner con lui

alla mercé del fato,

a cui fino all’estremo nostro istante

tutti noi uomini siamo legati.

ARCITE -

Hai ragione. Dobbiamo rimanere.

(A Valerio)

Questa guerra è già in atto,

si afferma, o sarà solo dichiarata

per rigetto di qualche condizione?

VALERIO -

È già in atto; la sua dichiarazione

venne contestualmente allo sfidante.

PALAMONE -

Allora è bene che andiamo dal re;

il quale se soltanto avesse in sé

un quarto dell’onore

del quale è ricoperto il suo nemico,

il sangue che noi qui mettiamo a rischio

non ch’essere un inutile dispendio,

sarebbe un salutifero salasso,

per un utile acquisto dispensato.

Ma se la mano agisce senza il cuore,

ahimè, qual danno potrà mai recare

al nemico l’abbattersi del colpo?

ARCITE -

Che siano i fatti, giudici infallibili,

a dirci tutto quel che già sappiamo,

e seguiamo il segnale della sorte.

(Escono)

SCENA III - L’uscita del tempio([30])

Entrano PIRITOO, IPPOLITA ed EMILIA

PIRITOO -

Qui convien separarci.

IPPOLITA -

Addio, signore.

Ripeti il mio saluto al nostro re

sul cui successo non oso nutrire

il più velato e dubbioso timore;

e tuttavia voglio augurargli ancora

un traboccante eccesso di valore,

se mai si trovi ad averne bisogno

per sopportare una fortuna avversa.

Affrèttati da lui; buona riserva

non nocque mai a buon governatore.

PIRITOO -

Benché io sia convinto che al suo mare

non servano le mie povere gocce,

devono tuttavia portare anch’esse

il loro contributo alla bisogna.

(A Emilia)

Mia preziosa fanciulla, nel tuo cuore

regnino sempre quegli eletti sensi

che i cieli sanno infondere e profondere

nelle lor più perfette creazioni.

EMILIA -

Grazie, signore. Non ti sia fatica

ricordarmi al regal nostro fratello,

per la cui più sollecita vittoria

io pregherò la potente Bellona;([31])

e poiché nel terreno nostro stato

non ci son petizioni senza doni,

le offrirò ciò che credo più gradisca.

I nostri cuori son con le sue truppe,

con lui nella sua tenda.

IPPOLITA -

E nel suo cuore.

Siamo state anche noi gente guerriera,([32])

e non sappiamo piangere alla vista

di nostri amici che cingono l’elmo

o si mettono in mare per la guerra;

né raccontare storie di bambini

infilzati alla punta della lancia,

o di madri che han cotto i loro infanti

- per poi farsene pasto - nelle lacrime

da loro stesse piante nell’ucciderli;

se t’aspettassi di vedere in noi

donniciole di quella levatura,

staresti ad aspettare qui per sempre.

PIRITOO -

Pace a voi; io proseguo per la guerra,

la quale dovrà fare che la pace

non abbia ad essere mai più invocata.([33])

(Esce)

EMILIA -

Come l’animo suo era proteso

nel desiderio di seguir l’amico!

Da che questo è partito, i suoi trastulli,

gli svaghi, gli esercizi, i passatempi,

anche quelli d’impegno e abilità,

passavan via con lui distrattamente,

senza curarsi di vincere o perdere,

con la mano occupato a una faccenda,

con la testa inseguendone delle altre,

la sua anima essendo egual nutrice

a gemelli così tra lor diversi.

Non l’hai notato del resto anche tu,

da che è partito il nostro gran signore?

IPPOLITA -

Con molta pena; e l’ho amato per questo.

Hanno alloggiato tante volte insieme

in luoghi malsicuri e disagiati,

affrontando pericoli e strettezze;

han superato sopra picciol scafo

torrenti paurosi a traversare

nel lor ruggente ed impetuoso corso

anche dov’erano più basse l’acque;

ed hanno combattuto insieme in luogo

dove la stessa morte avea dimora;

eppure il fato li ha sempre salvati.

Il loro affetto è un nodo così stretto,

e così a lungo e con tal lealtà

intrecciato, e con arte sì sottile,

che potrà consumarsi, ma mai sciogliersi.

Io veramente penso che Teseo,

se dovess’esser arbitro a se stesso,

e dividere in due la sua coscienza,

rendendo egual giustizia alle due parti,

si troverebbe a non saper decidere

quale amore è più grande.

EMILIA -

Uno dei due senza dubbio è più grande;

e sarebbe scortese disconoscere

che sei tu quell’amore.

Ho conosciuto il tempo quando anch’io

gioivo d’una giovin compagnia.

Tu eri in guerra quando ella passò

a far ricca di lei la propria tomba,

troppo orgoglioso letto divenuta;([34])

ella prese congedo dalla luna,

che parve impallidire al suo distacco,

quando eravamo entrambe di undici anni.

IPPOLITA -

Era Flavina?

EMILIA -

Sì. Tu parli adesso

dell’amicizia di Teseo e Piritoo;

il loro è un sentimento più concreto,

più maturato alla stagionatura,

più annodato da solido giudizio,

e il bisogno ch’essi hanno l’un dell’altro

si può dire che innaffi di continuo

le intrecciate radici dell’affetto.

Ma io e quella per la qual sospiro

e della quale ti stavo parlando,

eravamo degli esseri innocenti,

che si amavano sol perché si amavano,

e come gli elementi di natura

che non sanno né come né perché,

eppure con la loro attività

producono straordinari effetti,

così le nostre anime bambine

facevan l’una dell’altra, inconsciamente.

Quel che piaceva a lei, piaceva a me,

quello che no, veniva condannato

da tutte e due, senza complicazioni;

se avessi colto un fiore,

e l’avessi appuntato tra i miei seni

che cominciavano allora a sbocciare,

lei si struggeva di cercarne un altro

che fosse uguale, e una volta trovato,

se lo poneva nella stessa culla

dove quei fiori, come la Fenice,([35])

se ne morivano nel lor profumo;

sulla mia testa non v’era ornamento

ch’ella non imitasse; ed io per me

prendevo per modello quelli suoi,

per il mio più severo abbigliamento,

graziosi, ma talvolta un po’ sciattati;

se m’accadeva d’orecchiar qua e là

qualche nuovo motivo, o se io stessa

ne canticchiassi alcuno, improvvisando,

lei lo seguiva, se ne impadroniva

e lo cantava perfino nel sonno.

Questa reminiscenza - insufficiente,

lo riconoscerebbe anche un bambino,

a dar l’idea dell’antico trasporto -

vuol dimostrare che tra due fanciulle

può nascere un amore ancor più forte

che tra creature di sesso diverso.

IPPOLITA -

Diamine, sei rimasta senza fiato!

E questa galoppata di parole

l’avresti fatta soltanto per dirmi

che tu - come la vergine Flavina -

non amerai mai uno che sia uomo?

EMILIA -

Son sicura di no.

IPPOLITA -

Su, sorellina, non ti voglio credere

- anche se so che tu ne sei convinta -

più di quanto sarei disposta a credere

a un appetito in cattiva salute

che prova ripugnanza per il cibo

e nello stesso tempo lo desidera.

Però, sorella, se foss’io matura

a farmi persuader dal tuo discorso,

quello ch’hai detto sarebbe abbastanza

perch’io potessi scuotermi dal braccio

dell’onorabilissimo Teseo,

per le cui sorti vo dentro a pregare

in ginocchio, con la certezza in cuore

d’occupare nel suo più alto posto

che l’amico Piritoo.

EMILIA -

Va bene,

non voglio contrastar questo tuo credo,

anche se sono ferma in quello mio.

(Escono)

SCENA IV - Campagna aperta presso Tebe

Trombe. Fragore di battaglia all’interno; poi passaggio di soldati tebani in ritirata.

Poi fanfara trionfale

Entra TESEO, vincitore, con un ARALDO e seguito; poi PALAMONE e ARCITE portati su carri funebri. Le TRE REGINE vanno incontro a Teseo e si buttano faccia a terra ai suoi piedi

1a REGINA -

Nessuna stella a te giammai s’oscuri!

2a REGINA -

E cielo e terra ti siano benigni

in sempiterno.

3a REGINA -

Ai voti d’ogni bene

che possan formularsi sul tuo capo

io grido il mio “Amen”!

TESEO -

I giusti dèi che dall’alto dei cieli

scrutano questo lor gregge mortale

discernono chi erra, e a tempo e posta

da loro stessi scelti lo castigano.

Andate adesso intorno a rintracciare

i resti dei caduti vostri re,

e date loro funebre onoranza

in triplice solenne cerimonia;

e perché nulla manchi al sacro rito,

vi suppliremo noi, col delegare

coloro che dovran restituirvi

alle vostre regali dignità,

e a provvedervi di quanto la fretta

abbia potuto farci trascurare.

E così addio. Vi seguano benevoli

gli occhi del cielo.

(Escono le regine con seguito)

(Indicando Palamone e Arcite)

Chi sono quei due?

ARALDO -

A giudicare dal loro equipaggio,

uomini d’alto rango; due cugini,

ci han detto gente di Tebe, figli

di due sorelle, e nipoti del re.

TESEO -

Ah, per l’elmo di Marte!

Li ho già visti sul campo di battaglia,

battersi come un paio di leoni,

lordi del sangue delle loro prede,

aprirsi varchi fra truppe sgomente.

Su di loro ho tenuto sempre fisso

il mio occhio, perché le lor prodezze

erano degne dell’occhio d’un dio.

Chi è quel prigioniero

che mi disse i lor nomi, a mia domanda?

ARALDO -

Arcite e Palamone, con licenza,

sono i lor nomi, mio signore.

TESEO -

Esatto.

Son proprio loro. Ma non sono morti?

ARALDO -

No, ma nemmeno si può dir che vivano;

fossero stati subito raccolti

dal campo dopo l’ultime ferite,

sarebbe stato forse ancor possibile

salvarli. Ma respiran tuttavia,

e sono ancor tra gli uomini.

TESEO -

E come uomini vanno trattati.

La sola loro feccia

val milioni di volte il vino d’altri.

Fate venire tutti i nostri medici

per curarli; dosate, anzi sprecate,

per loro i nostri più preziosi balsami;

valgono più per noi le loro vite

che tutta Tebe con le sue ricchezze.

In verità, vorrei vederli morti,

piuttosto che vederli sani e liberi

nelle lor condizioni di stamane;

però quarantamila volte meglio

averli vivi nelle nostre mani

che in quelle della morte.

Portateli via subito dall’aria,

benefica per noi, nociva a loro,

e curateli quanto meglio può

uomo a uomo… e per amor mio di più,

perch’io ho conosciuto su di me

qual marchio sanno imprimere sull’uomo

terrori, furia, richieste di amici,

istigazioni dell’amore, zelo,

esigenze della galanteria,

sete di libertà, febbre, follia,

un marchio cui natura

mai sarebbe capace di arrivare

senza una qualche costrizione esterna,

senza un fiaccarsi della volontà

che sovrasti di forza la ragione.([36])

Per amor nostro dunque,

e doveroso omaggio al grande Apollo,

siano prestate loro dai migliori

dei nostri medici tutte le cure

delle migliori lor capacità.

Avanti, adesso, guidaci in città;

dove staremo il tempo necessario

a riordinar le cose sconquassate,

e poi subito in marcia per Atene,

per raggiungerla prima dell’esercito.

(Escono)

SCENA V - Altra parte del campo di battaglia

presso Tebe

Musica. Entrano le TRE REGINE con le bare dei loro consorti,

in corteo funebre, con seguito

CANTO

“Urne ed essenze profumate intorno

“recate, e ai lor vapori

“misti i nostri sospiri

“la luce oscurino di questo giorno.

“Il nostro duolo è tale,

“da sembrar della morte più mortale.

“Unguenti, incensi, facce rattristate

“che come sacre fiale

“siete di calde lacrime riempite;

“lamenti che per l’aria alti volate,

“tristi e solenni segni del dolore,

“nemici del fuggevole piacere,

“mescolatevi in un funereo canto,

“qui raduniamo sol dolore e pianto”.

3a REGINA -

(Alla 2a regina)

Da questa parte è il funebre sentiero

che mena alla sua tomba di famiglia.

Ti riprenda la gioia, e pace a lui.

2a REGINA -

E questo è quello che mena alla tua.

1a REGINA -

(Alla 3a regina)

La tua è invece per di qua. Gli dèi

offrono mille differenti vie

verso una fine unica e sicura.

3a REGINA -

Questo mondo non è che una città

piena di vie tortuose,

e la morte è la piazza del mercato

verso la quale tutte si convergono.

(Escono per direzioni diverse)


ATTO SECONDO

SCENA I - Il cortile di un carcere

Entrano il CARCERIERE e il CORTEGGIATORE della figlia

CARCERIERE -

Posso togliermi poco, finché vivo;

vi potrò, sì, assegnare qualche cosa,

ma non molto. Purtroppo la prigione,

di cui sono il custode titolare,

quantunque adatta per i pezzi grossi,

questi ci vengono assai raramente;

prima d’un buon salmone

devi pescare un sacco di avannotti.

È voce in giro ch’io sia più in finanze

di quanto a me tal voce sembra vera.

Fossi davvero quello che mi dicono!

Comunque, quel che ho, sia quel che sia,

lo lascerò a mia figlia alla mia morte.

CORTEGGIATORE -

Signore, più di quanto puoi offrirmi

io non ti chiedo, e assegnerò a tua figlia

quanto promesso.

CARCERIERE -

Beh, ne riparliamo,

quando saran finite queste feste.

Ma ella è pienamente consenziente?

Del suo consenso vorrei esser certo,

prima di dare il mio.

CORTEGGIATORE -

Ce l’ho, signore.

Ma eccola che viene.

Entra la FIGLIA del Carceriere

con dei fastelli di paglia in mano

CARCERIERE -

Stavamo appunto parlando di te

con l’amico, riguardo al vecchio affare.

Ma per ora non ne facciamo nulla.

Quando sarà finita la baldoria

alla corte, vedremo di concludere.

Nel frattempo, tu metti ogni tua cura

ad occuparti dei due prigionieri.

Ti posso dire che sono due principi.

FIGLIA -

Ecco la paglia per la loro stanza.([37])

Peccato ch’essi siano qui in prigione;

ma sarebbe peccato non ci fossero.([38])

Io penso infatti che la lor pazienza

può far vergogna ad ogni avversità;

lo stesso carcere è fiero di averli,

e nella loro cella è tutto il mondo.

CARCERIERE -

Han fama infatti d’esser, l’uno e l’altro,

un paio di perfetti gentiluomini.

FIGLIA -

Ed è una fama ancora balbettante

questa che sì li giudica, a mio avviso;

perché quei due stanno un’intera scala

al disopra di quel ch’essa li dice.

CARCERIERE -

In battaglia, da quello che ho sentito,

hanno compiuto azioni prodigiose.

FIGLIA -

E c’è da crederci, se son sì nobili

nel sopportare la loro sconfitta.

Mi chiedo come sarebbero apparsi

se fossero riusciti vincitori,

loro che con altera nobiltà

piegan la prigionia a libertà,

volgendo in buon umore la disgrazia

e l’afflizione in una sciocchezzuola

su cui scherzare.

CARCERIERE -

Son proprio così?

FIGLIA -

Per me quei due si senton prigionieri

com’io mi sento regina di Atene;

mangiano bene, stanno in allegria,

parlan di tutto, mai del loro stato

e dei loro disastri.

Talvolta scappa ad uno, a mezza bocca,

un sospiretto, strozzato sul nascere;

cui l’altro porge subito un rimbrotto,

ma così dolce che vorrei io stessa

essere quel sospiro,

per sentirmi così rimproverata,

o almeno il sospirante,

per sentirmi così riconfortata.

CORTEGGIATORE -

Non li ho mai visti.

CARCERIERE -

Son venuti qui

in segreto, nel cuor della notte,

accompagnati dallo stesso Duca.

(Indicando qualcuno che s’avvicina dal di dentro)

Guarda, son qua. Quello che guarda fuori

è Arcite.

FIGLIA -

No, signore, è Palamone!

Arcite è quello più basso dei due;

di lui non se ne scorge che una parte.

CARCERIERE -

Andiamo, smettila di fare segni.

Non vengono per noi. Andiamo via!

FIGLIA -

È una festa guardarli. Dio Signore,

come diversi son tra loro gli uomini!

(Escono il Carceriere, la Figlia e il Corteggiatore)

Entrano, in alto, PALAMONE e ARCITE,

con catene ai piedi([39])

PALAMONE -

Cugino, come va?

ARCITE -

Io bene, e tu?

PALAMONE -

Ebbene, sufficientemente in forze

per sorridere in faccia alla sventura

e sopportar le sorti della guerra;

tuttavia siamo entrambi prigionieri,

e per sempre, cugino, ho gran timore.

ARCITE -

Lo so, e ho già disposto a quel destino

pazientemente il resto di mia vita.

PALAMONE -

Ahimè, cugino Arcite, dov’è Tebe?

Dov’è quel nostro nobile paese?

Dove sono gli amici ed i parenti?

Mai più ci sarà dato d’incontrarli;

di rivedere i suoi gagliardi giovani,

competere nei giochi dell’onore,

pavesati con gli sgargianti pegni

delle lor dame, come tante navi

veleggianti altezzose sottovento;

e poi gettarci noi in mezzo a loro

ed al pari d’un vento di levante

seminarceli tutti dietro a noi,

come fossero pigra nuvolaglia,

e Palamone e Arcite, di conserta,

con sussiegosa e sprezzante andatura,

soverchiare le lodi della gente,

e guadagnare i vittoriosi allori

prima ancora che quelli abbiano il tempo

di fare alcun pronostico per noi!

Ahimè, più non potremo maneggiare

le nostre armi da coppia d’onore,

né più sentir sotto di noi cavalli

ansanti come oceani tempestosi.

Ora le nostre buone spade - mai

ne cinse di migliori il fiamma-occhiuto

dio della guerra([40]) - non più al nostro fianco,

dovranno arrugginire di vecchiezza

e andare a fare da ornamento ai templi

di quegli dèi che ci tengono in odio;

queste mani non le estrarranno più

per brandirle nell’aria come fulmini

a folgorar di colpo interi eserciti.

ARCITE -

No, Palamone, ormai queste speranze

son rinchiuse in prigione insieme a noi;

qui siamo noi, e dovrà qui appassire

il fiore della nostra gioventù

come una prematura primavera;

qui ci troverà ancora la vecchiaia,

e, quel ch’è ancor più triste, Palamone,

senza una moglie, senza una famiglia.([41])

Mai sentiremo intorno al nostro collo

i dolci amplessi, carichi di baci,

d’una moglie amorosa,

armati di migliaia di Cupidi;

né mai conosceremo discendenza;

mai non vedremo copie di noi stessi

a rallegrar la nostra età matura,

e apprender loro, come ad aquilotti,

a fissar contro balenanti acciai

l’occhio spavaldo, e proclamare agli altri:

“Ricordatevi quel che i nostri padri

sono stati, ed andate alla vittoria!”.

Fanciulle vergini dal dolce sguardo

piangeranno la nostra lontananza,

e canteranno nelle lor canzoni

il maleficio alla cieca fortuna,

finché questa vedrà, per sua vergogna,

il torto fatto a gioventù e natura.

Questo carcere è tutto il nostro mondo;

qui non avrem più nulla da conoscere,

se non ch’io te e tu me; nulla da udire

se non che l’orologio che con l’ora

scandisce pure le nostre disgrazie.

La vite crescerà, ma gli occhi nostri

non la vedranno più; verrà l’estate,

e con essa le sue molte delizie,

ma l’inverno col suo freddo mortale

deve abitare qui, perennemente.

PALAMONE -

Purtroppo, Arcite. Ai nostri bei segugi

che squassavano la foresta annosa

coi lor latrati, più non darem voce;

più non faremo vibrare nell’aria

i nostri acuminati giavellotti,

ad inseguir l’infuriato cinghiale

che fugge via veloce come un Parto,([42])

colto dai nostri ben temprati dardi.

Tutte le nostre belle consuetudini,

cibo e alimento delle anime nobili,

si spegneranno qui dentro di noi,

che finiremo col morir qui dentro

figli dell’ignoranza e dell’ambascia,

ch’è la maledizione dell’onore.

ARCITE -

E tuttavia, cugino, io vedo emergere

anche dal fondo di queste sventure,

e da quant’altro può infliggerci il fato,

due maggiori motivi di conforto,

vere benedizioni degli dèi,

se a loro piaccia: l’esser noi capaci

di serbar qui un’eroica pazienza,

e di gioir delle nostre disgrazie.

Io, finché Palamone sta con me,

ch’io muoia se mi venga di pensare

che questa in cui viviamo è una prigione.

PALAMONE -

Certo, cugino è un bene inestimabile

per tutti e due che le nostre fortune

siano appaiate come due gemelli.

È vero quel che dici tu: due anime

che siano poste in due nobili corpi,

soffrano pure i colpi della sorte,

se son cresciute insieme come noi,

non si lascian sommergere, non possono;

e se pur fosse, l’uomo coraggioso

muore come dormendo, e tutto è fatto.

ARCITE -

Perché non fare noi virtuoso impiego

di questo luogo da tutti esecrato?

PALAMONE -

In che maniera, nobile cugino?

ARCITE -

Facendo conto che questa prigione

sia come un santuario, un sacro asilo

che ci protegga dalla corruzione

d’individui peggiori. Siamo giovani,

e abbiamo ancora vivo il desiderio

di percorrere le vie dell’onore,

dalle quali la nostra libertà

ed il contatto con gente volgare,

veleno degli spiriti illibati,

potrebbe lusingarci a deviare,

come per femminile allettamento.

Qual degna e nobil cosa ci può essere

della quale la nostra fantasia

non può appropriarsi? Stando così insieme,

siamo un’inesauribile miniera

l’uno per l’altro; l’uno all’altro moglie,

sempre di nuova ed amorosa prole

generatrice; l’uno all’altro padre,

fratello, amico, compagno, famiglia.

Io sono il tuo erede, e tu il mio;

questo luogo è la nostra eredità;

nessun tiranno ce lo potrà togliere;

qui, con quel tanto di rassegnazione,

possiamo vivere ed amarci a lungo.

Non ci insidia nessuna intemperanza.

La mano della guerra sta lontana

da questi luoghi, i mari non inghiottono

la loro gioventù. Fossimo liberi,

una moglie potrebbe a buon diritto

separarci, o le cure degli affari;

le continue querele consumarci;

la gelosia di male intenzionati

cercare di scoprir le nostre cose.

Potrei cadere ammalato, cugino,

dove tu non sapessi, e là morire,

senza che venga a chiudermi le palpebre

o ad innalzare preghiere agli dèi

la tua nobile mano; mille cose,

insomma, ci potrebbero dividere,

se non fossimo qui.

PALAMONE -

Grazie, cugino.

M’hai fatto quasi innamorare, Arcite,

della mia prigionia. Fuori di qui,

dovunque fosse, qual miseria vivere!

Sarebbe, credo, vivere da bestie.

Qui è come se trovassi la mia corte;

mi sento più sicuro, più contento;

ora discerno bene quei piaceri

che lusingan la vanità degli uomini,

e mi sento di dichiarare al mondo

ch’essi non sono che un’ombra sbiadita

che il vecchio Tempo si trascina dietro.

Che sarebbe mai stato di noi due,

a invecchiare alla corte di Creonte,

dove il peccato è legge,

e lussuria e ignoranza le virtù

dei grandi? Se gli dèi benigni, Arcite,

non ci avessero messo in questo luogo,

noi due saremmo morti come loro,([43])

vecchi pieni d’acciacchi, non compianti,

con le maledizioni della gente

come epitaffio sulle loro tombe.

Devo dire di più?

ARCITE -

Ti ascolterei ancora volentieri.

PALAMONE -

Avrai tempo di farlo. Di’ piuttosto,

Arcite, ci fu mai esempio al mondo

di due che si volessero più bene

di noi due?

ARCITE -

Sicuramente no.

PALAMONE -

Io credo infatti che non sia possibile

che la nostra amicizia ci abbandoni.

ARCITE -

Non lo potrà, fino alla nostra morte;

Entrano, in basso, EMILIA e la sua DONNA

ed anche dopo morti i nostri spiriti

saran fatti condurre in mezzo a quelli

che s’amano in eterno.

(Palamone vede Emilia)

Parla ancora.

EMILIA -

Questo giardino è un mondo di delizie.

Che fiore è questo?

DONNA -

Un narciso, signora.

EMILIA -

Oh, quello era di certo un bel ragazzo;

ma che sciocco ad amare sol se stesso!

Non c’eran forse abbastanza ragazze?([44])

ARCITE -

(A Palamone)

Ti prego, seguita a parlare.

PALAMONE -

(Distrattamente, sempre mirando Emilia)

Sì.

EMILIA -

(Alla Donna)

O forse erano tutte di cuor duro?

DONNA -

Con uno così bello, non potevano.

EMILIA -

E tu non lo saresti?([45])

DONNA -

No, signora,

penso che non dovrei.

EMILIA -

Brava, ragazza!

Ma devi stare attenta, tuttavia,

a questa tua bontà.

DONNA -

Perché, signora?

EMILIA -

Perché gli uomini sono pazze cose.

ARCITE -

(A Palamone)

Cugino, allora, vuoi continuare?

EMILIA -

(Alla Donna)

Sapresti ricamarli, tu, ragazza,

questi fiori di seta?

DONNA -

Sì, signora.

EMILIA -

Vorrei un abito tutto trapunto

di questi e di questi altri… È un bel colore,

non credi che starebbe molto bene

su una gonna, ragazza?

DONNA -

Graziosissimo.

ARCITE -

(A Palamone)

Cugino, allora, cugino, che hai?

Allora, Palamone, che ti prende?

PALAMONE -

Arcite, prima di questo momento

mai mi sono sentito prigioniero.([46])

ARCITE -

Perché, che cosa ti succede, amico?

PALAMONE -

(Indicando Emilia)

Guarda e stupisci. È una dea, per il cielo!

ARCITE -

Ah!

PALAMONE -

Riveriscila, Arcite. È una dea.

EMILIA -

(Alla Donna)

Di tutti i fiori credo che il più bello

sia la rosa.

DONNA -

Perché, gentil signora?

EMILIA -

È il vero simbolo della fanciulla;

quando zefiro dolce l’accarezza,

come pudicamente essa si schiude,

a colorar dei suoi casti rossori

la chiarità del giorno!

E quando il soffio del vento del nord

le si avvicina rude e irrequieto,

come la stessa castità pudica,

essa le sue bellezze

chiude di nuovo dentro il suo bocciolo

e lo nasconde nel rozzesco rovo.([47])

DONNA -

E tuttavia talvolta, mia signora,

questa sua verecondia è sì eccessiva,

ch’ella cade per essa… una fanciulla

che veramente tenga al proprio onore,

dovrebbe avere invero ripugnanza

a seguirne l’esempio.

EMILIA -

Sfacciatella.

ARCITE -

(A Palamone)

Ell’è meravigliosamente bella.

PALAMONE -

È tutto quanto c’è di bello al mondo!

EMILIA -

(Alla Donna)

Il sole si fa alto, rientriamo.

Quei fiori pòrtali dentro con te;

vedremo come l’arte sia capace

d’avvicinarsi ai loro bei colori.

Ho il cuore allegro, oggi,

e mi sento una gran voglia di ridere.

DONNA -

E io d’andare a letto.([48])

EMILIA -

Con qualcuno?

DONNA -

Questo potrà dipendere dai patti,

signora.

EMILIA -

Beh, mettetevi d’accordo.

(Escono Emilia e la Donna)

PALAMONE -

Che pensi, Arcite, di quella beltà?

ARCITE -

Penso che è cosa rara.

PALAMONE -

Solo rara?

ARCITE -

Sì, dico, una bellezza impareggiabile.

PALAMONE -

Non credi tu che un uomo per amarla

possa giungere a perdere se stesso?

ARCITE -

Non so di te, ma - accidenti ai miei occhi! -

io sento d’essermi già tutto perso!

Adesso sento queste mie catene.

PALAMONE -

Tu l’ami, dunque?

ARCITE -

E chi non l’amerebbe?

PALAMONE -

E la desideri?

ARCITE -

Più ch’esser libero.

PALAMONE -

Io l’ho vista per primo.

ARCITE -

Questo è niente.

PALAMONE -

Sarà qualcosa, invece.

ARCITE -

Anch’io l’ho vista.

PALAMONE -

Sì, ma non per amarla. Non lo devi.

ARCITE -

Certo, non l’amerò come fai tu,

adorandola come s’ella fosse

cosa del cielo e sacra deità;

io l’amo come donna, per goderla;

così possiamo amarla tutti e due.

PALAMONE -

Tu non la devi amare affatto…

ARCITE -

No?

Perché, cugino, chi potrà impedirmelo?

PALAMONE -

Io, che per primo l’ho veduta; io,

che mi sono per primo impossessato

coi miei occhi di tutte quelle grazie

da lei svelate al mondo. Se tu l’ami,

o se soltanto nutri la speranza

di render vani i desideri miei,

Arcite, sei un traditor malvagio

ed un falso individuo, come è falsa

la pretesa che accampi su di lei.

Sangue, amicizia ed ogni altro legame

esistente fra noi io li rinnego,

se soltanto tu ardisci di pensarla.

ARCITE -

Ebbene, l’amo, e l’amerei lo stesso,

se da ciò dipendessero le vite

di tutti quelli della mia casata;

l’amo con tutta l’anima.

Se ciò sarà cagione ch’io ti perda,

ebbene, addio, cugino Palamone!

Non posso che ripeterti che l’amo,

e nell’amarla mi ritengo degno

ed altrettanto libero di farlo,

e d’aver titolo alla sua bellezza,

quanto qualsiasi Palamone o altri

che respiri e che sia nato da donna.([49])

PALAMONE -

E t’ho chiamato amico?

ARCITE -

Amico, sì,

ché tale m’hai trovato, Palamone.

Ma perché ti sconvolgi in questo modo?

Parliamo un poco spassionatamente.

Non son io parte del tuo stesso sangue,

della tua anima? M’hai sempre detto

ch’ero io Palamone e tu Arcite.

PALAMONE -

Infatti.

ARCITE -

Ed io non posso andar soggetto

alle stesse passioni, stesse gioie,

pene, rabbie, paure del mio amico?

PALAMONE -

Direi di sì.

ARCITE -

Perché agiresti, allora,

con modi così strani, sì contorti,

così inconsueti a un nobile cugino,

verso l’amore? Di’ la verità,

mi consideri indegno di nutrire

la visione di lei?

PALAMONE -

No, ma sleale,

se inseguirla tu vuoi, quella visione!

ARCITE -

Sol perché un altro ha visto per il primo

il nemico, dovrei io restar fermo,

lasciar cader da me l’onore mio

e rinunciar per sempre ad assalire?

PALAMONE -

Sì, se quell’altro è uno, ed uno solo.

ARCITE -

E se si desse il caso che quell’uno

preferisse combattere con me?

PALAMONE -

Aspetta che quell’uno te lo dica,

e poi agisci in piena libertà;

ma se la insegui, che tu sia per me

non diverso da certi maledetti

che odiano la patria e la tradiscono,

un fiore di furfante.

ARCITE -

Tu sei pazzo.

PALAMONE -

E dovrò esserlo per forza, Arcite,

fino a tanto che tu me lo imporrai;

la cosa mi riguarda di persona,

e se in questa pazzia, sentimi bene,

io rischierò di toglierti la vita,

non avrò agito per altra ragione

che per essere ad essa coerente.([50])

ARCITE -

Vergogna, Palamone,

ti stai portando proprio da bambino.

Io l’amo e l’amerò; la voglio amare;

la devo amare, devo ed oso farlo,

e tutto ciò è legittimo e corretto.

PALAMONE -

Oh, se adesso, se adesso,

tu traditore e questo amico tuo

potessimo trovare la fortuna

d’essere un’ora sola in libertà

e d’impugnar le nostre buone spade,

saprei ben io lì subito insegnarti

che cosa sia rubar l’affetto a un altro!

Tu sei più vile in ciò d’un tagliaborse.

Prova a mettere ancora la tua testa

fuor da questa finestra,

e, quant’è vero che posseggo un’anima,

ci lascio là inchiodata la tua vita!

ARCITE -

Non ci provare, scemo. Non lo puoi.

Sei fiacco. Metter fuori la mia testa?

Ma mi ci getterò con tutto il corpo,

e salterò addirittura in giardino,

appena la vedrò un’altra volta,

per andarmi a piantar sulle tue braccia,

perché tu possa crepare di rabbia.

Entra il CARCERIERE, di sopra

PALAMONE -

Basta adesso, ché viene il carceriere.

Vivrò abbastanza per spaccarti il cranio

con queste mie catene.

ARCITE -

Fallo pure.

CARCERIERE -

È permesso?

PALAMONE -

Che c’è, bravo custode?

CARCERIERE -

Signor Arcite, subito dal Duca…

il perché non lo so.

ARCITE -

Sono a disposizione, carceriere.

CARCERIERE -

Principe Palamone,

devo privarti della compagnia

del tuo nobil cugino, per un poco.

(Escono Arcite e il Carceriere)

PALAMONE -

Ed anche della vita, carceriere,

quando ti piaccia.([51]) Ma perché lo chiama?….

Può essere che la doverà sposare…([52])

egli è piacente, e può darsi che il Duca

abbia notato sia la nobiltà

che la prestanza della sua persona.

Ma la sua falsità! Perché un amico

dovrebbe diventare un traditore?

Se ciò dovesse procurare a lui

una moglie sì nobile e leggiadra,

mai più non s’innamorino gli onesti.

Vorrei solo vederla un’altra volta

quella beltà. Oh, beato giardino,

e più beati ancora frutti e fiori

che crescete e fiorite rigogliosi

alla luce degli occhi suoi splendenti!

Oh, come vorrei esser, d’ora in poi,

per la gioia di tutta la mia vita,

quel virgulto, quell’albicocco in fiore!

Come vorrei dispiegarmi nell’aria

e lanciare le mie vogliose braccia

al suo balcone! Le porterei frutta

degna d’esser mangiata dagli dèi!

E in lei, mentr’ella sempre ne gustasse,

raddoppierei giovinezza e piacere,

e se non è divina creatura,

innalzerei sì vicina agli dèi

la natura di lei da impaurirli;

e allora, son sicuro, mi amerebbe.

Rientra il CARCERIERE

Ebbene, carceriere? Dov’è Arcite?

CARCERIERE -

È messo al bando. Il Principe Pirìtoo

ha ottenuto per lui la libertà;

ma, a giuramento e pena della vita,

egli mai più dovrà mettere piede

su questo regno.

PALAMONE -

È un uomo fortunato!

Egli ora potrà far ritorno a Tebe

e chiamare alle armi i baldi giovani

che al suo comando andranno come fuoco

all’assalto, ed Arcite avrà per sé

questa fortuna: osar di meritare

l’amor di lei, a costo di affrontare

una vera battaglia in campo aperto;

e se, malgrado ciò, la perderà,

sarà la prova ch’è un freddo codardo.

Quante opportunità gli sono offerte

di dimostrar coraggio e conquistarla;

migliaia, sol perché si chiama Arcite!

Foss’io in libertà, com’è lui ora,

sarei capace di compiere imprese

di sì alta virtù, che questa dama,

questa vergine piena di rossore,

dovrebbe prendere natura d’uomo,

per cercar di rapirmi!

CARCERIERE -

Monsignore,

anche per te mi devo scaricare…

PALAMONE -

Scaricarti di che? Della mia vita?([53])

CARCERIERE -

No, di portarti via da questo luogo.

Qui le finestre sono troppo aperte.

PALAMONE -

Che i diavoli si portino coloro

che tanto m’odiano! Ti prego, uccidimi.

CARCERIERE -

Per essere impiccato il giorno dopo?

PALAMONE -

Per questa buona luce, sarei io

ad ucciderti, avessi qui una spada!

CARCERIERE -

Perché, signore?

PALAMONE -

Perché vieni qua

ad annunciarmi, l’una dopo l’altra,

tali schifose e fetide notizie,

che non meriti più di stare al mondo.

Io di qui non mi muovo.

CARCERIERE -

Ma lo devi, mio nobile signore.

PALAMONE -

Il giardino, da là dove mi porti

potrò vederlo?

CARCERIERE -

No.

PALAMONE -

Allora son deciso. Non mi muovo.

CARCERIERE -

Vuol dire che mi toccherà costringerti;

e poiché sei così pericoloso,

t’applicherò altri ferri.

PALAMONE -

Fallo pure,

buon guardiano: li agiterò sì forte,

che non riuscirai più a dormire;

ti metto su una nuova moresca.([54])

Debbo proprio andar via?

CARCERIERE -

Non c’è rimedio.

PALAMONE -

Addio, gentil finestra!

Mai rude vento possa farti male.

O mia signora, se mai tu provasti

che cosa sia il dolore,

immagina soltanto com’io soffro.

Andiamo, carceriere, seppelliscimi.

(Escono)

SCENA II - Campagna presso Atene

Entra ARCITE

ARCITE -

Bandito dal suo regno? È un beneficio,

di cui gli devo certo render grazia;

ma bandito dal libero bearmi

di quel viso pel quale mi consumo,

oh, questo è stato un ben crudel castigo,

una morte al di là d’ogni altra morte

che possa immaginarsi, una vendetta

che, fossi pure già vecchio e malvagio,

non basterebber tutti i miei peccati

a tirarmela addosso.

Palamone, tu sei ora in vantaggio;

tu resti là, dove ogni mattino

potrai veder la luce di quegli occhi

irromper contro quella tua finestra

e trasfonderti vita; ogni mattina

ti nutrirai della soavità

di una nobil bellezza, che Natura

mai superò, né mai supererà.

O dèi benigni, qual felicità,

avete riservato a Palamone!

Venti a uno, che arriverà a parlarle,

e s’ella è sì gentile quanto è bella,

io so che sarà sua; egli ha una lingua

capace di ammansire le tempeste

e innamorare le rocce selvagge.

Avvenga quel che può, la morte è il peggio;

e tuttavia non lascerò il paese.

Il mio è solo un mucchio di rovine

ormai, lo so, e là non c’è rimedio.

Se vado, lui l’avrà. Sono deciso:

debbo mutare faccia e travestirmi,

o porre termine alle mie fortune.

Riesca l’una o l’altra alternativa,

son felice lo stesso; o la vedrò

e le starò vicino, o sarò morto.

Entrano QUATTRO CONTADINI preceduti da un altro

(che non parla) recante una ghirlanda

1° CONTADINO -

Compagni, ci sarò, sicuramente.

2° CONTADINO -

Io pure ci sarò.

3° CONTADINO -

E così io.

4° CONTADINO -

Quand’è così, ragazzi, io son con voi.

Al peggio sarà solo una sgridata.

Lasciamo in ozio l’aratro per oggi;

domani tornerò a solleticare

la coda delle rozze.([55])

1° CONTADINO -

Son sicuro di far ingelosire

la mia consorte come una tacchina;

ma che importa? Ci sto, vengo con voi,

e lei borbotti pure quanto vuole.

2° CONTADINO -

Domani notte ti ci sbatti addosso,

e la stipi ben bene,

e vedrai che ogni cosa torna a posto.

3° CONTADINO -

Ma sì, mettile in pugno una bacchetta,

e vedrai com’è pronta

ad imparare una nuova lezione,

e restar buona! Ci si trova, allora,

tutti insieme per il calendimaggio?

4° CONTADINO -

Ci si trova?… Perbacco, e c’è qualcuno

che ci potrà impedire di venirci?

3° CONTADINO -

Ci sarà Arcade.

2° CONTADINO -

E Rica, e Sennes;

e mai ragazzi seppero danzare

meglio di loro tre di sotto a un albero;

e le ragazze, eh!, le conoscete.

Ma il nostro delizioso reverendo,

il maestro di scuola, ci sarà?

Perché è lui che fa tutto, lo sapete.

3° CONTADINO -

Quello si mangia un sillabario intero,([56])

piuttosto che mancare. Andiamo, su,

che ormai le cose sono troppo avanti

tra lui e la figliola del conciaio

per mollar tutto adesso; e la ragazza

dovrà vedere il Duca e poi danzare.

4° CONTADINO -

Ci sfreneremo dunque alla goduria?([57])

2° CONTADINO -

I ragazzi di Atene addosso a noi

dovran cacare vento dalle braghe.([58])

(Si mette a ballare)

“Ed io sarò di qua,

“ed io sarò di là,

“per la nostra città,

“e poi di nuovo qua,

“e poi di nuovo là”.

Oh, oh, ragazzi, evviva i tessitori!([59])

1° CONTADINO -

(Al 4° Contadino)

Quel che tu dici s’ha da far nel bosco.

4° CONTADINO -

Oh, scusa.

2° CONTADINO -

Sì, così dice la parte

che s’è imparata; dove tocca a lui

parlare al Duca a nome di noi tutti.

Lui nel bosco è qualcosa di magnifico;

portatelo in pianura,

e quello che ha imparato gli svapora.([60])

3° CONTADINO -

Prima vedremo i giochi,

e poi ciascuno al posto di manovra;([61])

e, prima che ci vedano le dame,

cari compagni, facciamo le prove,

subito, senza mettercela tutta,

e Dio sa quel che può venirne fuori.

4° CONTADINO -

D’accordo; appena terminati i giochi,

attaccheremo noi. Forza ragazzi,

in gamba!

ARCITE -

Con licenza, onesti amici;

dove siete diretti?

1° CONTADINO -

Che domanda!

ARCITE -

Per me che non lo so, è una domanda.

3° CONTADINO -

Ai giochi, amico!

2° CONTADINO -

Dove sei cresciuto,

per non saperlo?

ARCITE -

Non lontano, amico.

E questi giochi si tengono oggi?

1° CONTADINO -

Diamine, e tali che non ne hai mai visti.

Il Duca stesso ci sarà, in persona.

ARCITE -

Che genere di giochi?

2° CONTADINO -

Lotta e corsa.

(A parte)

È un bel tipo costui.

3° CONTADINO -

Vieni con noi?

ARCITE -

Non ancora, signore.

4° CONTADINO -

Come vuoi,

prendi il tuo tempo. Su, ragazzi, andiamo!

1° CONTADINO -

Sono preoccupato:([62]) questo Tizio,

ha un’anima di fianchi fatti apposta

pel colpo d’anca.([63]) Guardate il suo corpo.

2° CONTADINO -

M’impicchino, però, se ci si azzarda;

vada a impiccarsi lui, pappa di prugne!

Lottare quello lì? Con quelle natiche

può arrostirci le uova. Su, ragazzi,

sbrighiamoci ad andare, su, alla svelta!

(Escono i contadini)

ARCITE -

Questa per me è un’opportunità

che mai avrei osato di sperare.

Ho sempre fatto bene nella lotta,

i migliori dicevano benissimo;

e nella corsa sono più veloce

di quanto mai abbia soffiato il vento

a piegare le spighe maturate

sopra un campo di grano. Tenterò,

e mi presenterò là camuffato

in disadorna veste;

chi sa che la mia fronte non si cinga

d’alloro vincitore, e la fortuna

non abbia a favorirmi per un posto

dov’io possa restare in permanenza

alla vista di lei?

(Esce)

SCENA III - Una stanza nel carcere di Atene

Entra la FIGLIA del Carceriere, sola

FIGLIA -

Perché dovrei amarlo? Un tal signore

è improbabile che s’affezioni a me,

troppo bassa per lui;

mio padre è solo l’umile guardiano

di questa sua prigione, ed egli è un principe.

Sposarlo è un sogno privo di speranza;

essere la sua amante

è assurdo e senza senso. E dunque basta!

A quali situazioni siamo spinte

noi ragazze, una volta giunte ai quindici!

Al sol vederlo, il primo mio pensiero

fu ch’egli era un bell’uomo; in lui c’è tanto

da piacere a una donna - se di darglielo

a lui piacesse - quanto mai questi occhi

hanno visto finora; poi di lui

ho provato pietà, come, in coscienza,

credo che avrebbe fatto ogni ragazza,

che mai sognò o promise di concedere

la sua verginità ad un bel ragazzo.

Eppoi l’ho amato, appassionatamente

d’un amore infinito; un suo cugino

era con lui, anch’egli molto bello,

ma nel mio cuore c’era Palamone;

e qual tumulto, ahimè, Signore Iddio,

non fa egli regnare in questo cuore!

Che paradiso udire la sua voce

cantar la sera! E son tristi canzoni.

Mai vi fu gentiluomo più di lui

affabile e garbato nel parlare.

Quando gli porto l’acqua la mattina,

prima inchina la nobile persona,

poi mi saluta con queste parole:

“Bella, gentil fanciulla, buon mattino;

la tua bontà ti dia un buon marito”.

Un giorno m’ha baciata sulle labbra;

ed io per dieci giorni a queste labbra

ho voluto più bene… Vorrei tanto

che facesse così ogni mattina!

È molto triste, ed io non lo son meno

a vederlo così. Che dovrei fare

perch’egli possa accorgersi che l’amo?

Perché me lo godrei sì volentieri…

Se m’arrischiassi a rilasciarlo libero?

Che dispone la legge, in questo caso?

Al diavolo la legge ed i parenti!

Ho deciso di farlo, lo farò!

E stanotte o domani m’amerà!

(Esce)

SCENA IV - Luogo aperto davanti ad Atene

Breve fanfara di trombe. Grida all’interno. Entrano TESEO, IPPOLITA,

PIRITOO, EMILIA, ARCITE vestito da contadino, con una ghirlanda,

altri contadini e gente del seguito

TESEO -

(Ad Arcite)

Ti sei portato egregiamente; bravo.

Non avevo mai visto, dopo Ercole,

uomo dai muscoli più forti e saldi.

Qual che tu sia, a correre e a lottare

tu sei quanto di meglio possa esprimere

il nostro tempo.

ARCITE -

Fiero di piacerti.

TESEO -

Quale nazione ti dette i natali?

ARCITE -

Questa, ma in terra assai remota, principe.

TESEO -

Sei di nobil casato?

ARCITE -

Il padre mio così m’ha sempre detto,

e così m’ha educato.

TESEO -

Sei il suo erede?

ARCITE -

Il suo minore, Sire.

TESEO -

Un padre fortunato, certamente.

Che cosa prova che sei quel che dici?

ARCITE -

Un po’ di tutte quelle qualità

che fanno un nobile:([64]) conosco il modo

di tenere un falcone, e dar di voce

ad una muta e incitarla a latrare;

non oso io stesso mettermi a lodare

la mia perizia nell’equitazione,

ma tutti quelli che m’han conosciuto

la dicevano la migliore mia dote;

e infine, e più importante, ho l’ambizione

che si pensasse a me come a un soldato.

TESEO -

Sei perfetto.

PIRITOO -

Eccellente, in fede mia.

EMILIA -

E così è.

PIRITOO -

(A Ippolita)

Che ne dici, signora?

IPPOLITA -

Lo ammiro; giovane di lui più nobile

della sua condizione,

non ho mai visto, s’egli ha detto il vero.

EMILIA -

C’è da pensar davvero che sua madre

sia stata donna di rara bellezza:

la sua faccia, a vederla, lo proclama.

IPPOLITA -

Sì, ma il corpo e l’ardente suo carattere

denunciano anche un animoso padre.

PIRITOO -

Notate come la sua nobiltà,

come un sole nascosto,

s’irradi dai suoi abiti dimessi.

IPPOLITA -

Nasce bene costui, decisamente.

TESEO -

(Ad Arcite)

Che cos’è che t’ha spinto qui, signore?

ARCITE -

Il desiderio, nobile Teseo,

d’acquistar fama e di servire al meglio

delle mie forze la tua dignità,

questa ben meritata meraviglia;

perché alla tua, di tutte l’altre corti,

risiede onore dall’occhio lucente.([65])

PIRITOO -

Tutto quello che dice sa di nobile.

TESEO -

Signore, ci sentiamo molto in debito

per quel ch’hai fatto,([66]) ed il tuo desiderio

non resterà inappagato. Pirìtoo,

disponi tu di questo gentiluomo.

PIRITOO -

Grazie Teseo.

(Ad Arcite)

Chiunque tu sia,

ora sei mio, ed io t’assegnerò

al più nobil servizio, a questa dama,

(Indica Emilia)

a questa giovane splendente vergine;

ti prego d’onorar la sua bontà.

Hai onorato con le tue virtù

il suo bel compleanno,

e come meritata ricompensa

sei suo; baciale la bella mano.

ARCITE -

Nobile dono tu mi fai, signore.

(A Emilia)

Carissima beltà, così consenti

ch’io sigilli la mia giurata fede.

(Le bacia la mano)

Se questo servo, delle tue creature

la meno degna, possa mai far cosa

ch’abbia minimamente a dispiacerti,

digli pur di morire: lo farà.

EMILIA -

Sarebbe troppo crudele castigo;

se ben meriterai lo vedrò presto.

Sei mio servo; ma io ti tratterò

alquanto meglio di questo tuo rango.

PIRITOO -

Provvederò a fornirti l’occorrente,

e poiché dici d’esser cavaliere,

debbo pregarti questo pomeriggio

di montare; ma è bestia un po’ focosa.

ARCITE -

Tanto meglio, la preferisco, principe;

così non m’impigrisco sulla sella.

TESEO -

(A Ippolita)

Cara, domani al sorgere del sole

devi esser pronta, e così tu, Emilia,

e tu, amico, e voi tutti,

per fare ossequio al floreggiante Maggio

nel boschetto di Diana.

(Ad Arcite)

Tu, messere,

seguirai là la tua padrona; Emilia,

spero che non dovrà seguirti a piedi.

EMILIA -

Sarebbe una vergogna, mio signore,

finché ho cavalli.

(Ad Arcite)

Sceglitene uno,

e di qualunque cosa avrai bisogno

basterà solo farmelo sapere.

Se mi servirai bene,

mi troverai, ti posso assicurare,

affettuosa ed amabile padrona.

ARCITE -

E se non lo farò, ch’io vada incontro

a quello che mio padre ha sempre odiato,

disgrazia e bastonate.

TESEO -

Avanti, allora,

in sella ed alla testa del corteo;

l’hai meritato. Dev’esser così:

a te spetta ricevere i tributi

d’onore riservati al vincitore;

sarebbe ingiusto far diversamente.

(A Emilia)

Sorella Emilia, mi si maledica,

ma ti dico che hai un servitore

che, foss’io donna, sarebbe padrone;

ma tu sei saggia.

EMILIA -

Lo spero, signore;

troppo saggia perfino, a tal riguardo.

(Trombe - Escono)

SCENA V - Una corte nel carcere di Atene

Entra la FIGLIA del Carceriere, sola

FIGLIA -

Che ruggiscano pure duchi e diavoli:

egli è libero adesso. Ho corso il rischio,

e l’ho condotto fuori di prigione.

Gli ho detto di recarsi in un boschetto

a circa un miglio da qui, dove un cedro

che svetta la sua chioma sopra gli altri

la spande tutt’intorno come un platano,

presso un ruscello; e là starà nascosto

finché gli avrò fornito lime e cibo,

ché non è ancora libero dai ceppi.

O amore, quale indomito bambino

sei tu! Mio padre avrebbe fatto meglio

ad osar di affrontare il freddo ferro

piuttosto che dar vita a questo cuore.([67])

Perché io l’amo al di là dell’amore,

oltre ogni limite della ragione,

della saggezza, della sicurtà;

e ho fatto in modo ch’egli lo sapesse.

Non me ne importa, sono disperata.

Se la legge mi scopre e mi condanna

per quel che ho fatto, ci saran fanciulle,

ci saran vergini dal cuore puro

che canteranno le mie lodi funebri

e diranno all’universal memoria

quale nobile morte fu la mia,

quasi d’un martire… Lo seguirò,

la via che prenderà sarà la mia;

ed egli non sarà tanto crudele

da abbandonarmi qui. Se lo facesse,

sarà difficile che le fanciulle

possano fare più fiducia agli uomini.

Eppure non m’ha ancora ringraziata

per ciò che ho fatto, no, neppure un bacio,

e questo non mi sembra che sia bene;

anzi ho potuto a stento persuaderlo

a diventar di nuovo un uomo libero,

per tanto scrupolo che si faceva

di recar torto a me e al padre mio.

Spero però che questa mia passione,

quando egli ci abbia meglio riflettuto,

possa allignare in lui con più radici.

Faccia pure di me quel che vorrà,

purché mi tratti con delicatezza;

perché è così ch’egli dovrà trattarmi,

se non vuole sentirmi proclamare,

ed anche in faccia a lui, che non è un uomo.

Ora lo fornirò del necessario,

farò un pacco di tutte le mie robe

e m’avventurerò dovunque sia

un sentiero di terra per il mondo,

purché lui sia con me; accanto a lui

vorrò restare sempre, come un’ombra.

Fra un’ora sarà qui per la prigione

un putiferio ed io sarò a baciare

l’uomo cui essi daranno la caccia.

Addio, mio padre; fa’ di procurarti

molti altri prigionieri come lui,

e figlie come me, e in breve tempo

potrai restare nella tua prigione

a custodir te stesso. Ed ora a lui.

(Esce)


ATTO TERZO

SCENA I - Luogo aperto presso Atene

Squilli di trombe da luoghi diversi

Frastuono e grida di gente alla festa del Calendimaggio

Entra ARCITE, solo

ARCITE -

Il Duca e Ippolita si sono spersi;

ciascuno andò per un diverso prato.

Questo è un rito solenne

ch’essi tributano al fiorente Maggio,

e gli Ateniesi soglion celebrarlo

con cerimonia quanto mai fastosa.

O Emilia, tu, regina più del Maggio

vivificante e fresca, tu più dolce

dei dorati suoi boccioli sui rami

e delle molte variegate gemme

che smaltan le campagne ed i giardini

- sì, noi sfidiamo pure al tuo confronto

ogni fiorita sponda onde ogni ninfa

fa apparire di fiori la corrente -

o tu, gioiello del bosco, del mondo,

che d’un luogo fai quasi un paradiso

sol con la tua presenza, oh, potess’io,

io, povero mortale,

introdurmi nella tua fantasia

ed occupare un tuo casto pensiero!

O ventura tre volte benedetta,

quanto assolutamente inaspettata

capitare con una tal padrona!

Dimmelo tu, Fortuna, mia sovrana,

subito dopo Emilia mia sovrana,

fino a che punto potrò andarne fiero.

Ella di me si mostra assai sollecita,

mi vuol tenere sempre a lei vicino;

e proprio in questa splendida mattina,

la più importante di tutte nell’anno,

m’ha regalato un paio di cavalli,

un paio di magnifici destrieri

degni d’esser montati da due re

in un campo nel quale fosse in palio

il loro buon diritto alla corona.

Ahimè, ahimè, mio povero cugino,

povero Palamone, prigioniero,

tu così ignaro della mia fortuna

da crederti di me più fortunato

per essere così vicino a Emilia;

mi pensi a Tebe, triste ed infelice,

anche se libero. Ma se sapessi

ch’io son così vicino alla mia donna

da sentire il suo fiato su di me,

risuonar nelle orecchie il suo parlare,

bearmi del suo sguardo… Oh, Palamone,

quale passione non ti rapirebbe!

Entra, come sbucando da un cespuglio, PALAMONE,

in catene, agitando il pugno verso Arcite

PALAMONE -

La mia passione, cugino fellone,

la proveresti adesso su di te,

s’io non avessi addosso queste insegne

della prigionia, e questa mano

potesse appena impugnare una spada.

Per tutti i sacramenti, t’assicuro

che io e la giustizia del mio amore

di te faremmo un traditor confesso,

oh, tu, il più perfido dei traditori

che mai vestirono gentile aspetto,

il più vuoto d’onore

che mai s’ornò di gentilizio stemma,

il più falso di tutti i consanguinei.

La dici tua? In queste mie catene,

con queste mani, ancor che prive d’armi,

proverò che tu menti per la gola,

e non sei altro che un ladro d’amore,

un rimasuglio di signore, indegno

del nome di villano. Avessi un’arma

e fossi libero da questi ceppi…

ARCITE -

Caro cugino Palamone…

PALAMONE -

Arcite,

falso cugino,([68]) rivolgiti a me

chiamandomi con quell’appellativo

ch’hai mostrato di darmi con i fatti.

ARCITE -

Poiché dentro la cinta del mio petto

non trovo alcuna bassa qualità

che mi possa far dir rassomigliante

al blasone che tu m’attribuisci,

così cortesemente ti rispondo:

chi si sbaglia così sul conto mio

è la passione tua, che, a te nemica,

non può mostrarsi pur con me gentile.

Per quanto tu non possa riconoscerlo,

io nutro in petto onore ed onestà;

ad essi mi conformo, e insieme ad essi,

caro cugino, intendo mantenere

inalterato il corso di mia vita.

Ti piaccia quindi esprimermi, ti prego,

le tue lagnanze in termini cortesi,

poiché con un tuo pari è la contesa

che ti fa a me rivale, ed egli intende

risolverla col cuore e con la spada

come s’addice a un vero gentiluomo.

PALAMONE -

Questo non oseresti farlo, Arcite!

ARCITE -

Cugino mio, tu sai fin troppo bene

quanto io osi; m’hai visto usar la spada

anche quando paura sconsigliava.

Son sicuro che non tollereresti

udir da un altro dubitar di me,

ma con lui romperesti il tuo silenzio,

anche se ti trovassi in luogo sacro.

PALAMONE -

Signore, è vero, t’ho visto in azione

in luogo e tempo che testimoniare

potrebbero del tuo viril coraggio;

ho sentito di te sempre parlare

come d’un bravo e ardito cavaliere.

Ma non l’intera settimana è bella

se piove un giorno; la valente tempra

perde chi s’abbandona al tradimento,

e allor combatte come un orso al laccio,([69])

che se fosse slegato, scapperebbe.

ARCITE -

Ti converrebbe più parlare ad uno specchio,

così agitato, mio caro cugino,

che non ad uno al quale sei venuto

in gran disdegno.

PALAMONE -

Vieni oggimai qui,

toglimi via di dosso le catene,

dammi una spada, pure arrugginita,

e fammi la cristiana carità

di darmi un po’ di cibo.

Dopo vienmi davanti, spada in pugno,

e di’ che Emilia è tua, soltanto questo….

io ti perdonerò l’offesa fattami,

e la mia vita, se me la torrai;

e quando l’ombre di quei valorosi,

anime che perirono da prodi,

mi chiederan notizie della terra,

altra da me non ne avranno che questa:

che tu sei uomo coraggioso e nobile.

ARCITE -

D’accordo. Adesso tornatene ancora

dietro quel tuo spinoso nascondiglio.

Sotto la protezione della notte,

tornerò qui con abbondante cibo,

limerò via codesti impedimenti;

avrai vestiti e profumate essenze

per uccider l’odor della prigione.

Dopo che ti sarai bene sgranchito,

dimmi soltanto: “Arcite, sono pronto”,

e avrai per te una spada e un’armatura.

PALAMONE -

Oh, cieli, si può esser tanto nobili

e fare sì colpevole commercio?

Nessun altro lo può, se non Arcite;

perciò nessuno, all’infuori di Arcite

sa osare tanto.

ARCITE -

Dolce Palamone!

PALAMONE -

T’abbraccio, Arcite, insieme alla tua offerta…

ma lo faccio soltanto per l’offerta,

perché alla tua persona, francamente,

altro di meglio non posso augurare

che il fil della mia spada.

(Suono di corni fuori scena; poi trombe)

ARCITE -

Senti: i corni…

Ti convien rientrar nel tuo rifugio,

dietro il cespuglio, o questo nostro scontro

sarà sventato prima dell’inizio.

Dammi la mano, addio;

ti porterò tutto quanto ti occorre;

ma, ti prego, fa’ cuore e tienti forte.

PALAMONE -

E tu, ti prego, tieni la promessa;

e fa’ tutto siccome mio nemico.([70])

Ché certissimamente tu non m’ami;

sii rude, e cessa di versar quest’olio

nel tuo modo di esprimerti con me;

ti giuro per quest’aria che respiro

che ad ogni tua parola

mi vien di darti un ceffone, sì forte

è in me il conflitto tra bile e ragione.

ARCITE -

Parole chiare. E tuttavia dispensami

dall’usare un più rigido linguaggio;

quando sprono il cavallo, non l’insulto;

contento ed ira in me hanno un sol volto.

(Suono di corni da dentro)

Ecco, cugino, chiamano a raccolta

per il banchetto; devi aver capito

ch’io ho un servizio là.

PALAMONE -

Il tuo incarico

non può piacere al cielo, ed io so bene

ch’esso è stato ottenuto con l’inganno.

ARCITE -

Al contrario, lo fu con pieno titolo.

Sono convinto che questa contesa

tra me e te, come una malattia,

si può solo curar con un salasso.([71])

Ti chiedo di affidare alla tua spada

la conclusione, e non parlarne più.

PALAMONE -

Ancora una parola:

tu vai ora a contemplar colei

ch’è la mia dama - perché, bada, è mia…

ARCITE -

No, allora…

PALAMONE -

No, ti prego.

Tu parli di portarmi da mangiare,

perché vuoi ristorare le mie forze;

ma ora vai a contemplare un sole

che ristora e rafforza chi lo guarda;

in ciò ti prendi su di me un vantaggio;

ma goditelo pure, fino a tanto

ch’io possa imporre il mio rimedio. Addio.

(Escono)

SCENA II - Luogo aperto presso Atene. Notte

Entra la FIGLIA del Carceriere, sola

FIGLIA -

Non ha capito qual era il boschetto

che gli indicavo. È andato per suo conto.

È quasi giorno ormai. Ma non importa;

vorrei che fosse una perpetua notte,

ed il buio signore della terra.

(Un latrare di lupo da dentro)

Senti, un lupo! Ma in me la sofferenza

ha ucciso la paura, e non c’è nulla

che più m’importi, tranne Palamone.

Che mi sbranino i lupi,

purché egli possa avere questa lima!

E se lo richiamassi con la voce?

Gridar non posso; a urlargli come a caccia,

che può succedere?… Se non risponde,

la mia voce richiamerebbe un lupo,

e gli avrei fatto allora un bel servizio.

Ho sentito per tutta questa notte

strani ululati; e se fosse accaduto

ch’essi l’abbian già fatto loro preda?

Non porta armi addosso, né può correre;

il tintinnare delle sue catene

potrebbe richiamar bestie feroci

che per istinto sanno riconoscere

se un uomo è disarmato,

e fiutano dove non c’è difesa…

Ci scommetto che l’hanno dilaniato;

erano molti ad ululare insieme,

e l’hanno divorato. Ma ora basta.

Fatti coraggio, e suona la campana.

E dopo che sarà di me meschina?

Tutto è finito, s’egli se n’è andato.

No, no, che dico mai: per la sua fuga

il padre mio sarà messo alla forca,

ed io a mendicare,

se facessi tal conto di mia vita

da negar d’aver fatto quel che ho fatto;

ma non lo farò mai,

dovessi andare incontro a mille morti.

Son confusa; non ho toccato cibo

questi due giorni; solo un poco d’acqua.

Non ho dormito; non ho chiuso gli occhi

se non per abbassar le loro palpebre

a spazzarne il salmastro delle lacrime.

Ahimè, mia vita, sciogliti

avanti che mi si sconvolga il senno,

ed io possa annegarmi, o pugnalarmi,

o impiccarmi. O mio stato di natura,

crolla, rovina tutto insieme in me,

se i tuoi forti sostegni son piegati!

E adesso dove andrò? La via migliore

e più spedita è quella per la tomba.

Fuori di là, ogni passo è tormento.

Ecco, la luna in cielo è tramontata,

cantano i grilli, il gufo col suo verso

invoca l’alba. Ogni officio è compiuto,

eccetto quello nel quale io fallisco.

Ma questo è il punto: una fine, ed è tutto.

(Esce)

SCENA III - La stessa della scena I

Entra ARCITE, con cibo, vino e lime

ARCITE -

Il luogo dovrebb’esser qui da presso.

Ehi, là, cugino Palamone!

Entra PALAMONE sbucando dal cespuglio

PALAMONE -

Arcite?

ARCITE -

Lui. Ti porto del cibo e delle lime.

Vieni avanti, non devi aver paura,

non c’è nessun Teseo qui, Palamone.

PALAMONE -

Né alcuno onesto come lui, Arcite.

ARCITE -

Lascia andare; litigheremo dopo.

Coraggio, vieni, non vorrai morire

come una bestia. Qua, signore, bevi,

rifocillati, so che sei infiacchito;

dopo seguiterò a parlar con te.

PALAMONE -

Arcite, tu potresti avvelenarmi.

ARCITE -

Potrei, se avessi paura di te.

Siediti, via, da bravo, e sta’ tranquillo;

basta con questi tuoi vaneggiamenti;

ora che siam tornati l’un con l’altro

ad esser quelli che eravamo prima,

non ci lasciamo andare

a diverbi da gente sciocca e vile.

Bevo alla tua salute!

(Beve)

PALAMONE -

Fallo pure.

ARCITE -

Siediti allora, e lascia ch’io ti chieda,

sulla tua onestà e sul tuo onore,

che più non sia menzione tra noi due

di questa donna; ci disturberebbe.

Ne avremo tempo.

PALAMONE -

Ebbene, sì, d’accordo.

(Beve anche lui)

ARCITE -

Mandane giù un bel sorso; fa buon sangue.

Non senti come ti scongela?

PALAMONE -

Aspetta,

uno o due sorsi ancora, e te lo dico.

ARCITE -

Bevine pure senza parsimonia:

il Duca ne ha dell’altro. Adesso mangia.

PALAMONE -

Sì.

(Mangia)

ARCITE -

Son contento ch’hai sì buono stomaco.

PALAMONE -

Più contento son io d’aver trovato

sì buon cibo da trangugiarci dentro.

ARCITE -

Non è da pazzi, tuttavia, cugino,

prender dimora qui, in selvaggia selva?

PALAMONE -

Per chi ha selvaggia la coscienza, sì.

ARCITE -

Son saporite le tue vettovaglie?

La tua fame non ha bisogno, vedo,

d’alcuna salsa.([72])

PALAMONE -

Poco; e se ne avesse,

la tua è troppo aspra, buon cugino.

Che cos’è questa carne?

ARCITE -

Cacciagione.

PALAMONE -

Carne lasciva.([73]) Dammi ancora vino.

(Arcite gli mesce altro vino)

Arcite, qua, beviamo alla salute

delle ragazze conosciute a Tebe.([74])

La figlia del real sovrintendente…

La ricordi?

ARCITE -

Dopo di te, cugino.([75])

PALAMONE -

Amava un uomo dai capelli neri.

ARCITE -

Infatti. Ebbene, allora?

PALAMONE -

E ho sentito che si chiamava Arcite…

ARCITE -

Ebbene? Via, prosegui.

PALAMONE -

E l’incontrava all’ombra d’un boschetto.

E che faceva là sotto, cugino?

Suonava il virginale?([76])

ARCITE -

Qualche cosa faceva certamente.

PALAMONE -

Sì, qualcosa che la faceva gemere

per un mese, per due, per tre, per dieci.

ARCITE -

La sorella del gran cerimoniere

ebbe anch’essa, cugino, la sua parte,

se ben ricordo, e se non eran frottole

quelle che si sentivan dire in giro.

Brindi a lei?

PALAMONE -

Sì.

ARCITE -

È una bella brunetta.

Ci fu una volta che dei giovanotti

erano a caccia… e un bosco, e un grande faggio…

e là tutta una dolce storia, uhmmmmm!

PALAMONE -

Per Emilia, ci giurerei! Buffone,

smettila con quell’allegria forzata!

Per Emilia t’è uscito quel sospiro!

Te lo ripeto. Malnato cugino,

osi per primo infrangere l’impegno?

ARCITE -

Sei fuori strada.

PALAMONE -

Pel cielo e la terra,

in te non c’è la minima onestà.

ARCITE -

Quand’è così, ti lascio;

dentro di te adesso c’è una bestia.

PALAMONE -

Mi ci hai ridotto tu, gran traditore.

ARCITE -

Qui c’è quanto ti occorre:

lime, camicie ed essenze odorose.

Tornerò qui tra circa un paio d’ore,

e porterò quello che placa tutto.

PALAMONE -

La spada e l’armatura!

ARCITE -

Non temere.

Ora sei troppo su di giri. Addio.

Cerca di trarti via codesti ninnoli;

nulla ti mancherà.

PALAMONE -

Messere…

ARCITE -

Basta,

non voglio sentir altro. Arrivederci.

(Esce)

PALAMONE -

Se tiene il punto, morirà per esso.

(Esce)

SCENA IV - Luogo aperto presso Atene

Entra la FIGLIA del Carceriere

FIGLIA -

Ho tanto freddo, e in cielo

tutte le stelle sono andate via,

le stelle piccoline,

che paion tanti piccoli lustrini….

Il sole ha visto già la mia follia.

Palamone! Ahimè, no, lui è in cielo!

Ed io dove mi trovo?…

Quello è il mare, laggiù; e c’è una nave.

Come balla! E c’è anche un scoglio

in agguato sott’acqua…

ecco, ecco, ci va a sbattere…

Oh, ecco, ecco, s’è aperta una falla,

ed anche grossa… senti come gridano!

Sottovento, ragazzi, sottovento

mettetela, se no perdete tutto;

su con una o due vele di trinchetto,

e virate di bordo… Buona notte,

buona notte, ragazzi, siete andati!…

Ho fame, tanta fame.

Se potessi incontrare un bel ranocchio:

mi farei raccontar le novità

da ogni parte del mondo;

poi mi fabbricherei una caracca

da una conchiglia, e volgerei le vele

ad est-nord-est fino al Re dei Pigmei,

che sa leggere bene l’avvenire.

Mio padre adesso, venti contro uno,

che lo issano su in un batter d’occhio

domani all’alba; io non dirò niente.

(Canta)

“Perché io taglierò

“il mio vestito verde

“un palmo sul ginocchio

“e poi mi scorcerò

“queste bionde mie ciocche

“d’un dito sotto l’occhio,

“là, là, lallarallà.

“Mi comprerà un castrone

“bianco, per cavalcarlo,

“io per ogni regione

“cavalcherò a cercarlo,

“là, là, lallarallà.

Oh, s’avessi ora, come un usignolo,

una spina da premerci su il petto,([77])

se no, io m’addormento come un picchio.([78])

(Esce)

SCENA V - La stessa

Entra GERALDO, maestro di scuola, con sei CONTADINI,

uno vestito da babbuino, e cinque FOROSETTE; poi un TAMBURINO

GERALDO -

Ah, vergogna, vergogna,

quale noiosità e stramatteria

dimora in mezzo a voi!

Per quanto tempo i rudimenti miei

vi sono stati detti e ripetuti

spremuti nel cervello,

e, per metafora, perfino il brodo

e il midollo del mio intendimento

servito a tavola? E voi a chiedere

ancora il “Come”, il “Dove” e il “Perché”!

Voi teste della più ruvida stoffa,

teste di cotonazzo genovese,([79])

ho detto “Così lascia”, e “Lascia là”,

e “Poi lascia”, e nessuno mi capisce?

Pro deum, medius filius,([80])

siete tutti una massa d’imbecilli!([81])

Insomma, io sto qui; qua viene il Duca,

là state voi, nascosti nel boschetto.

Il Duca appare, io gli vado incontro,

e gli scodello un discorso sapiente,

ricamato con molte allegorie;

lui sente, ed annuisce, borbottando,

e poi grida: “Bellissimo!”, ed io seguito;

infine butto in aria il mio berretto,

e a questo punto, attenti!, tocca a voi

come fecero un tempo Meleagro

e il cinghiale:([82]) irrompete bellamente

innanzi a lui; da veri innamorati

vi metterete bellamente in fila,

e dolcemente, secondo figura,

passetterete e giravolterete.

1° CONTADINO -

E dolcemente noi così faremo,

Mastro Geraldo.

2° CONTADINO -

Raduniamo dunque

la comitiva. Dov’è il tamburino?

3° CONTADINO -

Ehi, Timoteo!

TIMOTEO -

Son qui, pazzerelloni!

Eccomi a voi!

GERALDO -

Ma dove son le donne?

4° CONTADINO -

Eccole: Francolina, Maddalena…

2° CONTADINO -

E la Lucetta dalle gambe bianche,

e Barbarella, la superdotata.

1° CONTADINO -

E qui Nellina, la lentigginosa,

sempre immancabile al suo cavaliere.

GERALDO -

Ragazze, dove son le vostre gale?

Ondeggiate leggiadre con il corpo,

e mantenetevi dolci e leggere,

ed ogni tanto fate un bell’inchino,

ed un saltello.

NELLA -

Fate fare a noi.

GERALDO -

E dove sono gli altri musicanti?

3° CONTADINO -

Sparpagliati, secondo che ordinasti.

GERALDO -

Disponetevi allora a due a due,

e vediamo così che cosa manca.

Dov’è il nostro babbuino?… Amico mio,

la coda portala senza sconcezze,

o scandalizzi le dame; e sta’ attento

a saltar con audacia e con coraggio,

e quando devi fare il verso tuo,

squittisci con giudizio.

BABBUINO -

Sì, signore.

GERALDO -

Quousque tandem!([83]) Qui manca una donna!

4° CONTADINO -

Andiamo male; qui va tutto all’aria.([84])

GERALDO -

Abbiamo, come dicon gli scrittori,

lavato un embrice,([85]) siam stati fatuus,([86])

e faticammo senza risultato.

2° CONTADINO -

Questa è quella smorfiosa,

quella specie di scorfano scorbutico,

che avea promesso sulla sua parola

di venire: la figlia del sartore,

Cecilia… il prossimo paio di guanti

che le darò saran pelle di cane!

Eh, se mi frega ancora… Dillo tu,

Arcade, se non lo giurò sul vino

e sul pane che ci sarebbe stata!

GERALDO -

Donne ed anguille, dice un gran poeta,

se non le tieni strette per la coda

e coi denti, ti sgusceranno via.

Questo, in tempi di buona educazione,

sarebbe stato un falso sentenziare.

1° CONTADINO -

Che la colga la febbre scarlattina!

Si tira indietro, adesso?

3° CONTADINO -

Allora, che si fa, signor maestro?

GERALDO -

Niente di niente; ormai il nostro piano

ridotto a una vera nullità;

sì, dolente e pietosa nullità.

4° CONTADINO -

Adesso, che l’onor del nostro borgo

è in palio, adesso fa la permalosa,

e piscia sulle ortiche! Va’ in malora!

Me la ricorderò. Sta’ attenta a te!

Entra la FIGLIA del Carceriere, cantando

FIGLIA -

“La ‘George Alow’ dal sud veni -a

“dalle coste della Barbari-a;

“la vennero a incontrar belle fregate

“a una, a due, a tri-a;

“evviva, evviva, le belle fregate,

“per dove veleggiate?

“Oh, qualcuno mi faccia compagni-a,

“infino a casa mi-a…. C’eran tre allocchi

“che litigarono per un gufino;

“il primo disse: ‘È un gufo’,

“ma l’altro disse: ‘No’,

“il terzo disse: ‘È un falco’,

“e così le campane gli tagliò”.

3° CONTADINO -

Ecco una deliziosa matta, mastro,

viene proprio a proposito,

matta come una lepre marzolina.([87])

Se riusciamo a insegnarle a far la danza,

siamo di nuovo a posto; ci scommetto

che farà le più belle giravolte.

1° CONTADINO -

Una matta? Ragazzi, siamo a posto!

GERALDO -

Sei matta, buona donna?

FIGLIA -

Guai a me

se non lo fossi. Qua, dammi la mano.

GERALDO -

Perché?

FIGLIA -

Ti voglio legger la fortuna.

Sei uno scemo… Conta fino a dieci.

L’ho messo in imbarazzo… Brrrr! Amico,

non devi più mangiare pane bianco;

i denti ti sanguineranno a morte,

se lo farai. Balliamo, allora, eh?

Io ti conosco: sei uno stagnino;

messer stagnino, non tappar più buchi

di quelli che dovresti.

GERALDO -

Io stagnino, ragazza?

FIGLIA -

Oppure, forse, sei un negromante;

fammi apparire un diavolo,

fagli suonar “Chi passa, belle e buone”.([88])

GERALDO -

(Ai Contadini)

Prendetela con voi, e con le buone

persuadetela. Et opus exegi,

quod nec Jovis ira nec ignis…([89]) Avanti,

attaccate e guidatela alla danza.

2° CONTADINO -

Vieni, ragazza, che t’insegno i passi.

FIGLIA -

Conduco io.

3° CONTADINO -

Va bene, avanti, avanti.

GERALDO -

Con persuasione e astuzia! Via ragazzi!

(Suoni di corni da dentro)

Sento i corni; lasciatemi un momento

a pensare, ed attenti al mio segnale

per attaccare.

(Escono tutti tranne Geraldo)

Ispirami tu, Pallade.

Entrano TESEO, PIRITOO, IPPOLITA,

EMILIA, ARCITE e seguito

TESEO -

Il cervo ha preso questa direzione.

GERALDO -

Sostate, e resterete edificati!

TESEO -

Che abbiamo qui?

PIRITOO -

Sicuramente, Sire,

un qualche rustico trattenimento.

TESEO -

Bene, amico, procedi, a edificarci.

Dame, sedete; e staremo a vedere.

(Vengono recati una sedia e degli sgabelli;

le dame siedono)

GERALDO -

Tu, valoroso Duca, ave e salute;

ave e salute a voi, gentili dame!

TESEO -

È piuttosto freddino come inizio.([90])

GERALDO -

Se ci prestate un poco di indulgenza,

il nostro rustico trattenimento

è fatto. Siamo in pochi qui raccolti

di quelli che la lor parlata rozza

distingue come gente di contado.

E, a dire il vero, e senza contar favole,

siamo qui un’allegra comitiva,

o altrimenti una frotta, una congrega,

oppure, per figurazione, chorus,

che qui dinanzi alla tua dignità

una danza moresca danzerà.

Ed io, che son di tutto il promotore,

per il mio titolo di pedagogus,

che fo calar la sferza sulle braghe

dei più piccini, e umilio con la ferula

i più grandi, presento questa macchina,

ovverossia quest’intrattenimento,

e tu, grazioso Duca, la cui fama

da Dite a Dedalo alta e fatale

risuona fuor di qua da un capo all’altro,([91])

ascolta me, tuo gramo ben-volente,

e l’ammiccante sguardo dei tuoi occhi

volgi a destra e davanti a questo “Mor”

cui segue “esca”, che incollàti insieme

fanno “Moresca”,([92]) e cioè la ragione

per la quale noi siamo qui venuti,

centro del nostro gioco e d’assai studio.

Io compaio per primo,

benché ruvido, grezzo e limaccioso,

a pronunciare al tuo nobil cospetto

questo discorso, ai tuoi nobili piedi

devotamente offrendo il mio scrittoio;

dopo di me vedrete Messer Maggio

e Monna Luce,([93]) con la cameriera

ed il famiglio che, notturnamente,

si cercano un discreto nascondiglio

dietro un arazzo; poi verrà il mio oste

con la grassa consorte, che, a sue spese,

accoglie lo sfiancato viaggiatore,

e con un muto cenno della testa

informa il suo garzone sturabotti

di ravvivare il conto; quindi il villico,

mangiator di colostro;([94]) e poi il buffone,

il babbuino con la lunga coda

ed un lungo strumento in sovrappiù,

cum multis aliis che faran la danza.

Di’ sì, e verranno avanti tutti insieme.

TESEO -

Sì, sì, senz’altro, domine.

PIRITOO -

Avanzate.

GERALDO -

Intrate, filii! E forza con i piedi.

(Batte le mani, al cui cenno i danzatori entrano, mentre la musica attacca un tempo di danza indiavolato, e tutti cominciano a danzare)([95])

GERALDO -

(Appena finita la danza)

Donne, se siamo stati divertenti

e questa nostra cosa v’è piaciuta,

ed una cosa giù e un’altra su,

il sottoscritto buffone non fu;

Duca, se pure a te siamo piaciuti,

e da bravi ragazzi abbiam danzato,

dacci soltanto pel Calendimaggio

uno, due alberi, e noi, di nuovo,

prima che sia trascorsa un’altra annata

faremo rider tutta la brigata.

TESEO -

Prendine quanti te ne pare,([96]) domine.

(A Ippolita)

Ebbene, come va la mia dolcezza?

IPPOLITA -

Mai così divertita, mio signore.

EMILIA -

La danza era eccellente, e quanto al prologo

non ne ho sentito mai uno migliore.

TESEO -

Ti ringrazio, maestro.

(A quelli del seguito)

Si provveda a che sian tutti pagati.

PIRITOO -

(A Geraldo)

Qui c’è di che adornare il vostro albero.([97])

TESEO -

Ed ora riprendiamo i nostri svaghi.

GERALDO -

E che il cervo del quale vai a caccia

ti sia facil bersaglio,([98]) e che i tuoi cani

siano veloci e forti nell’azione,

e l’uccidano senza impedimenti,

e mangino le dame le sue carni.

(Suono di corni - Escono Teseo, Piritoo,

Ippolita, Emilia, Arcite e seguito)

C’è andata bene. Dii deaeque omnes,([99])

danzaste ottimamente, ragazzotte.

(Escono)

SCENA VI - La stessa

Entra PALAMONE, uscendo dalla boscaglia

PALAMONE -

Mio cugino m’aveva assicurato

che a quest’ora sarebbe stato qui

con due spade e due solide armature;

se manca, non è uomo né soldato.

Quando s’allontanò dalla prigione

non pensavo che in una settimana

avrei potuto riprender le forze,

tanto ero abbattuto e indebolito.

Arcite, ti ringrazio, sei comunque

un leale avversario;

ed io mi sento così rinfrancato,

da poter affrontare ora ogni rischio.

Rimandare più a lungo il nostro scontro

farebbe dire al mondo,

quando lo fosse venuto a sapere,

ch’io volessi, per battermi con te,

indugiare per mettermi all’ingrasso

come un maiale, e non come un soldato.

Perciò questa radiosa mattinata

sarà l’ultima; ed io con quella spada

ch’egli mi porterà, se non si spezza,

l’ucciderò, com’è giusto che sia.

E siano miei così fortuna e morte.

Entra ARCITE con armature e spade

Oh, buongiorno.

ARCITE -

Buongiorno a te, cugino.

PALAMONE -

Arcite, t’ho arrecato troppo scomodo…

ARCITE -

Mai troppo, bel cugino, è tutto quello

ch’è un debito d’onore ed un dovere.

PALAMONE -

Magari ti mostrassi tale in tutto!

Potrei sperare di trovare in te

tale gentil parente

quale tu mi costringi a riconoscerti

benefico nemico; i miei abbracci

più che i miei colpi ti ringrazierebbero.

ARCITE -

Gli uni e gli altri, se ben somministrati,

saran sempre per me nobil compenso.

PALAMONE -

Vedrò allora di pareggiare il conto

e di saldarti come tu desideri.

ARCITE -

Sfidami in questi termini garbati,

e mi ti mostrerai più che un amante;

bando all’ira, s’è vero che ti è cara

ogni cosa che sia cavalleresca!

Noi non fummo educati a far sermoni;

armati che saremo, entrambi, e in guardia,

si scateni da noi furia violenta,

somigliante al cozzar di due maree,

e allora si vedrà, rapidamente,

a chi spetti di noi, a me o a te,

per diritto di primogenitura([100])

il patrimonio di questa bellezza;

e ciò senza corrucci, senza scherni,

senza improperi ed altri imbronciamenti,

più adatti a ragazzine e scolaretti.

Vuoi dunque armarti subito, cugino?

O no? Se non ti senti ancora pronto,

e fornito della tua vecchia forza,

aspetterò, cugino, ed ogni giorno

ti riconforterò nella salute,

appena trovo un po’ di tempo libero.

Perché alla tua persona io sono amico,

e vorrei tanto non averti detto,

per la mia vita,([101]) di amar quella donna;

ma poiché l’amo, e devo far giustizia

all’amor mio, non posso rinnegarla.

PALAMONE -

Arcite, tu sei tanto coraggioso

come rivale, che nessun altr’uomo

all’infuori di questo tuo cugino

sarebbe meritevole di ucciderti.

Io son forte e ardito. Scegli l’arma.

ARCITE -

Preferisco la scelga tu, signore.

PALAMONE -

Vuoi tu essermi superiore in tutto,

o fai così per far ch’io ti risparmi?

ARCITE -

Se pensi questo, cugino, ti sbagli;

ché, com’è vero che sono un soldato,

non ti risparmierò.

PALAMONE -

Parole sante.

ARCITE -

E lo vedrai.

PALAMONE -

Ed io, per com’è vero

che sono un uomo giusto e innamorato,

con tutta la giustizia dell’amore

ti pagherò a dovere. Prendo questa.

(Sceglie l’armatura)

ARCITE -

E questa è mia. Armerò te per primo.

PALAMONE -

D’accordo, fallo. Ma dimmi, cugino,

dove hai preso quest’ottima armatura?

ARCITE -

È del Duca. Per dir la verità,

gliel’ho rubata… Non ti stringe troppo?

PALAMONE -

No. Va bene.

ARCITE -

Non è troppo pesante?

PALAMONE -

Ne ho indossate, sì, di più leggere,

ma saprò far buon uso anche di questa.

ARCITE -

L’allaccio stretta?

PALAMONE -

Sì, quanto più puoi.

ARCITE -

Non t’interessa un grande pettorale?

PALAMONE -

No, no, non ci serviamo di cavalli.

O forse preferisci un tale scontro?

ARCITE -

M’è indifferente.

PALAMONE -

E così a me, cugino.

Da bravo, stringimi bene la fibbia.

ARCITE -

Naturalmente.

PALAMONE -

E adesso dammi l’elmo.

ARCITE -

Senza bracciali ti vuoi cimentare?

PALAMONE -

Sarò più sciolto.

ARCITE -

Metti però i guanti.

Quelli sono scadenti. Prendi i miei,

ti prego, buon cugino.

PALAMONE -

Grazie, Arcite.

Come ti sembro? Molto dimagrito?

ARCITE -

Assai poco, per dir la verità;

l’amore ti ha trattato con riguardo.

PALAMONE -

Ti garantisco che colpirò forte.

ARCITE -

Fallo, senza risparmio, buon cugino;

ed io, vedrai, te ne darò motivo.

PALAMONE -

Ed ora a te.

(Si accinge ad armare Arcite)

Questa tua armatura

mi pare molto simile a quell’altra

che indossavi quel giorno che i tre re

caddero in guerra, solo più leggera.

ARCITE -

Quella era molto buona, ed in quel giorno,

ricordo bene, tu mi superasti,

cugino; mai non vidi un tal valore;

fu quando ti lanciasti a tutta carica

contro l’ala sinistra del nemico;

io spronai forte per venirti dietro,

ed ero in sella a un ottimo destriero.

PALAMONE -

Ottimo, sì, un bel baio, mi rammento.

ARCITE -

Ma ogni sforzo fu vano, perché tu

correvi così forte avanti a me,

che non mi fu possibile raggiungerti

nemmeno col pensiero.

Tuttavia qualche cosa feci anch’io,

per solo spirito di emulazione.

PALAMONE -

Per coraggio, piuttosto; sei modesto,

cugino.

ARCITE -

Quando vidi la tua carica,

mi parve udire un fragoroso tuono

rimbombare al disopra della truppa.

PALAMONE -

Prima ancora però era balenata

la folgore del tuo valore, Arcite.

Fermo un momento; non è troppo stretto

questo pezzo per te?

ARCITE -

No, no, è perfetto.

PALAMONE -

Vorrei che niente, fuor che la mia spada,

t’offendesse; sarebbe disonore

anche un livido.

ARCITE -

Adesso sono a posto.

PALAMONE -

Discostiamoci allora. Toh, la spada,

prendi la mia; la ritengo migliore.

ARCITE -

No, grazie. Tienla tu; perché da essa

dipende la tua vita. Eccone una:

basta che regga, non le chiedo più,

per l’avverarsi delle mie speranze.

La mia causa e l’onore mi proteggano!

PALAMONE -

E me il mio amore.

(S’inchinano in diverse direzioni, poi

avanzano allontanandosi, e si fermano)

ARCITE -

C’è altro da dire?

PALAMONE -

Questo soltanto e basta:

Arcite, tu sei il figlio di mia zia,

ed il sangue che ci accingiamo a spargere

il mio fratello al tuo, il tuo al mio;

io ho in mano la spada; se m’uccidi,

sia gli dèi che io ti perdoniamo.

Se c’è luogo disposto a dare asilo

a coloro che dormon nell’onore,

possa l’anima stanca di chi cade

approdarvi. Combatti bravamente,

e porgimi la tua nobile mano.

ARCITE -

Eccola, Palamone. Questa mano

mai più ti toccherà con tanto affetto.

PALAMONE -

Ti saluto.

ARCITE -

Se cado, maledicimi,

e di’ ch’ero un codardo, ché i codardi

muoion soltanto in queste giuste prove.

Ancora addio, cugino.

PALAMONE -

Addio, Arcite.

(Combattono. Suoni di corni all’interno. Si fermano)

ARCITE -

Ah, cugino, la nostra insensatezza

ci ha perduti!

PALAMONE -

Perché?

ARCITE -

Questo segnale

è il Duca, a caccia, come già ti dissi;

se ci trovano qui, siamo perduti!

Oh, per l’onore e per la tua salvezza,

nasconditi di nuovo tra i roveti

senza indugio; di tempo per morire

ne troveremo a sufficienza dopo.

Se ci vedono, nobile cugino,

ci uccidono all’istante, tutti e due:

te, per esser evaso di prigione;

e me, se tu rivelerai chi sono,

per infrazione al decreto di bando;

e tutto il mondo ci disprezzerà,

dicendo che una nobile contesa

riducemmo a meschina conclusione.

PALAMONE -

No, no, cugino, più non mi nascondo,

né voglio rinviare ad altra prova

questa grande avventura.

Vedo bene il tuo trucco e il tuo movente.

Chi si ritrae, sia disonorato!

In guardia, via! Difenditi!

ARCITE -

Sei matto?

PALAMONE -

Voglio far mio il vantaggio dell’ora

e temo meno qualsiasi minaccia

che l’incerta fortuna. Non scordarti

smidollato cugino, che amo Emilia,

e sotto questo amore

seppellirò con te ogni altro ostacolo.

ARCITE -

Ebbene, avvenga allora quel che può,

Palamone; vedrai come per me

cercar la morte sia facile sfida

come il parlare o il sonno;

sol questo mi spaventa: che la legge([102])

ci privi di una morte con onore.

A te! Bada a difender la tua vita!

PALAMONE -

E tu bada a difendere la tua!

(Riprendono a battersi. Suono di corni all’interno)

Entrano TESEO, IPPOLITA, EMILIA, PIRITOO e seguito

TESEO -

Quali malvagi e pazzi traditori

siete voi, che ignorando le mie leggi

vi battete così, da cavalieri

in tutto armati, senza il mio consenso,

e senza araldi d’arme?([103])

Per Castore, sarete messi a morte!

PALAMONE -

Ed io ti prendo in parola, Teseo.

Traditori noi siamo, certamente,

entrambi spregiatori di tue leggi

e della tua bontà. Io, Palamone,

incapace di amarti, son colui

che evase dalla tua prigione - e questo

sai bene che comporta - e questo è Arcite;

mai più falso e sfrontato traditore

calpestò questo suolo,

uno più falso mai si finse amico;

questi è l’uomo per cui fu chiesta grazia,

e fu bandito, ed egli in spregio a te

e a ciò che tu decreti, in queste vesti,

contravvenendo alla tua decisione,

si trova al seguito di tua cognata,

quella benefica splendente stella,

la bella Emilia, il cui servo devoto

- se c’è un diritto in chi primo la vide

e primo le donò la propria anima -

son io, che, in più, osa pensarla sua.

D’un tale tradimento ora a rispondere

io, da fedele amante, l’ho chiamato;

e se tu sei, come tutti ti dicono,

magnanimo e virtuoso, arbitro vero

ed equanime d’ogni controversia,

di’ soltanto: “Battetevi di nuovo”,

e mi vedrai, Teseo, dispensatore

di tal giustizia che m’invidierai.

Dopo, prenditi pure la mia vita;

io stesso ti supplicherò di farlo.

PIRITOO -

O cielo, costui vale più d’un uomo!

TESEO -

Ho giurato.

ARCITE -

Teseo, noi non cerchiamo

un tuo sospiro di misericordia.

Per me morire è cosa tanto semplice

quanto per te pronunciar la sentenza,

non ne sarò commosso più di tanto.

Ma poiché mi si chiama traditore,

consentimi di dire almeno questo:

se tradimento c’è

nell’amare e servir con devozione

una eccelsa bellezza come questa,

com’io l’ami al disopra d’ogni cosa,

e a questo amor fedele morirò,

come ho rischiato qui la vita mia

a confermarlo, come l’ho servita

in piena lealtà e devozione,

come son pronto a uccidere

questo mio consanguineo che lo nega,

chiamami pure grande traditore,

e mi farai contento.

Quanto all’aver violato il tuo decreto,

Duca, chiedi tu stesso a questa dama

perché è sì bella e perché i suoi occhi

m’impongon di restare qui ad amarla;

e s’ella mi dichiara “traditore”,

allora sì, sono uno scellerato,

degno di morte senza sepoltura.

PALAMONE -

Sarai pietoso a entrambi noi, Teseo,

se per nessuno mostrerai mercé.

Chiudi, poiché sei giusto,

avverso a noi il tuo nobile orecchio;

concedi a noi, poiché sei valoroso,

per l’anima del tuo grande cugino,([104])

al ricordo del quale fan corona

le sue tremende dodici fatiche,

di morir nello stesso istante, Duca;

fa’ solo ch’egli cada avanti a me

per un soffio, ch’io abbia solo il tempo

di sussurrarmi ch’egli non l’avrà.

TESEO -

Soddisferò questo tuo desiderio,

perché, per dire il vero, tuo cugino

è dieci volte di te più colpevole;

ha ricevuto da me più clemenza

di quanta ne trovasti tu, signore,

le cui colpe non erano maggiori.

Che nessuno ora parli qui per loro;

entrambi, prima che tramonti il sole,

s’addormiranno nell’eterno sonno.

IPPOLITA -

Ah, sventura! Sorella, ora o mai più

parlagli tu, ch’ei non ti faccia niego;

o codesta tua faccia

dovrà soffrire le maledizioni

nei secoli, per esser stata causa

della rovina di questi cugini.

EMILIA -

Sulla mia faccia, sorella mia cara,

io non trovo né ira né rovina

per loro; la sventura che li uccide

essi la portano negli occhi loro;([105])

ma tuttavia poiché voglio esser donna

e misericordiosa, i miei ginocchi

affonderanno in terra avanti a lui,

fintanto che non otterrò mercé.

E tu aiutami, sorella cara,

a compiere una sì virtuosa azione;

tutte le donne saranno con noi.

(Emilia e Ippolita s’inginocchiano a Teseo)

Molto regal fratello…

IPPOLITA -

Mio signore,

pel maritale nodo che ci unisce…

EMILIA -

… in nome del tuo onore senza macchia…

IPPOLITA -

… per quella fede, quella bella mano

e quell’onesto cuore che m’hai dato…

EMILIA -

… per la pietà che aspetteresti in altri

per te, per le infinite tue virtù…

IPPOLITA -

… pel tuo valore, e per le caste notti

gioite insieme…

TESEO -

Strane implorazioni

son queste.

PIRITOO -

Sì, ed io mi unisco a loro,

per la nostra amicizia, mio signore,

per i molti perigli insieme corsi,

per tutto ciò che t’è più caro al mondo,

le guerre e questa dolce creatura…

EMILIA -

… per tutto ciò che non avresti osato

di negare ad una pudica vergine…

IPPOLITA -

… per gli occhi tuoi, Teseo; per quella forza

onde tu mi giurasti superiore

ad ogni donna, e quasi a tutti gli uomini,

ed alla quale pure ho rinunciato…

PIRITOO -

Ed io, per coronare tutto questo,

ti chiedo, per la tua anima nobile

cui non può difettar giusta clemenza…

d’aver pietà…

EMILIA -

Pietà per questi principi.

TESEO -

Voi fate vacillar la mia parola.

S’io dovessi provare compassione

per entrambi, diciamo, che fareste?

EMILIA -

Ad entrambi la vita, con l’esilio.

TESEO -

Sei proprio donna, sorella; hai pietà,

ma ti difetta il senso d’impiegarla.

Se tu desideri lasciarli vivere,

devi inventare un modo più sicuro

che la lor messa bando;

come possono viver questi due,

se tormentati da uno stesso amore,

senza cercar di uccidersi a vicenda?

Si batterebbero per te ogni giorno,

ogni ora metterebbero il tuo onore

in aperta contesa con le spade.

Sii saggia, quindi, e non pensarci più;

ne va in egual misura del tuo credito

e del mio giuramento.

Ho detto ch’essi devono morire;

è meglio ch’essi cadan per la legge,

piuttosto che per mano l’un dell’altro.

Non costringermi a fletter l’onor mio.

EMILIA -

Quel giuramento, nobile fratello,

ti venne in bocca in un momento d’ira;

la tua ragione non può confermarlo.

Se certi voti fossero espressione

di vera e genuina volontà,

il mondo intero dovrebbe perire.

Io tengo in serbo un altro giuramento

che tu m’hai fatto, ch’è contrario a questo,

e che vale di più perché son certa

che tu l’hai pronunciato con più amore,

non già nell’impeto della passione,

ma con buon animo.

TESEO -

Quale, sorella?

EMILIA -

Che non m’avresti mai negato nulla,

purché fosse onorevole richiesta,

e fosse in tuo potere di accordarmelo.

Ora t’impegno a questa tua parola;

se non la manterrai, pensa soltanto

come il tuo onore ne uscirebbe zoppo

e come anche - giacché, signore mio,

adesso che mi son decisa a chiedere

da mendicante, sono sorda a tutto

fuorché alla tua clemenza - la lor fine

potrebbe generare maldicenza

e rovina alla mia reputazione.

Dovrà dunque perire a causa mia

ogni cosa che a me porti affezione?

Sarebbe una saggezza disumana;

potano forse gli uomini quei rami

giovani e dritti che alla lor stagione

s’infiorano di mille bocci rossi,

pensando ch’essi possano corrompersi?

Duca Teseo, le buone genitrici

che li hanno partoriti con dolore,

le desiose vergini fanciulle

che li hanno amati, e saran chi sa quante,

se tu sei fermo nel tuo giuramento,

malediranno me e la mia bellezza,

e nelle funebri lor salmodie

per la morte di questi due cugini

malediranno la mia crudeltà

e grideran su me la malasorte,

fintanto ch’io non sia ridotta ad essere

nient’altro che lo scherno delle donne.

Per il cielo, risparmia lor la vita,

e bandiscili.

TESEO -

A quali condizioni?

EMILIA -

Che giurino di non far più di me

tra loro due oggetto di contesa,

di nemmeno sapere più chi sono;

di metter piede più nel tuo ducato,

e di restare estranei l’uno all’altro,

per sempre, ovunque andranno.

PALAMONE -

Ch’io sia tagliato mille volte a pezzi

prima di fare un tale giuramento!

Dimenticar di amarla? O dèi, voi tutti,

ricopritemi allora di disprezzo!

Se tu ci metti al bando, mi sta bene,

perché potremo portare con noi

liberamente sia le nostre spade

e sia la causa che ci fa rivali;

altrimenti non esitare, o Duca,

a toglierci la vita. Amare io devo,

amare voglio, sì, e per questo amore

devo cercar di uccider mio cugino

in ogni angolo di questa terra.

TESEO -

Tu accetti, Arcite, queste condizioni?

PALAMONE -

È un vile, se lo fa!

PIRITOO -

Questi son uomini!

ARCITE -

No, Duca, mai; aver sì ignobilmente

salva la vita è per me peggior cosa

che mendicare. Ancor ch’io sia convinto

di non potermela giammai godere,

serberò tuttavia dentro di me

l’onore dell’affetto,

e sarò pronto a morire per lei,

sia pur la morte un supplizio d’inferno.

TESEO -

Che cosa si può fare?

Perché comincio a provar compassione.

(Le donne si alzano)

PIRITOO -

Fa ch’essa non ti venga meno, Sire.

TESEO -

Emilia, dimmi: se uno dei due,

come dovrebbe, fosse messo a morte,

prenderesti tu l’altro per marito?

Tutti e due non ti possono godere.

Entrambi sono principi,

e sono belli come gli occhi tuoi,

entrambi sono nobili

come mai fama n’abbia celebrati;

guardali bene, e se senti di amare,

poni termine a questa lor contesa.

Io ti do il mio consenso;

siete anche voi su ciò d’accordo, principi?

PALAMONE e ARCITE -

Con tutta l’anima.

TESEO -

Dovrà morire,

dunque quello che lei rifiuterà.

PALAMONE e ARCITE -

Qualsiasi morte potrai tu inventare!

PALAMONE -

Per me, morte felice sarà quella

che avrò da quella bocca, se l’avrò;

e gli amanti che ancora devon nascere

verranno a benedire le mie ceneri.

ARCITE -

Se mi rifiuta lei, sarà la tomba

la sposa mia, e canteran soldati

il mio epitaffio.

TESEO -

Ebbene, Emilia, scegli.

EMILIA -

Non posso, Sire, sono tutti e due

troppo perfetti; non un sol capello

si torcerà giammai a questi due

per causa mia.

IPPOLITA -

Che si farà di essi?

TESEO -

Così io ordino, e, sul mio onore,

resti di nuovo così stabilito,

o moriranno entrambi:

voi tornerete nel vostro paese,

e in capo a un mese ciascuno di voi,

accompagnato da tre cavalieri,

apparirà di nuovo in questo luogo

sul quale intanto avrò fatto innalzare

una piramide; e quello dei due

che in presenza di quanti sono qui

sarà stato capace di obbligare,

in leale e cavalleresco scontro,

il cugino a toccare il monumento,

l’otterrà; l’altro perderà la testa

insieme a tutti quelli del suo seguito;

così né avrà rammarico a morire,

né penserà d’aver trovato morte

pur vantando d’aver qualche diritto

su questa donna. Siete soddisfatti?

PALAMONE -

Io sì! Cugino Arcite,

vieni, fino ad allora io vo’ tornare

il tuo caro cugino.

ARCITE -

Ed io t’abbraccio!

(S’abbracciano)

TESEO -

(A Emilia)

Sei contenta, sorella?

EMILIA -

Debbo esserlo,

sire, o sarà sventura per entrambi.

TESEO -

(Ai due)

Suvvia, stringetevi ancora la mano,

ed impegnatevi da gentiluomini

quali siete, a che questa controversia

resti sopita fino a quel momento,

e a mantenere tal vostra promessa.

PALAMONE -

Non è da noi deluderti, Teseo.

TESEO -

Venite, vi darò ospitalità

come principi e amici in casa mia;

quando ritornerete, il vincitore

stabilirò qui stesso; e lo sconfitto

sulla sua bara pure piangerò.

(Escono)


ATTO QUARTO

SCENA I - Una stanza dell’appartamento

del carceriere nella prigione

Entra il CARCERIERE con un AMICO

CARCERIERE -

Non udisti altro? Non fu detto niente

di me circa la fuga di prigione

di Palamone? Da bravo, ricordati.

AMICO -

Niente ch’io abbia potuto sentire,

dato che me ne son tornato a casa

prima che tutto si fosse concluso.

Avevo tuttavia già percepito,

altamente probabile il perdono

per entrambi i cugini; perché Ippolita

ed Emilia bellocchio, inginocchiate,

facevano una scena di pietà

così piena di bella commozione,

che il Duca mi sembrò restare in dubbio

se seguir la sua prima decisione

o la compassionevole richiesta

delle due donne; a secondar le quali

si mise pure quel nobile principe

Piritoo, metà del cuor di lui,

sicché spero che tutto andrà per bene.

Né udii fare il tuo nome,

né far parola della sua evasione.

CARCERIERE -

Voglia il cielo che resti pur così!

Entra un 2° AMICO

2° AMICO -

Animo, amico; porto buone nuove.

Notizie buone.

CARCERIERE -

Sono benvenute.

2° AMICO -

Palamone ha parlato a tua discolpa

e ottenuto dal Duca il tuo perdono;

rivelando in che modo e con che mezzi

riuscì ad evadere, cioè tua figlia;

il cui perdono è pure assicurato;

ed anzi, per non rimanere ingrato

per questo suo favore, il prigioniero

le ha donato una somma di denaro

per il suo matrimonio, e, t’assicuro,

sostanziosa.

CARCERIERE -

Tu sei un gran brav’uomo,

e mi porti notizie sempre buone.

1° AMICO -

Com’è finita allora la faccenda?

2° AMICO -

Così come doveva: quelle due

che mai pregarono senza ottenere

le lor richieste soddisfatte in pieno,

hanno ottenuto per i prigionieri

salva la vita.

1° AMICO -

Me l’immaginavo.

2° AMICO -

Però ci sono nuove condizioni

che ti farò sapere a miglior tempo.

CARCERIERE -

Buone, spero.

2° AMICO -

Onorevoli senz’altro;

ma quanto buone si dimostreranno

non saprei proprio dire.

1° AMICO -

Si vedrà.

Entra il CORTEGGIATORE della Figlia del Carceriere

CORTEGGIATORE -

Ahimè, signore, dove sta tua figlia?

CARCERIERE -

Perché me lo domandi?

CORTEGGIATORE -

Ohimè, signore,

quand’è l’ultima volta che l’hai vista?

2° AMICO -

Uh, che cattiva cera!

CARCERIERE -

(Rispondendo al corteggiatore)

Stamattina.

CORTEGGIATORE -

Stava bene? In salute? Avea dormito?

1° AMICO -

Che domande!

CARCERIERE -

(c.s.)

No, ora che ci penso,

non m’è parso che stesse molto bene;

le ho fatto in realtà delle domande

alle quali m’è parso rispondesse

in modo assai diverso dal suo solito,

in maniera infantile, stravagante,

come se fosse insensata, svampita;

al punto che finì con l’irritarmi.

Ma che volevi dirmi tu di lei?

CORTEGGIATORE -

Nulla, se non tutta la mia pietà;

ma tu devi sapere,

e sarà meglio apprenderlo da me,

e non da chi le voglia meno bene…

CARCERIERE -

Che cosa dunque?

1° AMICO -

Non va?

2° AMICO -

Non sta bene?

CORTEGGIATORE -

No, signore. Purtroppo è vero, è matta.

1° AMICO -

Non può essere.

CORTEGGIATORE -

Eppure sì, credetemi;

v’accorgerete anche voi che è così.

CARCERIERE -

M’era venuto già qualche sospetto

che così fosse. Che gli dèi l’aiutino!

È stato per amor di Palamone,

o per paura mi venisse danno

dalla sua evasione,

o per entrambe le cose.

CORTEGGIATORE -

È possibile.

CARCERIERE -

Ma perché, tanta precipitazione([106])

da parte tua?

CORTEGGIATORE -

Te lo dirò alla svelta.

Mi trovavo a pescare poco fa

nel grande lago ch’è dietro al palazzo,

ed attendevo a questo passatempo

paziente, quando dalla riva opposta

folta di canne e carici, una voce

alta ed acuta si levò d’un tratto;

alla quale prestando attento orecchio

capii ch’era qualcuno che cantava,

un ragazzo o una donna,

a giudicar dall’esile suo timbro.

Lasciai allora a se stessa la lenza,

e mi mossi per farmi più vicino,

ma non riuscivo ancora a percepire

da chi potesse venire quel suono,

tanto pareva che le canne e i giunchi

l’avessero tra loro inviluppato.

Mi misi allora giù ad ascoltare

le parole di quella sua canzone,

e attraverso una piccola fessura

fatta dai pescatori tra le canne,

vidi che chi cantava era tua figlia.

CARCERIERE -

Continua, prego.

CORTEGGIATORE -

Cantava, cantava,

ma erano parole senza senso.

Sentii solo che ripeteva spesso:

“Palamone è fuggito,

se n’è andato a raccogliere le more

nel bosco. Lo ritroverò domani”.

1° AMICO -

Anima bella!

CORTEGGIATORE -

(Continuando)

“Ma le sue catene,

ahimè, lo tradiranno; sarà preso.”

E allora che farò?

Farò una bella adunata di donne,

un’adunata di cento fanciulle

dagli occhi neri, amanti come me,

col capo inghirlandato d’asfodeli,

con le labbra colore di ciliegia

e le guance di rosa damascena,

e danzeremo tutte una grottesca([107])

davanti al Duca, perché lo perdoni”.

Poi si mise a parlar di te, signore;

che perderai la testa domattina,

- si cantava -, e che lei, per seppellirti

doveva andare a raccogliere fiori.

Poi non l’udii cantare altro motivo

se non che “Salice, salice, salice”([108])

e intercalato a questo: “Palamone”,

c’era nel canto, “Palamone bello”

e “Palamone era un giovane baldo ”.

Era seduta in mezzo all’erba alta,

le trecce scarmigliate, incoronate

da una ghirlanda di giunchi intrecciati;

addosso le facevano trapunta

un migliaio di freschi fiori d’acqua,

sì che mi parve ch’ella m’apparisse

nelle sembianze della bella ninfa

che alimenta delle sue acque il lago,

o come Iride, dal ciel caduta.

Dei giunchi che crescevano vicino

faceva anelli, e mentre li intrecciava

li chiamava coi motti più graziosi:

“Così sta unito il nostro cuor sincero”,

“Questo potrai tu perdere, non me”,

e molti altri. E nel farli lagrimava,

e cantava di nuovo, e sospirava,

e con lo stesso fiato del sospiro

atteggiava la bocca ad un sorriso,

baciandosi le mani.

2° AMICO -

Ah, che pietà!

CORTEGGIATORE -

Mossi verso di lei, ella mi vide,

e si buttò diritta dentro l’acqua.

La ripresi, e la misi salva a terra;

quando improvvisamente fuggì via,

e corse verso la città gridando,

e con tale sveltezza, che, credetemi,

non mi fu più possibile raggiungerla.

Da lontano le vidi andare incontro

uomini, tre o quattro, di cui uno

riconobbi che era tuo fratello;

e là, più non potendo proseguire,

si dovette fermare, e cadde a terra.

Li lasciai là con lei, e corsi qui

subito ad informarti.

Entrano il FRATELLO del Carceriere,

la FIGLIA del Carceriere, e altri

Eccoli tutti.

FIGLIA -

(Cantando)

“Mai più possiate voi goder la luce…”.

Non è una bella canzone?

FRATELLO -

Bellissima.

FIGLIA -

So cantarne altre venti.

FRATELLO -

Non ne dubito.

FIGLIA -

Sì, sì, io so cantare “La saggina”

e “Dolce Robin”.([109]) Tu non sei un sarto?

FRATELLO -

Sì.

FIGLIA -

E dov’è il mio abito da sposa?

FRATELLO -

Te lo porto domani.

FIGLIA -

Fallo presto;

io debbo uscire a chiamar le fanciulle,

e debbo anche pagare i menestrelli.

Perché al cantar del gallo

devo perdere la verginità,

altrimenti mi porterà sfortuna.

(Canta)

“O bello, o dolce Robin, ecc…”.([110])

FRATELLO -

(Al Carceriere)

Devi prenderla con pazienza.

CARCERIERE -

È vero.

FIGLIA -

Buona sera, signori.

Udiste mai di un certo Palamone?

CARCERIERE -

Sì, ragazza, lo conosciamo bene.

FIGLIA -

È vero ch’è un bel giovane?

CARCERIERE -

Sì, amore.

FRATELLO -

Per carità, non me la contraddite,

potrebbe delirare molto peggio!

1° AMICO -

Sì, è un bell’uomo.

FIGLIA -

Eh, non è così?

Tu hai una sorella, vero?

1° AMICO -

Sì.

FIGLIA -

Ma lei non lo avrà mai,([111]) dille così,

per via d’un trucco che sol io conosco.

Farai bene però a tenerla d’occhio,

perché basterà solo che lo veda,

e sarà fatta, partita, in un’ora.

Tutte le giovani della città

sono di lui innamorate cotte,

ma io ci rido su e le lascio fare;

non è una buona tattica la mia?

1° AMICO -

Sì.

FIGLIA -

Ce ne sono già duecento almeno

di lui incinte… forse quattrocento;

io però resto chiusa a tutto questo,

chiusa e serrata come una conchiglia;

e tutti questi saran figli maschi…

egli conosce il trucco… e a dieci anni

saran tutti castrati per cantare,

e canteran le guerre di Teseo…

2° AMICO -

Strano che dica questo.

FIGLIA -

… come voi mai l’udiste: ma non ditelo.

1° AMICO -

No.

FIGLIA -

Vengon da ogni parte del ducato

da lui. La notte scorsa, v’assicuro,

ne aveva da servire almeno venti;

ma lui, in due ore, se ci mette mano,

le pesca tutte a forza di solletico.([112])

CARCERIERE -

È perduta, al di là d’ogni rimedio!

FRATELLO -

Dio non voglia, fratello!

FIGLIA -

(Al padre)

Vieni qua; che tu sei un uomo saggio.

1° AMICO -

Sa a chi parla?

2° AMICO -

Magari lo sapesse!

FIGLIA -

Sei tu il nostromo della nave?

CARCERIERE -

Sì.

FIGLIA -

Dov’è la bussola?

CARCERIERE -

Qui.

FIGLIA -

Punta a nord,

e dirigi la rotta verso il bosco,

dove c’è Palamone,

che si strugge per me. Quanto al paranco,

lascialo a me. Su, cuoricini miei,

levate l’àncora, su, hop, hop, hop!([113])

È tutta su. Il vento è buono, avanti,

ora tesate bene la bolina!

Fuori tutta la vela di maestra!

Il fischietto, dove ce l’hai, nostromo?

FRATELLO -

Avanti, al largo, tutta sottovento!([114])

CARCERIERE -

Su in coffa, mozzo!

FRATELLO -

Dove sta il pilota?

1° AMICO -

Son qua.

FIGLIA -

Che avvisti?

2° AMICO -

Uno splendido bosco.

FIGLIA -

Dirigi là, nostromo, contro bordo!

(Canta)

“Quando Cinzia s’illumina

“di sua luce riflessa, ecc…”.

(Escono tutti)

SCENA II - Stanza nel palazzo ducale di Atene

Entra EMILIA, sola; ha in mano i ritratti di Arcite e Palamone

EMILIA -

Posso ancor tamponare le ferite

che si dovranno aprire

e sanguinare a morte, a causa mia.

Farò dunque tra loro la mia scelta,

e porrò fine alla loro contesa.

Due uomini così giovani e belli

non periranno mai per colpa mia;

mai le lor madri seguiranno in pianto

le fredde ceneri dei loro figli,

maledicendo la mia crudeltà!

(Guardando il ritratto di Arcite)

Cielo, che dolce viso ha questo Arcite!

Se la saggia Natura,

con tutte le sue doti più smaglianti,

tutte quelle bellezze che alla nascita

essa deposita in nobili corpi,

fosse donna mortale,

e avesse pure in sé la verecondia

delle fanciulle vergini, son certa

che impazzirebbe anch’essa per quest’uomo.

Che occhio, di che fiero scintillio

e di che viva ed intensa dolcezza

ha questo giovane principe! Amore

qui siede da signore, sorridendo!

Fu certo con un occhio come questo

che il vago Ganimede infiammò Giove,

al punto da costringere quel nume

a rapire il leggiadro giovinetto

ed a porselo eternamente accanto,

quale stella lucente.([115]) Quale fronte,

egli ha, di quale maestosa ampiezza,

arcuata come quella di Giunone,

la grande-occhiuta dea,([116]) ma assai più dolce,

e più liscia dell’omero di Pelope!([117])

Fama ed onore sembrano, da qui,

come da un promontorio vòlto in cielo,

stendere l’ali, e al sottostante mondo

cantar gli amori e l’amorose lotte

di dèi e d’uomini simili a loro.

Palamone non è che il suo contrario;

solo un’ombra sbiadita al suo confronto.

È tenebroso e magro, ha l’occhio grave

come se avesse perduto la madre;

una tempra pacata, senza brio,

senza prontezza, nemmeno un barlume

della gaia arditezza di quest’altro.

E tuttavia queste manchevolezze,

ché tali le stimiamo, gli stan bene.

Anche Narciso era un ragazzo cupo,

eppur di quale celestial bellezza!

Oh, chi potrà mai dir da quale parte

è rivolto il capriccio d’una donna?

Sono una sciocca, ho perso la ragione,

volevo scegliere e non son capace,

ed ho mentito sì stupidamente

che le donne dovrebbero picchiarmi.

In ginocchio domando il tuo perdono,

Palamone, perché ci sei tu solo,

tu solo bello, e questi tuoi son gli occhi,

lampade luminose di bellezza,

che amor con minacciosa prepotenza

comandano; e qual vergine fanciulla

potrebbe osare mai di contrastarli?

Quale altero sussiego,

eppure quale accattivante fascino

in questo suo virile volto bruno!

O Amore, d’ora innanzi questo solo

sarà il colore giusto! Arcite, resta lì;

rispetto a lui un mostricciattolo,([118])

solo uno zingaro, il nobile è questo.

Son confusa, del tutto svanita;

la mia fiducia di fanciulla vergine

m’ha lasciato. Se ancora poco fa

mio fratello m’avesse domandato

quale dei due amassi, avrei risposto

d’essere uscita pazza per Arcite,

e se adesso venisse mia sorella

“Palamone di più”, risponderei.

Ecco, facciamo che state qui insieme.

Chiedimi tu, fratello… Ahimè, non so!

E chiedimi ora tu, dolce sorella;

non so cosa risponderti. Ho la mente

simile ad un bambino capriccioso

che avendo due bellissimi gingilli

d’ugual delizia, non sa quale scegliere,

e si mette a strillare per entrambi!

Entra un GENTILUOMO

Che c’è?

GENTILUOMO -

Signora, il Duca tuo cognato

m’incarica di darti questo annuncio:

i cavalieri sono ritornati.

EMILIA -

Per porre fine alla loro contesa?

GENTILUOMO -

Sì.

EMILIA -

Potessi finire prima io!

Quali colpe ho commesso, casta Diana,

perché la mia gioventù senza macchia

si macchi adesso del sangue di principi,

e la mia castità si faccia altare

su cui si debba fare sacrificio

della vita di due innamorati,

i più nobili e belli

ch’abbian fatto la gioia delle madri,

a questa mia sfortunata bellezza?

Entrano TESEO, IPPOLITA, PIRITOO e seguito

TESEO -

Avanti, introduceteli senz’altro;

son davvero impaziente di vederli.

Emilia, i tuoi innamorati rivali

son tornati e con loro

gagliardi cavalieri; ed ora a te,

bella cognata, di sceglierne uno.

EMILIA -

Entrambi li vorrei,

che nessuno dei due, per causa mia,

abbia a cadere prematuramente.

TESEO -

Chi li ha visti?

PIRITOO -

Io, poc’anzi.

GENTILUOMO -

Anch’io li ho visti.

Entra un MESSAGGERO

TESEO -

Da chi vieni?

MESSAGGERO -

Dai nuovi cavalieri.

TESEO -

Tu che li hai visti, puoi dir come sono?

MESSAGGERO -

Sì, signore, e ti voglio dire schietto

ciò che penso: non vidi e lessi mai

di più gagliardi spiriti

di questi sei ch’essi han portato seco,

se debbo giudicar dal loro aspetto.

Quello che sta davanti con Arcite,

dall’aspetto lo si direbbe un duro,

dal viso un principe;

tale lo dicono le sue fattezze;

il colorito, più scuro che nero,

rude e pur nobile, lo dice ardito,

impavido, incurante del pericolo;

i suoi occhi son due cerchi di fuoco,

un leone infuriato, così appare;

i capelli gli cadon lunghi dietro,

neri e lucenti come ali di corvo;

le spalle ha larghe e forti

e le braccia sono lunghe e tornite;

e sulla coscia una spada sospesa

a una tracolla di squisita foggia,

con la quale suggella quel che vuole,

quando s’aggrotta… Reputo, in coscienza

che mai soldato ebbe amico migliore.

TESEO -

L’hai descritto assai bene.

PIRITOO -

Tuttavia inferiore di gran lunga

io lo trovo a colui che per primo

cavalca a fianco a fianco a Palamone.

TESEO -

Descrivimelo, allora, prego, amico.

PIRITOO -

Immagino che sia pur esso un principe,

e forse anche di rango superiore;

ché nell’aspetto ha tutti gli attributi

di nobiltà. È alquanto più robusto

del cavaliere descritto da lui,

ma più gentile in volto; il colorito

è rossigno, dell’uva maturata;

ed è tutto compreso, indubbiamente

della cagione per cui viene a battersi,

più disposto a far sua questa contesa.

Sulla sua faccia appaiono palesi

tutte le aspettative di successo

per questa impresa, ed un’interna forza

misurata ed immune da ogni eccesso,

gl’invade il corpo quando è corrucciato,

e gli dirige il braccio a grandi cose;

non sa che sia paura: nessun segno

traspare in lui di tal debole tempra.

È biondo, di capelli crespi e ricci,

folti-intrecciati come ciuffi d’edera,

a protezione da fulmini e tuoni;([119])

il viso, di color bianco-vermiglio,

non ancora baciato dalla barba

è quello d’una vergine guerriera;

e nelle roteanti sue pupille

è come se sedesse la vittoria

a corteggiar da sempre il suo valore.

Ha il naso in su, segno di nobiltà;

le labbra rosse sembran sempre pronte,

dopo la lotta, al bacio delle dame.

EMILIA -

E costoro dovran morire anch’essi?

PIRITOO -

Quando parla, la voce è un suon di tromba;

e tutti i tratti della sua persona

son quali li vorrebbe avere un uomo,

forti e ben fatti; al fianco porta un’ascia

di buona tempra, con manico d’oro;

la sua età sarà sui venticinque.

MESSAGGERO -

Ce n’è un altro, di piccola statura,

ma da cui spira una fierezza d’animo

che non lo fa inferiore a nessun altro;

mai non vidi più fulgide aspettanze

in corpo a quello simile.

PIRITOO -

Chi è,

quello ch’ha le lentiggini sul viso?

MESSAGGERO -

Quello, signore. Non gli stanno bene?

PIRITOO -

Oh, certo.

MESSAGGERO -

Così poche e ben disposte,

sembra proprio che vogliano mostrare

quanto sia grande e fine la Natura

nella sua arte. È biondo di capelli,

non però di quel biondo femminile,

ma d’un color virile, quasi rame;

robusto e snello di corporatura,

denota gran vivacità di spirito;

le muscolose spalle son percorse

da forti nervature; sulla spalla

dimostrano un leggero ingrossamento,

come le donne da poco pregnanti,

segno di chi è paziente alla fatica,

che mai sverrà sotto il peso dell’armi;

saldo di cuore, calmo, ma una tigre

se si scatena; gli occhi sono grigi,

e volti a compassione quando vince,

acuti nel discernere i vantaggi,

e farli presto suoi quando li trova;

offese non ne fa, né ne riceve;

quando sorride, la sua faccia tonda

mostra la grazia dell’innamorato,

quando s’acciglia, mostra l’uomo d’arme;

sul capo porta, in segno di vittoria,

una corona di foglie di quercia,

con infilato il pegno della dama.

L’età che mostra è intorno ai trentasei;

in pugno tiene una lancia d’assalto

rivestita di lamine d’argento.

TESEO -

E gli altri sono tutti come questi?

PIRITOO -

Tutti; tutti rampolli dell’onore.

TESEO -

Ah, sull’anima mia, voglio vederli!

Non vedo l’ora.

(A Ippolita)

Adesso sì, signora,

potrai veder degli uomini combattere.

IPPOLITA -

Gli uomini li vedo volentieri,

mio signore, ma non la loro causa.

Miglior spettacolo di lor bravura

essi darebbero se fosse in palio

il titolo al possesso di due regni;

peccato che l’amor sia tal tiranno.

E tu, sorella, cuoricino tenero,

che pensi? Niente lagrime, ragazza,

finché non vedrai loro pianger sangue.

Così dev’essere.

TESEO -

(A Emilia)

La tua bellezza

ha dato lor la tempra.

(A Piritoo)

Illustre amico,

a te affido la lizza; che sia degna

delle persone che debbono usarla.

Provvedi ad ordinarla.

PIRITOO -

Sì, signore.

TESEO -

Io non so trattenermi; andrò da loro

- tanto la loro fama m’ha ispirato -

fino al momento che verranno in campo.

Buon amico, ti prego, sii regale.

PIRITOO -

In quanto a pompa, non farà difetto.

EMILIA -

(Tra sé)

Povera Emilia, piangi i tuoi peccati,

perché chiunque sarà vincitore

avrà perduto un nobile cugino.

(Escono)

SCENA III - Come la scena I

Entrano il CARCERIERE, il CORTEGGIATORE della figlia e un DOTTORE

DOTTORE -

Il suo stato mentale

s’aggrava in certe fasi della luna

più che in altre, è così?

CARCERIERE -

Si trova di continuo sprofondata

in uno stato di innocuo delirio;

dorme poco, non mangia, beve spesso;

sogna d’un altro mondo, uno migliore;

e sempre, dall’incongruo fraseggiare,

il nome Palamone spunta fuori,

infarcisce di quello ogni argomento;

lo infila sempre in tutto quel che dice…

Ma eccola che viene.

Entra la FIGLIA del Carceriere

Ora vedrete il suo comportamento.

FIGLIA -

Non la ricordo più… il ritornello

faceva: “E giù, e giù…”

e l’aveva composta nientemeno

che Geraldo,([120]) il maestro dell’Emilia.

Quello è pure così fantasioso,

che ci potrebbe pure camminare

sulle gambe; perché nell’altro mondo

Didone appena vedrà Palamone

si disamorerà di Enea.([121])

DOTTORE -

Che dice…

Poveretta!

CARCERIERE -

È così per tutto il giorno.

FIGLIA -

Ora, per via di questo sortilegio

che vi dicevo, dovete portare

un soldo sulla punta della lingua,

e d’argento; se no, niente traghetto;([122])

e dopo, se vi càpita di giungere

dove stanno gli spiriti beati…

ah, che spettacolo vedrete allora!

Noi vergini, cui s’è seccato il fegato([123])

tritato in pezzettini per amore,

andremo tutte a radunarci là,

e altro non faremo tutto il giorno

che raccogliere fiori con Proserpina.([124])

Io di questi farò un bel mazzolino

per Palamone, a far ch’egli mi noti…

eppoi… eppoi…

DOTTORE -

Che graziosa pazzia!

Restiamo ad osservarla ancora un po’!

FIGLIA -

Vi dirò, qualche volta noi beati

ce ne andiamo a giocare a nascondino.

Ahimè, però chi sa che brutta vita

dovranno fare quelli all’altro posto,

con quel bruciare, friggere, bollire,

fischiare, urlare, digrignare i denti,

maledicendo sempre… Oh, quelli là

ce l’hanno dura la loro misura;([125])

stiamoci attenti! Se uno esce matto,

o s’impicca, o s’annega, là finisce

- Giove ne scampi! - e là lo metteranno

nudo dentro un enorme calderone

di piombo fuso e grasso d’usuraio,

tra un milione di ladri tagliaborse

e là dentro lo lasciano bollire

come un prosciutto non mai cotto a punto.

DOTTORE -

Che strane immagini le crea la mente!

FIGLIA -

Sono in quel posto lords e cortigiani

che han messo incinte le ragazze vergini;

stan tutti dritti in piedi

dentro alle fiamme fino all’ombelico,

e fitti dentro il ghiaccio fino al cuore,

così la parte colpevole brucia,

e quella che ha ingannato si congela…

una pena davvero assai severa,

io penso, per una sciocchezza così.

Per liberarsi da un tale castigo,

un uomo sposerebbe, v’assicuro,

anche una strega lebbrosa, credetemi.([126])

DOTTORE -

Come insiste nel suo fantasticare!

Questa non è demenza passeggera,

ma una forma di stato malinconico

radicatissima e profonda al massimo.

FIGLIA -

Sentite come strillano laggiù

insieme la superba nobildonna

e la ricca signora di città…..

Sarei proprio una bestia

se dicessi ch’è un bel divertimento!

La prima va gridando: “Oh, questo fumo!”

e l’altra: “Questo fuoco!”;

e l’una piange: “Oh, che feci mai

dietro l’arazzo!” e ulula;

e l’altra maledice il suo amante

ed il suo padiglione nel giardino.

(Canta)

“Ma io sarò fedele,

“mie stelle, mio destino…”

(Esce)

CARCERIERE -

Che ne pensi, dottore?

DOTTORE -

Penso ch’è la sua mente che è malata,

e per questo non ho nessuna cura.

CARCERIERE -

Ahimè, che fare, allora?

DOTTORE -

Che tu sappia, ha provato mai affetto

per alcun altro uomo

prima ch’ella vedesse Palamone?

CARCERIERE -

Ho avuto un tempo assai buone speranze,

signore, ch’ella si fosse decisa

per questo gentiluomo amico mio.

CORTEGGIATORE -

E le stesse speranze avevo io,

convinto d’aver fatto un buon affare

ad assegnarle metà dei miei beni,

così che lei ed io, senza finzioni,

saremmo stati, al momento, alla pari.

DOTTORE -

L’avidità d’un occhio intemperante

le ha stemperato tutti gli altri sensi;

essi potran tornare a stabilirsi

e a far le naturali lor funzioni;

ma al momento si trovano sbandati

nella più stravagante erroneità.([127])

Questo tu devi fare sul momento:

confinarla in un luogo ove la luce

si possa dir che arrivi di soppiatto,

più che le fosse permesso di entrare;

tu, giovane signore suo amico,

le dirai che ti chiami Palamone

e le offrirai di venir là a trovarla,

per desinare e conversar d’amore.

Questo concentrerà la sua attenzione,

perché su questo batte la sua mente;

ogni altro oggetto che le si frappone

fra mente e occhi si trasforma in lei

in trucchi e giochi della sua follia.

Le canterai qualche arietta d’amore

di quelle che cantava Palamone,

ella dice, quand’era qui rinchiuso;

ti recherai da lei sempre profuso

di quanti più soavi e vaghi fiori

s’orna a signoreggiare la stagione,

e a questi aggiungerai altre miscele

di profumi gradevoli all’odore.

Tutte queste per la sua fantasia

saran cose appropriate a Palamone,

ché Palamone sa bene cantare,

Palamone è dolcissimo e fragrante,

è insomma tutto quel che sa di buono.

Chiedile di poter mangiar con lei,

e lì tagliale a tavola gli arrosti,

brinda alla sua salute, e, a quando a quando,

richiedile per te i suoi favori

e il privilegio del suo piacimento.

Informati di quali giovinette

sono state compagne sue d’infanzia,

e procura che vadano a trovarla

e le parlino del suo Palamone,

e si presentino con dei regali,

come a volerli offrire in suo ricordo.

Lo stato d’illusione in cui si trova

va combattuto con altre illusioni.

Ciò potrebbe ridarle l’appetito,

ed indurla a dormire e riposare,

ciò che al momento è in lei fuori registro

rispetto al precedente suo equilibrio.

Ho constatato non so quante volte

che il metodo funziona;

ma ho grandi speranze, in questo caso,

di veder aumentato il loro numero.

Per parte mia, farò d’intervenire

tra le fasi di questo trattamento

con i mezzi della mia scienza medica.

Mettiamolo perciò subito in atto,

così ne affretteremo il risultato;

le apporterà, non dubito, sollievo.

(Escono)


ATTO QUINTO

SCENA I - Atene, luogo aperto con tre are:

una dedicata a Marte, una a Venere e una a Diana

Entrano TESEO, IPPOLITA, PIRITOO con seguito

TESEO -

Che entrino, ed offrano agli dèi

le loro pie preghiere; ardano i templi

di sacri fuochi, e innalzino gli altari

in sacre nubi al cielo rigonfiantisi

i loro incensi a quelli a noi superni.

Nulla sia tralasciato del rituale;

nobile impresa è quella cui s’accingono,

che onorerà le stesse alte potenze

che li proteggono.

PIRITOO -

Son qui, signore.

Fanfara di cornette

Entrano PALAMONE e ARCITE con i rispettivi cavalieri

TESEO -

Voi, valorosi e impavidi avversari,

voi, regali germani antagonisti,

ch’oggi venite a estinguere

l’affinità di sangue che v’avvampa,

deponete la rabbia per un’ora,

e chinate, da umili colombe,

all’are sacre dei vostri patroni,

gli dèi da tutti e per tutto temuti,

le vostre ostinatissime persone.

Più che mortale è l’ira che vi muove,

più che mortale sia tra voi l’aiuto;([128])

e poiché da lassù gli dèi vi guardano,

siate giusti e leali nel combattere.

Vi lascio dunque alle vostre orazioni,

e parteggio tra voi il mio augurio.

PIRITOO -

Che la vittoria incoroni il più degno!

(Escono Teseo, Piritoo, Ippolita e seguito)

PALAMONE -

Già la clessidra ha cominciato a scorrere

per non fermarsi finché un di noi

sarà spirato. Pensa solo a questo:

se ci fosse qualcosa nel mio corpo

che volesse mostrarmisi

ribelle in questo affare,

fosse pur anche un occhio contro l’altro,

un braccio contro l’altro,

distruggerei, cugino, il renitente,

nonostante sia parte di me stesso.

Da questo puoi capire con che animo

intendo comportarmi ora con te.

ARCITE -

Io sto lottando con la mia coscienza

per cancellare dalla mia memoria

il tuo nome, l’antico nostro affetto,

la nostra parentela, ed al lor posto

installare qualcosa da distruggere.

Diamo perciò le nostre vele ai venti,

che devono guidar questi vascelli

fino a quel limite che piacerà

al celeste pilota.

PALAMONE -

Parli bene,

cugino; lascia, prima ch’io mi volti,

e t’abbracci.

(Si abbracciano)

Non potrò farlo più.

ARCITE -

Questo è l’ultimo addio.

PALAMONE -

E così sia.

Addio, dunque, cugino.

ARCITE -

Addio, signore.

(Escono Palamone e i suoi cavalieri)

(Ai suoi cavalieri)

Cavalieri, congiunti, innamorati…

tutti per me disposti al sacrificio,

tutti sinceri devoti di Marte,

il cui spirito espelle da voi tutti

i semi del timore, e l’apprensione

che da esso è ancora più remota,

venite insieme a me dinanzi al dio

patrono della nostra professione,

e là chiedete a lui cuor di leone

e respiro di tigre, e la ferocia

e la rapidità di queste fiere,

per procedere avanti, voglio dire,

e non desiderar d’esser lumache.

Sapete ch’io dovrò strappare la vittoria

dal sangue; su di me forza e maestria

dovranno collocar la sua ghirlanda,

dov’ella siede, regina dei fiori.([129])

Perciò la nostra supplica

va rivolta a Colui che d’ogni campo

fa una grande cisterna traboccante

di sangue umano; associatevi a me,

e prosternate a lui i vostri spiriti.

(Tutti si prostrano a terra, quindi si inginocchiano

davanti all’ara di Marte)

O dio possente, che col tuo potere

hai volto in porpora il verde Nettuno,([130])

la cui venuta annuncian le comete,

le cui stragi sui campi sterminati

son proclamate da insepolti teschi,

al cui soffio si piegano distrutte

di Cerere le rigogliose messi;

tu che con la tua mano armipotente

abbatti innanzi agli avanzanti nugoli

della battaglia le pietrose torri,

e che ad un tempo innalzi e demolisci

l’alte mura che cingon le città;

me, tuo pupillo ed ultimo seguace

del tuo tamburo, rendi in questo giorno

ammaestrato nell’arte dell’armi,

sì che a tua lode avanzi il mio stendardo,

ed io possa da te esser chiamato

dominatore di questa giornata;

mandami, grande Marte,

un qualche segno del tuo buon favore!

(A questo punto si prostrano tutti faccia a terra, come prima, mentre s’ode all’interno un clamore di armi, accompagnato da un breve tuono, come l’infuriare di una battaglia; poi si rialzano e s’inchinano all’ara)

O tu, che sei supremo correttore

di tempi sregolati, scuotitore

di nazioni corrotte, giustiziere

di arrugginiti e rancidi blasoni,

tu che ridai col sangue sanità

alla terra quand’essa cade inferma,

e curi il mondo dalla troppa gente,

io prendo i tuoi segnali come auspici

e nel tuo nome m’avvio baldanzoso

verso il successo del mio piano. Andiamo.

(Escono Arcite e i suoi cavalieri)

Rientrano PALAMONE e i suoi CAVALIERI

con lo stesso cerimoniale

PALAMONE -

Oggi le nostre stelle brilleranno

di nuova luce, oppur s’estingueranno.

La posta in gioco è amore,

e se la sua deità vorrà concederlo,

essa darà anche a noi la vittoria.

Ciascuno faccia dunque del suo spirito

un’unica miscela con il mio,

voi, che la generosa nobiltà

induce a fare vostra la mia causa

a rischio della vita; alla dea Venere

affidiamo le sorti di noi tutti,

ed imploriamo che la sua potenza

sia favorevole alla nostra parte.

(A questo punto si prostrano tutti faccia a terra,

come gli altri prima, ma all’altare di Venere)

Salve, augusta regina dei segreti,([131])

tu ch'hai il potere di stornar la rabbia

dall’animo del più truce tiranno

e costringerlo a lacrimar d’amore

per gli occhi d’una vergine fanciulla;

tu che, con un’occhiata,

hai la forza di far ammutolire

il fragoroso tamburo di Marte,

e le sue diane ridurre a bisbigli;

tu che, prima che non lo possa Apollo,

puoi far brandir le grucce ad uno zoppo,

e risanarlo; ([132]) e costringere un re

a divenir vassallo d’un suo suddito;

tu che indurre la vizza vecchiaia

ad intrecciar carole, e a settant’anni

puoi colpire lo spelacchiato scapolo

ch’è riuscito, come i ragazzini

che saltano il falò senza scottarsi,([133])

a schivar fino allora la tua fiamma,

ed indurlo, malgrado la raucedine,

a stonare con voce catarrosa

giovani serenate. Qual potere

non è soggetto al tuo? Tu aggiungi a Febo

fiamme ancora più ardenti delle sue;

il suo figlio mortale arsero vivo

del cielo i fuochi, i tuoi arsero lui;([134])

anche l’umida e fredda cacciatrice

dicon che cominciasse a liberarsi

della faretra e sospirar d’amore.([135])

Accogli dunque me nella tua grazia,

me, tuo fedele e devoto soldato,

che porta il giogo tuo

come un serto di rose intorno al collo,

malgrado sia più pesante del piombo

e più pungente delle stesse ortiche.

Non ho mai imprecato alla tua legge,

non ho mai rivelato un tuo segreto,([136])

anche perché non ne conosco alcuno;

né lo farei, li conoscessi tutti,

mai commerci d’amor con le altrui mogli

ho fatto, mai mi sono indotto a leggere

sconci libelli di sboccati spiriti;

mai ho cercato, nelle grandi feste,

d’illudere bellezze femminili,

ho piuttosto arrossito di vergogna

per quanti vagheggini lo facessero;

e con coloro che se ne vantavano

fui sempre duro, a tutti, in gran furore

domandando, se avessero una madre…

Io l’avevo, una donna; ed eran donne

quelle ch’essi cercavan d’ingannare.

Conoscevo - dicevo loro - un uomo

di ottanta inverni che s’era sposato

con una giovinetta di quattordici;

e fu come se tu, col tuo potere

avessi infuso vita nella polvere:

perché malgrado che il crampo dei vecchi

gli avesse messo un piede per isghembo,

la gotta avesse unito le sue dita

in tanti nodi, e dai coppi degli occhi

atroci spasmi avesser quasi espulso

i globi, sì che tutto ch’era vita

in lui sembrava solo una tortura,

questo scheletro d’uomo aveva avuto

dalla sua giovane moglie un maschietto,

ed io dovetti creder ch’era suo,

perché era lei a giurar che lo era

(e chi, d’altronde, poteva non crederle?).

In breve, io non ho fatto mai congrega

con chi si vanta di quello che ha fatto,

e disprezzo coloro che si vantano

e non han fatto nulla; do conforto

a quelli che vorrebbero e non possono.

No, non mi piace chi va divulgando

segreti intrighi in modo malizioso,

né chi parla di cose da tacere

con linguaggio sboccato ed insolente.

Questo son io, e mai più vero amante

sospirò: posso dirlo e giurarlo.

Oh, allora, tu, tenerissima dea,

da’ a me la palma di questa contesa,

come del mio fedele amore è merito,

e mandami la tua benedizione

con un segno del tuo alto favore.

(A questo punto si ode della musica mentre nell’aria s’alza un volo di colombe - Tutti si prostrano di nuovo bocconi, poi si inginocchiano)

O tu che imperi nei cuori degli uomini

dagli undici ai novanta;

il cui parco di caccia è il vasto mondo

e sono i nostri branchi la tua preda,

ti ringrazio di questo bel segnale,

che, rimanendo impresso nel mio cuore

puro e innocente, arma di fiducia

il mio corpo per questa grande prova.

Alziamoci e inchiniamoci alla dea

devotamente. L’ora s’avvicina.

(Palamone e i suoi cavalieri si alzano, s’inchinano

all’ara di Venere ed escono)

Musica dolce di flauti

Entra EMILIA in bianco, i capelli sciolti sulle spalle, sulla testa una corona di spighe; una fanciulla in bianco le regge lo strascico, la testa adorna di fiori; un’altra le procede avanti con in mano un incensiere a forma di cervo da cui promana un profumo d’incenso ed essenze balsamiche, che depone sull’ara di Diana; le due fanciulle ed Emilia s’inginocchiano

EMILIA -

O tu, divina, immateriale, gelida

e costante regina, dei festini

schiva, contemplatrice silenziosa,

dolce, solinga, bianca quanto casta,

e pura come neve mossa al vento;

tu che alle femmine tuoi cavalieri

non concedi più sangue che quel tanto

che basta ad arrossar le loro guance,([137])

ch’è la loro divisa,

io qui, tua umile sacerdotessa,

umilmente mi prostro alla tua ara.

Oh, dègnati, col tuo bell’occhio verde,

che mai mirò finora cosa impura,

di guardar questa tua vergine ancella;

presta, divina argentea protettrice,

l’orecchio tuo - che mai scurrilità

ebbe ad udire, e la cui soglia mai

varcò lascivo suono - alla mia supplica

infervorata di sacro timore.

Questo è l’ultimo ufficio di vestale

ch’io ti rendo; vestita son da sposa,

ma il cuore è verginale; ho già un marito

a me assegnato, ma non lo conosco.

Dovrei decidere chi è tra i due,

e pregar che riesca vincitore,

ma non so farmi colpa della scelta.

È come se dovessi dei miei occhi

perderne uno; a me sono cari entrambi,

non saprei chi di loro condannare;

quello dei due che dovesse perire

andrebbe a morte senza mia condanna.

Perciò, verecondissima regina,

fa’ tu che quello dei due pretendenti

che più m’ama e che dunque n’ha più titolo

tolga per sé la mia bionda ghirlanda;

o che altrimenti io possa seguitare

a rimanere in mezzo alla tua schiera

nel grado e nella dignità presente.

(A questo punto l’incensiere sparisce sotto l’ara e al suo posto s’innalza un arbusto con sopra una rosa)

Ecco vedete che cosa ci estrae

dalle viscere del suo santo altare

con sacro gesto la nostra patrona,

reggitrice di flussi e di riflussi:

una rosa! Se colgo bene il segno,

questo combattimento annienterà

entrambi questi prodi cavalieri,

ed io sarò costretta a crescer sola,

fior virginale, da nessuno colto.

(A questo punto s’ode un improvviso stridere di strumenti, e la rosa cade dall’arbusto)

Caduto è il fiore, l’arbusto s’abbassa!

O signora, così tu mi scagioni;

sarò raccolta, almeno così penso,

ma non conosco la tua volontà;

schiudimi il tuo mistero!

(Alle due fanciulle)

Spero ch’abbia gradito il nostro omaggio.

I segni erano di gradimento.

(S’inchinano ed escono)

SCENA II - Come la scena terza dell’atto IV

Entrano il CARCERIERE, il DOTTORE e il CORTEGGIATORE,

travestito da Palamone

DOTTORE -

(Al Corteggiatore)

Allora quel consiglio che t’ho dato

le è stato poi di qualche giovamento?

CORTEGGIATORE -

Oh, sì, direi di molto, anzi moltissimo.

Le ragazze che vennero a trovarla

l’han persuasa ch’io sia Palamone;

mezz’ora fa è venuta sorridendo

a chiedermi che cosa avrei voluto

per pranzo, e quando le avrei dato un bacio.

“Subito” le ho risposto, e l’ho baciata

una, due volte.

DOTTORE -

Bene. Ma ancor meglio

se l’avessi baciata venti volte;

perché in questo consiste la mia cura.

CORTEGGIATORE -

Poi m’ha detto che veglierà su me

questa notte, perché sapeva bene

a che ora mi prenderà la crisi.

DOTTORE -

Lo faccia; e quando ti verrà la crisi,

dàlle quel che le serve, lì per lì.

CORTEGGIATORE -

Voleva che cantassi.

DOTTORE -

E tu l’hai fatto?

CORTEGGIATORE -

No.

DOTTORE -

Male. Molto male hai fatto, allora.

Dovresti secondarla in ogni cosa.

CORTEGGIATORE -

Ahimè, signore, io non ho la voce

per secondarla in questo.

DOTTORE -

Non fa niente;

basta che fai rumore con la bocca;

se te lo chiede ancora, fa’ qualcosa;

e giaciti con lei, se te lo chiede.

CARCERIERE -

Mah, dottore!

DOTTORE -

Sì, viene come cura.

CARCERIERE -

Ma prima della cura c’è l’onore!

DOTTORE -

Questa è una madornale balordaggine!

Non si può rovinare la salute

d’una figlia per causa dell’onore;

prima s’ha da curare in questo modo;

se dopo vorrà essere onorata,

avrà aperta la strada avanti a lei.

CARCERIERE -

Grazie, dottore.

DOTTORE -

Portamela qui,

prego, e vediamo in che stato si trova.

CARCERIERE -

Sì, le dirò che c’è il suo Palamone

qui, che l’aspetta. Tuttavia, dottore,

quest’idea tua non mi convince ancora.

(Esce)

DOTTORE -

Va’, va’. Voi padri siete bei minchioni!

Il suo onore… Dovessimo curarla

fino a scoprire che…

CORTEGGIATORE -

Perché, signore?

Pensate forse che non sia onorata?

DOTTORE -

Quanti anni ha?

CORTEGGIATORE -

Diciotto.

DOTTORE -

Potrebbe esserlo… Ma non importa;

non serve. Ma checché ne dica il padre,

se t’accorgi che la sua vena è quella,

videlicet la carne… mi comprendi?

CORTEGGIATORE -

Sì, signore.

DOTTORE -

Soddisfa la sua voglia,

senza indugio; la curerà ipso facto

della malinconia da cui è affetta.

CORTEGGIATORE -

Sono anch’io della stessa idea, dottore.

Rientra il CARCERIERE con sua FIGLIA

e una sua inserviente

DOTTORE -

E vedrai ch’è così. Eccola, viene.

Assecondala come meglio puoi.

CARCERIERE -

Vieni, figliola, che il tuo Palamone

è qui per te, t’aspetta già da un’ora,

per farti visita.

FIGLIA -

Gli rendo grazie

per questa sua premurosa pazienza;

è un vero gentiluomo,

ed io mi sento a lui molto obbligata.

Il cavallo che lui m’ha regalato

l’hai visto?

CARCERIERE -

Sì.

FIGLIA -

Ti piace?

CARCERIERE -

È molto bello.

FIGLIA -

L’hai visto mai ballare?

CARCERIERE -

No.

FIGLIA -

Io spesso.

E come balla bene, e con che grazia!

E poi la giga, coda mozza o lunga,

la piroetta lì, come una trottola.

CARCERIERE -

Ah, questo è certamente straordinario!

FIGLIA -

È capace di farti una moresca

a venti miglia all’ora, da azzoppare

anche il miglior cavalluccio di legno,([138])

s’io m’intendo, di tutta la parrocchia;

e sa andare al galoppo

sul motivetto di “Amor leggero”.([139])

Un cavallo di classe. Che ne dite?

CARCERIERE -

Con tutte queste belle qualità,

lo si potrebbe far giocare a tennis,

a mio giudizio.

FIGLIA -

Uh, e questo è niente.

CARCERIERE -

Sa pure leggere e scrivere?

FIGLIA -

Certo;

e con bellissima calligrafia,

e sa tenere da se stesso i conti

del fieno e del foraggio; lo stalliere

che può imbrogliarlo non è ancora nato.

Hai presente quella puledra saura

del Duca?

CARCERIERE -

Certo, sì.

FIGLIA -

Povera bestia!

È orribilmente di lui innamorata,

ma lui è tale e quale il suo padrone,

permaloso, selvatico e sdegnoso.

CARCERIERE -

Che dote ha lei?

FIGLIA -

Duecento biche circa

di fieno, più venti staia di avena;

ma lui di lei non vuol proprio saperne.

Quando nitrisce lancia un tale fischio

da allettare la razza d’un mugnaio.

Sarà per lei la morte, certamente.

DOTTORE -

Ah, che tira mai fuori dalla bocca!…

(A questo punto il CORTEGGIATORE si fa avanti)

CARCERIERE -

Fa’ un bell’inchino al tuo innamorato.

(La figlia s’inchina al Corteggiatore)

CORTEGGIATORE -

(Alla ragazza)

Come va, tesoruccio? Ma che brava!

Questa sì ch’è una bella riverenza!

FIGLIA -

Tua, da ubbidire a tutti i tuoi comandi

purché nei limiti dell’onestà.

Quanto è distante da qui dove siamo

la fine della terra, miei signori?

DOTTORE -

Bah, una giornata di viaggio, ragazza.

FIGLIA -

(Al Corteggiatore/ Palamone)

Ci verresti con me?

CORTEGGIATORE -

Per fare che?

FIGLIA -

Ebbene, per giocare a palla in buca.([140])

Che altro c’è da fare?

CORTEGGIATORE -

Son d’accordo,

se lì facciamo il nostro sposalizio.

FIGLIA -

Sta bene, perché, là, ti garantisco,

un qualche prete cieco lo troviamo

che prenderà la briga di sposarci,

ché qui son tutti puntigliosi e stupidi.

Eppoi mio padre qui sarà impiccato

domani, e questo guasterebbe tutto.

Sei Palamone?

CORTEGGIATORE -

Non mi riconosci?

FIGLIA -

Sì, ma di me non t’interessa niente;

io non possiedo nulla

eccetto questa misera gonnella

e due sottane di poco valore.

CORTEGGIATORE -

Non fa niente; ti prenderò lo stesso.

FIGLIA -

Davvero?

CORTEGGIATORE -

(Prendendole la mano)

Sì, per questa bella mano.

FIGLIA -

Andremo a letto, allora?

CORTEGGIATORE -

Quando vuoi.

(La bacia)

FIGLIA -

Oh, signore, ci avresti godimento

a restarci attaccato.

CORTEGGIATORE -

E tu perché

ti strofini il mio bacio sulla faccia?

FIGLIA -

Perché è fragrante, e mi profumerà

come si deve per il matrimonio.

(Indicando il Dottore)

Questo non è Arcite, tuo cugino?

DOTTORE -

Sì, dolcezza, e son lieto di vedere

che il mio caro cugino Palamone

abbia fatto una così bella scelta.

FIGLIA -

Pensi che vorrà avermi?

DOTTORE -

Senza dubbio.

FIGLIA -

(Al padre)

Pensi anche tu così?

CARCERIERE -

Ma sì, figliola.

FIGLIA -

Avremo molti figli…

(Al Dottore)

Dio, come sei cresciuto!…

Anche il mio Palamone crescerà,

e bene, spero, adesso ch’egli è libero.

Ah, povero galletto, è dimagrito

per scarso cibo e scomodo alloggiare;

ma crescerà di nuovo coi miei baci.

Entra un MESSAGGERO

MESSAGGERO -

Che fate qui? Voi vi state perdendo

il più bello e più nobile spettacolo

che mai si vide.

CARCERIERE -

Sono in lizza?

MESSAGGERO -

Sì.

E c’è da fare là anche per te.

CARCERIERE -

Ci vado subito.

(Al Dottore e al Corteggiatore)

Devo lasciarvi.

DOTTORE -

No, veniamo anche noi.

Non voglio perdermi il combattimento.

CARCERIERE -

Di lei che dici?

DOTTORE -

Posso garantirti

che in capo ai prossimi tre o quattro giorni

l’avrò rimessa in sesto, come prima.

(Al Corteggiatore)

Tu, però, non ti devi allontanare

da lei, ma devi seguitare ancora

a trattarla così.

CORTEGGIATORE -

Così farò.

DOTTORE -

Ora facciamola rientrare in casa.

CORTEGGIATORE -

Vieni, tesoro, ce ne andiamo a cena,

e poi giochiamo a carte.

FIGLIA -

E ci baciamo?

CORTEGGIATORE -

Cento volte.

FIGLIA -

… E poi venti.

CORTEGGIATORE -

E ancora venti.

FIGLIA -

E dopo ce ne andiamo a letto insieme.

DOTTORE -

Dille di sì.

CORTEGGIATORE -

Sì, certo, lo faremo.

FIGLIA -

Però non mi far male.

CORTEGGIATORE -

No, tesoro.

FIGLIA -

Se lo farai, amore, io piangerò.

(Escono)

SCENA III - Luogo aperto nei pressi

del palazzo ducale di Atene

Trombe

Entrano TESEO, IPPOLITA, EMILIA, PIRITOO e seguito

EMILIA -

Io resto qui.

PIRITOO -

Ti perdi lo spettacolo?

EMILIA -

Un passero che lacera una mosca

sarebbe agli occhi miei miglior spettacolo

che questo duellare vita o morte.

Ogni colpo che cade

mette a rischio una vita valorosa;

ogni stoccata rende lamentoso

il luogo sopra il quale essa s’abbatte;

e suona più come campana a morto

che come ferrea lama. Io resto qui.

Già m’è abbastanza punito l’orecchio

con l’ascoltare poi quel che accadrà,

contro cui non c’è sordità che valga;

non voglio offender l’occhio con spettacoli

di morte ch’esso si può risparmiare.

PIRITOO -

(A Teseo)

Sire, mio buon signore, tua cognata

ricusa di venire.

TESEO -

Oh, no, ella deve;

perché sarà spettatrice dal vivo

di tali onorevoli prodezze

quali si vedono solo dipinte.

La natura sarà ora ella stessa

protagonista e autrice della fiaba,

che avrà il sigillo della verità

in palese, dall’occhio o dall’orecchio.

(A Emilia)

Tu devi esser presente;

tu sei la ricompensa al vincitore,

il premio e la ghirlanda di vittoria

a incoronare il titolo conteso.

EMILIA -

Perdonami; ma s’io pur fossi là,

starei con gli occhi chiusi.

TESEO -

Però ci devi stare: questa prova

è come si svolgesse nella notte,

e tu la sola stella a illuminarli.

EMILIA -

Sono una stella spenta;

è solo la rivalità la luce

che mostra l’uno all’altro;

l’oscurità che fu sempre la madre

degli orrori, per sempre maledetta

da milioni e milioni di mortali

questa volta potrebbe guadagnarsi,

almeno in parte, una reputazione,

a compenso degli infiniti crimini

dei quali è stata sempre responsabile,

se venisse a gettare sopra entrambi

il suo nero mantello.

IPPOLITA -

Ma devi andare.

EMILIA -

In fede mia, non posso.

TESEO -

Ma è vedendo te, che i cavalieri

devono dare fuoco al lor valore,

giacché di questo scontro, lo sai bene,

tu sei il solo premio al vincitore;

e dunque devi per forza esser là,

a compenso della compiuta impresa.

EMILIA -

Perdono, Sire, il titolo ad un regno

può disputarsi fuor dai suoi confini.

TESEO -

Va bene, allora, come tu desideri.

Coloro che la pensan come te([141])

rischiano di augurare il buon successo

ad un loro nemico.

IPPOLITA -

Addio sorella;

vuol dire che saprò prima di te,

sia pur per poco, chi sarà il tuo sposo.

Quello dei due che sanno già gli dèi

esser migliore, io li pregherò

d’assegnartelo in sorte.

(Escono tutti, eccetto Emilia e il suo seguito)

EMILIA -

Arcite ha il viso dolce,

ma l’occhio è come un arco teso,([142])

o una ben affilata arma di guerra

in un fodero soffice: sul suo volto

son compagni di letto la pietà

e il coraggio virile. Palamone

ha un’espressione assai più minacciosa:

ha la fronte scavata dalle rughe,([143])

da sembrare la tomba dei suoi crucci.

Ma non sempre così, ché volta a volta

muta col volgere dei suoi pensieri;

ha spesso l’occhio fisso sul suo oggetto.

Il tetro gli si addice nobilmente,

così come ad Arcite l’allegria;

ma la malinconia di Palamone

è di per sé una forma di allegria,

le due cose così ben mescolate,

che par che l’allegria lo faccia triste,

e la tristezza allegro. L’umor nero

che sta sì male sulla faccia altrui,

sembra che stia di casa sulla sua.

(Cornette. Squilli di tromba come per l’inizio d’un assalto)

Senti come gli sproni dello spirito

aizzano i due principi alla prova!

Arcite mi potrebbe guadagnare;

ma Palamone potrebbe ferirlo,

tanto da sfigurarlo nell’aspetto.

Ah, qual pietà potrebbe mai bastare,

se ciò avvenisse? S’io fossi presente

potrei far loro danno,

perché potrebbero levare gli occhi

là dov’io sieda, e mancare in quell’attimo

una parata o perdere un attacco

ch’era da fare proprio in quell’istante.

Meglio ch’io non sia là. Oh, quanto meglio

sarebbe stato non esser mai nata,

ch’esser la causa di tanta disgrazia!

(Trombe - Grandi clamori e trambusto all’interno,

con grida: “Urrah, Palamone!”)

Entra un SERVO

Come va?

SERVO -

Gridano “Urrah, Palamone!”.

EMILIA -

Allora ha vinto. C’era da aspettarselo:

grazia e successo ce li aveva in viso;

ed è senz’altro il migliore degli uomini.

Corri, ti prego, e dimmi come va.

(Grida e trombe, urla di “Urrah, Palamone!”)

SERVO -

Ancora Palamone.

EMILIA -

Corri, e informati.

(Esce il Servo)

Povero servo d’amore, hai perduto!([144])

Portavo sempre sul mio petto a destra

il tuo ritratto, quel di Palamone

a sinistra… perché così, non so;

non c’era un fine, era solo per caso;

ma il cuore sta a sinistra; Palamone

ha avuto in sorte l’augurio migliore.

(Altri clamori e grida all’interno. Trombe)

Questi clamori son sicuramente

il segno della fine dello scontro.

Rientra il SERVO

SERVO -

Dicono che sia stato Palamone

per primo a spingere di forza Arcite

fino ad un pollice dall’obelisco,

e in quel momento è stato tutto un grido

“Urrah!” per Palamone. Ma poi subito

i cavalieri della squadra opposta

han fatto una riscossa coraggiosa,

ed ora i due sfidanti sono pari.

EMILIA -

Oh, se di due potessero confondersi

in uno! Ah, non ci sarebbe donna

degna d’un uomo così conformato!

Le qualità di ciascuno di loro,

la rispettiva loro nobiltà

bastan da sole a dare ad ogni donna

il senso della propria ineguaglianza

della propria pochezza al lor confronto….

(Trombe. Grida all’interno: “Arcite! Arcite!”)

Ancora evviva. È sempre Palamone?

SERVO -

No, questa volta il grido è per Arcite.

EMILIA -

Ti prego, fa’ attenzione a chi si grida;

usa entrambe le orecchie a questo scopo.

(Trombe. Grande clamore e grida di “Arcite, vittoria!”)

SERVO -

Adesso gridano “Arcite” e “Vittoria”.

Ecco, ascoltateli: “Arcite! Vittoria!”.

E gli squilli di tromba

proclamano la fine dello scontro.

EMILIA -

Eh, che Arcite non fosse un bambinello

lo vedevano pure i mezzi-ciechi…

Occhio di Dio! La sua sontuosità

e ricchezza di spirito irradiava

con prepotenza dalla sua persona;

non poteva restare in lui nascosta

più che non possa il fuoco nella stoppa,

o più di quanto possano bassi argini

contener acque costrette ad alzarsi

dalla rabbia di tempestosi venti.

Mi figuravo che il buon Palamone

sarebbe andato incontro al fallimento;

ma non sapevo perché lo pensassi:

il raziocinio in noi non è profeta,

mentre spesso lo è la fantasia.

(Trombe)

Tornano. Povero Palamone, ahimè!

Entrano TESEO, IPPOLITA, PIRITOO,

ARCITE, come vincitore, e seguito

TESEO -

Ecco nostra sorella, qui in attesa,

ancora tutta trepida ed ansiosa!…

Leggiadrissima Emilia,

gli dèi nel loro divino arbitraggio

t’hanno assegnato questo cavaliere:

è un valoroso, se mai ce ne furono

a menare di spada. Qua le mani.

(Prende le destre dei due)

Tu prendi lei, lei te; siate promessi

d’un amore che cresca con l’età.([145])

ARCITE -

Emilia, io per acquistare te

ho perso ciò che avevo di più caro

dopo ciò che con te io ho comprato,

e che compro comunque a basso prezzo,

rispetto a quanto stimo il tuo valore.

TESEO -

Sorella mia diletta,

ei ti parla da prode cavaliere,

quant’altri mai ce ne furono al mondo

che spronassero un nobile destriero;

gli dèi, son certo, avrebbero voluto

ch’egli morisse scapolo,

per tema che nel mondo la sua prole

potesse apparir troppo a loro simile.

Il suo comportamento m’ha incantato

al punto da pensare che anche Alcide([146])

appetto a lui fosse un pezzo di piombo.

Se potessi lodare ogni sua parte

come tutto l’insieme che ho descritto,

il tuo Arcite non ci perderebbe

al confronto, perché chi sì valente

è stato ha incontrato tuttavia

sempre qualcuno che lo superasse.

Ho sentito due emuli usignoli([147])

percuotere l’orecchio della notte

col gareggiante loro gorgheggiare,

ora più alto il primo, ora il secondo,

e poi di nuovo il primo, e quindi l’altro,

ed a vicenda l’uno e l’altro a gara,

di modo che l’udito era incapace

di giudicare chi fosse il più bravo;

così per molto tempo si protrasse

tra questi due cugini la tenzone,

finché a fatica poteron gli dèi

decretare chi fosse il vincitore.

(Ad Arcite)

Cingi dunque con gioia la ghirlanda

ch’hai conquistato… Quanto agli sconfitti,

sia data prontamente esecuzione

ad essi della nostra decisione,

ché so che ormai la vita

è per loro un tormento. E che sia qui.

Ma non è scena per la nostra vista.

Perciò noi ce n’andremo,

giustamente gioiosi e un poco afflitti.

(Ad Arcite)

Offri il braccio a colei ch’è il tuo trofeo;

so che non te la lascerai sfuggire.

(Arcite porge il braccio a Emilia - Fanfara)

Ippolita, il tuo occhio sta lì lì

per partorire una lacrima, vedo.

(Fanfara)

EMILIA -

Ma è vittoria questa?

Ahimè, voi tutte potestà celesti,

dov’è dunque la vostra carità?

Se non fosse per vostro alto decreto

che le cose così devono andare,

e non aveste incaricato me

di confortare questo miserabile,

questo principe orbato dell’amico,

che taglia via da lui un’esistenza

ben più importante di tutte le donne,

anch’io dovrei, anch’io vorrei morire.

IPPOLITA -

Oh, infinita pietà, che su una donna

quattro tali occhi debbano esser fissi,

e due di essi siano destinati

ad essere accecati!

TESEO -

Così è.

(Escono)

SCENA IV - Il carcere di Atene. Al centro

il ceppo per l’esecuzione capitale

Entra PALAMONE con i suoi CAVALIERI legati, il CARCERIERE,

un boia (che non parla) e un picchetto di soldati

PALAMONE -

C’è più di un uomo al mondo

che sopravvive nel cuore degli altri;

sì, come più di un padre

sopravvive nel cuore di suo figlio;

un tal pensiero ci conforta un poco.

Noi spiriamo, ma non senza riscuotere

l’altrui pietà; ci accompagna l’augurio

degli altri a seguitare ancora a vivere.

A morir giovani e non sfioriti,

sfuggiamo all’esecrabile miseria

degli anni vecchiaia;

aggiriamo la gotta e la raucedine

che all’ultim’ora attendono l’arrivo

del frate francescano;([148])

così veniamo davanti agli dèi

non gravati da molte e vecchie colpe

non espiate, cosicché gli dèi,

gradiranno dividere con noi

che siam più chiari spiriti, il lor nettare,

piuttosto che con quelli,

che si portano dietro tanti crimini.([149])

Miei diletti congiunti,

che avete messo la vita come posta

a vincere sì povero conforto,

l’avete persa a troppo poco prezzo.

1° CAVALIERE -

Quale altra fine sarebbe per noi

apportatrice di maggior contento?

I vincitori han solo su di noi

la fortuna, il favore della quale

è altrettanto fugace e passeggero

quanto per noi è sicura la morte;

quanto a onore non pesan più di noi

d’un sol granello.

2° CAVALIERE -

Diciamoci addio,

e con l’arma della rassegnazione

irritiamo l’altalenante sorte,

che anche quand’è più sicura e salda,

ondeggia sempre.

3° CAVALIERE -

Chi va per il primo?

PALAMONE -

Spetti prima a colui che qui v’addusse

per prender parte a questo suo banchetto

di dar l’assaggio.

(Al Carceriere)

Ah, ah, amico mio,

amico mio, la tua gentil figliola

m’ha ridato la libertà una volta,

ora tu vuoi ridarmela per sempre.

Di grazia, come sta? Non stava bene,

ho sentito; quel tipo di malanno

m’ha recato non poco dispiacere.

CARCERIERE -

S’è ripresa, signore, ora sta bene,

ed andrà presto a nozze.

PALAMONE -

Ne son lieto,

te lo giuro sulla mia breve vita;

questa è l’ultima cosa di mia vita

per cui gioisco. Diglielo, ti prego;

portale il mio saluto e dàlle questo,

come modesta aggiunta alla sua dote.

(Gli consegna la sua borsa)

1° CAVALIERE -

Via, facciamoci tutti donatori!

2° CAVALIERE -

È vergine?([150])

PALAMONE -

Lo credo veramente;

una creatura davvero squisita;

più meritevole, per conto mio,

di quanto possa io dare o dir di lei.

I TRE CAVALIERI -

(Al Carceriere, offrendogli le loro borse)

Dàlle allora il saluto di noi tutti.

CARCERIERE -

Gli dèi vi ricompensino, signori,

e vi rendano lei riconoscente.

PALAMONE -

Adieu, fa’ ora tu che la mia fine

sia sbrigativa come il mio commiato.

1° CAVALIERE -

(A Palamone)

Avanti tu, coraggioso cugino.

2° CAVALIERE -

E noi ti seguiremo di buon animo.

(Palamone si china a mettere il collo sul ceppo, mentre all’interno s’odono grida: “Accorrete! Salvateli! Fermate!”)

Entra, di corsa, un MESSAGGERO

MESSAGGERO -

Fermi, fermi! Oh! Fermi, fermi, fermi!

Entra PIRITOO in furia

PIRITOO -

Fermi là! Maledetta sia la furia,

se avete fatto tutto così presto!

Nobile Palamone,

ti mostreran gli dèi la loro gloria

in una vita ch’hai ancor da vivere.

PALAMONE -

Come può esser ciò, dopo che Venere

fu da me detta falsa ingannatrice?

Che succede?

PIRITOO -

Mio nobile signore,

alzati e presta orecchio ad un annuncio

ch’è dolce e amaro insieme al primo udirlo.

PALAMONE -

Che cos’è ch’è venuto a risvegliarci

dunque, dal nostro sogno?

PIRITOO -

Ascolta bene.

Tuo cugino, in arcioni ad un destriero,

donatogli da Emilia, un baio scuro,

senza un sol pelo chiaro sul mantello,

ciò che si dice ne svilisca il prezzo,

e che molti non vogliono comprare

proprio per questo, malgrado la razza

- superstizione che, in questa occasione,

ha trovato la sua piena conferma -

Arcite, dunque, in sella ad un cavallo,

trotterellando sui selci di Atene

che i suoi rampini, più che calpestare,

sembravano contare ad uno ad uno,

ché il cavallo farebbe un miglio al balzo,

se il cavaliere gli desse di sprone;

mentre così se ne andava contando

i selci della via, quasi danzando

alla musica fatta dai suoi zoccoli

- perché si dice che proprio dal ferro

ebbe origine il ritmo musicale -

ecco che fuor da una maligna selce,

gelida come l’annoso Saturno,([151])

e tutta posseduta, come lui,

di malefico fuoco,

dardeggia tutt’a un tratto una scintilla

o altro sprazzo di zolfo fiammante,

se preparato apposta, non so dire;

il focoso animale si spaventa

e cade in preda a quella confusione

che l’istinto può dare alla sua forza

- balza, s’impenna, dimentico affatto

d’ogni regola di comportamento

per la quale era stato ammaestrato

in scrupoloso e paziente maneggio;

come un maiale, emette dei grugniti

all’aguzzo sperone che lo punge

ed al cui tocco si sente più irritare

che pronto almeno un poco ad obbedire;

fa prova delle più folli maniere

delle rozze e ribelli cavallacce

nel tentativo di disarcionare

il suo signore, che vi resta saldo.

Quando capisce che nulla gli giova,

che il ferro del suo morso non si rompe,

che il sottopancia di cuoio resiste,

che il saltare qua e là non riesce a smuovere

dalla sua posizione il cavaliere,

che lo tiene ben saldo tra le gambe,

s’impenna sugli zoccoli di dietro,

eretto, sì che le gambe d’Arcite,

stando in alto al disopra del suo capo,

sembravano sospese quasi in aria,

chi sa in virtù di qual magica arte;

in quella la corona di vittoria

gli cadde dalla testa,

la bestiaccia di colpo si rovescia

indietro ed il suo peso tutto intero

diventa il carico del cavaliere.

È ancora vivo; ma è la barchetta

che ce la fa sì e no a galleggiare,

in attesa dell’ultimo maroso

che la schianti definitivamente.

Ha detto di aver grande desiderio

di parlare con te. Eccolo, viene.

Entrano TESEO, IPPOLITA, EMILIA

con ARCITE trasportato su una sedia

PALAMONE -

O fine miserabile,

potenti dèi, di nostra parentela!

Arcite, se il tuo cuore,

se il tuo nobile, coraggioso cuore,

non è ancora spezzato, parla, dimmi

l’ultime tue parole.

Palamone son io, che t’ama sempre,

mentre tu muori.

ARCITE -

Prenditi tu Emilia,

e con lei tutta la gioia del mondo.

Stendimi la tua mano, Palamone.

Addio, ho contato l’ultimo rintocco.

Fui sleale con te, mai traditore;

perdonami, cugino…

un bacio dalla bella Emilia…

(Emilia lo bacia)

È fatto.

Prendila, Palamone, è tua; io muoio.

(Muore)

PALAMONE -

Trovi l’Eliso l’anima tua prode!

EMILIA -

(Avvicinandosi al corpo di Arcite)

Ecco, principe, io ti chiudo gli occhi;

anime benedette sian con te!

Tu sei stato un grand’uomo,

e questo giorno, finché sarò viva,

dedicherò alle lacrime per te.

PALAMONE -

Ed io alla memoria del suo onore.

TESEO -

In questo luogo avete combattuto

la prima volta; e sempre in questo luogo

io vi divisi. Rendi ora agli dèi

le tue grazie, per essere ancor vivo.

La sua parte è finita,

e malgrado sia stata troppo breve,

l’ha bene recitata;

(A Emilia e Palamone)

il vostro giorno s’allunga e v’irrora

la propiziante rugiada del cielo.

Venere ha ben ornato la sua ara,

concedendo a voi due il vostro amore;

Marte, nostro patrono, dal suo canto,

ha ben tenuto la sua profezia,

concedendo ad Arcite la vittoria;

in tal modo le due divinità

han mostrato la debita giustizia.

Portate via questo corpo.

PALAMONE -

O cugino,

perché dobbiamo noi desiderare

cose che poi ci vengono a costare

la perdita del nostro desiderio!

Ché nessuno potrebbe mai comprare

un amore prezioso

se non perdendo un amore prezioso!

TESEO -

Mai fortuna giocò più sottil gioco:

il vinto che trionfa, il vincitore

che perde; e tuttavia in questa prova

gli dèi si son mostrati affatto equanimi.

(A Palamone)

Tuo cugino difatti aveva ammesso

che a te spettava il diritto alla dama,

perché l’avevi vista tu per primo,

e subito dicesti il tuo sentire;

egli dunque te l’ha restituita

come fosse un gioiello a te rubato,

ed ha desiderato che il tuo animo

lo congedasse da qui perdonato.

Gli dèi così mi tolgono di mano

la mia giustizia, e se ne fanno essi

gli esecutori. Va’ con la tua dama,

ora, solo, e dal palco della morte

richiama i cavalieri tuoi compagni,

ch’io qui adotto come amici miei.

Atteggiamoci a lutto un giorno o due,

per onorare le esequie di Arcite;

poi vestiremo il viso degli sposi

per sorridere insieme a Palamone,

per il quale soltanto un’ora fa,

sì, solo un’ora fa, ero tanto afflitto

per quanto ero felice per Arcite;

ed ora son felice,

per quanto afflitto son per quell’altro.

O voi dèi, celestiali incantatori,

qual trastullo non siamo noi per voi!

Noi ridiamo per quello che ci manca;

e siamo tristi per quello che abbiamo;

sempre fanciulli, in un modo e nell’altro.

Fate che siamo a voi riconoscenti

per quel che è, com’è,

e cessiamo di disputar con voi

che siete sopra ad ogni nostra indagine.

Andiamo, adesso; e diamoci il contegno

che si conviene al momento presente.

(Squilli di tromba - Escono tutti)


EPILOGO

Ora mi piacerebbe domandarvi

se la nostra commedia v’è piaciuta;

ma, come accade con gli scolaretti,

non posso farlo; ho una paura matta.

Di grazia, rimanete ancora un poco,

ch’io vi guardi nel viso ad uno ad uno.

Nessuno che sorride?

Allora andiamo male, a quanto pare.

Quello tra voi ch’abbia mai amato

una ragazza fresca e prosperosa,

si faccia avanti, mostri la sua faccia…

Non c’è nessuno… strano… e s’egli vuole,

contro la sua coscienza, che ci fischi

e ci rovini la reputazione.

È vano, vedo, dirvi di star buoni…

Forza, allora, sfogatevi!… Che dite?

Non vogliate fraintendermi, però.

Io non voglio vantarmi: non è questa

l’intenzione di quanti siamo qui.

Se la fiaba che abbiamo raccontato

- ché fiaba è - v’è comunque piaciuta,

perché soltanto a questo onesto fine

era intesa, noi siamo soddisfatti;

e ne avrete, non tarderà gran che,

oserei dire, anche alcuna meglio,

sì che possiamo prolungar nel tempo

l’antico affetto che già ci portate.

Così restiamo, attori e suonatori,

vostri servi attentissimi,

e buona notte a tutti, miei signori.

(Fanfara - Esce)

FINE


([1]) Prosegue il traslato introdotto dal paragone tra la buona commedia e la verginità; la commedia, come la verginità, se è “intera e sana”, il giorno delle nozze (l’incontro col pubblico) è ancora pudicamente tremebonda, per paura di perdere l’onore, come la sposina dopo il primo amplesso maritale.

([2]) Il Trent è uno dei grandi fiumi d’Inghilterra, scorre nel Midland per 240 km. Strana è però la pretesa di Fletcher - cui si deve la stesura di questo prologo - di limitare la grande poesia entro questi limiti geografici, dove certamente Chaucer è stato uno dei massimi; ma a sud del Po, prima di Chaucer, c’era stata la poesia delle moderne lingue volgari, con la corte di Federico II a Palermo e con il dolce stil novo a Firenze.

([3]) Il riferimento è al “Racconto del Cavaliere” (“The Knight’s Tale”), il primo della raccolta dei “Racconti di Canterbury” di Geoffrey Chaucer, che questi aveva attinto a sua volta dal poema “Teseida” delle leggende del ciclo tebano di Giovanni Boccaccio. Vi si narra la vicenda di due cugini tebani, Palamone e Arcite, caduti prigionieri del Duca di Atene Teseo nella guerra mossa da questo contro il tiranno di Tebe Creonte, guerra iniziata da Teseo il giorno stesso delle sue nozze con la regina delle amazzoni Ippolita, per corrispondere alle insistenti preghiere della regina vedova del re Capaneo e di altre regine i cui mariti re sono caduti combattendo contro lo stesso Capaneo.

([4]) Testo: “And my famed works makes lighter than Robin Hood”: “E delle mie famose opere fa roba più leggera di Robin Hood”. Robin Hood era l’eroe cantato nelle ballate popolari assai in voga nell’Inghilterra di Shakespeare. Era roba da cantastorie e ballatette popolari, e gli intellettuali elisabettiani, drammaturghi in testa, le avevano in dispregio; si veda la parodia che lo stesso Shakespeare ne fa nella 4a scena del IV atto del suo “Racconto d’inverno”.

([5])“Our losses fall so thick…”: questa frase - che altrimenti sarebbe incomprensibile - è stata sempre considerata dalla critica come alludente all’incendio che aveva devastato il teatro del “Globe” durante la rappresentazione dell’“Enrico VIII” (anche quest’opera, come la presente, frutto della collaborazione fra Shakespeare e Fletcher). L’incendio fu provocato da una scintilla di un cannone sparato a salve, che appiccò il fuoco al tetto di paglia.

Da ciò s’è arguito che la rappresentazione di questa commedia abbia avuto luogo o a corte o al teatro aperto dei “Frati Neri”.

([6]) “We must need leave”: può significare “dobbiamo rinunciare a dare altre rappresentazioni fuori del teatro “Globe”, oppure addirittura “dobbiamo abbandonare il mestiere”. Il lettore legga come vuole.

([7]) Questa pomposa didascalia, così diversa da quelle stringatissime apportate dagli editori dell’in-folio (si sa che Shakespeare non si curava di esse, come della divisione in atti e scene dei suoi lavori, che sono opera dei successivi curatori) è verosimilmente dell’editore che ha curato la prima stampa del lavoro, apparso in un in-quarto del 1634. Essa - come nota il D’Agostino (Garzanti, “I grandi libri”, 1994) - “complicata, articolata, particolareggiata, piena di simboli folclorici, ci dà un’idea del gusto che era cambiato nel barocco”.

([8]) Le tre donne sono le vedove di tre dei “Sette a Tebe” del mito cantato dai tragici greci, ossia dei sette condottieri (Adrasto, Polinice, Tideo, Anfiarao, Capaneo, Partenopeo e Ippomedonte) che, guidati da Polinice, si allearono contro Tebe, per togliere il trono a Eteocle, di Polinice fratello, che a questi l’aveva usurpato. I due fratelli, scontratisi in battaglia, si uccisero a vicenda, e lo zio Creonte, divenuto re, sconfisse e uccise gli altri sei, ordinando di non seppellire i loro corpi.

([9]) “The blest eye of Holy Phoebus” è il sole. Febo è l’altro nome di Apollo, personificazione della luce solare, fonte di vita. “Blest” è contrazione di “blessed”, participio passato di “bless”, “benedire”.

([10]) Teseo, dopo Ercole, è l’eroe più famoso della mitologia greca, autore anche lui di favolose imprese (uccisione della feroce scrofa Fea; liberazione dell’Attica dai ladroni; uccisione del Minotauro; caccia al cinghiale calidonio; lotta contro i Centauri, ecc.). Qui la dama lo invoca come “purificatore della terra” (“purger of the earth”).

([11]) S’intende la volta del cielo.

([12]) Reminiscenza omerica. Non un manto, però, ma un cinto è quello che Giunone si fa prestar da Venere per sedurre Giove:

“… il bel trapunto e vago

cinto si sciolse, in che raccolte e chiuse

erano tutte le lusinghe…”

(Omero, “Iliade”, XIV, 269-271).

Ma il testo ha “Juno’s mantle”, e il successivo “spread her” intende proprio “manto”.

([13]) Cioè affascinato dalla malia dei suoi occhi.

([14]) La pelle del leone di Nemea, che Ercole, ancora giovane (la prima delle sue 12 fatiche), aveva ucciso e scuoiato. Di questa pelle l’eroe è raffigurato rivestito nella iconografia classica.

([15]) Bellona era la dea romana della guerra. Teseo non la poteva conoscere. È uno dei perdonabili anacronismi di Shakespeare.

([16]) Qui Shakespeare allude all’uccisione del gigantesco cinghiale che Artemide inviò a devastare il regno di Eneo, re di Caledone, nell’Etolia. Ne parla Stazio nella “Tebaide”, II, 682-690, e Ovidio, nell’VIII libro delle “Metamorfosi”, due autori che Shakespeare conosceva. La bestia aveva la mole di un toro, le zanne lunghe e taglienti come falci, le setole dure e acuminate come dardi, l’alito pestifero. Alla caccia di essa presero parte principi illustri, oltre a Teseo: Castore, Polluce, Giasone, Pritoo, Linceo, Ida, Acasto, Telamone, Peleo, Nestore, Anfiarao, e una donna, Atalanta, moglie di Meleagro. Fu questi ad uccidere il cinghiale. Ippolita, regina delle Amazzoni, non partecipò a tale caccia. Shakespeare qui la confonde con Atalanta.

([17]) “If that you were the ground piece of some painter”: “ground-piece” è “statua poggiata a terra su un piedistallo”, opera di scultore, ma “some painter” fa pensare ad una statua - di marmo, di stucco, di legno - alla quale un pittore abbia dato il colore; come quella di Ermione nel “Racconto d’inverno” che Shakespeare fa dire a un gentiluomo essere stata “completata” da un maestro italiano, Giulio Romano.

([18]) “Let us be widows to our woes”; intendi: “lasciamo il nostro dolore a piangere, vedovo di noi cui non resta più nulla da fare per lenirlo”. Forma artificiosamente barocca per esprimere il disappunto della donna di fronte alla decisione di Teseo di procedere al rito delle nozze, e di ritardare quindi l’azione contro Creonte.

([19]) “Famishing hope”, letteralmente: “speranza che sta per morire di fame”.

([20]) Di questo nome si è conservata, ai fini della metrica, la pronuncia sdrucciola dell’originale greco (“Peirìthoos”).

([21]) “I stamp this kiss upon thy current lip / sweet, keep it as my token”: serie di doppi sensi, incastrati uno dentro l’altro, come spesso in Shakespeare; “I stamp” è “io premo” ma anche “io conio”; “thy current lip” è “il tuo labbro fuggente” ma anche “il tuo labbro moneta corrente” (cioè buona); “as my token” è “come mio pegno d’amore” ma anche “come mio sigillo” (il sigillo di metallo per stampigliare la moneta).

([22]) Shakespeare mette qui in bocca alle vedove regine - e a Teseo, nella battuta successiva - la concezione rinascimentale dell’uomo-portento, l’“homo rationalis”, dominatore delle sue passioni grazie all’impero della ragione. Teseo, a differenza di Eracle, che è semidio (è figlio di Zeus e Almena), è uomo mortale (anche se in seguito sarà anch’esso venerato come un semidio e avrà un tempio, il “Theseion”); come tale, è superiore agli dèi nel dominare a sua scelta le passioni, alle quali gli dèi sono costretti dalla loro stessa natura di essere divini, gli animali dell’istinto.

([23]) Reminiscenza omerica. Per gelosia, Giunone si vendicò di Paride, che aveva assegnato a Venere il pomo destinato “alla più bella” dalla dea Discordia, scatenando la guerra di Troia, durata dieci anni. Palamone se ne augura una simile, come se la guerra sia la medicina migliore per emendare la corruzione dei costumi favorita dalla lunga pace.

([24]) Non è nel testo.

([25]) Cioè in un creditore insoluto, inseguito dal sarto per i vestiti non pagati.

([26]) Qui Shakespeare, come già aveva fatto altrove (v. la “tirata” di Mercuzio in “Romeo e Giulietta”, II, 4, 26 e segg.) satireggia sul vezzo dei contemporanei di rinnegare l’austerità degli avi per scimmiottare le mode che vengono di fuori. Qui siamo nella Tebe antica, ma è chiara l’allusione ai tempi contemporanei del poeta..

([27]) Sullo stato delle strade di Londra nel ’500 c’è un cenno nella “Cena delle ceneri” di Giordano Bruno, che, com’è noto, soggiornò a Londra nel 1583; erano fangose, sporche e maleodoranti, e ci si doveva camminare spesso in punta di piedi per evitare di lordarsi. Qui siamo a Tebe del V sec. a.C., ma, come è consueto in Shakespeare, i due parlano come due nobili della Londra del sec. XVI.

([28]) La vicenda è cantata nei libri I, 748 e segg., e II, 19 e segg., delle “Metamorfosi” di Ovidio. Fetonte, per una contesa col suo coetaneo Epafo, ottiene dal padre Febo di condurre il carro del sole, trainato nel cielo dai cavalli alati; ma questi, come si accorsero di non avere la stessa guida, abbandonarono il consueto percorso, e Fetonte non seppe più dominarli, sicché il carro si avvicinava paurosamente alla Terra. Zeus, allora, per evitare maggiori calamità, fulminò il temerario giovinetto, e lo precipitò nell’Eridano. Febo dovette urlare e frustare a morte i cavalli per riportarli nel giusto percorso.

([29]) Si è tradotto a senso un testo incredibilmente involuto, che, tradotto letteralmente, suonerebbe così: “Eppure (“Yet”) qualunque uomo riduce a un terzo il suo valore - ed è il caso di ciascuno di noi - quando la sua azione è ritardata da una mente che sa che la sua causa è ingiusta”.

([30]) I testi qui non hanno didascalia di scena. Il traduttore, per agevolare la lettura - cui, si ripete, questa traduzione è essenzialmente intesa - si è arrogato la libertà di dare questa indicazione. Il regista - o il lettore - si costruisca la scena a suo talento.

([31]) V. la nota n.15.

([32]) Ippolita ed Emilia sua sorella sono amazzoni, popolo di donne guerriere che si bruciavano, o tagliavano, o comprimevano la mammella destra per meglio impugnare l’arco. Parteciparono, sotto la guida di Pentesilea, alla guerra di Troia. Ippolita è il premio che si attribuisce Teseo, dopo la vittoria su di loro. Nel “Sogno d’una notte di mezza estate” I, 1, 16 e segg., egli le dice: “T’ho corteggiata con la spada, e ho vinto l’amor tuo con la violenza”.

([33]) Testo: “Which shall be then / beyond further requiring”: “Che (la pace) dovrà essere allora al di là d’ogni ulteriore richiesta”.

([34]) “You were at wars when she the grave enriched / “who made too proud the bed…”. Qui, come altrove prima, ma in forma forse più flagrante, la grammatica di Shakespeare va a briglia sciolta; quel “who” riferito a “she”, che leggerebbe: “che fece troppo orgoglioso il letto”, che non significa niente, è decisamente una contorsione. Noi l’abbiamo letta come sopra. Ma chi sa che cosa ha voluto dire il copione?

([35]) Il mitico uccello creato dalla fantasia degli antichi Egiziani, che dopo esser morta bruciata dal calore del sole nel suo nido di nardo e mirra, si diceva risorgesse dalle sue ceneri a nuova gioventù ogni cinque secoli.

Così Dante (“Inferno”, XXIV, 106-111), seguendo Ovidio (“Metamorfosi”, XV, 392 e segg.):

“Così per li gran savi si confessa

“che la Fenice more e poi rinasce

“quando al cinquecentesimo anno appressa”.

([36]) Qui Teseo parla di se stesso; il suo mito è quello dell’eroe più avventuroso di Grecia, che dopo tante peripezie finisce ucciso a tradimento, precipitato da una rupe dal re Licomede di Sciro, presso il quale si era rifugiato. Come faccia però a sapere di fatiche e traversie incontrate dai due giovani cugini tebani, che ha testé conosciuto, non è detto.

([37]) Le carceri elisabettiane (e non solo le carceri) non avevano vasi da notte; in loro sostituzione si usava cospargere il pavimento di paglia, sulla quale ciascuno faceva i suoi bisogni, dopo di che essa veniva spazzata per essere usata come concime negli orti e nei giardini.

([38]) “’Tis pity they are in prison, and ’twere pity they should be out”: letteralm: “È un peccato che siano in prigione, ma sarebbe un peccato se dovessero uscirne”; è il primo tocco della simpatia della ragazza per i due nobili cugini.

([39]) Secondo l’“Oxford Shakespeare” (cit.) qui comincia la seconda scena del II atto, com’è nell’edizione in-quarto. Accettiamo tuttavia, col Vittorini (Ediz. Garzanti, 1994) che segue a sua volta il suggerimento dell’edizione “Penguin” curata dal Bawcutt, l’emendamento che fa continuare la scena prima. Lo scenario infatti è lo stesso; solo che il palcoscenico del teatro elisabettiano è diviso in due piani, uno al livello della platea, e un soppalco: i due entrano su questo, in alto.

([40]) “The red-eyed god of war”: “… il dio della guerra dagli occhi rossi di fiamma”.

([41]) Il testo ha semplicemente “unmarried”, “non sposati”; ma da quel che viene dopo, si capisce che Arcite pensa alla famiglia e alla prole.

([42]) “Like a Partian quiver”: alcuni traducono “come una faretra partica” (perché “quiver” ha il doppio significato di “faretra”, se usato sostantivamente, e “rapido”, “veloce”, se aggettivo). L’immagine della faretra è suggerita dal fatto che i guerrieri parti erano famosi per simulare la fuga e poi girarsi e sorprendere gli inseguitori con frecce scagliate all’indietro; il cinghiale ferito e inseguito dai cacciatori sarebbe quella faretra. Ma perché la faretra e non il Parto stesso? E perché non intendere semplicemente “veloce come un parto”?

([43]) S’intende non gli dèi, ma “quelli” della corte di Creonte.

([44]) Il mito di Narciso, il bellissimo fanciullo figlio del fiume Cefiso e della Ninfa Liriope, è cantato da Ovidio nel II libro delle “Metamorfosi”.

([45]) S’intende di “buon cuore” verso Narciso.

([46]) Battuta di fulminante contenuto drammatico. Palamone improvvisamente preso per Emilia si sente quel che non s’è sentito mai prima: prigioniero, ma d’amore.

([47]) Testo: “And leaves him to base briars”: “briar” (o “brier”) è il cespuglio/rovo di rosa canina o rosa di macchia (cfr. Spencer, “Sweet is the rose, but growes upon a brere”).

([48]) Queste due battute giocano sul doppio senso dell’espressione “Laugh and lie (or lay) down” che era il nome di un vecchio gioco di carte, ma significa anche “ridere e giacersi”. EMILIA dice: “Mi metterei a ridere (“I could laugh now”); la DONNA prende al volo il “laugh” e, pensando al gioco delle carte, ribatte: “I could lie down”, che completa il bisticcio.

([49]) Il testo ha: “… o che sia figlio di uomo” (“… or… that is a man’s son”).

([50]) “If I hazard thee and take thy life, I deal but truly”; senso: “se lo farò, sarà colpa tua, perché avrò agito coerentemente alla pazzia che tu m’imponi”.

([51]) “And me too / even when you please of life”: sottintende il “privarmi” precedente del carceriere. Palamone ha, come primo pensiero, quello che il Duca abbia mandato a chiamare Arcite per ucciderlo; subito dopo, però, pensa ben altro.

([52]) Palamone crede che Emilia sia la figlia di Teseo.

([53]) Testo: CARCERIERE: “… for you / I have this charge too…”. PALAMONE: “To discharge me?”. Gioca sul doppio senso di “charge” che è “incarico” ma anche “carica di polvere in un’arma da fuoco”, e “discharge” che è “disimpegnare un incarico” ma anche “scaricare un’arma (contro qualcuno)”.

([54]) “A new morris”: “morris” sta per “morris-dance”, una danza popolare, molto rumorosa, grottesca, ballata da persone in fantasiosi costumi normalmente ispirati alla leggenda di Robin Hood. Qui Palamone dice al carceriere che gliene farà sentire una altrettanto rumorosa, ma di nuovo tipo, perché fatta a suon di catene.

([55]) Perifrasi per “sollecitare i cavalli attaccati all’aratro col pungolarli sulla coda”.

([56]) “He’ll eat a hornbook”: “hornbolck” era un foglio di carta sul quale erano scritte le lettere dell’alfabeto, i primi dieci numeri, alcune regole di pronuncia e il “Pater Noster”, che gli insegnanti di religione - che insegnavano anche grammatica ai ragazzi, ed erano dei religiosi - portavano inquadrato in una cornice di legno e ricoperto da una lamina d’osso trasparente.

([57]) “Shall we be lusty?”: chi parla è un uomo di campagna che va alla festa del calendimaggio in città e alla rappresentazione che ha preparato coi compagni per la festa dinanzi al re.

([58]) Frase scurrile, di senso oscuro.

([59]) Che c’entrano qui i tessitori, non si capisce bene. Forse il contadino, che ha cantato, pensa ai tessitori olandesi che a Londra cantavano sempre mentre lavoravano.

([60]) “His learning makes no cry”: “non abbaia più”; l’immagine è tratta dalla caccia, e si dice del cane che perde la traccia della preda e cessa di abbaiare.

([61]) “Every man to his tackle”: è linguaggio marinaro, “ciascun uomo al suo strumento”.

([62]) “My mind misgives me”: è la stessa frase di Otello (III, 4, 90).

([63]) Il “colpo d’anca” (“trip of the hip”) con “presa di spalla” è uno dei tipici movimenti della lotta greco-romana.

([64]) Cacciare col falcone, conoscenza dell’arte di cavalcare e di controllare una muta, oltre al guerreggiare, erano attività che distinguevano i nobili dal popolo minuto.

([65]) “Fair-eyed honour”: “onore dall’occhio limpido e bello”. Chiara allusione a Emilia.

([66]) Il testo ha “to your travel”, dove “travel” è usato evidentemente nel suo duplice significato di “viaggio” e di “travail”, etimo dal quale “travel” deriva e che significa “fatica”, “sforzo”, “prestazione fisica”.

([67]) “My father / Dust better have endured cold iron than done it”: frase di significato incerto. Per dargliene uno, ho riferito quell’“it” a “heart” (“cuore”) contenuto nel precedente “stout-hearted” (“stout-hearted child”, “bambino dal cuore tenace”).

([68]) Ad Arcite, che l’ha chiamato “caro cugino” (“Dear cousin”) Palamone risponde “Couzener Arcite”, dove “couzener”, da “couzen”, omofono di “cousin”, vuol dire “truffatore”, “falso”. È un gioco di doppi sensi frequente nel teatro elisabettiano dove “cugino” si diceva indifferentemente “cousin” e “couzen”.

([69]) Lo spettacolo degli orsi legati contro i quali si lanciavano terribili mastini era frequente nelle strade di Londra.

([70]) “And do the deed with a bent brow”, letteralmente: “E fa quel che devi fare (per me) con fronte aggrottata”.

([71]) Cioè con uno spargimento di sangue.

([72]) Salse e mostarde piccanti s’usavano nelle corti per togliere alla selvaggina l’odor di selvatico.

([73]) Arcite ha detto “Venison”, “selvaggina”, “cacciagione”, che si pronuncia come “wench”, “puttana”.

([74]) Il testo ha: “to the wenches / we have known in our days”, “delle ragazze che abbiamo conosciuto ai nostri giorni”.

([75]) Questa battuta lascia intendere che non vi sono bicchieri, che i due bevono alla bottiglia, che Palamone offre ad Arcite, ma che questi rifiuta per dare la precedenza al cugino.

([76]) Doppio senso scurrile: “virginals” (al plurale) era uno strumento a tastiera, assai comune nell’Inghilterra del XV sec., una specie di spinetta, ma chiuso in una scatola, senza piedi. Ma “virginalling”, unica forma di un inesistente verbo “to virginal” si diceva di qualcosa che si titillava con le dita, come su una tastiera (come nel “Racconto d’inverno”, I, 2, 125: “virginalling upon hi palm”). Palamone l’usa qui in questo senso.

([77]) Era antica credenza popolare che l’usignolo, per restare sveglio e cantare di notte, premesse il petto contro le spine di rovo.

([78]) “Like a top”: è l’immagine della sommità di un perno che gira vorticosamente e sembra che stia immobile; così una trottola che prilla. “Picchio” è il nome dialettale della trottola.

([79]) “Ye jeans judgements”: “Jean” è il nome inglese di Genova, dove si fabbricava una specie di fustagno ruvido, che da lì prese il nome (l’antenato dei nostri “jeans”).

([80]) Espressione d’un latino maccheronico, senza senso. Shakespeare si compiace, qui, come altrove, di mettere in bocca ai pedanti questo tipo di strampalate locuzioni.

([81]) “Ye are all dunces”: “Dunces” si chiamavano i seguaci della setta religiosa che s’ispirava alla teologia scolastica di Duns Scoto; il termine finì per significare, in generale, “corto di intelletto”, “lollard”.

([82]) Meleagro, l’eroe del mito greco, che prese parte alla caccia contro il cinghiale calidonio, e lo uccise. (v. la nota n.16).

([83]) Il maestro di scuola fa sfoggio di latinorum: questa volta va a scomodare Cicerone. “Quousque tandem, Catilina, abutere patientiae nostrae” è l’inizio di una delle orazioni catilinarie dell’Arpinate (“Fino a quando…”).

([84]) “We may go whistle”; all the fat’s in th’fire”: sono due frasi idiomatiche, una dentro l’altra. “To go whistle” (“andar fischiando”) significa: “to occupy oneself to no purpose”, “lavorare a vuoto”; “all the fat is in th’fire”, sta per “the design has irrimediably failed” (Oxford Unoiversal Dictionary).

([85]) “We have… washed a tile”: altra espressione idiomatica per significare “we have laboured in vain”.

([86]) Vani, senza effetto.

([87]) Si dice che a marzo le lepri vanno in amore e sono facile preda dei cacciatori.

([88]) Testo: “And let him play “Chi passa” o’ th’bells and bones”; “Chi passa” sono le prime parole della strofa di una canzone a ballo italiana, conosciuta allora in tutta Europa; “o’ th’bells and bones” non significa niente, e si tratta, probabilmente - come nota il Vittorini - dell’anglicizzazione dell’italiano “belle e buone”. Così l’abbiamo intesa.

([89]) Citazione da Ovidio, “Metamorfosi”, XV, 871: “e una fatica portai a termine che né l’ira di Giove né il fuoco…”.

([90]) Teseo gioca sul doppio senso della parola “hail”. Geraldo li ha salutati con “all, hail” (“Thou, doughty all hail; all hail, sweet ladies”) che significa “evviva”, “salve”, e simili espressioni di saluto; ma anche “grandine”.

([91]) “From post to pillar”: immagine tratta dal gioco del tennis, della palla che va da un capo all’altro del campo.

([92]) Geraldo presenta con una specie di sciarada la danza (“Moresca”) che i suoi si apprestano a fare.

([93]) “Lord of May and Lady Bright” sono i personaggi di una delle tre rappresentazioni teatrali eseguite nel 1613 in occasione delle nozze della principessa Elisabetta, figlia di Giacomo I, con Federico V, elettore palatino e re di Boemia: “The Masque of the Inner Temple and Gray’s Inn”, un lavoro di Francis Beaumont, che ebbe grande successo.

Le citazioni e i riferimenti reciproci erano frequenti tra gli autori del periodo elisabettiano.

([94]) “The beest-eating clown”: “beest” è il primo latte (siero) che esce dalle mammelle, specialmente della mucca, subito dopo il parto. È causa spesso di malattia dei neonati (“colostratio”).

([95]) Poiché la moresca si danza in coppia, alcuni testi danno la loro formazione: Messer Maggio con Monna Luce; la cameriera con il famiglio; una contadina con un contadino; l’oste con l’ostessa; il babbuino con la babbuina; il buffone (lo stesso Geraldo) con la figlia del carceriere.

([96]) Di alberi, s’intende.

([97]) “And here’s something to paint your pole withal”: frase di significato incerto; il più verosimile è che essa accompagni il gesto di Piritoo mentre dà del denaro a Geraldo.

([98]) “May the stag thou huntest stand long”: “Possa il cervo che cacci fermarsi a lungo davanti a te (per darti più lunga emozione)”. Ma è anche questa un’interpretazione dubbia.

([99]) “Per tutti gli dèi e le dee ”.

([100]) “To whom the birthright of this beauty… pertains”: “birthright” è l’insieme di diritti e privilegi spettanti per nascita, anche “diritto di primogenitura”; tra due nobili pari per nobiltà tale diritto può solo essere affermato colle armi.

([101]) “Though I had died”: “a costo di morire”.

([102]) “The law will have the honour of our ends”: la “Legge”, cioè “il patibolo” che essa commina a chi la infrange.

([103]) “Officers of arms”: erano gli arbitri dei duelli tra cavalieri a ciò nominati dal Marshall of Arms.

([104]) Eracle, secondo Plutarco, è cugino di Teseo.

([105]) Intendi: gli occhi che si sono innamorati della mia bellezza.

([106]) “But why all this haste, sir?”. È la ripetizione, con altri termini, della prima domanda del carceriere: “Perché me lo chiedi?”, che lascia intendere come lo Spasimante sia entrato in scena precipitosamente, in cerca della figlia.

([107]) “We’ll dance an antic”: si chiamava “antic” una rappresentazione a gesti e movimenti grotteschi (cfr. “Pene d’amore perdute”, V, 1, 91: “Some… show, or pageant, or antic…”).

([108]) “Willow, willow, willow”: è la stessa canzone che canta Desdemona nell’“Otello”, IV, 4, 40-56. Il salice era il simbolo dell’amore infelice, e sempre, in Shakespeare, il leit-motiv che accompagna gli amanti sfortunati (cfr. “Amleto”, IV, 7, 167; “La dodicesima notte”, I, 5, 253; “Il Mercante di Venezia”, V, 1, 25). Il racconto della follia della Figlia del Carceriere, fatto dallo Spasimante, riecheggia quello della morte di Ofelia, raccontato da Gertrude, nell’“Amleto”, IV, 7, 167-184. In questo caso - nota il Vittorini nella sua traduzione (Garzanti, 1994) - “possiamo presumere che sia un omaggio di Fletcher (cui dai critici viene assegnata la stesura di questa scena) al “miglior fabbro”.

([109]) “The Broom” e “Bonny Robin” sono i titoli di canzoni popolari inglesi del ’500. Anche Ofelia nell’“Amleto” (IV, 5, 187) intona alcuni versi del “Bonny Robin”: “Perché il mio dolce Robin / è tutta la mia gioia”.

([110]) Qui come altrove nelle canzoni intonate dalla Figlia del Carceriere il copione ha “etc…”; segno che il pubblico le doveva conoscere.

([111]) La ragazza pensa sempre a Palamone.

([112]) “Hell tickle it up in two hours”: “to tickle up” si dice del sistema della pesca della trota con le mani, così descritto da J. R. Jefferies (1848-87) in “The amateur Poacher”: “Tickling for trout is tracing into the ston e it lies under, then rubbing it gently beneath, wich causes the fish to gradually move backwards into the hand, till the fingers suddenly close in the gills”. L’immagine, applicata alle fanciulle, è lasciva; ma la Figlia del Carceriere, come Ofelia, nella sua follia d’amore è come se si liberasse da ogni freno inibitorio della sua sensualità. (Nello stesso senso, v. l’uso di “tickling” in “La dodicesima notte”, II, 5, 19: “For here comes the trout that must be caught by tickling”).

([113]) L’edizione dell’“Oxford Shakespeare” curata da S. Wells e G. Taylor, 1994, da noi seguita, ha qui “uff, uff, uff!”, detto sempre dalla Figlia del Carceriere. Altri hanno “o, o, o!” gridato da tutti gli altri. Più sotto ha “bowline”, termine marinaresco (“Top the bowline”), “bolina”, in luogo di “bowling” che qui non ha senso. Tutta questa scena, in cui i personaggi secondano la follia della ragazza, immedesimandosi nell’azione marinara da lei immaginata, è un chiaro espediente scenico per divertire il pubblico.

([114]) “Let’s get her in”: quell’“her” riferito alla nave piuttosto che alla ragazza - come hanno inteso altri - è sembrato più aderente al testo; la personificazione dei navigli è comune nella lingua inglese.

([115]) Ganimede, il bellissimo giovinetto, figlio di Troo e di Calliroe, fratello d’Ilo e d’Assaraco, prozio di Primao, che Zeus rapì sul monte Ida, dopo essersi mutato in aquila,

“… perché fosse a Giove

“di coppa mescitor per sua beltade,

“ed abitasse con gli Eterni”.

(Omero, “Iliade”, V, 347-51. - Trad. V. Monti).

([116]) Era/Giunone era rappresentata con occhi molto grandi, e coi caratteri d’una bellezza maestosa e nobile:

“… chinò la veneranda Giuno

“i suoi grand’occhi paurosa e muta…”

(Omero, “Iliade”, I, 743 e segg. - Trad. V. Monti)

([117]) “Pelop’s shoulder”: Pelope, figlio di Tantalo, fratello di Niobe e padre di Atreo e Tieste. Suo padre, per provare la onniscienza degli dèi, offrì a mensa ad alcuni di essi le membra cotte del figlio; ma gli dèi le rifiutarono. Solo Demetra/Cerere mangiò una spalla del fanciullo; ma Zeus ne ricompose il corpo e gli restituì la vita, ed Ermes/Mercurio costruì una spalla d’avorio che sostituì quella mancante:

“Pelope, insigne per l’omero d’avorio

“e valente nell’arte dell’auriga…”.

(Virgilio, “Georgiche”, III, 7-8).

([118]) “Thou are a changeling to him”: “changeling” è il bambino che viene furtivamente scambiato con un altro nella culla. Era credenza che ciò facessero le fate o gli zingari, sostituendo i bimbi belli con esserini o folletti deformi. La parola si ritrova altrove in Shakespeare: nel “Sogno d’una notte di mezza estate” (“… a little changeling boy”, II, 1, 120), dove però “changeling” è il bimbo che Tatiana non ruba, ma prende ed alleva dalla madre morta nel partorirlo; nel “Racconto d’inverno”, III, 3, 111, dove il pastore, indicando il fagottelo dove è racchiusa la neonata Perdita, dice “This is some changeling”; in “Amleto”, V, 2, 53, dove però il termine è usato per “sostituzione furtiva di un documento” (“The changeling never known”).

([119]) Testo: “Thick-twined like ivy tods / not to undo with thunder”: “strettamente intrecciati come ciuffi d’edera, da non esser scompigliati dal tuono”; si riferisce alla credenza popolare secondo cui un ciuffo d’edera a mo’ di corona sulla testa proteggeva da tuoni e fulmini.

([120]) Non si sa se la Figlia del Carceriere nomini qui proprio Geraldo, il capocomico della compagnia dei contadini, e lo promuova maestro d’Emilia.

([121]) L’infelice amore di Didone, regina di Cartagine, è invenzione poetica di Virgilio, cui s’ispirarono molti madrigalisti italiani del ’500 e del ’600. Ma Enea era vissuto tre secoli prima della fondazione di Cartagine.

([122]) È il mito di Caronte, il nocchiero che trasportava le anime dei morti al di là dello Stige e del Flegetonte, e al quale ognuno doveva lasciare un obolo; onde si metteva in bocca al defunto una moneta d’oro o d’argento.

([123]) Il fegato, nell’anatomia medievale, era la sede della passione.

([124]) Proserpina è la divinità che i Romani identificarono con la greca Persefone, moglie di Ade, re dell’Inferno.

([125]) “They have shrewd measure”: “measure” è qui - come nel titolo della commedia “Measure for Measure” - il “do ut des” dell’infernale contrappasso, che trae origine dal passo biblico: “… For, with what judgement ye judge, ye shall be judged; and with what measure ye mete, it shall be measured” (“The Matthew Bible”, VII, 2).

([126]) I condannati per violenza carnale venivano liberati dalla pena se sposavano la donna stuprata.

([127]) Il dottore fa sfoggio di ampollosa e artificiosa retorica; il personaggio - come altri della sua specie (v. il dottor Cajus delle “Allegre comari di Windsor” e il medico di Lady Macbeth) - gli offre il pretesto per una parodia, di una comicità patetica che doveva divertire il pubblico.

([128]) “Your ire is more than mortal; so your help be”: frase di senso incerto; può essere intesa in senso attivo (“La vostra ira è più che mortale; così sia l’aiuto che dovete mutualmente darvi”) o passivo: “La vostra ira è più che mortale (cioè sovrumana); così sia l’aiuto che dovete ricevere (per vincere: cioè dagli dèi)”.

([129]) “… must put my garland on me, where she sticks, the queen of flowers”: “sua” è riferito a vittoria, “ella” a Emilia, che, come premio della vittoria, siede nella ghirlanda come il più bel fiore. Il motivo della rosa, riferito a Emilia, ricorrerà più sotto.

([130]) Cioè: hai reso rosso di sangue il verde del mare. L’invocazione è a Marte, dio della guerra.

([131]) I segreti d’amore. Venere è qui invocata come la gelosa custode di essi. Tradirli, raccontando ad altri i giochi amorosi con la propria amante, era grave infamia; Palamone dirà più sotto di non essersene mai sporcato.

([132]) Apollo era il dio della medicina oltre che della musica e delle arti. Ma meglio che la medicina lo spirito d’Amore, figlio di Venere, può risanare anche uno storpio.

([133]) Allusione all’abitudine pagana di accendere a mezza estate fuochi per le strade, sui quali i ragazzi si divertivano a saltare. È lo stesso rito della vegetazione che si celebra a marzo-aprile nelle nostre montagne, quando si potano gli olivi e si bruciano gli oleosi loro rami.

([134]) Allusione alla leggenda dell’amore di Apollo per la bella ninfa Dafne, cantato da Ovidio nelle “Metamorfosi”, I, e da Luciano nei “Dialoghi”.

([135]) Allusione al mito di Diana - la dea della caccia - che si innamora del giovane Endimione mentre dorme (il dialogo fra Diana e Venere sull’argomento in Luciano, “Dialoghi”, VIII, 2).

([136]) V. la nota n. 131.

([137]) “… no more blood that will make a blush”: il sangue (“blood”) era considerato la sede delle passioni, specie dei sensi “the supposed seat of animal appetite” (“Oxford Dictionary”). Diana era la dea della castità.

([138]) “The best hobby-horse”: “hobby-horse” era chiamata la sagoma di cavallo - di legno o altro materiale - che uno dei danzatori della “morris-dance” portava, stretto da una cinghia intorno al petto, e colla quale eseguiva vari movimenti ad imitazione di quelli del cavallo.

([139]) “Light of love”: era il titolo di una canzone lasciva assai in voga al tempo di Shakespeare; è la stessa evocata da Margaret in “Tanto trambusto per nulla”, III, 4, 38.

([140]) “Play at stool-ball”: “stool-ball” si chiamava un antico gioco praticato in campagna, somigliante in qualche modo al cricket; “stool” era la porticina entro la quale il giocatore doveva riuscire a far entrare la palla, vincendo l’abilità dell’altro che doveva difenderla. È chiara l’allusione lubrica dell’immagine di un corpo che penetra attraverso una porta in un altro. La Figlia del Carceriere, come Ofelia, nella sua follia, è come sciolta da ogni freno di verecondia virginale.

([141]) “Those that remain with you”: “to remain (with)” ha spesso in Shakespeare il senso di “to stick in the mind” (Oxford International Dictionary). Che cosa poi voglia dire tutta la frase, è piuttosto oscuro. Forse Teseo vuole intendere: “Facendo così (cioè restando assente) rischi di favorire la vittoria di quello che non vuoi”.

([142]) “Is like an engine bent”: “engine” è termine generale per ogni macchina od ordigno di guerra; “bent” è “teso”, “pronto a scoccare”. Di tali strumenti sono l’arco, la balestra, la catapulta. S’è scelto il primo.

([143]) “Graved”: è “corrugata”, “solcata da rughe”; ma il termine contiene l’idea della tomba (“grave”) del verso successivo.

([144]) Qui Emilia è come se parlasse ad Arcite, di cui ha in mano il ritratto.

([145]) “A love that grows as you decay”; letteralm.: “d’un amore che cresca a misura che invecchiate”.

([146]) Alcide è il noto appellativo di Eracle, l’Ercole dei Romani; deriva dalla parola greca “alkè”, “forza”, o da Alceo, avo putativo dell’eroe; putativo perché Ercole è figlio di Zeus e di Alcmena, questa essendo la moglie legittima di Anfitrione, figlio di Alceo.

([147]) Il testo non ha “usignoli” ma “Filomele”. Filomela è il nome poetico dell’usignolo, derivato a questo uccello dal mito di Filomela, cangiata dagli dèi in usignolo dopo aver ucciso, con sua sorella Progne, il figlio di questa e di Teseo, re di Tracia. Il mito è cantato da Ovidio nelle “Metamorfosi” (VI, 421 e segg.).

([148]) “That in lag hours attend / for grey approachers”: “grey” erano detti per antonomasia i monaci cistercensi o francescani, a causa del colore grigio della loro veste. Senso: “aspettano il prete che venga a dar l’estrema unzione”.

Abbiamo inorridito a leggere, in qualche traduzione, questa frase tradotta così: “… la gotta e il catarro, che in ore tarde tendono agguato ai grigi viandanti”. Poveri gotta e catarro!… E povero Shakespeare!

([149]) Il testo ha soltanto: “sooner than such”, dove “such” (“cotali”) è riferito a quelli “gravati sotto il peso di molte e vecchie colpe” (“halting under crimes many and stale”) da cui Palamone dice di essere, lui ed i suoi cavalieri, diverso.

([150]) Fare la dote di una fanciulla vergine perché potesse accasarsi decentemente era, tra le tradizioni del Medioevo, una buona azione che portava fortuna al donatore.

([151]) Saturno, raffigurato come un vecchio curvato dal peso degli anni e con una lunga barba, era un dio malevolo, corrucciato per la lunga prigionia in cui l’aveva tenuto Giove prima di scacciarlo dal cielo. In “Tanto trambusto per nulla” Don Giovanni rimprovera Corrado, uno dei suoi sicari, che, nato sotto l’influsso di Saturno (“born under Saturn”, I, 3, 9) pretende di insegnargli la bontà e la moderazione.