I fiori di un anno lontano

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I FIORI DI UN ANNO LONTANO

I FIORI DI UN ANNO LONTANO

Radiodramma di

UGO RONFANI

Da IL DRAMMA n. 324 - Settembre 1963

PERSONAGGI

PIETRO MARCHI, operaio

LA VOCE DI MARIA, moglie defunta di Pietro

L'ADDETTO ALLE « HUMAN RELATIONS »

IL CONTROLLORE

IL BARCAIOLO

LA VECCHIA SENZA NOME

IL SINDACO DELLA CITTA' DEI VECCHI

IL MAESTRO

IL PORTALETTERE

LUDOVICO

NONNA MARGHERITA

NONNA GIULIA

IL PENSIONATO CHE GUARDA I TRENI

PAOLA, figlia di Pietro

UN OPERAIO

UN PASSANTE

UNA SEGRETARIA D'AZIENDA

voci di vecchi - voci di operai.

LE MUSICHE

il motivo del lavoro - il motivo del fiume - il motivo del compleanno -

il motivo della sposa morta

Il protagonista del radiodramma « I fiori di un anno lontano» è un operaio che, avendo raggiunto i sessantacinque anni, viene licenziato per raggiunti limiti dì età. L'avvenimento, in sé trascurabile, è invece di capitale importanza per l'operaio. Significa che la sua esistenza — trascorsa per quarant’anni tra la casa e la fabbrica, con le grandi parentesi delle due guerre, del matrimonio, della nascita della figlia, della morte della moglie — viene bruscamente capovolta nelle ragioni e nelle abitudini. Le giornate inoperose dopo tanto lavorare, il silenzio opprimente dopo il frastuono delle macchine che ha scandito il ritmo dei giorni e degli anni, l'intima umiliazione di sentirsi non più necessario: sono queste le sue nuove pene d'uomo. Il fantasma della vecchiaia lo aggredisce alle spalle mentre, per l'ultima volta, lascia la fabbrica che egli Ha visto ingrandirsi. E quanto in lui c'è di ancora vivo si ribella, grida all'ingiustizia. Il viaggio metafisico che il vecchio operaio compie in sogno dopo che, sulla via del ri­torno, sì è fermato a vedere i treni e si è addormentato, indica la difficile, talvolta do­lorosa presa di coscienza della sua nuova condizione. Quando il treno che avrebbe dovuto riportarlo ai luoghi e ai ricordi dell'infanzia sì sarà fermato in aperta campa­gna, e un Caronte che ha le sembianze di un amico morto in guerra l'avrà traghettato oltre il fiume, all'approdo della Città dei Vecchi, l'operaio vivrà, deformati dalla pau­ra, alcuni momenti della sua nuova esisten­za. Nella Città dei Vecchi è un muoversi di ombre fragili, un intrecciarsi di pietosi espedienti per fingere la giovinezza, un ali­mentare ostinate ipocrisie per tenere lon­tani il dolore e la morte. Vane finzioni e inutili ipocrisie: un impulso irresistibile, nato dal precipitare della speranza e dall'of­fesa rinuncia agli scarsi doni offerti al tra­monto della sua vita, lo portano ad abban­donare l'esercito delle ombre e a conti­nuare il viaggio oltre la città e il bosco, nelle praterie avvolte dalle nebbie. Qui, fra le croci e i cipressi, avviene l'incontro con la moglie morta. « Maria, sono disperato — dice l'operaio —. Vorrei mettermi vicino a te. Dormire, non svegliarmi più ». Invece è proprio la moglie morta, lei che non patisce più le offese della vita, ad indicargli con pazienza, come si fa con i bimbi, le consolazioni del suo nuovo stato, le ragioni che lo trattengono al di là del fiume, tra la folla dei vivi. Fra questi motivi c'è, predominante, il loro nipotino, al quale il pensionato potrà dedicare i suoi giorni e trasmettere le sue esperienze. Un vecchio e un bambino: il cer­chio si chiude. E la consolazione è l'ultimo approdo del viaggio.

Così concepito, «I fiori di un anno lon­tano» non è materia per condurre una pole­mica sociale. Si sarebbe potuto effettuare un'indagine sul modo con cui l'operaio viene tagliato fuori, nell'attuale società, dal pro­cesso produttivo; protestare per la lacera­zione che il brusco allontanamento dalla vita aziendale produce nella sua personalità. In tal caso, però, tutto si sarebbe limitato a una. critica delle regole economiche e dei metodi sindacali che determinano l'interruzione di un rapporto di lavoro, a una denuncia pura­mente esteriore delle cause che provocano il dramma, intimo e silenzioso, nell'individuo privato delle abitudini fisiche e morali che davano un equilibrio alla sua esistenza. Ne «I fiori di un anno lontano», anche se una parvenza di ironia accompagna la descri­zione dei « servizi sociali » di fabbrica, non ci sono altri imputati oltre al Tempo. È il Tempo a non avere pietà, a portare innanzi la gioventù e a limitare lo spazio alla vecchiaia.

Il dramma del pensionato è qui, nella sua patetica inutile ostinazione a voler ri­durre il Tempo — che è soprattutto presente e avvenire — alla sola dimensione del passato.

È soltanto possibile (così insegna al­l'operaio la moglie morta) saldare il pas­sato e il futuro consegnando il proprio affetto e le proprie esperienze ai giovani. In questa donazione che non attende ricompensa, il vec­chio può trovare la ragione di vivere.    

U. R.


(Apertura con il « motivo del lavoro »; musica elet­tronica su un tema ritmico insistito, come l'ansito concorde di molte macchine. Da questo motivo si staccano infine, sempre più forti fino al primo piano, i rumori di una grande fabbrica di mon­taggio di automobili: torni, fresatrici gru, cinghie di trasmissione, magli, gruppi per saldatura auto­gena).

La Voce di Segretaria (da un altoparlante, sopra i rumori delle macchine) — Prima catena di mon­taggio, reparto 38 B. Reparto 38 B, attenzione. Il caposquadra Pietro Marchi alla sezione personale, ufficio U. R. (Stacco) Attenzione, il caposquadra... (Missa con).

Pietro         — Ehi, dài ricevuto.

L'Operaio   — Sei diventato importante. Che cosa vorranno?

Pietro         — Che cosa? Pensaci, non è difficile. Dài un'occhiata, intanto.

L'Operaio   — Bene, Pietro.

(I rumori di officina missano con il « motivo del lavoro »; questo si af­fievolisce, diventa un sibilo, si riduce all'ansito di un ascensore. Poi i passi pesanti di Pietro sulle scale e nei corridoi).

La Voce di Segretaria (dall'altoparlante, più ag­graziata) — Informiamo che l'ufficio U.R. ha orga­nizzato, per domenica prossima, una gita sociale alle Cinque Terre riservata agli impiegati dipen­denti. Le prenotazioni si ricevono fino a tutto ve­nerdì. Possono parteciparvi anche i familiari de­gli impiegati dipendenti.

(Dopo il tintinnio di una porta a vetri si passa dall'altoparlante alla voce diretta: segno che Pietro è arrivato).

Pietro         — Pietro Marchi. Mi avete chiamato.

La Segretaria (al dittafono) — Dottore, c'è il capo­squadra Marchi.

L'Addetto alle « Human Relations » (voce ricevuta al dittafono) — Faccia entrare.

La Segretaria — Di là. Il dottore l'aspetta.

(Tempo di silenzio per eseguire).

L'Addetto — Caro Marchi! Venga! Sieda, la prego. Una sigaretta? (Ridendo) Ah, capisco. Lei crede... Nei reparti è proibito ma qui, se vuole... Fumi pure liberamente. Come se fosse a casa sua.

Pietro         — Grazie. Fumo soltanto la pipa.

L'Addetto — Un fumare sano, bravo. Ma non stia lì, sull'orlo della poltrona! Comodo, comodo!

Pietro         — Ho la tuta sporca dì olio, non vorrei...

L'Addetto — Che cosa dice! Come a casa sua, le ripeto.

Pietro         (ride) — A casa mia! Crede che mia figlia, a casa, mi lascerebbe sedere in tuta nella poltrona del salotto? Sentirebbe che strilli!

L'Addetto — Sua figlia. Già, lei è vedovo, Marchi, vero? Ho qui la sua pratica, guardi. Una pratica voluminosa.

Pietro         — Sfido: più di quarant'anni!

L'Addetto — Già. E cos'era la fabbrica, quarant'anni fa? Lei è uno che se lo ricorda, eh?

Pietro         — Bè, gli inizi... Non si sapeva se il mondo sarebbe andato ancora in carrozza o se avrebbe preferito l'automobile.

L'Addetto — E invece, caro Marchi, ha preferito l'automobile.

Pietro         — Il progresso.

L'Addetto — Sono gli uomini come lei che fanno il progresso. Non ce ne dimentichiamo, sa? E anche quando viene il momento...

Pietro         (reazione immediata) — È per questo, al­lora. Lo sapevo.

L'Addetto — Marchi! Che cosa le prende? Che pen­sa mai?

Pietro         — Ho sessantacinque anni. Suonati. È que­sto?

L'Addetto (in fretta) — Sì :ha sessantacinque anni. E io ho l'incarico, caro Marchi, di fare a lei, uno fra i collaboratori più anziani e fidati, i migliori auguri dell'azienda. Perché scuote il capo?

Pietro         — Perché è sbagliato.

L'Addetto — Sbagliato?

Pietro         — Lei parla bene. Oh, se parla bene! Ma è sbagliato lo stesso. Non sa che bisogna lasciarli stare quelli come me, gli anziani? Cosa crede: che nonlo sappiamo di essere vecchi?

L'Addetto — Le  assicuro  che... Lei  ha  compiuto sessantacinque anni e io ho voluto farle gli auguri, personali e dell'azienda. Tutto qui.

Pietro         — Capito. (Una pausa) Avanti, dica.

L'Addetto (sconcertato) — Gli auguri perché possa vivere a lungo, serenamente. Siete rimasti in pochi, voi pionieri. E il programma dell'azienda - la sua politica, direi - è quello di preoccuparsi del vostro avvenire, anche quando lasciata la fabbrica...

Pietro         — C'è un preavviso, mi pare.

L'Addetto — Di regola quindici giorni. Ma non ha importanza: un mese, un giorno... Secondo le esi­genze individuali.

Pietro         — Allora preferisce staccare subito.

L'Addetto — « Staccare »?

Pietro         — Il licenziamento: giù in fabbrica lo chia­mano così.

L'Addetto — Noi diciamo « congedo », è più bello. Nel suo caso, caro Marchi, « congedo per limiti di età ».

Pietro         — Da domani, allora.

L'Addetto — In base al contratto lei dovrebbe lavo­rare ancora quindici giorni. Se però preferisce che il congedo sia immediato, faccia pure. Non perde alcun diritto, è un'agevolazione che le fa l'azienda.

Pietro         — È meglio. Contare i giorni, stare a sen­tire i saluti: un'agonia. Invece uno scompare, e buonanotte.

L'Addetto — È molto spiacevole?

Pietro         — Quarant'anni, gliel'ho detto.

L'Addetto (sfogliando delle carte) — Guardavo qui, nella sua pratica, per cercare una ragione che giu­stificasse un prolungamento  del  servizio.

Pietro         (riaccendendosi) — Una ragione c'è!

L'Addetto — Dica. In fondo, se potessi agevolarla...

Pietro         (c.s.)— Senta: ho sessantacinque anni, è vero. Ma non mi sento vecchio, sa? Non mi sento vecchio, parola. Guardi la tabella delle assenze, guardi. Un'influenza, tanti anni fa. Due giorni nel '56, quando morì mia moglie. E basta. Sono forte, me la sento ancora.

L'Addetto — Questa non è una ragione, caro Mar­chi. La regola è: a sessantacinque anni. Ci fossero motivi di famiglia, situazioni economiche partico­lari... Ma lei è vedovo; ha una figlia sola, sposata; una discreta pensione... Proprio non vuole goder­seli in pace, questi anni?

Pietro         — Ma, non so. Il fatto è che uno si abitua. Sempre la stessa strada, la stessa gente, gli stessi rumori. La mensa: si parla, si ride. Le auto nuove che passano davanti agli occhi sulla catena di mon­taggio. Se gli levano queste cose uno si sente come un rottame.

L'Addetto — Vi siete affezionati troppo, questo è il male.

Pietro         — Quarant'anni: un vizio.

L'Addetto — La vita  non è tutta qui,  sa?  (Una pausa) Animo, caro Marchi, animo!  Guardi, vede quella carta appesa al muro? È una pianta della città. E quegli spilli con la capocchia rossa, li vede? Sono tutti i nostri pensionati, sparsi nella città. Guardi, metto uno spillo qui, nel suo quartiere, proprio sopra la sua casa. Sa perché?

Pietro         — Perché sono un ferrovecchio.

L'Addetto — No, perché vogliamo continuare ad occuparci di lei, sapere come vive, informarci sulla sua salute e sulle sue necessità.

Pietro         — Il panettone e la maglia di lana a Natale.

L'Addetto — E la mutua aziendale, le gite del grup­po anziani, le gare di bocce... Un'organizzazione as­sistenziale al servizio dei nostri dipendenti.

Pietro         — Quello spillo, ha visto? Da un momento all'altro sono diventato uno della Città dei Vecchi.

L'Addetto — Una città di gente serena, direi. Noi provvediamo a tutto. Finirà per trovarsi bene, ve­drà. E se qualche volta, come succede soprattutto in principio, si sentirà un po' - come dire? - sfa­sato, si faccia vedere. Qui, caro Marchi,  troverà sempre degli amici. Sì, è inutile che scuota il capo : degli amici. L'azienda non dimentica che lei è uno dei pionieri; che l'ha fatta anche lei, la prima auto­mobile. Su, che le prende adesso?

Pietro         — Niente. Pensavo a quell'automobile. Sa che fece meno di duecento metri e poi si fermò?

L'Addetto — Poi, poco per volta, eh? Può essere fiero. L'ha fatta anche lei, questa fabbrica.

Pietro         — Oh, non ho fatto niente, io.

L'Addetto — L'ha fatta anche lei, ripeto. Senta, sa che le dico? Fra un paio di mesi torna da me, e io le faccio visitare il nuovo reparto di montaggio. È quasi finito, e lei lo vedrà prima del ministro. Intesi?

Pietro         — Grazie. Mi basterà vederlo di fuori, dai cancelli. Non voglio dare del disturbo.

L'Addetto — Disturbo? Un piacere!

Pietro         — Quando si è vecchi bisogna mettersi da parte. Stia tranquillo, dovrà occuparsi di me soltanto il giorno in cui toglierà quello spillo sulla carta.

L'Addetto (contrariato) — Tutti così, questo modo di mettersi da parte, di diventare ombre, di tacere. Perché ci rimproverate? È colpa dell'azienda se il tempo passa, se i vostri figli vengono qui a cer­care lavoro?

Pietro         — Non è colpa di nessuno. È l'abitudine di vivere in fabbrica, per anni e anni. Uno si sente vuoto, dopo. Come un malato, senza energie, senza forze.

L'Addetto — Noi facciamo il possibile.

Pietro         — Lo so.

L'Addetto — Bene. (Stacco) Allora, non vuole fare questi ultimi giorni qui con noi, nella sua fabbrica?

Pietro         — No.

L'Addetto — Domani?

Pietro         — Sì.

L'Addetto — Deve ancora salutare gli amici. Faccia presto, o se ne andranno. Il suo turno sta per finire.

Pietro         — Meglio. Domani non mi vedranno più, e sapranno che ho cominciato a fare il signore.

L'Addetto — Come vuole. E si ricordi, lei fa sem­pre parte della famiglia.

Pietro         — Lo so, lo spillo.

L'Addetto — La manderemo a chiamare nei pros­simi giorni, per la liquidazione.

Pietro         — Bene.

L'Addetto — Devo essere sincero? Avevo sperato che la prendesse meglio.

Pietro         — Oh, non ci faccia caso. Il primo momento, poi mi abituerò.

L'Addetto — Glielo auguro.

Pietro         (dietro al suo ricordo) — Sa che cosa fece l'ingegnere quando la prima macchina, fatti due­cento metri, - paf! - e si fermò in fondo al cortile? « Ragazzi, - disse - o ci tiriamo su le maniche o finiamo tutti a chiedere l'elemosina ». Prese qual­che chiave inglese e andò lui stesso a smontare il motore.

L'Addetto — Un grand'uomo.

Pietro         — Povero ingegnere, neppure uno spillo sul­la carta. Basta, levo il disturbo.

L'Addetto — Buona fortuna, caro Marchi. E torni, si faccia vedere!

(Esecuzione rovesciata dei rumori di ambiente proposti in apertura: porte uno e due che si chiudono, i passi dell'operaio nei corridoi, sulle scale).

La Voce di Segretaria (al microfono, sovrapposta ai rumori) — L'ufficio statistica ha dedotto dagli ultimi calcoli che la produzione ha raggiunto nel mese scorso una cifra record. Le maestranze pos­sono essere orgogliose di questi risultati, che con­fermano la fiducia del mercato nella SAFAT e pre­miano la loro bravura. Felicitandosi per il nuovo successo, il presidente del consiglio di ammin...

(La voce viene risucchiata nella tromba dell'ascen­sore e coperta dai rumori della fabbrica. Si ode l'urlo prolungato di una sirena che indica la fine del turno di lavoro. Il volume dei rumori di fabbrica si abbassa e l'urlo della sirena si dissolve mentre ritorna il « motivo del lavoro ». Dopo al­cune misure tale motivo assume un andamento melodico, sottolineando così simbolicamente lo schiudersi dei cancelli dello stabilimento. Si odono scoppiettii di motorette, clacson, campanelli di bi­ciclette. Voci di operai dicono frasi come queste: « E muoviti! » - « Sentito? » Produzione record. Ma allora 'sta gratifica? » - « Svendono le angurie, è la fine d'estate » - « Fa ancora caldo » - « Pescare? Che cosa vuoi pescare, se c'è la magra? » - « Guardalo! E pigliami sotto! » - « Lei dice che il frigidaire non consuma, figurati! » - « Salutami tua sorella » - « Al Lux c'è Marilina, scherzi? ». Sono frasi appena abbozzate, che si sovrappongono e si dissolvono in 3° P - In 2° P si sente dire: « Vai a piedi, Pietro? » - « Salute, Pietro ». Via le voci, in crescendo i ru­mori della strada)

L'Operaio   — Sei a terra?

Pietro         — Eh?

L'Operaio   — Se hai bucato: vai a piedi.

Pietro         — No. Per fare due passi.

L'Operaio   — Pietro, ci ho pensato.

Pietro         — Che cosa?

L'Operaio   — Quando ti hanno chiamato su, in dire­zione. « Che cos'hanno da dire a Pietro? » Bene cos'avevano?

Pietro         — Avevano che mi hanno licenziato. (L'Ope­raio fischia) Sessantacinque sulle spalle. Sono vec­chio, per la ditta.

L'Operaio   — Vai a piedi per questo, Pietro?

Pietro         — Me ne frego.

L'Operaio   — Va là, che non te ne freghi. Me ne fre­gherei io, non tu. L'hai sposata, tu, la fabbrica.

Pietro         — E da domani la pianto. Divorzio.

L'Operaio   — Consolati;  adesso hai un sacco di tempo per pescare.

Pietro         — Pescare? Annoiarmi.

L'Operaio   — Facciamo il cambio, allora. Io mi an­noio e tu vai in fabbrica, al mio posto.

Pietro         — Sei un vecchio, tu?

L'Operaio   — Si capisce. Ho fatto la Grecia, io. (Breve stacco) Allora, con stasera: chiuso?

Pietro         — Chiuso. Gliel'ho detto, a quelli di sopra: « Facciamo presto ». Per quello che me ne frega.

L'Operaio   — Nel reparto non lo sanno?

Pietro         — No. Diglielo tu, domani. E salutali.

L'Operaio   — Va bene, tu non prendertela. Ci farai l'abitudine. Chi non si abitua a fare niente? (Breve stacco) Se monti facciamo la strada insieme.

Pietro         — No, voglio andare a piedi fino al cavalca­via. Ne ho del tempo, adesso.

L'Operaio   — Sei un signore, Pietro. Ti metti in cima al cavalcavia, con le mani in tasca, e guardi pas­sare i treni. Bello. L'ho fatto anch'io una volta che avevo litigato con Piera e non avevo voglia di tornare a casa. Passavano i treni e la rabbia sbol­liva: fumo. Bene, scappo. Ciao vecchio. E ricorda­telo: sei un signore!

(Si allontana fischiettando il motivo di una canzone di soldati).

Pietro         (prova a riprendere il motivo, ma s'interrompe quasi subito. A se stesso:) — «Sei un signore ». Prendiamola come viene.

(I suoi passi sull'asfalto. I rumori della strada. Il sibilo di un treno lontano)

Un giorno vado a Prati Rossi. Quando è vendemmia. Ci resto due giorni, sabato e domenica. Una settimana. Quanto ne ho voglia, ci resto. Come guardare i treni, « con le mani in tasca ». Non mi sono mai seduto su una panchina a guardare i treni. Prati Rossi: perché non ci sono mai tornato? (Ancora qualche passo, poi appoggia la bicicletta a un muretto e si lascia andare, un po' ansante, sulla panchina) Con permesso.

Il Pensionato — Comodo. Tanto me ne vado appena arriva il diretto delle 7,10. Lo sente? Sta entrando in stazione.

Pietro         — Aspetta qualcuno?

Il Pensionato — Aspetto il treno.

Pietro         — E basta?

Il Pensionato — Chi vuole che aspetti? (Sottovoce) Sa da dove arriva il treno delle 7,10?

Pietro         — Non sono pratico.

Il Pensionato — Già, lei è uno che lavora. Chiuso in fabbrica, poveretto. Si vede dalla divisa. (Ancora sottovoce) Il treno delle 7,10 viene dalla Riviera.

Pietro         — Ah!

Il Pensionato — E porta quegli odori: di garofani di pesce. Sa qual è l'odore di stagione?

Pietro         — No.

Il Pensionato — Peperoni. Sono nato in Riviera, me ne intendo. Peperoni gialli, di Albenga, grandi così. (Annunciato da un fischio il treno è entrato in stazione. Ansito della locomotiva sotto pres­sione) Li ha mai mangiati, i peperoni di Albenga? Buoni, eh?  Lo sente l'odore, in mezzo al fumo? Io lo sento, sarà perché sono nato da quelle parti. (Stacco) Bene, andiamo a casa. Buonasera. (Passi via).

Pietro         — Buonasera. (Stacco) Peperoni, di Albenga. Ha buon naso, il nonno. Avrei voluto chiedergli se sentiva odore di uva, di vino delle Langhe. Chissà a che ora passa il treno delle Langhe. Il nonno doveva saperlo. Devo tornarci, ci torno per la vendemmia.

(Il monologo s'inceppa, l'uomo lotta con il sonno)

Uva delle Langhe, vino. Mah... C'è un solo odore, per uno che ha passato la vita in fabbrica: olio bruciato, fumo.  In  questo  fumo...  devo tro­vare... l'odore... delle Langhe.

(Sbadiglio. La locomotiva emette un lungo sibilo. Colpo di fischietto, poi il treno parte. Mentre Pietro finisce il monologo il rumore del treno, ormai lanciato, perviene in 1° P. Missaggio, stabilizzazione in sottofondo. Sospiro di benessere)

Corre forte, eh? Al giorno d'oggi, anche i treni non scherzano. Smania della velocità. Non viaggiavo più da molti anni. Il lavoro, capirà. SAFAT, automobili. Mansioni di fiducia. Sa che non mi ricordo di aver fatto un giorno di ferie? Capirà, noi anziani l'abbiamo vista nascere, la fabbrica. Queste mani, guardi: hanno fatto la prima SAFAT sei cilindri. Duecento metri e - paf! - si fermò. Una storia di quarant'anni fa. Appena entrato in fabbrica facevo il battilastra. La mia strada l'ho fatta, non lo nego. Ma è stata dura, sa? (Stacco) Ormai al paese mi daranno per morto. Avevo dieci anni: no, aspetti, dodici. Mio padre fa: « vendo tutto e vado in città ». Prende un albergo: « Le quattro nazioni », si chiamava. Lui in cantina tutto il gior­no, a cantare e a sistemare il vino delle Langhe. E se non cantava beveva; era fatto così, un'anima allegra. E mani bucate, mia madre lo diceva sem­pre. Venivano dal paese, si sedevano alla nostra tavola, mangiavano, bevevano. E finivano a pancia piena sotto il tavolo. Buono, ma con le mani bucate. E malato di nostalgia. Vede queste colline rosse, con i canneti, le vigne? Lui le aveva sempre den­tro, ci soffriva.

(Un silenzio riempito dallo sferragliare del treno)

Durò dieci anni, poi vendette la baracca. Io entrai in fabbrica, avevo la passione dei motori. Era finita la guerra, gli operai face­vano cagnara. Avevano un sacco di ragioni, ma an­che i padroni non avevano torto. Tempi duri; sa che su tre macchine uscite dalla fabbrica due non volevano partire? (Ride) Oh bella, mi metto a rac­contare la mia storia e lei deve sentirla! Pensare che di solito non dico tre parole in croce. Questa voglia di chiacchierare: mi capita per la prima volta. Sarà perché torno al paese, libero. Sono in pensione. Sessantacinque. Non ho aspettato un giorno di più, sa? La mia parte l'ho fatta. Perché stare a faticare ancora, scusi? Adesso posso andar­mene in giro per il mondo, tornare nelle Langhe, far vedere che sono ancora vivo.

(Stacco.)

Non le dico le feste, quando hanno saputo che me ne sarei andato. « La vecchia guardia se ne va ». E già, è giusto largo ai giovani. La mia parte l'ho fatta. (Stacco) Devo abituarmi, si capisce. Trovarsi dopo quarant’anni senza far niente, ma proprio niente, sa? Staccare di colpo... Gira la testa, come quando si ha una sbornia. Capisce che cosa voglio dire, signore? Soprattutto quando uno è vedovo, come me, tagliato fuori dalla vita degli altri. Non si può giocare a bocce tutto il giorno, le pare? O andare a vedere i treni, che partono, che arrivano. Gior­nate lunghe, bisogna abituarsi.

Il Controllore (dopo avere aperto la porta dello scompartimento) — Biglietti, prego. Il suo, signore?

Pietro         (spaventato) — Ma... non ho biglietto, io...

Il Controllore — Perché?

Pietro         — Non... non so. Mi hanno detto che questo era il treno delle Langhe e ci sono salito. Non so perché l'ho fatto.

Il Controllore — Capito. Allora va bene così, lei può viaggiare senza biglietto.

Pietro         — Oh, grazie! (Sorpreso) Ma lei... Non è possibile!

Il Controllore — Prego?

Pietro         — Sono diventato matto!  Pensi che guar­dandola, per un momento ho creduto... Proprio la stessa faccia.

Il Controllore — Di chi?

Pietro         — Del dottor Moroni!

Il Controllore — Mai conosciuto.

Pietro         — Un funzionario della SAFAT, quello che ha regolato la faccenda della mia pensione. Come due gocce d'acqua. Mi sembra di vederla in ufficio, dietro la scrivania.

Il Controllore — Si sbaglia. Ho sempre fatto il fer­roviere.

Pietro         — Mi succedono cose strane. Vedo un treno; ci salgo sopra, per caso...

Il Controllore — Ma sapeva che era il treno delle Langhe, no?

Pietro         — Sì, ma... Poi incontro lei, la guardo e mi accorgo che assomiglia...

Il Controllore — Si è sbagliato, gliel'ho detto.

Pietro         — Mi scusi, ma tutto è così strano... (A bas­sa voce) E quel signore, nell'angolo... Sa che è da quando siamo in viaggio che gli rivolgo la parola e non ha mai aperto bocca?

Il Controllore — Semplice. Non può sentirla.

Pietro (inquieto) — Non può sentirmi? Per caso... è morto?

Il Controllore — Né morto né vivo. Guardi.

(Due o tre passi; rumore di una grossa forma di plastica che cade per terra).

Pietro         — Oh!

Il Controllore — Visto? Un manichino. La Compa­gnia Ferroviaria ne ha messo uno in ogni scom­partimento. Il viaggio è lungo, e a qualcuno può far piacere scambiare quattro chiacchiere.

Pietro         — Molto gentile, ma mi ha fatto un po' paura, sa?

(Per qualche tempo soltanto lo sferragliare del treno).

Il Controllore — Allora? Perché se ne sta zitto? Non aveva una gran voglia di parlare?

Pietro         — No... cioè... Capirà, in fabbrica non si poteva aprir bocca. Il fracasso delle macchine, co­me all'inferno. L'ho ancora nelle orecchie, quel fra­casso.

Il Controllore — Coraggio, adesso può sfogarsi.

Pietro         — Ma adesso è tutto così strano... che cosa sta succedendo?

Il Controllore — Niente di particolare, glielo assi­curo.

Pietro         — Perché rallentiamo?

Il Controllore — Perché siamo arrivati.

Pietro         — Qui? In aperta campagna?

Il Controllore — In aperta campagna. Adesso do­vrà andare avanti a piedi. (Il treno ha rallentato, si ferma) Scenda. Le indicherò la strada. Scenda, mi sente?

Pietro         — Mi dica, che cosa sta succedendo?

Il Controllore — Lo sa bene, perché me lo do­manda?

Pietro         — Ma non so nulla!  Sono posti che non conosco. Non sono le mie Langhe, queste!

Il Controllore — È molto semplice. Per arrivare basterà che cammini in questa direzione.

Pietro         — Arrivare? E dove?

Il Controllore — Dove lei desidera. Sempre diritto. In fondo incontrerà degli alberi, pioppi. Poi il fiume. Capito?

Pietro         (in un soffio) — Sì.

Il Controllore — Sulla riva troverà il barcaiolo. Lo traghetterà sull'altra sponda. E sarà arrivato.

Pietro         (c.s.)— Sì.

Il Controllore — Vada allora. Addio.

(Affiora, esile e lento, il « motivo del fiume ». È una musica nor­dica, piena di malinconia. Arriva in 2° P, poi si affie­volisce mentre si ode l'abbaiare di un cane).

Pietro         (a piena voce) — Ehi! Dico a voi, barcaiolo!

Il Barcaiolo (voce cavernosa, di lontano) — Vengo! (Passi su terra battuta che si incrociano. Il cane riprende ad abbaiare). Niente paura, non morde. Va' a cuccia! (Stacco) Salve a te. Devi andare dall'altra parte?

Pietro         — Così mi hanno detto.

Il Barcaiolo — Mmmh. Andiamo allora. (Stacco) Andiamo, ti dico. Perché resti lì impalato?

Pietro         — Un momento, barcaiolo. Fermati, lascia che ti guardi.

Il Barcaiolo — Avanti, fa presto.

Pietro         — È così. La mia vista non è più buona, sono passati molti anni, ma di te mi ricordo. Nel '18, sull'Isonzo.

Il Barcaiolo — Hai memoria.

Pietro         — Aspetta. Non so il tuo nome, non l'ho mai saputo. Ma mi ricordo. Genio, eri del Genio. Tra­ghettavi la truppa. Noi del quarto battaglione fummo gli ultimi. Ci sparavano contro. Il ponte saltò, e tu... Hai sentito male?

Il Barcaiolo — Non molto.

Pietro         — L'acqua diventò rossa. Credevo che ti avessero spacciato.

Il Barcaiolo — Allora: dobbiamo andare?

Pietro         — Andiamo. Abiti qui?

Il Barcaiolo — Quella è la mia casa.

Pietro         — Ma è un carro ferroviario, un pezzo di tradotta! Come è arrivata fin qui, in riva al fiume?

Il Barcaiolo — Non so. Mi sono ritrovato qui, dopo.

Pietro         — E quegli stracci?

Il Barcaiolo — Guarda bene. Non sono stracci, sono divise.

Pietro         — Le nostre divise!

Il Barcaiolo — Se ne trovano ancora, dall'altra parte. Le raccolgo e poi le vendo. Ai musei.

(Stacco)

Facciamo presto, prima che diventi buio.

Pietro         — È molto grande, questo fiume. Non si vede l'altra sponda.

Il Barcaiolo — C'è un po' di nebbia, per questo non la vedi.

Pietro         — È grande, più dell'Isonzo. Non dev'essere allegro d'inverno, senza vedere anima viva.

Il Barcaiolo — Vengono, vengono anche d'inverno. Vorrebbero andare dall'altra parte ma non si può, il fiume è in piena.

(Sciacquio della barca che si stacca dalla riva, colpi di remo sull'acqua. Riaf­fiora il « motivo del fiume »).

Pietro         — Mi ricordo l'ultimo bagno, quand'ero ra­gazzo. Il Belbo era già cresciuto per le piogge. Mi prendeva paura, scappavo a rivestirmi fra le canne gialle. Ed era l'ultimo bagno.

Il Barcaiolo — Cose passate. Dimenticale.

Pietro         — Perché?

Il Barcaiolo — Non servono più. Un peso inutile. Bisogna essere leggeri, per arrivare dall'alta parte.

Pietro         — Dicevo così perché a trovarmi qui, sul fiume, mi sono rivisto ragazzo.

Il Barcaiolo — Questo non è il fiume dell'infanzia, Pietro.

(I colpi del remo nell'acqua alta)

Vedi quel verde, là in fondo?

Pietro         — Riposa gli occhi. È un bosco?

Il Barcaiolo — Salici e betulle, gli alberi del fiume. In mezzo c'è la città. Fra poco la vedrai.

Pietro         — Una città in mezzo agli alberi. Bello.

Il Barcaiolo — C'è molto silenzio e molta quiete! È come vivere sotto una campana di vetro verde. Bada, dovrai parlare sempre sottovoce.

Pietro         — Va bene,

Il Barcaiolo — Non sei abituato, vieni dalla fabbrica. Ma dovrai sforzarti. È gente che non vuole sentire gridare; si chiuderebbero in casa. E sta' attento a non calpestare i loro fiori, ci tengono molto.

(Stacco)

Un'altra raccomandazione. Vedrai delle fotografie, nelle loro case. Bene, non domandare mai di chi sono. E non parlare mai di bam­bini, capito? Sono le regole per i nuovi venuti.

Pietro         — Sono lunghe le giornate, nella città?

Il Barcaiolo — Perché vuoi saperlo?

Pietro         — Adesso che non lavoro più mi sembra che il tempo non passi mai. Come quando si cammina al buio.

Il Barcaiolo — Ti abituerai. Anzi, vorrai che le giornate non finiscano più.

Pietro         — Non mi annoierò?

Il Barcaiolo — No. Farai come tutti loro, all'alba sarai già in piedi perché le giornate ti sembrino più lunghe. Sulla riva c'è un pescatore, lo vedi? Tutti i giorni nello stesso punto. Non prende nien­te, non c'è pesce, lì. Ma ci ritorna, tutti i giorni nello stesso punto. Vede il tempo che passa nell'acqua.

(Mentre un oboe riprende, pianissimo, il « motivo del fiume » voci di vecchi e di vecchie si incrociano in lontananza. Dicono: «C'è Pietro, è arrivato Pietro ». Urto del fondo della barca con­tro i ciottoli della riva)

Eccoci arrivati. Ti porto dal maestro. Lui ti dirà che cosa devi fare.

Pietro         — Ma è vero, c'è una città!

Il Barcaiolo — La vedi?

Pietro         — Con le case tutte uguali, di legno colorato.

Il Barcaiolo — A un solo piano, senza scale. Con il giardino.

Pietro         — Rose, girasoli. È allegro.

Il Barcaiolo — Sai le betulle? Quando si leva il vento sembra che i loro rami suonino.

Pietro         — Nessuno, di là, mi aveva mai parlato di una città del genere.

Il Barcaiolo — Si capisce, perché nessuno sa che esiste. Io soltanto lo so. Ma sto zitto, se parlassi perderei il posto. E non potrei più raccogliere le mie divise. È un segreto, ricordatelo. Pietro — Perché?

Il Barcaiolo — Ma, forse perché tutti finirebbero per venirci, se lo sapessero. E la città sull'altra riva si svuoterebbe, rimarrebbero soltanto i bambini e i giovani, troppo inesperti. E chi fabbricherebbe automobili?

Pietro — Nessuno, in fabbrica, può immaginare un silenzio simile.

Il Barcaiolo — È un segreto, te l'ho detto. Mi chiedono: « Barcaiolo, che cosa c'è dall'altra parte? ».  Dico: « Paludi. Rane e zanzare ». « Non ci sono degli alberi? ». « Alberi? Paludi, vi dico ». (Ride) Hanno la vista corta.

(Stacco)

Oh, il maestro! Buongiorno. Questo è Pietro.

Il Maestro (finisce di contare) — Sessantatré, ses­santaquattro, sessantacinque. Buongiorno a voi.

Il Barcaiolo — Tutto bene?

Il Maestro    — Contavo queste pere, amico mio, perché stanotte il cane ha abbaiato. Doveva esserci un ladro.

Il Barcaiolo — Un ladro? Possibile?

Il Maestro    (sospirando) — Eppure... Dev'essere un uomo goloso, le mie pere lo inducono  in tenta­zione. Ma il cane l'ha fatto scappare e le mie pere ci sono ancora tutte. E quello chi è? Pietro? Il Barcaiolo (sottovoce) — È il maestro. Saluta!

Pietro — Lo so. L'ho riconosciuto dalla bacchetta che tiene in mano, il volto l'avevo dimenticato.

Il Maestro    — Vediamo un po', Pietro. (Raschian­dosi la gola) Sette per nove?

Pietro         — Sessantatré.

Il Maestro    — Nove per otto?

Pietro         — Settantadue.

Il Maestro    — Dimmi quanto fa... trecentonovanta-sette meno centottantatré?

Pietro         — Trecentonovantasette meno... Fa duecen­toquattordici.

Il Maestro    (battendo stizzito la verga) — Ma ricordi tutto, assolutamente! Ehi, tu: perché l'hai portato qui?

Il Barcaiolo — Io non c'entro. Era segnalato, l'età ce l'ha. E poi hanno già messo il suo spillo sulla carta.

Il Maestro    — No, Pietro! Non puoi ricordare tutto, non devi! Altrimenti come potremo tenerti con noi?

Pietro         — Chiedo scusa; l'ho sempre avuto, il vizio di contare. In fabbrica lo facevo per passare il tempo.  Contavo  le  macchine   che  mi  passavano sotto il naso sulla catena di montaggio, così ero al corrente sulla produzione. Un vizio.

Il Maestro    — Sì, ma adesso basta. Non c'è niente da contare, qui. Non c'è denaro, solo gli spiccioli per il tabacco o le pasticche digestive. Soltanto io...

Il Barcaiolo — Lui è il maestro.

Il Maestro   (con un sospiro) — Vorrei smettere, sapete? Vorrei dimenticare anch'io i numeri, come gli altri. Ma non posso, devo tenermi in esercizio per via degli esami.

Il Barcaiolo — Un bel sacrificio.

Il Maestro    — Sì, perché contare non serve pro­prio a niente. Di' un po' Pietro: mai visto un cielo stellato? No? Qui avrai tutto il tempo per guar­darlo. Bene, ti salterà mica in mente di contare le stelle?

Pietro         — Perderò il vizio. Lo prometto.

Il Maestro — Bravo. Le stelle sono una cosa mera­vigliosa proprio perché noi non possiamo contarle. Ce n'era uno come te. Veniva dalla fabbrica, mec­canico. Si chiamava Nicola. Barcaiolo, te lo ri­cordi?

Il Barcaiolo — Quello dei bulloni?

Il Maestro    — Sì. Passava il tempo a raccogliere bulloni arrugginiti. Li smerigliava, gli rifaceva il passo, li contava e li ricontava. Poveretto. Lo riman­dammo dall'altra parte, ti ricordi?

Il Barcaiolo — Mi hanno detto che fa il guardiano notturno in una fabbrica.

Il Maestro    — Un uomo infelice.

Pietro         (titubante) — Mi dica, maestro: c'è modo di essere felici, qui?

(Un silenzio. Alzando la voce)

Si può essere felici, in questo posto?

(Un altro silenzio, distrutto dal suono allegro di un violino. Appena abbozzato, il         « motivo del compleanno »).

Il Maestro    — Sentite? Arrivano!

Il Barcaiolo — Bè, io devo andare.

Il Maestro    — Non vuoi restare? Si farà festa, per Pietro.

Il Barcaiolo — No, è tardi. Devo ancora ritirare le mie divise, stanotte potrebbe piovere.

Il Maestro    — Allora arrivederci.

Il Barcaiolo — Arrivederci, maestro. Addio, Pietro.

(Il « motivo del compleanno » si fa più distinto, il violino passa dal 3° al 2° P).

Il Maestro — Li senti? Vengono qui. Vogliono salu­tarti, farti gli auguri per il tuo sessantacinquesimo compleanno.

Pietro         — Di là non si usa far festa. In fabbrica i colleghi non ti chiedono nemmeno di pagare da bere, figurarsi. (Amaro) Se ne ricordano soltanto quelli della Direzione.

Il Maestro — Qui invece è importante. Vuol dire che sei vivo. Per questo festeggiamo i compleanni.

Pietro         — È bello.

Il Maestro — È necessario. Di là compiere gli anni non ti importava, si capisce. Avevi il lavoro, la famiglia, gli amici. Qui è diverso; qui ti fa pia­cere, se festeggiano il tuo compleanno. La nostra regola è questa: fare il possibile perché nessuno si senta troppo solo.

Pietro         — Capita spesso?

Il Maestro    — Capita. È il difetto di questa città: la solitudine. Allora ci si aiuta l'un l'altro, ci si scalda con qualche buona parola. Guai se non lo facessimo: ognuno si chiuderebbe in se stesso come la lumaca nel guscio. E tutto finirebbe: il verde degli alberi, i fiori, le voci, la vita.

(Breve stacco)

Per i casi disperati c'è Angelo, il postino. Lo cono­scerai, è straordinario. (Sottovoce, ilare) Un omino grande così, ma che cuore! Fa il portalettere per vocazione, il suo mestiere era un altro. Impiegato al Monte Pegni, credo. A te posso dirlo: inventa lui le lettere. Non sempre, sì capisce; soltanto nei casi disperati. Come quello di mamma Lucia. Suo figlio non è più tornato. Disperso in guerra. Non si rende conto, poveretta, che ormai disperso significa  morto. L'aspetta, vive solo per aspettarlo. Così il nostro postino ha avuto un'idea; ogni tanto scri­ve a mamma Lucia e va a consegnarle la lettera del figlio morto, le spiega le ragioni per cui deve rinviare il ritorno. E mamma Lucia è contenta.

(Il suono del violino è diventato nitido. Il brio del « motivo del compleanno » contrasta con un tre­pestio lento e strascicato)

Arrivano. Il suonatore di violino è Olav, uno straniero. Un vero artista. Che brio, senti? Sembra un ragazzo, Olav.

Il Sindaco (soverchiando la musica del violino) — Pietro! Dov'è Pietro?

Il Maestro    — È qui, venite!

Il Sindaco (c.s.)— Benvenuto nella nostra città, Pietro. E tanti auguri per il tuo compleanno.

(Sottolineare da parte della folla dei vecchi).

Pietro         — Grazie.

Il Sindaco — Sessantacìnque, eh?

Pietro         (gioviale) — Sessantacinque, ma per fortu­na non pesano. Mi sento ancora forte, come se ne avessi venti di meno.

(Gelo nella folla. Ogni com­mento di cortesia si spegne e il suono del violino si spezza. Imbarazzato)

Volevo dire che... Insomma, mi sento ancora abbastanza in gamba.

Il Sindaco — Sessantacinque è già un bel traguar­do, non tutti ci arrivano. Ma è soltanto il principio, Pietro. Perciò aspetta a vantarti. (Ritrovando il tono) Comunque, sai che ti diciamo? Cento di que­sti giorni!

(Anche i vecchi ritrovano la parola. Si incrociano, tremule, espressioni di augurio: « Lunga vita » - « Cento di questi giorni » - « Auguri » -« Felicità »)

Un evviva per Pietro!

(Intona l'inno del « birthday »: « Tanti auguri a te! ». I vecchi fanno coro accompagnati dal violino).

Pietro         — Grazie. Grazie davvero.

Il Sindaco — E adesso possiamo fare un po' di baldoria, non vi pare?

Voce di Vecchio — Moderatamente, però.

Il Sindaco — S'intende. Maestro, se ci mettessimo sotto il pergolato? Benissimo. Ehi tu, Olav! Piano, per carità, o ci farai girare la testa. Pietro, senti. (Sottovoce) Preparati all'attacco, fra poco nonna Margherita verrà a offrirti il suo rosolio. Intendia­moci: non sei obbligato a berlo, come non sei obbli­gato a mangiare le frittelle di nonna Giulia. Soltan­to, non devi farti accorgere. Si rattristerebbero, poverette. (In tono misterioso) Sei delle Langhe, vero?

Pietro         — Sì.

Il Sindaco — Bene. C'è anche quello, non temere: vino delle Langhe. Ne ho nascoste un paio di bot­tiglie. È per quelli che hanno soltanto sessanta­cinque anni. (Rialzando  la voce)  Ecco la nostra Margherita! Ero impaziente, sapete?

Nonna Margherita — Davvero?

Il Sindaco — Mi chiedevo: « ne resterà ancora un goccio per me e Pietro? ». Pietro, questa è nonna Margherita. Ti conquisterà con il suo rosolio.

Nonna Margherita — Sono felice che le piaccia, signor sindaco. E spero che piaccia anche a lei, signor Pietro.

Il Sindaco — Certo, certo.

Nonna Giulia (un po' acida) — Tutti i complimenti per lei! E le mie frittelle? Prendetene, voglio sa­pere se vi piacciono.

Il Sindaco — Se cipiacciono? Gliel'ho già detto, nonna Giulia: non so capire perché lei, che sa fare frittelle così buone, non si sia sposata. Pensa un po' Pietro: che delizia per il marito, per i figli! Nonna Giulia — Che cosa crede? Sono io che non ho voluto sposarmi. I pretendenti non sono man­cati, sa?

Il Sindaco — Ne sono convinto! Mmmh, buone davvero!

Nonna Giulia — Mi sono tenuta leggera di uova. Alla nostra età bisogna evitare gli stravizi.

Il Sindaco (con intenzione) — Mangia Pietro, man­gia.

Nonna Giulia — Con permesso, le belve reclamano il pasto.

Il Sindaco (sottovoce) — Vedi? Ci vuol poco per ac­contentarle. Adesso, nei bicchierini di nonna Mar­gherita, al posto del rosolio ci mettiamo il vino delle Langhe. Il colore è lo stesso. (Alzando la voce) — Nonna Margherita, alla salute!

Nonna Margherita (di lontano, fra altre voci) — Guarda come bevono! Alla salute del signor Pietro! Piano vi farà male!

Il Portalettere (facendosi largo) — Salve. C'è un po' di confusione.

Il Sindaco — Una festa davvero riuscita.

Il Portalettere — Sì, sono tutti così allegri! Tran­ne Giuseppe.

Il Sindaco — Giuseppe?

Il Portalettere — Guardatelo, se ne sta là nell'angolo, di malumore. Colpa di Ludovico.

Il Sindaco — Ah, incorreggibile. Gli parlerò.

Il Portalettere — Farà bene, signor sindaco.

Il Sindaco — Pietro, questo è Angelo, il portalet­tere di cui ti ho parlato.

Pietro         — Molto piacere.

Il Portalettere — Anch'io. Lavoravi in fabbrica?

Pietro         — Alla SAFAT, automobili.

Il Portalettere — Allora il violino di Olav non ti darà noia. Solo?

Pietro         — Vedovo. Ma ho una figlia.

Il Portalettere — Ti vuol bene, immagino.

Pietro         — Penso di sì.

Il Portalettere — Te lo domandavo perché sai com'è: ci sono dei figli molto affezionati ai genitori, altri che lo sono meno.

Pietro         — Credo che mi voglia bene. Del resto, l'importante è che voglia bene alla sua famiglia. È sposata, ha un bambino.

Il Portalettere — E ti scriveva, qualche volta?

Il Sindaco — Angelo, sei incorreggibile anche tu.

Pietro         — Perché avrebbe dovuto scrivermi? Di là abitavamo insieme, facevamo una famiglia sola.

Il Portalettere — Di là, sì capisce. Ma adesso è diverso. Adesso ti scriverà, immagino.

Il Sindaco — Sicuro, gli scriverà. E aumenterà il tuo lavoro.

Il Portalettere — Anzi, mi fa piacere. Bene, me ne vado, lieto della conoscenza.

Pietro         — Anch'io,

Il Sindaco — Vuoi dire a Ludovico di venire da me?

Il Portalettere  (allontanandosi)  —  Glielo dirò. Arrivederci.  

(Il violino, scatenatissimo, riprende in tempo sbagliato il « motivo del compleanno »).

Il Sindaco — Olav, per carità! Nonna Giulia, per­ché non portate qualche frittella a Olav?

Ludovico    (parla volubilmente, con l'erre arrotata) — Il signor sindaco mi ha fatto chiamare?

Il Sindaco —  Sì,  Ludovico. Intanto ti presento Pietro.

Ludovico    — Onoratissimo. Per caso lei non fa col­lezione di farfalle?

Il Sindaco — Dobbiamo parlare proprio di questo.

Ludovico    — Il signor sindaco le avrà detto che sono un accanito cacciatore di farfalle. Ce ne sono mol­te, da queste parti. Vanesse soprattutto. Ieri ho trovato anche un bellissimo esemplare di Callimorpha Quadripunctaria. Lei ama le farfalle?

Pietro         — Mah, non so...

Ludovico    — Sono la giovinezza del mondo.

Pietro         — Ad Andrea piacciono. Andrea è il mio nipotino, cinque anni. Una volta gliene acchiappai una, nell'orto, bianca e nera.

Ludovico    — Una cavolaia, vuol dire. Varietà comu­ne, trascurata dai collezionisti.

Pietro         — Eppure, Andrea: che gioia! La mise in una scatola dei fiammiferi,  con una foglia d'in­salata.

Ludovico    — Trastulli di bimbi. Ma le farfalle rap­presentano anche una nobile occupazione.

Il Sindaco — Ludovico, non esageriamo.

Ludovico    — Sissignori!  Sono del parere, se mi è permesso dirlo, che miglior modo non ci sia per invecchiare con dignità che andare a caccia di far­falle. È sano, e non ci si affatica. È sportivo, e non si spara. È poetico: hanno nomi meravigliosi. E i colori? Nomi e colori di regine. Certo non è da tutti.

Il Sindaco — Ecco, l'hai detto:  non è da tutti. Ammetterai, per esempio, che Giuseppe non è tipo da andare a caccia di farfalle.

Ludovico    — Sfido, è paralitico!

Il Sindaco — Ssst! Non gridare. E allora, dimmi un po': ti sembra bello saltargli davanti per delle ore, rincorrere le farfalle nel suo ortoe fargli capire, insomma, che tu le gambe le hai ancora buone?

Ludovico    — O bella! Sta a vedere che è colpa mia se ho ancora i garretti saldi. Dovrei fare come Giuseppe? Andare a caccia di farfalle in carroz­zella?

Il Sindaco — Non dico questo, però potresti alme­no cercarti un altro posto. Sapevi che Giuseppe, in gioventù, è stato campione dei cinquecento a ostacoli?

Ludovico    — Toh, non lo sapevo.

Il Sindaco — Bene, adesso lo sai. Allora: ti cerche­rai un altro posto?

Ludovico    — Non è per cattiveria, signor sindaco. Il fatto è che proprio nell'orto di Giuseppe svo­lazza una Gonepteryx Cleopatra di bellissimi colori. Specie rarissima!

Il Sindaco — Io non me ne intendo, ma so che nei boschetti in riva al fiume ci sono  certe farfalle nere e arancio che sembrano principesse cinesi.

Ludovico    — Nere e arancio? Arginnidi, forse? Dav­vero?

Il Sindaco — Davvero.

Ludovico    — Non scherza?

Il Sindaco — Viste con i miei occhi. Ci andrai?

Ludovico    — E me lo domanda? Arginnidi. di questa stagione! Ci vado subito! Con permesso.

Il Sindaco (con un sospiro) — Vedi, Pietro? Non è facile fare il sindaco di questa città.  Basta  un niente - un gesto, una parola - per dare la felicità, o provocare un dramma.

Pietro         — Dovrò abituarmi. Al rosolio, alle farfalle. E al resto.

Il Sindaco — Qui non è come in fabbrica. Là eri un uomo, qui sei un vecchio. Qui tutto è sospeso a un filo. Uno si muove, cammina ed è come se avesse un male, come se fosse ferito. Si muove adagio, perché ha paura di sentire quel male. E deve far finta di essere allegro, come se non fosse successo niente. Non è facile.

(Per qualche mo­mento il suono del violino torna in 1°P).

La Vecchia senza nome (sovrastando la musica) — Fatemi passare! Non mi aspettavate, eh? Fa niente, sono venuta lo stesso. Lasciatemi passare, vi dico. Che confusione! Sembra Carnevale. Trop­pa confusione, sindaco.

Il Sindaco (freddo) — Soltanto un po' di allegria. E spero che tu non voglia guastare tutto.

La Vecchia senza nome — Allegria! Sembrate tutti matti. E tu, Olav, quando la smetterai di grattare il violino? Riposati, o cadrai stecchito.

(Dai vecchi si leva un coro di proteste: « Sta' zitta » - « Guastafeste » - « Sindaco, falla tacere » - « Suona Olav, suona ancora! », eccetera).

La Vecchia senza nome — Volevate tenermi lon­tana dalla festa, eh? Invece eccomi, mi sono invi­tata da sola. Ho anch'io il diritto di fare gli auguri al forestiero. Auguri, forestiero. Prendi: fiori. Sono per te.

(Dalla folla si leva un grido di spavento. Il violino, che aveva ripreso a suonare a strappi, tace dì colpo come se si fossero spezzate le corde).

Il Sindaco     — Pietro, non toccare quei fiori!

La Vecchia senza nome— Perché? Deve prenderli!

Il Sindaco     — Non sono fiori per un compleanno, lo sai.

La Vecchia senza nome — E voi? Che fiori gli avete offerto, voi? Ve ne siete dimenticati, eh? Si capi­sce, tutti intenti a divertirvi, tutti matti. Rosolio, frittelle! Matti, ingordi!

Il Sindaco — Puoi risparmiarti la predica. Abbia­mo fatto un po' di festa per il compleanno di Pietro. Non c'è proprio nulla di male.

La Vecchia senza nome — E invecesì, perché vo­lete ingannare Pietro, volete nascondergli la verità. Pietro, non ascoltarli. Mentono: l'allegria, la feli­cità sono rimaste di là. E la salute, i figli, la vita: tutto di là, dall'altra parte del fiume. Vogliono ingannarti, Pietro!

Il Sindaco (sopra le voci della folla) — Taci, sap­piamo bene perché parli. Vuoi vendicarti perché ti abbiamo scacciato dalla nostra città.

(Due frasi sovrastano le proteste: « Portatela nella sua tana » e « mandatela via »).

La Vecchia senza nome (ansante) — Ti sbagli, sin­daco. Non mi piace, la vostra città. E non mi piace che cerchiate di ingannare  Pietro. Deve sapere! (Sfidando il mormorio ostile) Pietro, ascolta. Che cosa credevi di trovare? Il paese dove non si in­vecchia mai? La tua giovinezza?

Pietro         — Non so. Sono capitato qui per caso.

La Vecchia senza nome — Dite tutti così. Ci cascate come i topi nella trappola.

Pietro         — Non so. Mi sono trovato in riva al fiume, allora ho ricordato improvvisamente la mia in­fanzia, le Langhe.

La Vecchia senza nome — No, Pietro. Il fiume è una frontiera. Tutto rimane dall'altra parte, per sempre. E qui, dimmi: che cosa hai trovato?

Pietro         — Un grande silenzio. Una grande pace.

La Vecchia senza nome — Ti sei domandato che cosa significa, questo silenzio?

Pietro         — No, ma mi piace. Non credevo che po­tesse esserci una pace così grande.

La Vecchia senza nome — C'è una pace ancora più grande, Pietro. Seguimi, ti insegnerò dove trovarla.

Il Sindaco (minaccioso) — Non lo farai, non ci por­terai via anche Pietro! Ha sessantacinque anni.

La Vecchia senza nome — « Sessantacinque anni! ». Ma vuole il silenzio, la pace: l'avete sentito anche voi. Verrà con me. (Dominando le proteste) Verrà con me, vi dico! È pronto, lodesidera. Vieni, Pietro. Ti porterò dove la terra è fresca, dove l'odore di camomilla riempie l'aria. Ti porterò dove c'è la grande pace.

Il Sindaco — Non ascoltarla, Pietro. Rimani!

Pietro         — Siete molto buoni, amici. Ma devo andare, è come se una voce mi chiamasse.

Il Portalettere — Ma la festa non è finita, Pietro! Sei nostro ospite; hai bevuto il rosolio di nonna Margherita, hai mangiato le frittelle di nonna Giulia. E Olav ha suonato per te. Non puoi andartene!

La Vecchia senza nome — Non riuscirai a ingan­narlo con il miele delle tue parole! Deve sapere!... (Alte proteste coprono la voce della vecchia),

Il Portalettere (accorato) — Non è prudente la­sciare la città. È tardi, il sole se n'è andato. Pietro, resta con noi!

La Vecchia senza nome — Allora, andiamo?

Pietro         — Sì, ma prima voglio salutarli. (A voce piena) Siete stati tutti buoni con me, amici. Ma devo proprio andare, c'è una voce che mi chiama. Voi non sapete, non potete capire. Addio a tutti. Addio, signor sindaco.

Il Sindaco — Addio, Pietro. Ci dispiace che ci la­sci. Olav! Dov'è Olav? Bisognerebbe fare un po' di musica, per tenere lontana la malinconia. Olav! Dove si è cacciato?

La Vecchia senza nome (in tono di comando) — Basta adesso! Indietro. Siete ombre, sparite! An­diamo Pietro. Abbiamo da fare molta strada, dob­biamo attraversare il bosco.

(Mentre la vecchia parlava si sono uditi sospiri, gemiti, un trepestio in dissolvenza. Affiora il « motivo della sposa morta »: una musica triste e lenta per arpa e flauto, all'inizio appena uno stillicidio di note come gocce d'acqua dopo un temporale. A tratti, fruscii di foglie e rumori di rami spezzati)

Hai preso i fiori, Pietro?

Pietro         — Sì. È molto buio, non finiremo per per­derci?

La Vecchia senza nome — Nessuno si è mai per­duto. Essi ci chiamano, basta ascoltare e andare verso di loro. Senti qualcosa?

Pietro         — Sì. La sua voce viene di là. Come ha fatto a sapere che ero qui?

La Vecchia senza nome — Sanno tutto. Siamo sem­pre nei loro pensieri.

Pietro         — Maria, mi senti? Vengo!

La Vecchia senza nome — Non gridare. E cammi­na, il viaggio è lungo.

(Fruscio di foglie. In 2° e in 1° P il « motivo della sposa morta ». È come il cercarsi di Orfeo e Euridice, senza mito e senza illusioni. Quando è in 1° P, il velario sonoro si squarcia bruscamente)

Ecco, il bosco è finito. Sei quasi arrivato.

Pietro         — C'è molta nebbia.

La Vecchia senza nome — Siamo in mezzo alle marcite. Amano la terra umida, la buona terra bagnata.

Pietro         — Croci... Tombe...

La Vecchia senza nome — Sì, croci e tombe. Non erano stolti i vecchi della città? Avevano paura di questo, paura di un cimitero!  (Stacco) Bene, sei arrivato. Addio, Pietro.

Pietro         — Te ne vai?

La Vecchia senza nome     — Il mio compito è finito.

Pietro         — Ma lei: dov'è?

La Vecchia senza nome — Sentirai la sua voce chia­marti. E la troverai. Addio.

(Effetti stereofonici sul ritorno del « motivo della sposa morta. »).

Pietro         — Maria... (Correndo, sopra la ghiaia) Maria, dove sei? Maria!

Maria          (in un soffio) — Sono qui, Pietro. Non gridare.

Pietro         (ansante) — Finalmente, Maria. Non riuscivo più a trovarti.

Maria          — Ma sono qui, al solito posto.

Pietro         — Eppure non riuscivo a trovarti. Non so che cosa mi capita. Maria. Devi ascoltarmi, ti rac­conterò tutto. No, aspetta. Prima questi. Prendi, per te.

Maria          — Fiori! Crisantemi!

Pietro         — Scusami, Maria.

Maria          — Perché, Pietro?

Pietro         — Quando eravamo insieme non ti ho mai regalato fiori, mai, E adesso è troppo tardi. Vedi? Crisantemi.

Maria          — Sono fiori adatti per me, Pietro. Prima avevi il tuo lavoro in fabbrica, si capisce: non po­tevi aver testa per queste cose.

Pietro         — Una volta ci ho pensato. Molto tempo fa, eravamo sposati da poco. Era un sabato sera, avevo in tasca la paga, tornavo a casa in bicicletta. Vidi il banco di una fioraia e gente intorno. Avrei voluto, ma mi sentii ridicolo con la tuta sporca, in mezzo a quella gente elegante. Così tirai avanti, e tu non hai mai avuto un fiore da me.

Maria          — Li ho adesso.

Pietro         — Vorrei una cosa, Maria.

Maria          — Che cosa?

Pietro         — Che tu facessi finta che sono i fiori di quella volta. I fiori di un anno lontano.

Maria          — Sì, Pietro. (Uno stacco) Perché taci? Vo­levi dirmi qualcosa.

Pietro         — Ho sessantacinque anni, Maria.

Maria          — Lo so.

Pietro         — Ho finito di lavorare. Da domani.

Maria          — So anche questo.

Pietro         — Credono che sia vecchio.

Maria          — Ma tu non lo sei, Pietro. Sono loro, che lo credono.

Pietro         — Invece ho proprio paura di esserlo. (Sot­tovoce) Mi sento un po' disperato, Maria. (Stacco) Vorrei che fossimo ancora insieme. Quando tor­navo a casa e c'era qualcosa che non andava, e tu eri già a letto, stavo a sentire il tuo respiro al buio, per delle ore, e tutto diventava più facile.

Maria          — Adesso devi andare avanti da solo, Pietro.

Pietro         — Come camminare in un deserto. Prima c'era la fabbrica, gente, rumori. Ma adesso... (Acco­rato) Solo! E gli altri tutti ombre, lontane. Perché, Maria? Aiutami!

Maria          (con pazienza) — Che cosa posso fare io? Non sai che racconti la tua paura di invecchiare a una morta?

Pietro         — No, per me non sei morta. Per me tu sei... Maria... viva, con me. Dimmi che cosa devo fare, aiutami!

Maria          — È tanto difficile, Pietro?

Pietro         — Sì. Credevo di buttar via i quarant'anni di fabbrica come si buttano via delle scarpe rotte. « Sei un signore » - mi dicevano i compagni. « Un signore no - dicevo io - ma almeno posso fare quel­lo che voglio, andarmene dove voglio. Prendere un treno, tornare nelle Langhe ». Invece non è così. Maria, invece mi sono perduto in mezzo agli alberi, in mezzo alle ombre. Sono l'uomo più povero della terra, Maria.

Maria          — Non dire queste cose, Pietro.

Pietro         — In fabbrica era così: vedevo passare le macchine sulla catena di montaggio, le contavo e mi sembrava che fossero mie. Provavano i mo­tori nuovi; li sentivo girare allegri, leggeri e mi sembrava di essere ricco.

Maria          — Non sapevo che il tuo lavoro ti piacesse tanto, Pietro.

Pietro         — Perché qualche volta tornavo a casa ar­rabbiato? Non sapevo che un giorno sarebbe finito tutto. E adesso? Quello che posso fare è andare davanti ai cancelli della fabbrica, come uno che chiede l'elemosina, e guardare le macchine che corrono sulla pista di collaudo, e aspettare che mi mandino via.

Maria          — Non devi avvilirti, Pietro. Sei libero, adesso.

Pietro         — Libero di rubare il sole ai bambini nei viali. Libero di andare alla stazione a guardare i treni che partono, di leggere il giornale che qual­cuno ha dimenticato su una panchina. È libertà, questa? È essere vecchio, mutile.

Maria          — Ti abituerai. Tutti sì abituano.

Pietro         — Lo so; le ho viste, le ombre. Diventerò come loro. Giornate lunghe, senza scopo. Sarà sem­pre come la prima volta che uscii di casa dopo la tua morte. Era di domenica, Paola insisteva: « Pa­pà, esci a passeggio, svagati ». C'era il sole, io ero tutto vestito di nero. Andavo contro i muri, per le strade non c'era nessuno. Parlavo con te. Mi sen­tivo come ubriaco. Ecco, sarà sempre così. (Sotto­voce) Sono tanto stanco. Maria. Vorrei mettermi qui, vicino a te. Dormire, non svegliarmi più.

Maria          — Non bestemmiare, Pietro. Pensa che c'è Paola, Andrea.

Pietro         — I giovani non hanno bisogno dei vecchi.

Maria          — Credono di non aver bisogno. E i vecchi devono lasciarglielo credere, mettersi da parte per non ingombrare la loro strada. Invece sono neces­sari, sono là perché i giovani non facciano i loro stessi sbagli. (Molto triste) Vorrei essere ancora di là, Pietro. Oh, non per me. Per te. Per Paola, suo marito, Andrea. Invece devo guardarvi tutti di qui. Un posto buio, freddo, lontano. Non dire più certe cose, Pietro. (Severa) Ti hanno chiesto di riposare, non di morire.

Pietro         — Per me è la stessa cosa.

Maria          — Non è la stessa cosa. (Riacquistando ca­lore) E poi avrai ancora un mucchio di cose da fare.

Pietro         — Guardare i treni. Fare passeggiate nei viali.

Maria          — Anche questo. Le macchine che hai co­struito corrono per le strade del mondo, no? E tu hai diritto di riposare. Ma ci sono altre cose da fare, Pietro.

Pietro         — Per esempio?

Maria          — Per esempio lavorare nell'orto. Ne ha biso­gno. La terra è piena di sassi, li butta quel birichino di Andrea. E l'americana deve essere potata, non te ne sei accorto? Poi un'altra cosa, Pietro. Non hai mai piantato quelle margherite gialle, che mi piacevano. Adesso potresti farlo. (Sempre più si­cura) C'è anche da sistemare la legna in cantina, l'inverno non è lontano. La cantina è piena di cose vecchie. Non abbiamo mai voluto buttarle via, ma dovrai deciderti. La legna non starà tutta, altri­menti.

Pietro         — Come quando eri viva, e brontolavi per questo e quello che c'era da fare.

Maria          — E tu come rispondevi, Pietro?

Pietro         — Che non avevo tempo. Era la verità.

Maria          (con malizia) — Adesso invece ce l'hai, il tempo. (Stacco) Pietro, lo faccio per il tuo bene, perché tu abbia uno scopo. E se qualcosa non an­drà, tornerai da me e ti dirò quello che devi fare.

Pietro         — Sono cose da vecchi. Maria. In fabbrica era diverso.

Maria          — Riempiono le giornate. Aiutano a vivere. Guardati intorno, troverai sempre una pietra da scalzare nell'orto, una pera matura da cogliere, un chiodo da piantare nel muro. Sono cose impor­tanti come quelle che facevi in fabbrica. E quando non avrai più nulla da fare, e le mani ti sembre­ranno inutili, e le giornate lunghe, ti resterà sem­pre una cosa, la più importante.

Pietro         — Parli di Andrea?

Maria          — Andrea, sì. I vecchi possono essere i mi­gliori amici dei bambini.

Pietro         — Credo di avere dimenticato come si fa, coi bambini.

Maria          — Puoi imparare un'altra volta. E ti accor­gerai che non si è mai vecchi, con un bambino vicino.

Pietro         — Andrea. Mi chiede sempre: « Quando ritorna, la mia nonna? ».

(Ritorna, più disteso e sereno, il « motivo della sposa morta »).

Maria          — Non voglio che tu rimanga troppo in que­sto posto. È umido, non sei più un giovanotto. Arrivederci, Pietro. (Passando in 2° e 3° P:) E mi raccomando; fai compagnia ad Andrea, stagli vi­cino. È nell'età in cui i bambini sono curiosi, do­mandano di tutto, vogliono sapere... Sai perché è così triste, questo luogo? Perché non vengono mai dei bambini. Poveretti, hanno paura, si capisce.

(Dopo alcune misure la musica si ritrae in 3° P e missa con i rumori che caratterizzano l'arrivo dì un treno. Voce dagli altoparlanti. « È in arrivo sul quinto binario il diretto proveniente da Milano »).

Un Passante — Ehi, signore. Dico a lei. Il suo ber­retto. Tenga.

Pietro         (risvegliandosi) — Che cosa?

Un Passante — Il suo berretto. Si è addormentato e il berretto le è scivolato per terra. Tenga.

Pietro         — Ma è già buio!

Un Passante — Deve aver dormito molto. Era stanco, eh?

Pietro         — Che ore sono?

Un Passante — Le nove passate. Sta arrivando il diretto da Milano.

Pietro         — Accidenti! A casa mi aspettano, Grazie, signore.

Un Passante (allontanandosi) — Di niente.

(Uno scalpiccio, poi il trillo di un campanello da bici­cletta e i rumori della strada, che si sovrappongono all'ansito del treno, in arrivo. Infine alcune frasi spezzate  del  « motivo del lavoro »  che  si sfalda mentre si odono passi sulle scale e sul ballatoio. Porta a vetri che sì apre).

Paola          — Grazie a Dio! Eravamo in pensiero.

Pietro         — Ciao.

Paola          — Sono le nove e mezzo, papa. Avevamo paura che ti fosse successo qualcosa.

Pietro         — Difatti è successo. Mi hanno licenziato.

Paola          — Ah. (Stacco) Per l'età?

Pietro         — Sì. Un bel guaio.

Paola          — Dovevi aspettartelo, papà. È il contratto.

Pietro         — Sì, ma potevano chiudere un occhio. « Lei è un benemerito, caro Marchi, un pioniere ». Parola. Potevano chiudere un occhio.

Paola          — È il contratto. Adesso non prendertela, papà. Potrai riposarti.

Pietro         (ride amaro) — Anche tu dici la stessa cosa. « Potrai riposarti, potrai fare il signore ». E se non mi va, di riposarmi?

Paola          — Alla tua età si deve.

Pietro         — E i soldi che portavo a casa?

Paola          — Pazienza. Hai la pensione.

Pietro         — Aspetta, aspetta di vedermi sempre fra i piedi.

Paola          — Ti faccio scaldare la cena.

Pietro         — La mangio fredda, lascia stare. (Si siede, manovra fra le stoviglie) Tuo marito non c'è?

Paola          — È al circolo. Ha la riunione sindacale.

Pietro         — Dovevo andarci anch'io. Fa niente (Stac­co) Andrea dorme?

Paola          — L'ho messo a letto poco fa. Bisogna che veda se si è addormentato.

Pietro         (a bocca piena) — Senti, potrei portarlo a passeggio.

Paola          — Andrea?

Pietro         — Sì. Prima non avevo tempo, adesso sì. Domani Io porto alleFornaci. Sono arrivati i sal­timbanchi.

Paola          — Sarà contento.

Pietro         — Lo porterò ai giardini, a vedere la fon­tana luminosa.

Paola          — Gli piace stare con te.

Pietro         — Faremo molte passeggiate. È salute.

Paola          — Oggi ha rotto l'automobile, quella di latta che gli avevi regalato tu.  L'ho sgridato, mi fa: « Tanto nonno Pietro prende il martello e l'aggiu­sta ». Dice sempre che da grande farà le automo­bili come te.

Pietro         — Gliel'aggiusterò dopo mangiato.

Paola          — Non c'è premura. Vado a vedere se si è addormentato.

(Passi leggeri in dissolvenza. Ritorna il « motivo del lavoro »).

Pietro         (a bocca piena, lentamente) — Di che mi lamento, Maria? Lavoro sempre nelle automobili, vedi? Che luna, dalla finestra. Riesci a vederla. Maria? Da quando sono pensionato ho scoperto­la luna.

(Il motivo si dissolve).

« I fiori di un anno lontano » è stato trasmesso dalla RAI-TV il 6 marzo 1961, sul Secondo Programma, nella interprelazione della Compagnia di Prosa di Torino della Radiotelevisione Italiana e con la regìa di Euge­nio Salussolia. Carlo Ratti ha prestato la sua voce al personaggio di Pietro Marchi, Anna Caravaggi a quello della moglie. Altri interpreti; Nico Pepe, Elvio Ronza, Gualtiero Rizzi, Maria Fabbri, Misa Mordeglia Mari.

Copyright 1963 byUgo Ronfani.