I malcontenti

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Carlo Goldoni

Carlo Goldoni

I MALCONTENTI

Commedia di tre atti in prosa rappresentata per la prima volta

in Verona nell'Estate dell'anno 1755

A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR

GIOVANNI MURRAY

RESIDENTE PER SUA MAESTÀ BRITANNICA

PRESSO LA SERENISSIMA REPUBBLICA

DI VENEZIA

Primache io mi determinassi a dedicare una mia Commedia a V.E., ci ho pensato moltissimo. Conosco il genio della Nazione, conosco il vostro precisamente, e so che per l'originario costume, e per il vostro particolare sistema, solete abborrir quegli'incensi, che al vero merito giustamente si danno. Non vorrei che da questa mia proposizione si avanzasse taluno a creder Voi nemico del vero merito, giudicando colla corrente del popolo inseparabili i segni estremi della venerazione dall'interna stima di un bene. Anzi per lo contrario niuno più di Voi ama e conosce il merito, ed in se medesimo lo coltiva; ma coi principii della buona filosofia sostenete per massima che il vero merito debba esser contento di se medesimo. Questo ragionevole pensamento non deriva soltanto da quella moderazione che nelle anime grandi tenta di porre un velo dinnanzi alle virtù luminose, ma il zelo stesso con cui codesto merito si sublima, consiglia gli uomini valorosi sottrarlo da quegli equivoci, che lo possono coll'adulazione adombrare. Pur troppo vedesi tutto giorno ergere altari all'idolo della vanità; odesi frequentemente pur troppo confondere dall'interesse il merito coll'ignoranza, e colmare di finte lodi i prediletti della fortuna. Un uomo saggio sdegna di accomunarsi con queste immagini pitturate; gli basta essere conosciuto da pochi, contento di poter soddisfare a se stesso.

Conosciuto adunque di V. E. il carattere, sperai potervi dare un testimonio della mia sincera venerazione, senza dir cosa che vi potesse spiacere. Fondai maggiormente la mia speranza sul mio costume medesimo, nemico di quell'arte screditata e servile, con cui al suono di pompose laudi comprasi da taluno la protezione de' Mecenati. L'unico pregio di cui mi vanto, è la semplice verità. Niuno ha potuto di me dolersi ch'io l'abbia fatto arrossire, caricandolo di quegli encomi che sa di non meritare, o che abbia offesa la sua modestia, svelando quelle virtù che ama di coltivare nascostamente. Questa rigorosa osservanza l'userò con Voi, più di quelli che con altri finora ho fatto. Non farò parola del vero merito che possedete; non parlerò della vostra illustre Famiglia passata dalla Moravia in Iscozia sino dal primo secolo dell'Era Cristiana, imparentata col Regio sangue di più Sovrani Scozzesi, valorosa nell'armi e memorabile nei governi, ben che di questo potrei parlare senza sdegnarvi, non potendosi da Voi nascondere quelle verità luminose, che sono rese pubbliche dall'istoria. Il grado che Voi sostenete di Regio Ministro in questa Eccelsa Repubblica, dimostra bastantemente che il Monarca Britannico apprezza, egualmente che il vostro sangue, il vostro esimio talento. Queste sono cose assai note, ch'io posso dire liberamente, perché compariscono da per sé stesse agli occhi del pubblico, senza ch'io vi aggiunga parola. Tacerò tutto quello che potrei dire di Voi medesimo. I vostri amici vi conoscono bastantemente, senza che io mi affatichi per darvi loro a conoscere, e fuori dei vostri amici, Voi non curate di essere vanamente esaltato. Supplito valorosamente alle vostre Regie incombenze, Voi amate di vivere tranquillamente in società piacevole, trattando con cuore aperto e sincero quelle persone che vi degnate di ammettere alla vostra amabile conversazione. Io pure, per mia fortuna e per vostra parzialissima degnazione, ho l'onore talvolta di essere della vostra partita. Le mie Commedie mi procacciarono questo bene; Voi vi compiaceste di loro, e voleste onorar me medesimo della vostra liberalissima protezione. Ne riconosco il vantaggio, e spero di essere compatito, se procuro di profittarmene. La vostra approvazione qualifica la mia intrapresa; Voi conoscete il gusto fino della Commedia; l'avete appreso dai buoni Autori, e quelli precisamente dell'Inghilterra vi hanno della forza comica illuminato. Anch'io, quantunque ignaro di cotal lingua, coll'aiuto delle traduzioni migliori, ho studiato di profittare colle osservazioni più serie di tai valorosi Maestri, e tutta quella forza di politica e di morale che ho sparsa ne' scritti miei, è opera dell'imitazione studiata sugli originali dell'Inghilterra, Il vostro celebre Shakespeare, venerabile non meno sui Teatri Britannici, che presso le nazioni estere ancora, ha unito perfettamente in sé stesso la Tragica e la Comica facoltà. Egli è alla testa degl'innumerabili Autori Inglesi che hanno illustrate le Scene, e al giorno d'oggi lo preferiscono a tutti gli altri. Infatti nelle opere sue trovasi tale artificio nella condotta, tal verità nei caratteri, e tale robustezza nei sentimenti, che può servire di scuola a chiunque vuole intraprendere una sì faticosa carriera. Egli non ha osservato nelle opere sue quella scrupolosa unità di tempo e di luogo, che mette in angustia la fantasia de' Poeti, seguendo in questo la libertà dei Spagnuoli, che malgrado anch'essi al precettore Aristotile, hanno empiuto per tanti secoli i loro Teatri di opere maravigliose, istruttive e piacevoli. Per me tengo per sicurissimo, che Aristotile colla sua poetica, e Orazio suo imitatore, ci abbiano recato assai più danno che utile. Prima di loro Euripide avea composto delle buone Tragedie colla traccia soltanto della ragione e del costume de' tempi suoi, e se non avessero gl'idolatrati maestri imposto il giogo servile alla posterità, sarebbesi l'ingegno dell'uomo da sé diretto nella mutazione de' secoli, a seconda del genio delle nazioni e dei costumi del Mondo. Gl'Inglesi e gli Spagnuoli, com'io diceva, sciolti si sono dall'ingiurioso legame, e seriamente pensando non essere la Rappresentazione Teatrale se non se un'imitazione ragionevole delle azioni umane, o Tragiche, o Comiche, a tenore delle persone, o dell'argomento che prendesi a maneggiar dall'Autore, si mantennero in libertà di dilatare l'azione al tempo necessario all'intiera consumazione de' fatti storici, o favolosi, e si valsero della mutazion delle Scene alla condotta loro opportune. È ridicola la ragione di quelli che sostengono necessaria l'unità del tempo e del luogo: dicon essi non essere verisimile che si consumi in tre ore l'orditura di un fatto, al di cui compimento furono necessari degli anni, ed essere altresì contro i precetti della verosimiglianza far passar l'uditore da una camera ad una piazza, dalla città alla campagna, e da un paese ad un altro. Se i spettatori di una Tragedia, o di una Commedia, presumessero di vedere in Teatro il verisimile perfettamente eseguito, partirebbero malcontenti da qualunque scenica Rappresentazione, poiché per quanto l'arte s'ingegni d ingannare chi ascolta, non sarà mai vero che nel periodo di tre ore possano accadere quei fatti che sul Teatro si rappresentano, e che in un luogo solo possano combinarsi tante azioni diverse. Aristotile istesso accorda che in tre ore di tempo si possano raffigurare dei fatti possibili in un giro di sole, e perché dunque non si potranno raffigurare quelli di un anno, di un lustro, e dell'età di un uomo se occorre? Se necessaria è l'immaginazione dell'uomo per appagarsi dell'apparenza, codesta immaginazione può estendersi senza misura, e il verisimile che vanamente si cerca nell'angustia del tempo, nella ristrettezza del luogo, basterebbe si riconoscesse nei caratteri, nelle passioni e nella combinazione artifiziosa degli accidenti. Ma pur troppo si veggono questi rigorosi seguaci di Orazio e di Aristotile osservare con stento i precetti delle unità, e trascurare le regole della ragione dettate dalla natura, ed approvate dall'universale dei popoli. Ecco il perché (Signore) ho io nella presente Commedia introdotto per episodio un giovane male iniziato in quest'arte. Volendo egli, per segnalarsi, imitare il celeberrimo Shakespeare, senza averlo prima studiato bene, e senza quei principii di natura che sono al Comico necessari, non può riuscire che una ridicola caricatura. Mi sono valso altresì di una simile congiuntura, per render pubblica la mia venerazione inverso un così rispettabile Autore, e rendere il di lui nome palese a chi per avventura non lo avesse ancor conosciuto.

Posto ch'io mi era determinato di dedicare all'E. V. una mia Commedia, parvemi che toccar dovesse una tal fortuna a questa precisamente, che di un vostro compatriota ragiona, e spero che in grazia sua mi accorderete quella protezione che io non merito, e di potermi dire ossequiosamente

Di V.E.

Umiliss. Devotiss. Obblig. Servidore

Carlo Goldoni

L'AUTORE A CHI LEGGE

Questa Commedia si è una sol volta recitata in Verona, e dopo non si è più altrove rappresentata. Eppure l'argomento de' Malcontenti potrebbe essere utile molto alla società, prendendo di mira un pregiudizio che tanto si è dilatato. Il villeggiare, che fu introdotto per l'utile e per il comodo de' Cittadini, è arrivato oggidì all'eccesso del lusso, del dispendio e dell'incomoda soggezione. Pazienza che vi si adattino i nobili, i ricchi, gli oziosi; ma le persone di basso rango, e quelle che in città scarsamente vivono, e tanti che il bisogno loro vorrebbe che agl'interessi della casa e della famiglia badassero, tutto lasciano, tutto pospongono alla magnifica villeggiatura. E quali conseguenze poi ne derivano? Lettori umanissimi, una parte di queste nella mia Commedia vengono rimarcate. A questo solo fine l'ho io formata, e molto da essa mi volea compromettere; ma il destino non ha voluto che fosse in Venezia rappresentata, mancati improvvisamente due Personaggi, ai quali addossate erano le prime parti.

Se taluno s'immaginasse che col Personaggio di Grisologo avessi avuto animo di criticar qualcheduno, protesto che certamente s'inganna; ho troppo rispetto per tutti quelli che scrivono, e molto più per chi ha dato saggio per molti anni del suo talento. Il mio Grisologo è un principiante che vuol imitare un Poeta Inglese, locché a' dì nostri non si verifica di nessuno di quelli che conosciamo. Lo dico, perché pur troppo dilettasi il Mondo far scena sopra di noi che al pubblico ci esponiamo, e Dio mi guardi dal fare ad altri quello che non vorrei che fosse fatto a me stesso.

PERSONAGGI

POLICASTRO vecchio dappoco

GERONIMO di lui fratello

FELICITA figliuola del signor Policastro

GRISOLOGO figliuolo del signor Policastro

LEONIDE fanciulla da marito

RIDOLFO fratello della signora Leonide

MARIO

ROCCOLINO

GRILLETTA cameriera della signora Felicita

CRICCA servitore

Un SARTO

Un PROCURATORE

Un SERVITORE di casa del signor Geronimo

Un Servitore del signor Roccolino, che non parla

La Scena si rappresenta in Milano.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera in casa della signora Felicita.

La signora Felicita e Grilletta

FELIC. Lasciatemi stare, Grilletta; sono arrabbiata quanto mai posso essere.

GRILL. Questo è fuori del solito; ella suol essere pazientissima per costume, ed ora per così poco vuol dar nelle smanie?

FELIC. Ma se mi ci tirano per i capelli! Mi tocca fare una vita la più sciagurata di questo mondo. Ecco qui, ora siamo all'autunno. Tutti vanno in campagna, ed a me tocca star qui.

GRILL. Le piace tanto l'aria di villa? So pure che una volta diceva il di lei zio voler trasportare l'abitazione quotidiana della famiglia in villa, ed ella si pose a piangere per paura che lo facesse.

FELIC. Certo, che per sempre in villa non ci starei; ma a' suoi tempi, quando la stagion lo richiede, quando ci vanno gli altri, piacerebbe anche a me di potervi andare. Star in villa quando non c'è nessuno, è cosa da pazzi: ma in tempo d'autunno, in tempo che vi è tanto mondo, tanta conversazione, è una cosa deliziosissima. Ci andava una volta, quando viveva la povera signora madre. Sono tre anni che non si va più; e quando siamo da questi giorni, quando sento persone che vanno in villa, mi salgono i fumi al capo, mi si destano le convulsioni.

GRILL. Credo appunto, che oggi o domani vadano a villeggiare anche questi signori che abitano sopra di noi.

FELIC. Sì, è vero. La signora Leonide mi disse ieri, che a momenti sarà di partenza. Anzi non ci pensavo ancora in quest'anno, ma ella me ne ha fatta venir volontà.

GRILL. Lo so io il perché le ha destato il solletico.

FELIC. Oh, voi penserete che sia per il signor Ridolfo di lei fratello. Ma non è vero.

GRILL. Se il mio pensiero non fosse vero, non l'avrebbe indovinato sì presto.

FELIC. Vi dirò, il signor Ridolfo non mi dispiace, ma è un certo carattere stravagante, che ancora non conosco bene.

GRILL. In campagna lo conoscerebbe un po' meglio.

FELIC. Certamente là si pratica con un poco più di confidenza. I nostri beni sono poco distanti dai beni loro: colla signora Leonide siamo amiche; ci praticheremmo spesso, e per conseguenza vorrei conoscere l'animo e l'intenzione del signor Ridolfo.

GRILL. Lo dica al suo signor padre; egli che l'ama teneramente, farà di tutto per contentarla.

FELIC. Se stesse a lui, son certa che sarei consolata. Ma egli non conta niente in questa casa. Quell'avaraccio dello zio ha il maneggio, ha i quattrini, e vuol le cose a suo modo.

GRILL. E suo fratello?

FELIC. E mio fratello è un babbeo, che non ha coraggio di dir due parole. Questo vecchio ci tien tutti sotto. Per un poco di denari, che ha accumulati col nostro, fa tremar tutti. E non si tratta di maritarmi, e non si pensa a divertirmi, e guai a chi parla; ma so io quello che farò.

GRILL. Che cosa penserebbe ella di fare?

FELIC. Anderò a cacciarmi in un ritiro per sempre, e il signor zio sarà contento.

GRILL. Sarebbe buona davvero a rovinar se stessa, per far a lui un dispetto.

FELIC. Tant'è, se questa volta non mi dà questa picciola soddisfazione; se non mi manda un poco in campagna, faccio qualche risoluzione.

GRILL. Può essere, se glielo dice, che la conduca con lui.

FELIC. Oh, non ce lo voglio lui. Non basta che ci sieno mio padre e mio fratello? Non mi ci posso vedere con quel vecchio tisico.

GRILL. Mi pare che abbiano picchiato.

FELIC. Andate a vedere. Picchiano qui dalla scala.

GRILL. Sarà la serva della signora Leonide.

FELIC. Può essere che sia ella stessa.

GRILL. Eh, sarà la serva, che tutto il giorno viene in prestito di qualche cosa. Ora sale, ora olio, ora zucchero: oh che casa disordinata! non hanno mai il bisogno in casa. Almeno qui da noi, per dir il vero, non manca niente. (parte)

SCENA SECONDA

La signora Felicita

FELIC. Non manca niente, non manca niente: a me manca tutto. Che importa a me che ci sia sale, olio e zucchero, se manca il miglior condimento, ch'è quello della libertà? Non sono più una bambina da tener per la cintola. Ogn'anno passa un anno, e vedo tante che fanno più di me e sono meno di me; e voglio fare ancor io quello che fanno le altre.

SCENA TERZA

Grilletta e detta, poi la signora Leonide

GRILL. È qui la signora Leonide.

FELIC. Va in campagna?

GRILL. Se ci va? È vestita da viaggio.

FELIC. Ah! tutte sì, ed io no. Quando ci penso, mi vengono cento mali.

LEON. Serva sua, signora Felicita.

FELIC. Serva, signora Leonide. Come sta?

LEON. A servirla. Ed ella?

FELIC. A servirla.

GRILL. (Questo complimento non manca mai). (da sé)

FELIC. Datele da sedere. (a Grilletta, la quale porta due sedie, e parte)

LEON. Non s'incomodi, son qui per poco. Son venuta a riverirla, a ricevere i suoi comandi.

FELIC. Vedo ch'ella è di viaggio. Per dove, se è lecito di saperlo?

LEON. In campagna. Nei nostri beni. A goder l'autunno, a star allegramente, con una buonissima compagnia.

FELIC. Ci starà un pezzo?

LEON. Tutto l'autunno; fino che ci staranno gli altri.

FELIC. Ah! (sospira da sé)

LEON. Che ha, che mi par melanconica?

FELIC. Niente, mi duole un poco la testa. S'accomodi.

LEON. No, perché bisogna ch'io vada via.

FELIC. Quando si parte?

LEON. Oggi, a qualche ora.

FELIC. Viene il signor Ridolfo?

LEON. Sì signora, viene egli, viene il signor Roccolino, altri tre o quattro amici di mio fratello. Non manca gente, staremo allegri.

FELIC. Mah! è fortunata la signora Leonide!

LEON. Oh, io in verità non posso lamentarmi di niente. In casa mi fanno tutto quello che voglio. Vede questo abitino? Me l'hanno fatto ora a posta per andar in campagna.

FELIC. Anch'io me ne faccio uno. S'accomodi un poco.

LEON. No, perché vado via. Di che cosa lo fa quest'abito?

FELIC. Non so s'io me lo faccia di carè, o di stoffetta.

LEON. Per portare in città, vuol essere un bel drappo di seta alla moda.

FELIC. Basta, ci penserò. Mi dispiace vederla in piedi.

LEON. Bisogna ch'io me ne vada: m'aspettano. Dica, ella non ci va in campagna?

FELIC. Non so; può essere.

LEON. Poverina! in verità me ne dispiace. Sempre qui sagrificata. Hanno poca carità questi suoi parenti, e per dirla, anche poca convenienza.

FELIC. Oh, io non me ne sono curata d'andar in campagna; per altro...

LEON. Oh, s'ella ci stesse un anno, come stiamo noi, l'assicuro che non la lascierebbe più.

FELIC. Stanno allegri dunque?

LEON. Allegrissimi. Senta voglio dirle la vita che abbiamo fatto l'anno passato.

FELIC. Non vorrei che per me l'aspettassero.

LEON. Che importa a me? che aspettino. Siamo andati in dodici in compagnia; e tutti uomini, donne, padroni, servitori, carrozze, cavalli, tutti alla nostra villa. Arrivati colà, trovammo preparata una sontuosa cena; dopo cena si giocò al faraone, e siccome il sonno andava prendendo ora l'uno, ora l'altro, e mio fratello ed io eravamo impegnati nel gioco, ciascheduno che aveva volontà di dormire, andò nel primo letto che ritrovò, ed io fui obbligata dormir colla cameriera, e mio fratello sul canapè.

FELIC. Questo è piacere! Questa libertà mi piace. E la mattina, come andò poi?

LEON. La mattina? Bellissima...

FELIC. Ma non istia così in piedi.

LEON. La mattina dopo, (sedendo)chi si levò tardi, e chi si levò di buon'ora. Chi al passeggio, chi a leggere, e chi alla tavoletta. Verso mezzodì, ci ragunammo a bevere la cioccolata; e poi al gioco, e si giocò fino che la zuppa era in tavola. Dopo pranzo chi andò a dormire, chi a passeggiare, e chi... Ehi, amica, un po' di genietto ci ha da essere, ci s'intende.

FELIC. Ed io sempre qui.

LEON. Non farei la vita che ella fa, se credessi di diventar regina.

FELIC. Eh! questa volta mi sentiranno. Basta, basta. E così? Dica, dica, come andò poi?

LEON. Andò benissimo, e tutti i giorni bene, e sempre bene. Tardi a letto, buona tavola, gioco eterno, amoretti fra mezzo un po' di ballo, un po' di passeggio, un poco di dir male del prossimo, abbiamo fatto una villeggiatura la più piacevole di questo mondo.

FELIC. Queste sono cose per altro, che si possono fare anche in città.

LEON. Oh, vi è altra libertà in campagna. Quante cose si fanno colà liberamente, che qui non convengono. Per esempio...

FELIC. Cara signora Leonide, non vorrei che per causa mia la si trattenesse...

LEON. Niente, niente: non ho da far niente.

FELIC. Perché pareva che ella avesse premura...

LEON. Per esempio, se qui una giovane civile si vedesse passeggiare con un giovanotto, che direbbero mai le genti?

FELIC. Oh qui? guardi il cielo! E in campagna si fa...

SCENA QUARTA

Grilletta e dette.

GRILL. Signora, è domandata di sopra. (a Leonide)

LEON. Vengo. In campagna ogni giorno si vedono visi nuovi che vanno e vengono, e si trattano con libertà: qui? pensate.

FELIC. Qui? se viene uno in casa, immediatamente si critica.

LEON. E poi...

GRILL. Signora, la pregano di far presto.

LEON. Vado subito. (s'alza)E poi quell'aria aperta, quel verde, quei fiori, quell'acque fanno proprio allargar il cuore.

FELIC. Ed io qui.

LEON. Poverina! e ella qui.

FELIC. Ma non ci starò.

GRILL. Sente, signora? picchiano. (a Leonide)

LEON. Signora Felicita, io me ne vado.

FELIC. Faccia buon viaggio.

LEON. Vuol venire con noi?

FELIC. Se potessi!

LEON. Poverina! non vogliono eh?

FELIC. Ah! chi sa?

LEON. Me ne dispiace tanto. È una miseria la sua.

FELIC. Se poi mi metterò al punto, ci anderò.

LEON. Io intanto ci vado.

FELIC. Buon pro le faccia.

LEON. E mi divertirò assaissimo.

FELIC. Felice lei!

LEON. E vado presto. E in buona compagnia; e con denari da giocare, e con degli abiti da comparire, e con l'amante al fianco, che nessuno sa niente. (piano a Felicita)Signora Felicita, la riverisco. (Ha una rabbia, ha un'invidia che si divora). (da sé, e parte)

SCENA QUINTA

La signora Felicita e Grilletta

FELIC. (Ci mancava costei a farmi disperare un po' più). (da sé)

GRILL. Via, signora padrona, non istia ad affliggersi per così poco. Se non anderà quest'anno in campagna, ci anderà un altro.

FELIC. Ci voglio andare quest'anno. Non sono una miserabile: abbiamo anche noi case e poderi quanto la signora Leonide, e due volte più.

GRILL. Non vi è altra differenza, se non che ha dei parenti che la contentano, e ella è tenuta bassa.

FELIC. Lo dirò a mio padre. Io non voglio più far questa vita. Mio padre e mio fratello sono uomini come gli altri. Se vogliono, mi possono dare questa piccola soddisfazione, e se non vogliono, so io quel che farò.

GRILL. Vuol ella forse...

FELIC. So io quel che risolverò.

GRILL. Ecco qui il signor padre: gli dica l'animo suo.

FELIC. Capperi, se glielo dirò!

GRILL. Io me ne vado, non voglio altri guai; ne ho tanti de' miei, che mi bastano.

FELIC. Che avete voi, che vi dà fastidio?

GRILL. Un affanno grande grandissimo, che mi fa vegliare di notte e smaniare di giorno.

FELIC. E in che consiste?

GRILL. Nella volontà di marito. (parte)

SCENA SESTA

La signora Felicita, poi il signor Policastro

FELIC. Questo desiderio l'ho anch'io, perché mi tengono qui incatenata... Se avessi un poco di libertà, come hanno le altre, forse forse non ci penserei. Mai una volta a spasso, mai un anno in campagna...

POLIC. (In veste da camera, con un cartoccio di datteri in seno)Ogni giorno s'hanno a sentir a dire le medesime cose. Sono stufo io di sentirle. (verso la scena)

FELIC. Con chi l'ha, signor padre?

POLIC. L'ho, l'ho... Che cosa sono io? un ragazzo? Ho de' figliuoli grandi e grossi, e non ho bisogno che nessuno mi venga a far il dottore. (verso la scena, come sopra; poi si mangia un dattero)

FELIC. Di grazia, posso sapere io con chi parla ora?

POLIC. Parlo con quel satrapo di mio fratello.

FELIC. Ma egli non sente ora. Là non c'è, non lo vedo.

POLIC. E se ci fosse, non parlerei; perché, se io dico una parola, egli ne vuol dir dieci, e sempre vuol avere ragione.

FELIC. Davvero, davvero, questo signor zio vuol far troppo. Per che causa si sono attaccati presentemente?

POLIC. Ogni giorno non si sente altro da lui che rimproveri, che consigli, che dicerie e sbeffature. Chi sente lui, io sono un poltrone che non fa niente. Mi rimprovera perché levo un po' tardi, perché vado poco fuori di casa, perché non m'imbarazzo nelle cose della famiglia. Oh bella! siamo in due, un po' per uno. Egli bada agl'interessi, al negozio, alle riscossioni, alle lettere e che so io; ma io in vent'anni continui ho avuto una moglie al fianco, che mi ha fatto diventar canuto prima del tempo. Ora è tempo che mi riposi. Gridi quanto vuole, dica quel che sa dire: io non voglio far niente. L'avete capita? io non voglio far niente. (si mangia un dattero)

FELIC. Certo; se il signor zio si leva presto, fa, gira e fatica, ha anche il piacere di esser egli il padrone di tutto; e vossignoria che è il maggiore, e ha la famiglia, non è padrone di niente.

POLIC. Di questo ci penso poco. Una lira al giorno mi basta, per i miei minuti piaceri. Ma non voglio far niente.

FELIC. Almeno, caro signor padre, pensi un poco ai suoi figli, non lasci che lo zio li tiranneggi così.

POLIC. Sicuro, che i miei figliuoli voglio che abbiano il lor bisogno.

FELIC. Ecco, ora tutte le persone civili che hanno il modo di poterlo fare, vanno in campagna, e noi dobbiamo star qui a nostro marcio dispetto.

POLIC. L'è che ci anderei anch'io un poco in villa: sono tant'anni che non ci si va.

FELIC. Ma perché non ci andiamo?

POLIC. Perché il signor Geronimo non vuole.

FELIC. E vossignoria non è padrone quanto lui?

POLIC. Lo sono certo padrone; ancor io lo sono.

FELIC. Non comanda ella pure?

POLIC. Comando ancor io, comando.

FELIC. Dunque dica che vuol andare.

POLIC. Lo dirò io.

FELIC. E andiamoci tutti.

POLIC. Ci anderemo noi. (mangiasi un dattero)

FELIC. Che mangia, signor padre?

POLIC. Mangio de' datteri; mi piacciono tanto. Ne volete voi? (le mostra il cartoccio)

FELIC. Obbligatissima. (li ricusa)

POLIC. Sono buoni veh!

FELIC. Sono troppo dolci.

POLIC. Mi piace tanto a me il dolce, mi piace.

FELIC. Pensi un poco, signore, a persuadere il signor zio Geronimo che ci conduca in campagna, o che ci lasci andare da noi.

POLIC. E se non ci vorrà condurre, ci anderemo da noi.

FELIC. Meglio; ci averei più gusto io.

POLIC. Ci anderemo da noi. (si mangia un dattero)

FELIC. Il denaro non lo potrà negare.

POLIC. Non lo potrà negare.

FELIC. Vada dunque subito a dirglielo, prima ch'egli esca di casa.

POLIC. Non ci parlo troppo volentieri io con lui.

FELIC. Dunque, come s'ha da fare?

POLIC. Fate così, Felicita; diteglielo voi, diteglielo.

FELIC. Oh, a me non mi baderà. Se ci fosse anche lei...

POLIC. Ci sarò io.

FELIC. Eccolo che va via. (osservando fra le scene)

POLIC. Buon viaggio.

FELIC. Se non gli parliamo ora...

POLIC. Come volete ch'io faccia?

FELIC. Chiamiamolo.

POLIC. Io non lo chiamo.

FELIC. Lo chiamerò io. Signor zio, dica, signor zio. (verso la scena)

POLIC. (Me n'anderei tanto volentieri). (da sé)

FELIC. Ora gli si dice tutto, e si parla schietto. (a Policastro)

SCENA SETTIMA

Il signor Geronimo e detti.

GERON. Che cosa volete, signora nipote?

FELIC. È qui il signor padre, che le vorrebbe parlare.

POLIC. Io non voglio niente, io. (si mangia un dattero)

GERON. Il signor Policastro si diverte coi datteri.

POLIC. Vi do fastidio? Anderò via. (in atto di partire)

FELIC. No, signor padre, non vada via. Dica quello che gli voleva dire.

POLIC. Glielo potete dire anche voi.

FELIC. Glielo dirò, se così comanda.

GERON. È una gran cosa questa, che vi vuol tanto a dirla?

FELIC. Avremmo volontà, signore, d'andar un poco in campagna.

GERON. Perché non me l'avete detto due mesi prima, che vi averei compiaciuto volentieri?

FELIC. D'agosto non si va in campagna.

GERON. Anzi, quand'è caldo, allora si gode l'aria aperta. Che vorreste far in villa nel mese d'ottobre, in cui per solito principia il freddo, principiano le pioggie, e conviene stare ritirati in casa? Che dite, signor Policastro, non si sta meglio in città?

POLIC. Sì; quando principia il freddo, si sta bene in casa.

FELIC. Ma che vuol dire, che ora tutti fanno le loro villeggiature? (a Geronimo)

GERON. Volete voi dire di quelli che vanno a far il loro vino? Noi abbiamo de' buoni castaldi, de' buoni fattori, non vi è bisogno che c'incomodiamo per questo. Il bucato lo faccio far nell'estate. In verità, credetemi, ora ci servirebbe d'incomodo. Non è egli vero, signor Policastro?

POLIC. Per me... non dico nulla io... Felicita vorrebbe ella... (mangiando il dattero)

FELIC. Io e Grisologo mio fratello vorremmo dal signor zio questo piacere in quest'anno, che ci facesse godere un poco di villeggiatura d'autunno; e se non può venir lui, verrà il signor padre. Non è egli vero, signor padre, non ci verrà ella volentieri con noi?

POLIC. Ci verrò io.

GERON. Ci andereste voi? (a Policastro)

POLIC. Eh, perché no?

GERON. A far che ci andereste? (alterato)

POLIC. A far che, a far che? Ci anderei. A far che, a far che?

GERON. Già rispondete sempre a proposito.

POLIC. A proposito certo; rispondo a proposito io.

FELIC. Ci vanno tanti; perché non ci possiamo andare anche noi?

POLIC. Ci vanno tanti, eh?

FELIC. Sì signore. Ci vanno ora anche questi che stanno sopra di noi. E alla signora Leonide hanno fatto un abito nuovo da viaggio, a posta per andar in campagna.

GERON. Ne vorreste uno anche voi?

FELIC. Lo vorrei certo.

GERON. Che dice il signor Policastro?

POLIC. Lo vorrebbe lei.

FELIC. Che dice il signor zio?

GERON. Ho che fare ora; ne parleremo poi.

FELIC. Ma questo poi, compatitemi, è troppo. Non mi voler contentare in niente. Signor padre, dica qualche cosa anche lei.

POLIC. Eh... contentatela.

GERON. Fatelo voi, se avete il modo di farlo.

FELIC. Lo farebbe lui, se il signor zio non facesse tutto da sé.

POLIC. Lo farei io, se ne avessi.

FELIC. Finalmente il signor padre è padre.

GERON. Certamente, è padre; ha messi al mondo due figli.

POLIC. Vi par poco, eh?

GERON. Ma non è buono da mantenerli.

FELIC. Che non ci sono le entrate?

POLIC. Che non ci sono le entrate?

GERON. A che basterebbono le entrate, se io coll'industria mia non aumentassi gli utili della casa? Poveri sciocchi! Vorreste andare in villa, eh? Vorreste andare a goder l'autunno! Lo so perché ci anderebbe volentieri la signora nipote ed il pazzo di suo fratello... Perché l'autunno in villa non si va a goder la campagna, ma si va a far la conversazione. E il padre amoroso li seconderebbe questi cari figliuoli, e anderebbe a mangiar in un mese in villa quello che basta quattro mesi in città. Non vi anderebbe per economia, no, come farebbe qualche altro buon padre di famiglia: vi anderebbe per ispendere, per divertirsi, per far da grande più che non è. Un abito nuovo per andar in campagna! Quando si va in campagna, si va per risparmiarli i vestiti, non per farne de' nuovi. Si va per godervi la libertà, non per essere in maggior soggezione. Cospetto di bacco! se vi piace la villa, vi soddisferò, signori miei, sì, vi soddisferò. Vi ci farò stare tredici mesi dell'anno. Ma sapete dove? Dove non vi sieno case di villeggianti, dove non si radunano le genti per giocare, per ballare, per tripudiare. In un bosco, in un bosco. O qui, o in un bosco. Signora nipote, la riverisco. Signor fratello, badi a mangiare i suoi datteri, che farà meglio. (parte)

POLIC. (Cava un dattero e lo mangia)

SCENA OTTAVA

La signora Felicita ed il signor Policastro poi il signor Grisologo

FELIC. (Cava il fazzoletto e piange)

POLIC. (Mangia i datteri e non dice niente)

GRIS. Sorella, ho sentito ogni cosa. Signor padre, ho sentito ogni cosa. Ero dietro di quella porta, ho sentito ogni cosa.

FELIC. Lo zio è un cane; e il signor padre non parla.

POLIC. Che ho da dire io? non sentite? Parla, parla, parla; chi gli può rispondere?

GRIS. Non vuol che si vada in campagna?

FELIC. Non vuole.

GRIS. Non vuole eh, signor padre?

POLIC. Non vuole.

GRIS. E che sì, che ci andiamo?

FELIC. Come?

GRIS. E che sì, signor padre?

POLIC. Come?

GRIS. Quanto ci vuole a far una quindicina di giorni di villeggiatura?

FELIC. Il luogo l'abbiamo. I mobili fuori ci sono, e tutto il bisogno di biancheria, di cucina, di letti.

GRIS. È egli vero, signore? C'è poi tutto?

POLIC. Oh, non so niente io.

FELIC. La signora madre, poverina, me l'ha detto cento volte. Ci è tutto; lo so di certo.

GRIS. Dunque quanto denaro ci vorrebbe? (a Felicita)

FELIC. Non saprei. Domandatelo al signor padre.

GRIS. Quanto ci vorrebbe? (a Policastro)

POLIC. Non so niente io, non ho pratica.

GRIS. Basteranno dodici zecchini? (a Felicita)

FELIC. Crederei di sì.

GRIS. Basteranno? (a Policastro)

POLIC. Crederei di sì.

GRIS. Domani anderemo in campagna.

FELIC. Ma come?

POLIC. Come, come?

GRIS. Domani anderemo in campagna.

FELIC. Avete voi dodici zecchini?

POLIC. Li avete voi dodici zecchini?

GRIS. Li averò questa sera; e domani anderemo in campagna

FELIC. A dispetto di vostro zio.

POLIC. A dispetto di mio fratello.

FELIC. Ma in che maniera li averete voi questi denari?

GRIS. Sentite. Ve lo confido, non voglio che nessuno lo sappia.

FELIC. Non dubitate.

POLIC. Eh, non parlo io.

GRIS. Vi è nota già quella tragicommedia che ho fatto per il teatro...

FELIC. Quella che dite essere sul gusto inglese?

GRIS. Sì, quella. La prima e l'unica che finora ho fatto.

POLIC. Gran buona testa che ha il mio Grisologo! Non so come faccia a saper tanto.

FELIC. E così? Seguitate.

GRIS. E così, l'ho data ai comici, come sapete; e questa sera la devono rappresentare, e se piace al pubblico mi hanno da contare domani dodici zecchini d'oro.

FELIC. E se poi non piacesse?

GRIS. Piacerà sicuramente.

POLIC. Piacerà sicurissimamente.

GRIS. È vero che non ne ho più fatto, ma questa son certo che piacerà, perché le novità sempre piacciono, ed io pretendo d'aver trovato una novissima novità. Sui nostri teatri non si è più sentito lo stile di Sachespir, celebre autor inglese.

POLIC. Intendete anche l'inglese voi?

GRIS. Qualche poco l'intendo.

POLIC. Ma come diamine fa a saper tanto?

FELIC. Dunque, se piace, dodici zecchini.

GRIS. E piacerà senz'altro.

POLIC. Piacerà senz'altro.

GRIS. Rimarranno storditi, quando sentiranno questo novello stile.

POLIC. Lo stile di... come si chiama?

GRIS. Di Sachespir.

POLIC. Di Sachespir.

FELIC. E noi anderemo in campagna

GRIS. Anderemo in campagna.

POLIC. Anderemo in campagna.

FELIC. Vado a dirlo alla signora Leonide. (parte)

GRIS. Sentirà, signor padre, che bella cosa.

POLIC. Tieni due datteri, che te li dono di cuore. (dà due datteri a Grisologo, e mangiandone uno parte)

GRIS. Altro che datteri! Se prende fuoco il novello stile do scaccomatto a quanti poeti ci sono. (parte)

SCENA NONA

Camera in casa del signor Ridolfo.

Il signor Ridolfo, Criccaed un Sarto

RID. Gran vizio maladetto di voi altri sarti, che volete sempre farvi aspettare.

SAR. Abbiamo lavorato tutta notte per servirla.

RID. Sono quindici giorni che ho ordinato quest'abito per andar in campagna e vi siete ridotti a portarlo ora che ho i cavalli da posta in casa; ora che sto per partire.

SAR. Bisogna ch'ella sappia...

RID. Non avete pontualità, non avete parola, non avete rispetto per le persone di qualità, di carattere.

SAR. Se mi permette, vorrei giustificarmi, signore, della mia tardanza.

RID. Via, che direte in vostra giustificazione? Sono quindici giorni.

SAR. È vero, sono quindici giorni; ma il mercante da oro, che ci doveva dare i galloni per di lei conto, non ha voluto darli senza il denaro, ed il mio padrone è stato costretto a prenderli da un altro, e metter fuori il denaro di sua scarsella.

RID. Cricca, tirate giù. Vediamo se questo vestito va bene. (si fa vestire da Cricca)

CRI. (Ehi, l'istoria dei galloni lo ha ammutolito). (piano al Sarto)

SAR. (Cattivo segno) (piano a Cricca)

RID. Via, proviamolo. (al Sarto, il quale gli mette il vestito)

SAR. Dovrebbe andar bene. Il padrone non è solito di fallare.

RID. Ecco, è troppo largo.

CRI. Lo ha lasciato a posta un poco larghetto: l'autunno vengono delle giornate fredde; se vuol mettersi sotto qualche cosa di più...

RID. Cricca, chiamate mia sorella, ditele che venga a vedere se quest'abito mi sta bene.

CRI. Poco fa non c'era la signora Leonide. Non so se sia ritornata.

RID. Andate a vedere.

CRI. La servo subito. (parte poi torna)

SAR. L'assicuro che gli sta dipinto.

RID. Queste maniche non mi paiono alla moda.

SAR. Oh, che dice mai! Vedrà che tutti i forestierl le portano così.

RID. Ho veduto ieri un inglese, che le aveva due dita più lunghe.

SAR. Sarebbe poi una caricatura.

CRI. Signore, è qui il procuratore di casa, che avrebbe necessità di parlargli.

RID. Ditegli che or ora vado in campagna, che non ho tempo di sentire a parlar di liti.

CRI. Veramente gliel'ho detto io, ma mi ha risposto che la premura è grande, e prima ch'ella parta, gli deve tenere un piccolo discorsetto.

RID. Gran seccatori! Che aspetti. Quando mi sarò spicciato del sarto, potrà venire. La signora Leonide l'avete veduta?

CRI. Non signore, per causa del procuratore. Vado ora a ricercare di lei.

RID. Ditele che l'aspetto.

CRI. (Ogni anno da questi giorni si mette in confusione la casa. E gli interessi suoi vanno in precipizio). (da sé, e parte)

SCENA DECIMA

Ridolfo ed il Sarto

RID. Parmi che il vestito non vada male.

SAR. Va benissimo, l'assicuro.

RID. Sentiremo che dirà mia sorella.

SAR. Intanto favorisca veder il conto.

RID. Eh, non importa. Tenetelo, lo vedrò un'altra volta.

SAR. Il padrone la prega...

RID. Ditegli che al mio ritorno lo pagherò immediatamente.

SAR. Ma egli ne ha bisogno, signore. Ha sborsato i denari per il panno, per i galloni...

RID. Bene, lo pagherò al ritorno.

SAR. Ma in verità, ne ha bisogno grandissimo.

RID. Orsù, andate. Io non ho tempo da perdere. Ho da sentir il procuratore, che mi preme assai più del sarto.

SAR. E al mio padrone preme aver il denaro.

RID. Signor dottore, favorisca. (alla porta)

SAR. Aspetterò...

RID. Andate, vi dico.

SAR. Non vuol sentire l'opinione della signora Leonide, se il vestito va bene?

RID. Va bene, va benissimo. Non occorr'altro. Dove diamine si è cacciato il procuratore? Signor dottore. (chiama)Eccolo; aveva il capo fuori della finestra.

SCENA UNDICESIMA

Il Procuratore e detti.

PROC. Servitor umilissimo, signor Ridolfo.

RID. La riverisco divotamente. (Andate a fare i fatti

vostri) (al Sarto)

SAR. Ma, signore, almeno...

RID. Sì, aspettate. Ecco un paolo per voi. Andate.

SAR. Anderò. Non lo vuole il conto?

RID. Lasciatelo, se lo volete lasciare.

SAR. Eccolo.

RID. Mettetelo lì su quel tavolino.

SAR. Come comanda. (Ci gioco io, che questo conto gli

serve per fare una spazzatura! Questa è poi la ragione,

perché da chi paga si fanno pagare il doppio). (da sé;

mette il conto sul tavolino, e parte)

SCENA DODICESIMA

Il signor Ridolfo ed il Procuratore

RID. Che mi comanda il signor dottore?

PROC. Signore, abbiamo delle novità che mi danno un po' da pensare.

RID. Se si tratta di liti, ora non si fa niente. Tutti vanno in campagna.

PROC. Eh, signore, si tratta di peggio assai che di liti! Evvi una congiura di creditor, i quali avendo saputo che vostra signoria va in campagna, vogliono esser pagati, altrimenti minacciano...

RID. Che minacciano? che cosa minacciano?

PROC. Niente altro che di assicurare per via di giustizia il pagamento de' loro crediti.

RID. E che cosa possono fare costoro?

PROC. Possono sequestrare, inventariare, e anche far qualche istanza contro della persona.

RID. Caro signor dottore, fatemi il piacere voi di acchetarli. Dite loro che al mio ritorno pagherò tutti.

PROC. Sarà inutile ch'io dica questo. Sanno che ella va in campagna per ispendere, e non per avanzare. Sono parecchi anni che si tengono a bada con parole. Ho detto assai; ho detto tutto quello che poteva dire. Non vi è rimedio, sono risolutissimi.

RID. Costoro mi faranno fare delle bestialità.

PROC. Non gioveranno niente per acchetarli.

RID. Ma qual rimedio ci trovereste voi?

PROC. Il rimedio più facile sarebbe dar loro un poco di denaro alla mano, e per il resto vedere di accomodarsi alla meglio.

RID. Dite bene voi, signor dottore carissimo, ma io di denaro sto male assai.

PROC. Perdoni, se mi avanzo troppo. Ella fa delle spese superflue. Ecco, per andar in campagna si è fatto un vestito nuovo, magnifico, che non occorreva. Averà speso de' zecchini parecchi, e con questi poteva contentare due o tre creditori.

RID. A dirvi la verità... per quest'abito sinora non ho sborsato denari.

PROC. E quando lo pagherà?

RID. Al ritorno.

PROC. Tutti al ritorno. Ma non si ricorda ella, che il vino di quest'anno lo ha quasi tutto obbligato a quel signore che gli ha guadagnati i dugento zecchini al faraone?

RID. La mia pontualità voleva che io facessi così. I debiti di gioco devono essere i primi pagati da chi ha riputazione in capo.

PROC. E i poveri bottegai che hanno dato il loro sangue...

RID. Orsù, non ho bisogno che voi mi facciate né il correttore, né il moralista. Pensate al ripiego, se c'è presentemente. Voglio andar in villa. Sono impegnato con una partita d'amici, e non posso sottrarmi.

PROC. Vuol ella dar niente alla mano a quelli che fanno il fuoco più grande?

RID. Dei denari che ho destinati per la villeggiatura, non ne posso toccar uno. Ho preso le mie misure: cencinquanta zecchini in un mese, è il meno ch'io possa spendere. Non me ne priverei di uno, se andasse a fuoco la casa.

PROC. Dunque quid agendum?

RID. Tocca a voi, che siete del mestiere.

PROC. Non basta ora uno che sappia fare il legale, ci vorrebbe uno che sapesse far l'oro.

RID. Voi altri, quando vi preme, lo cavate di sotterra.

PROC. Quando c'è, si cava: ma quando non c'è, non si cava.

RID. Chi ha ceppi, può far delle scheggie. Non ho io de' beni per trovar a interesse quello che mi bisogna?

PROC. Quando così le comoda, si potrà fare.

RID. Quanto credete voi che ci vorrà per far tacere costoro?

PROC. Per quello che ho potuto raccogliere, un migliaio di scudi.

RID. Bene, trovatemi voi mille scudi a censo.

PROC. Si troveranno. Ma se ella ora si contentasse di distribuire quel denaro che ha, potrebbe darsi che tirassero innanzi.

RID. No; questo denaro è per la villeggiatura; questo non si tocca. Trovate voi mille scudi, e accomodiamola.

PROC. Ci vorrà tempo per ritrovarli.

RID. Frattanto che io sono in villa, avrete tempo di farlo.

PROC. Oh, i creditori non la lasciano andare, senza esser pagati.

RID. Che! ardiranno di tenermi qui sequestrato?

PROC. Ardiranno anche più, per esser pagati.

RID. Fate voi la sicurtà per me.

PROC. Non si può, signore. I procuratori non possono farsi mallevadori de' principali. (Ci mancherebbe anche questa!) (da sé)

RID. Dunque, che s'ha da fare?

PROC. Con un po' di tempo si troveranno.

RID. Ma se oggi devo andar in campagna.

PROC. Per oggi è impossibile.

RID. E quando?

PROC. Più presto che si potrà.

RID. Domani per assoluto.

PROC. Vedremo.

RID. Più in là di domani non aspetto certo.

PROC. Ma le vostre liti, signore, avrebbero bisogno di un poco di attenzione. Sarebbe necessario che si tenesse qualche sessione cogli avvocati, ora appunto che hanno meno che fare.

RID. Al mio ritorno ci baderò.

PROC. E intanto gli avversari non dormono.

RID. Badate voi a non dormire, e a trovarmi subito i mille scudi, o qualche espediente per sottrarmi da quei bricconi che mi circondano.

PROC. Non dite loro bricconi. Sono genti oneste, che vi hanno affidato il sangue loro.

RID. Or ora mi fareste venir la rabbia.

PROC. Anderò via, per non alterarvi.

RID. Avvertite, che domani voglio partire.

PROC. Ho capito. Servitor suo.

RID. Schiavo, signor dottore.

PROC. (Gran cosa a questo mondo! Per fare quello che non si può, si fa anche quello che non si deve). (parte)

SCENA TREDICESIMA

Il signor Ridolfo, poi la signora Leonide

RID. Sono alcuni anni che le cose mie vanno male. Quando torno di villa, vo' principiare a mettermi in economia. Sarebbe tempo ch'io mi accasassi. Se trovassi una buona dote, potrei sanar le mie piaghe, e fare un poco più di figura. La signora Felicita sarebbe un buon partito, se suo zio volesse maritarla. Ma è un vecchio stitico, a me non la vorrà dare.

LEON. Eccomi, signor fratello. Mi rallegro del bel vestito.

RID. Che vi pare? va bene?

LEON. Va benissimo. Mi piace, è di buon gusto, è benissimo fatto. Ma che vi pare del mio?

RID. Anche il vostro non istà male.

LEON. Appunto questo è il conto del sarto; bisogna pagarlo.

RID. Lo pagherò al ritorno.

LEON. Sono in parola di pagarlo subito; gli ho detto che fosse ritornato, e sarà qui a momenti.

RID. Ma io ora non sono in comodo di pagarlo.

LEON. Come! non avete denari?

RID. Ho il bisogno per la villeggiatura. Non voglio privarmi di quello mi può bisognare in campagna.

LEON. In questo non so darvi torto. Mi dispiace che il sarto verrà, ho promesso, e non so come disimpegnarmi.

RID. Ma voi non siete senza denari. Vi ho pur dato dieci zecchini l'altr'ieri; ne avevate degli altri.

LEON. Questi non si toccano. Li tengo per giocare. Vorreste ch'io mi trovassi in un impegno senza denari?

RID. Avete ragione. Ma se viene il sarto...

LEON. Se viene, se n'anderà come sarà venuto. Già m'immagino che or ora si partirà.

RID. Dubito che non si partirà così presto.

LEON. I cavalli da posta sono venuti, sono giù nella stalla.

RID. Bene, che aspettino; e che diano da mangiare ai postiglioni, ed il fieno ai cavalli.

LEON. Dunque si desina qui?

RID. Si desina qui certo.

LEON. Il cuoco non sa niente.

RID. Avvisatelo che si desina qui.

LEON. E la compagnia che deve venire con noi, sa che non si parte per ora?

RID. Ora manderò ad avvisare.

LEON. Potrebbe restare a pranzo con noi, ma il cuoco non sarà a tempo.

RID. E poi, se non si partisse né meno in tutt'oggi?...

LEON. Come! che! lo ponete in dubbio che si parta oggi? Sarebbe bella! S'ha da partire per assoluto. Ho fatto far le ambasciate, ho fatto le visite, mi sono licenziata dalla conversazione; e che oggi non si partisse? Non vi mancherebbe altro davvero! S'ha da partire, vi dico!

RID. Si partirà.

LEON. Ma perché lo poneste in dubbio?

RID. Non si potrebbero dar de' casi?...

LEON. Quai casi andate voi immaginando? Quando s'ha stabilito, si fa. S'ha detto di partire, si partirà.

RID. Si partirà.

LEON. Pare che lo diciate per farmi grazia. Si partirà, o non si partirà?

RID. Si partirà.

LEON. Badate bene, che se non si parte...

RID. Si partirà, si partirà, si partirà. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

La signora Leonide, poi il signor Roccolino col suo Servitore.

LEON. Se fosse mio marito gli avrei risposto: se non partirete voi, partirò io; ma sono ancora fanciulla, e col fratello non posso dire così. Non vedo l'ora di maritarmi.

ROCC. (Vestito da viaggio, cogli stivali grossi in piedi e colla scuriata in mano, seguito dal servitore che porta un valigiotto)Riverisco, riverisco, eccomi; riverisco.

LEON. Oh signor Roccolino, siete sollecito.

ROCC. M'hanno detto alle diciassette. Ecco la mostra della verità. Diciassette, meno quattro minuti. (mostra l'orologio e poi lo ripone)

LEON. Mio fratello, per ragione de suoi affari, non può partire questa mane. Abbiamo però differito per dopo pranzo.

ROCC. Benissimo. Partasi quando si parte. Io sono all'ordine per partire.

LEON. È quello il vostro bagaglio?

ROCC. Per obbedirvi.

LEON. È molto in diminutivo.

ROCC. Ma dentro vi sono delle cose superlative.

LEON. In che consistono? Poco vi può essere, per quel ch'io vedo.

ROCC. Polve di Cipro finissima, manteca odorosissima, melissa, samparelie, lavanda, ed una libreria intiera di canzonette novissime.

LEON. Bravissimo! mi piace l'idea, ci divertiremo. Ma non fate più stare colla valigia in collo quel poveruomo. All'ora del partire c'è tempo.

ROCC. Ora sono le diciassette in punto. (guardando l'orologio)Con permission di madama. Scaricate la valigia costì. (al servitore)

LEON. Se volete lasciar qui la valigia, siete padrone di farlo.

ROCC. La mia valigia non si allontana da me.

LEON. Dunque fatela portar con voi.

ROCC. Non signora, io resterò con essa.

LEON. S'intende che vogliate restar qui dunque?

ROCC. Son di madama dall'alba di questo giorno, sino alla sera che si ritornerà di campagna.

LEON. Ma oggi si starà male da noi; il cuoco non ha preparato niente.

ROCC. Non potrò mai star male, se io starò alla condizione di madama.

LEON. In verità, dovreste andare dalla signora Costanza e dalla signora Vittoria, ad avvisarle che sino al dopo desinare non si parte.

ROCC. Come volete ch'io faccia, signora, a muover i passi con queste macchine ai piedi?

LEON. Perché caricarvi co' stivalacci di peso?

ROCC. Per non mi rovinare le gambe, perché, ogni volta ch'io vo a cavallo, son soggetto a cadere tre o quattro volte almeno.

LEON. E dov'è il vostro cavallo?

ROCC. Il signor Ridolfo mi ha promesso di provvederlo.

LEON. Vi abbiamo anche da pagar il cavallo dunque?

ROCC. Solite grazie, solite finezze di tutti quelli che mi conducono a villeggiare.

LEON. In fatti non è poca fortuna per noi quest'anno avere in nostra compagnia il signor Roccolino. Tutti lo vogliono, tutti lo bramano.

ROCC. Io certo, non fo per dire, ma sono il condimento delle più belle villeggiature. Se si tratta di ballare, io ballo minuetti, furlane, con suoni, senza suoni, con chi ne sa, con chi non ne sa; e quando ballo io, tutti ridono, che si smascellano dalle risa. Io, bene o male, se occorre, prendo un violino in mano, e suono a rotta di collo. Per cantare poi ho un dono di natura, che tutti credono che io abbia studiata la musica, e non so nemmeno che cosa voglia dire la solfa. Canto alla disperata da tenor, da soprano, alto, basso, in compagnia, e solo, e non vi è nessuno che abbia l'abilità che ho io per cantar le canzonette di piazza. A tavola tutti ridono per causa mia; faccio rime stupende, e ho la facilità di far comparire per rima anche quello che non è rima. Quando ho bevuto un poco, sono deliziosissimo; non guardo in faccia a nessuno; insolenze a tutti, e prendomi poi senza avermene a male guanciate, scopellotti, sudicierie nel muso, e fino qualche volta mi hanno lordato da capo a piedi, che era una cosa da morir di ridere. Tutte le burle si fanno a me; io sono quello che tiene tutti in divertimento. Una volta mi hanno fatto prendere l'anguilla nel secchio; mi hanno fatto mangiare i maccheroni colle mani legate, mi hanno dato le polpette di crusca, e che so io, cento barzellette, tutte a me, signora. E quest'anno sono con voi. Farò vedere chi sono. Ho imparato a posta il gioco de' bussolotti, a fare sparir la moneta, a tagliar il nastro che resti intero, a far da un mazzo di carte saltar fuori un uccello. E vedere quei contadini, con tanta di bocca, a dire: oh che diavolo! oh che stregone! Vederete che balli, vederete che salti! Con questi stivalacci non posso fare. Voglio cavarmeli, e voglio farvi vedere. Basta, voglio farvi vedere. Sebbene siamo in città, s'ha da principiare l'autunno or ora, come se fossimo in villa. Madama, votre servitor, madama; allegraman toujour, allegraman, allegraman toujour. (parte)

LEON. Oh bravo, oh bravo! Questo è particolare davvero. Tutti procurano aver in villeggiatura con loro alcuno che faccia naturalmente, o sappia fare il buffone. Ma il signor Roccolino passa tutti. Sarà egli il nostro divertimento. Sono bene spesi i denari per coloro che ci fanno ridere. Mi ricordo di mio padre, che conduceva in campagna con lui dei dottori, dei letterati, dei virtuosi. Oibò, oibò, non si usa più. Gente allegra vuol essere, gente allegra. Ballo, canto, gioco, burle, spendere allegramente, spendere allegramente. (pare)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Camera della signora Leonide.

La signora Leonide e Cricca

CRI. La signora Felicita, se si contenta, vorrebbe venire a riverirla.

LEON. Sì, sì, verrà a restituirmi la visita; ditele che è padrona. (Cricca parte)Giacché si è differita da noi la partenza, averò tempo di riceverla e di godermela un poco. Poverina! aveva quasi le lagrime agli occhi, quando parlava meco. Si vede che la divora l'invidia, ma le conviene soffrire. S'io fossi in lei, non ci vorrei stare io ad una condizione sì miserabile. Piuttosto mi contenterei patire tutto il resto dell'anno, ma da questi giorni s'ha da andare, s'ha da spendere, s'ha da divertirsi. E non occorre che dicano: si fa quello che si può. S'ha da fare quello che fanno gli altri, e più degli altri, se fia possibile ancora.

SCENA SECONDA

La signora Felicita e la suddetta

FELIC. Non parte ancora la signora Leonide? Serva sua.

LEON. Umilissima. Si è differito alla sera per maggior comodità. Di giorno fa ancora troppo caldo; abbiamo poi il benefizio della luna, che è un piacere viaggiar di notte.

FELIC. Quanto goderei che differissero sino a domani.

LEON. Perché? ha qualche cosa da comandarmi?

FELIC. Obbedirla sempre. Non signora, ma domani avrei l'onore di poterle servire di compagnia.

LEON. Per dove, signora Felicita?

FELIC. Per campagna, signora Leonide. Sa che i beni della nostra casa non sono lontani dai suoi. Potremmo, s'ella si degnasse, fare una carrozzata insieme.

LEON. Che dunque va ella pure in campagna?

FELIC. Oh sì, signora. Non vuole? Sarebbe bella che l'autunno non si andasse un po' a villeggiare. Ci vanno tanti, che non hanno un palmo di terra. Meglio ci possiamo andar noi, che abbiamo case e poderi.

LEON. Non ci è mai stata per altro in villeggiatura.

FELIC. Perché finora non ho voluto andarvi.

LEON. Ed ora le è venuta la volontà perché ci vado io, non è egli vero?

FELIC. Oh, pensi lei! Io non sono di quelle, signora. Grazie al cielo, non ho motivo d'invidiare il bene degli altri. Alla nostra casa non manca niente. Credo che ella lo sappia, quanto lo so io, chi siamo e chi non siamo.

LEON. Sì, anzi... favorisca. Va con quel vestito in campagna?

FELIC. Perché no? Non è egli proprio? Non è una cosa civile?

LEON. Mi perdoni. Si renderà ridicola con quel vestito in campagna.

FELIC. È forse troppo? Le par troppo ricco?

LEON. Vede, signora Felicita, che non sa niente? Non è alla moda. È da città, e non è da campagna. Vede il mio? Così va fatto. Tutte così lo portano, e chi non ha il vestito alla moda, non occorre si metta in impegno. Io non vi anderei certo in villa con un abito antico.

FELIC. Credo di aver il modo di potermelo fare un abito come quello.

LEON. Come questo non sarà così facile. È di buon gusto, sa ella? Il mio sarto, che veste le prime dame della città, mi assicura che il simile non l'ha fatto in quest'anno.

FELIC. Io non ci vedo poi questi gran miracoli.

LEON. Che! mi burla? Perdoni, signora Felicita; ella non se ne intenderà poi tanto. Per altro...

FELIC. Qual è il sarto che glielo ha fatto?

LEON. Monsieur Lolì. Lo conosce?

FELIC. Se lo conosco! Mi ha fatto questo che ho in dosso. Oh, guardi un poco!

LEON. Non so che dire. Quand'ella lo dice, sarà. Ma quello non mi pare il taglio di monsieur Lolì.

FELIC. Non sono capace di dire una cosa per un'altra. L'ha fatto egli medesimo colle sue mani.

LEON. Vi è una grandissima differenza. Può anch'essere che venga dal taglio di vita.

FELIC. Oh, oh, in quanto alla vita, cara signora Leonide, non mi pare di essere stroppiata.

LEON. Non dico questo. Ma non ci vedo il buon gusto.

FELIC. Pare a lei così, perché il mio vestito non è da campagna.

LEON. Sì, è vero; le cose compariscono buone o cattive, secondo in che vista si prendono. Per città non è cattivo quell'abito, ma in campagna non la consiglierei di portarlo.

FELIC. Io son capace di farmene uno a bella posta, subito subito.

LEON. Per quando?

FELIC. Per domani.

LEON. Monsieur Lolì non glielo fa in un mese.

FELIC. Coi denari si fa tutto, signora.

LEON. Vede questo? Venti giorni me lo ha fatto aspettare.

FELIC. Col denaro alla mano, anche i sarti sanno far delle meraviglie.

LEON. Se volessero denari, io li pago subito. Non sono di quelle che li fanno tornare più d'una volta. Li pago anche prima, se vogliono.

FELIC. (Il mondo non dice così per altro). (da sé)

LEON. E per questo sono servita bene, perché pago subito.

FELIC. Il signor zio ha questa massima anch'esso. Vuol godere dell'avvantaggio, ma paga subito.

LEON. E così noi, si paga subito.

SCENA TERZA

Cricca e dette.

CRI. Signora, è qui monsieur Lolì che aspetta...

LEON. Che cosa vuole? Ditegli che ora non ho bisogno di lui.

FELIC. Cara signora Leonide, lo faccia passare; che sentiremo un poco se è possibile d'aver quest'abito per domani.

LEON. Compatisca, signora. Per ora non lo faccio passare. Sono un poco disgustata con lui. Sarà venuto a domandarmi scusa, eh? (a Cricca)Ditegli che al mio ritorno ci accomoderemo.

CRI. È venuto con il conto, signora...

LEON. No no, per ora non voglio far niente. (a Cricca)Gli avevo ordinati due vestiti da città per l'inverno, mi ha portato le mostre, ed ora mi averà fatto il conto della spesa. Sono così io; voglio vedere prima quello che devo spendere. (a Felicita)Ditegli che per ora non ho comodo; e che al mio ritorno si farà ogni cosa. Andate. (a Cricca)

FELIC. Galantuomo, con licenza della padrona, dite a monsieur Lolì che vada giù da me ad aspettarmi, che gli ho da parlare. (a Cricca)

LEON. Mi faccia questo piacere, signora Felicita: per questa volta non si stia a servire da lui; ho piacere che si mortifichi un poco la sua impertinenza. Già per domani non glielo fa certamente. Per quest'anno io la consiglierei a servirsi di questo che ha in dosso, che finalmente poi è un abito buono; è vero che non è all'ultima moda, ma ne vedrà degli altri così.

FELIC. Bene, bene, farò come dice lei. (Che invidia! Non vorrebbe che le altre si vestissero come veste lei!) (da sé)

LEON. Andate, licenziatelo, e ditegli che al mio ritorno lo farò avvisare. (a Cricca)

CRI. Sì signora. (Ho capito: non sa come fare a pagarlo). (da sé, e parte)

FELIC. (Già or ora lo manderò a chiamare dalla bottega). (da sé)

LEON. (Non avrei mai creduto che mio fratello avesse così pochi denari). (da sé)

FELIC. Oh signora Leonide, le leverò l'incomodo.

LEON. Ella non incomoda; favorisce.

FELIC. Le auguro buon viaggio; si diverta bene, e avrò l'onore di riverirla in campagna.

LEON. Se vuol venire da noi, è padrona.

FELIC. Chi sa? Può essere che in passando mi prenda la libertà di scendere un poco da lei. Serva umilissima, signora Leonide. (partendo)

LEON. Serva divota.

SCENA QUARTA

Il signor Ridolfo e le suddette.

RID. Oh signora Felicita, dove si va?

FELIC. Levo l'incomodo alla signora Leonide. Sono venuta a fare il mio debito.

RID. Troppo gentile, signora. Prima ch'io parta, sarò a riverirla, e a ricevere i suoi comandi.

LEON. A che ora partiremo, signor Ridolfo?

RID. L'ora non l'ho per anche fissata.

LEON. Fissatela. Ci vuol tanto? Prima avete detto dopo desinare. Poi alla sera. Volete aspettare la notte? Si può partire quando tramonta il sole.

RID. Si partirà, quando si potrà. (E se non vengono i mille scudi, non si partirà). (da sé)

FELIC. Diceva io alla signora Leonide, che se avessero differita la loro partenza a domani, avremmo avuto la fortuna d'andar insieme.

RID. Davvero? Differiamola dunque. (a Leonide)

LEON. Non signore, non signore, non si può differire. Si è mandato a dire agli altri che si partirà questa sera; volete che ci trattino da pazzi?

RID. Niente, cara sorella, non vi confondete. Manderò io da tutti: alcuni anzi avranno piacer di restare. Questa sera vi è la commedia nuova.

FELIC. Oh sì, questa sera vi è la commedia nuova.

LEON. Pensate voi, se per una scioccheria simile s'ha a differire la nostra partenza.

RID. Io ci ho tutta la mia passione per le commedie; restiamoci, cara sorella.

LEON. Se volete restar voi, restateci; io me n'anderò con tutta la compagnia.

FELIC. Lo sapete, signor Ridolfo, chi sia l'autore della commedia nuova di questa sera?

RID. Non signora, non lo so. Sento dire che sia un autore novello, che per la prima volta si espone.

FELIC. Ora sappiate che quest'autore novello è il signor Grisologo, mio fratello.

RID. Meglio. Restiamoci, signora Leonide.

LEON. Oh, oh, sarà una bella cosa davvero! (ironicamente)

FELIC. Non ne ha più fatto; per altro sento dire che sia una bellissima cosa.

LEON. Quasi quasi ci resterei; ma non è possibile, signor Ridolfo, bisogna andar per forza.

RID. Perché per forza?

LEON. Non lo sapete che questa mattina per tempo si sono mandati in villa tutti i letti, e che non vi è da dormire né per noi, né per la servitù?

RID. Cospetto di bacco! non me ne ricordavo.

LEON. E di più abbiamo il signor Roccolino, che da noi non si parte più.

RID. Questo è un inconveniente. (E se non si trovano i mille scudi, vuol esser bella!) (da sé)

FELIC. (Che ricchi signori! Fanno passeggiare anche i letti!) (da sé)

LEON. Ora vedete se necessariamente s'ha da partire.

RID. Così è, signora Felicita, ci conviene partire.

FELIC. Pazienza. Sfortuna mia, questa.

RID. Sfortuna mia grandissima, perdendo la bella sorte di una così amabile compagnia.

LEON. La signora Felicita ci verrà a ritrovare in campagna.

RID. Oh fosse vero! Non mi potrei bramare maggior contento. Venga a stare un poco da noi.

FELIC. Se mi sarà possibile, ci verrò volentieri.

RID. Mi spiace infinitamente di perdere questa commedia.

LEON. Il signor Grisologo la porterà con lui in campagna; e ci farà il piacere di leggerla.

FELIC. Perché no? Questo si potrà fare.

RID. Ma non si potrebbe sentirne qualche scena anticipatamente?

LEON. Quando?

RID. Oggi; prima che si parta.

FELIC. Glielo dirò, e lor signori saranno tosto avvisati. Serva umilissima.

LEON. Sì sì, verremo a ridere un poco.

FELIC. (Sguaiataccia! se non fosse per suo fratello, non ci metterei piede in casa sua). (da sé, e parte)

SCENA QUINTA

Il signor Ridolfo e la signora Leonide

LEON. Che ne dite? Ha sentito che noi andiamo in campagna, si è messa al punto di volervi andare anche lei.

RID. Ho piacere io di quest'incontro. Fatele buona cera alla signora Felicita, a suo padre ed a suo fratello.

LEON. Perché? Abbiamo forse bisogno di loro, noi?

RID. Cara sorella, sapete che sono genti ricche; la signora Felicita avrà una grossa dote, e mi comoderebbe moltissimo se potessi io sposarla.

LEON. Sposarla? Pensa ad ammogliarsi il signor fratello, e non pensa a maritar la sorella? Fino che ci sono io in questa casa, non ha da venir altra donna. Non voglio cognate, non voglio padrone che mi comandino. Accasate me prima, e poi penserete a voi, signor Ridolfo carissimo; e mi pare che a me dovreste avere di già pensato. Sono negli anni della discrezione, sapete; e tutti si maravigliano che una giovane, come me, non abbia ancora ritrovato marito. Grazie al cielo però, non vi sarà nessuno che creda provenire da me. Grazie al cielo, non ho difetti; e delle giovani come me, al giorno d'oggi, se ne trovano poche. Ell'è che io non ci penso gran cosa! che godo la mia libertà, e di legarmi vi è ancora tempo. Ma se pensate a prender moglie, maritatemi subito, subito, che non ci voglio star un'ora con lei; e se non me lo troverete voi il marito, me lo saprò trovare da me, che grazie al cielo ne ho più di dieci che mi vorrebbono, e posso scegliere, e posso vantarmi di dire che son sul fiore, e felice quello che mi potrà avere. (parte)

RID. La lascio dire, e me la godo, e non dico niente. Felice quello che potrà aver questa bella gioja! (parte)

SCENA SESTA

Camera della signora Felicita.

La signora Felicita e Grilletta

FELIC. Tant'è, Grilletta, sono nell'impegno, e voglio ad ogni costo aver questa soddisfazione. Mi dicono che quest'abito non è proprio per andar in campagna; ne voglio uno a proposito, e lo voglio per domattina.

GRILL. Farlo per domani è impossibile.

FELIC. Non se ne potrebbe trovare uno fatto?

GRILL. Non è così facile trovarlo che le torni bene.

FELIC. Da oggi a domani si può assestare. Troviamo il vestito sul gusto di quello della signora Leonide; manderò a chiamare la sarta, ed ella lo ridurrà per l'appunto.

GRILL. Come s'ha a fare a ritrovar ora questo vestito?

FELIC. Oh, guardate la gran faccenda! S'ha a cercare da tutti i rigattieri della città, fino che venga fatto di ritrovarlo. Andateci voi; ditelo a madonna Fabrizia che ci vada ella pure, e fate che si trovi, perché lo voglio.

GRILL. Si cercherà, e si farà il possibile per trovarlo; quanto s'ha da spendere?

FELIC. Quel che vale.

GRILL. Può valer poco, e può valer molto.

FELIC. Si pagherà quel che vale.

GRILL. Compatisca; così per un po' di regola: quanti denari si trova avere?

FELIC. Denari? Sapete pure ch'io non ne ho.

GRILL. E per questo diceva io, come c'impegneremo, signora?

FELIC. Ho bene il modo da ritrovarne.

GRILL. Come?

FELIC. Ho tutti i miei vestiti da inverno che ora non si portano. Si possono dare in baratto.

GRILL. Venderli?

FELIC. Non dico venderli io. Ma si possono dare al rigattiere medesimo, se li vuole, e quando torno di villa, rendergli il suo vestito con quello che sarà pattuito, ovvero mandarli al monte e al mio ritorno ricuperarli.

GRILL. E se lo sa il signor zio? Poveri noi!

FELIC. Come l'ha da sapere? Egli non viene a vedere nel mio armadio quel che c'è o che non c'è. Se voi non lo dite, non lo può sapere nessuno.

GRILL. E se il diavolo facesse che il vestito preso dal rigattiere fosse poi conosciuto?

FELIC. Ci ho pensato a questo. Gli muteremo la guarnizione; o si farà in qualch'altra maniera per fargli cambiar figura.

GRILL. Cara signora padrona, e vorrà ella mettersi in dosso un vestito che sa il cielo chi l'averà portato?

FELIC. Oh cara Grilletta, sarò la prima io a farlo? Come campano i rigattieri? E sono tanti, e si fanno ricchi prestissimo. Le cose si stimano, quando abbisognano.

GRILL. Andiamo dunque, e principiamo a girare.

FELIC. Portatevi bene; fate prestino, e ho preparato una galanteria da donarvi.

GRILL. Farò il possibile per contentarla. (Faccio il conto da me, che le darò ad intendere d'aver girato. Queste figure non le faccio certo). (da sé, e parte)

SCENA SETTIMA

La signora Felicita, poi il signor Grisologo

FELIC. Se andiamo in villa, so ben io che con qualche cosa ritornerò in città. Mio padre, mio fratello, mi hanno assicurato che venderanno del grano e del vino, senza che il signor zio lo sappia, e anch'io ne averò la mia parte.

GRIS. E voi non mi dite niente, signora sorella?

FELIC. Di che?

GRIS. Ho veduto ora il signor Ridolfo...

FELIC. Appunto. Vi ha egli detto che vorrebbe sentire qualche scena della vostra commedia?

GRIS. Me l'ha detto. Ma mi fa torto a andarsene questa sera. La potrebbe sentire in teatro.

FELIC. Non può restare, lo sapete il perché?

GRIS. Non so nulla io.

FELIC. Perché hanno mandato i letti in campagna. Oh, guardate se sono ricchi.

GRIS. Non è tutt'oro quello che luce. Noi potremmo fare una bella figura, se non fosse l'avarizia di nostro zio, ma sentite, ora spero d'aver ritrovata la miniera dell'oro; se questa commedia piace, ne voglio far tante che non avrò bisogno di nessuno per divertirmi.

FELIC. Siete poi sicuro ch'ella debba piacere?

GRIS. Son sicurissimo. Oh che piena vi sarà questa sera in teatro! A quest'ora non vi è da ritrovare un palchetto, chi volesse pagarlo dieci zecchini.

FELIC. Credo ancor io che la curiosità empiere farà il teatro, tanto più che si sa essere la commedia di un autore novello; ma tanto peggio per voi, se all'universale non piace.

GRIS. Ha da piacere sicurissimamente. Tutti quelli ai quali ho comunicato il disegno mio, tutti me lo hanno applaudito. Si sono vedute delle commedie alla francese, alla spagnuola, all'italiana, e sino alla foggia latina e alla foggia greca. Ora io sarò il primo a esporre sul teatro italiano una commedia all'inglese. Ho preso per esempio il celebre Sachespir, che è stato il primo a dirozzare il teatro di quella nazione; e in oggi, quantunque antico egli sia, lo stimano assaissimo in Inghilterra, ove vi sono tanti grand'uomini, tanti uomini insigni in ogni genere di sapere.

FELIC. In che consiste questa vostra magnifica imitazione?

GRIS. Vi dirò qualche cosa per compiacervi. Lo stile mio, che mi renderà singolare al mondo, consiste in una forza di dire vibrato, ampolloso, sonoro, pieno di metafore, di sentenze, di similitudini, colle quali ora m'inalzo alle stelle, ora vo terra terra radendo il suolo. Non mi rendo schiavo della dura legge dell'unità. Unisco il tragico ed il comico insieme; e quando scrivo in versi, m'abbandono intieramente al furore poetico, senza ascoltar la natura che con soverchi scrupoli viene da altri obbedita. Io credo averlo seguito assai bene. Ho impiegato tutto il mio studio nella fluidezza del metro, nella vibrazion della rima, e vedrete con quale artifizio abbia studiato a tessere i primi versi per far risaltare i secondi.

FELIC. Spiacemi infinitamente che forse non averò il piacer di sentirla: vedrete che il signor zio non vorrà che io vada al teatro.

CRIS. Oh sì, sarebbe questa una stiticheria madornale! Si tratta d'un suo nipote, dovrebbe venirci egli pure. Tanto più che ho bisogno di persone che mi facciano un po' di partito. Ho procurato io cogli amici, ai caffè, ai ridotti, di guadagnarli. Ho pagato qualche cena, qualche merenda. Se mi è stata regalata qualche bottiglia, me l'ho posta sotto al giubbone e l'ho fatta bevere ai miei parziali. Ma i miei di casa ci dovrebbono essere. Essi con più cuore degli altri potrebbono battere mani e piedi, e fracassare il palchetto ogni quattro versi almeno.

FELIC. Se ci verrò, non dubitate, batterò certo io; ma intanto, sul dubbio di venirvi o no, fatemi sentir qualche cosa.

GRIS. Bene, coll'occasione che leggerò la commedia al signor Ridolfo, alla signora Leonide e a qualcun altro che non può venire a sentirla, ci sarete anche voi, e la sentirete.

FELIC. Mandiamolo a dire dunque...

GRIS. Sono avvisati. A momenti scenderanno giù da noi, e si leggerà la commedia. Con quest'occasione, se qualche cosa sentirò che non torni bene, averò tempo di accomodarla.

FELIC. Prego il cielo che riesca; prima per l'onor vostro, e poi per poter andare un po' in villa. Me l'avete promesso.

GRIS. Sì, e ve lo torno a promettere.

FELIC. Ma ci anderemo noi subito?

GRIS. Subito.

FELIC. Domani?

GRIS. Domani.

FELIC. Mi faccio un abito nuovo, sapete.

GRIS. Bisognerebbe che me ne facessi uno ancor io.

FELIC. Ma badate che coi dodici zecchini non si può far tanto.

GRIS. È vero, si fa poco con dodici zecchini. Ma quando saremo in campagna, il fattore farà a modo nostro.

FELIC. Zitto, che viene il signor zio.

GRIS. Se lo sapesse, poveri noi!

FELIC. Come faremo andare, ch'ei non lo sappia?

GRIS. Aspetteremo che non ci sia.

SCENA OTTAVA

Il signor Geronimo e detti.

GERON. Riverisco lor signori.

FELIC. Serva sua.

GRIS. Servitor suo umilissimo.

GERON. Quando si va in campagna, padroni mie?

FELIC. In campagna, signore? Non so niente io.

GERON. Eh? quando si va, signor nipote?

GRIS. Non si anderà, se vossignoria non vuol che si vada.

GERON. Eppure, senza che la mia signoria lo voglia, so che si vuol andare.

GRIS. Chi v'ha detto questo, signore?

GERON. Eh? (verso Felicita)

FELIC. Dice a me? Non so niente.

GERON. Certo, signori sì; ho saputo per via di quei garbati signori che stan qui sopra, che la famiglia degnissima del mio signor fratello sta sulle mosse per andar in campagna.

GRIS. Quei signori ci hanno fatta l'esibizione...

FELIC. Finalmente, se ci va il signor padre...

GRIS. E non si spende...

FELIC. La compagnia è di gente onesta e civile...

GRIS. (Non dice niente...) (piano a Felicita)

FELIC. (Via). (piano a Grisologo)

GERON. Ma! così è; il mal esempio è la rovina delle famiglie. Pretendereste di far voi pure quello che fanno gli altri, eh? Poveri sciocchi! Vadano, vadano quei signori in campagna. Io so quel che si dice di loro. So io lo stato in cui si trova il signor Ridolfo. Con queste orecchie ho sentito testé il sarto francese, monsieur Lolì, lagnarsi della signora Leonide che non l'ha pagato.

FELIC. Per il vestito da viaggio forse?

GERON. Sì signora, per il vestito da viaggio. Essi si divertiranno in villa, e qui si faranno delle belle canzoni sul loro modo di vivere. E voi altri vorreste accompagnarvi con questa sorta di gente? In casa vostra non manca il bisognevole, anche con abbondanza. Qui non viene alcuno a picchiare all'uscio per essere pagato; non si fanno tornare i creditori due volte, non si fa mormorare. Ma sapete che cosa ci mantiene in riputazione? Non le entrate, che sono poche; non i negozietti ch'io faccio per migliorarle; ma la buona regola, la prudenza e l'economia. Senza di questa, poveri voi. Poveri voi, se non aveste altro che vostro padre. So io lo studio che mi costa il reggere questa barca. Ma sono vecchio, figliuoli miei, sono vecchio. Poco ancor posso vivere: e però, prima di chiuder gli occhi, vorrei vedervi in istato di non aver bisogno dell'aiuto di vostro padre. Egli non è buono per sé, molto meno sarebbe al caso per regger voi. Cara Felicita, ho qualche partito per voi; penso accasarvi con fondamento da vostra pari. Ma voi non vi stancate di essere una figliuola prudente, come stata siete sinora; e voi, nipote carissimo, è tempo che vi determiniate a qualche cosa di sodo. I vostri studi li avete fatti. Vi comprerò una carica, se v'inclinate; vi addottorerò, se il volete, credetemi che vi amo da padre, e più assaissimo di vostro padre, né altro esigo da voi che buon amore, soda prudenza e discreta rassegnazione.

FELIC. Per me, signore, se volete accasarmi, sarò contenta.

GERON. Ho tre o quattro partiti, vi dico, e di questi non dubitate ch'io non sappia scegliere il meglio.

FELIC. Perdonatemi, signor zio, vi vorrei dire una cosa.

GERON. Dite; parlate con libertà.

FELIC. Fra questi partiti vi sarebbe per sorte quello del signor Ridolfo?

GERON. Il signor Ridolfo? Il signor Ridolfo? Fino che io son vivo, non vi mariterete al certo col signor Ridolfo, né con altro simile a lui. Il signor Ridolfo fa le belle villeggiature; ma i creditori l'aspettano, per augurargli il buon viaggio. Ora capisco l'intreccio della favoletta. Sono invitati per andar in campagna, eh? Oh che bel villeggiare coll'amante al fianco! E il fratello il comporta, e il padre tien mano. Pazzi, pazzi quanti che siete.

FELIC. Per me, non dico né di volere, né di non volere; sono stata a tutto finora, e vi starò ancora per l'avvenire. Già di me ha da essere sempre così, sempre schiava, sempre avvilita, sempre sgridata; cacciatemi in un ritiro, che non voglio più saper niente di questo mondo. (parte)

SCENA NONA

Il signor Geronimo ed il signor Grisologo

GERON. La sentite la scioccherella? disperazioni, disperazioni. Quando le figlie non hanno quello che vogliono, danno nelle smanie; vogliono rinserrarsi. Meriterebbe ch'io la rinserrassi davvero; sentireste allora come griderebbe no no.

GRIS. Mia sorella è poi una buona pasta. S'accomoda facilmente a tutto. Due buone parole servono a consolarla.

GERON. Buone parole e buoni fatti da me non le mancheranno. Sia savia, e non dubiti niente; e voi, nipote, che cosa pensate di fare, giacché siamo su questo proposito?

GRIS. Io, signore, spero d'averlo trovato il mio impiego.

GERON. Sì? L'ho a caro. Ma vorrei ben saperlo ancor io.

GRIS. Domani ve lo saprò dire.

GERON. Domani?

GRIS. Sì signore, domani, e forse ancor questa sera.

GERON. E non si potrebbe saperlo un po' prima? Ora, per esempio, non si potrebbe saper qualche cosa?

GRIS. Ora ve lo dirò anche io; già s'ha da sapere, e avrò piacere che anche il signor zio questa sera mi favorisca.

GERON. Dove? a far che?

GRIS. Questa sera i comici rappresentano una mia commedia...

GERON. Una commedia? Rappresentano una vostra commedia? È questo il bell'impiego che vi siete trovato? Sciocco! una commedia eh? Che vi credete che sia far una commedia, lo stesso che fare una canzone, un sonetto? Quando avete studiato l'arte di far commedie? Alla prima, subito, schicchera una commedia e la dà ai comici da recitare. Oh sì, che vi farete onore. Vorreste ch'io pure, eh? fossi presente alle fischiate che vi faranno?

GRIS. Signore, voi non mi credete capace...

GERON. No, non vi credo capace. Uomini consumati vogliono essere a tal esercizio. Mi sono dilettato anch'io di commedie, e, vecchio come sono, quando si fanno delle cose buone... L'avete fatta vedere a nessuno questa vostra commedia?

GRIS. Non signore, a nessuno.

GERON. E vi arrischiate a esporla così?

GRIS. Oggi sono in impegno di leggerla a qualcheduno.

GERON. Dove?

GRIS. Qui in casa, se il signor zio si contenta.

GERON. Sì, leggetela; se potrò, ci sarò ancor io a sentirla. Posto che abbiate fatto la bestialità di darla, almeno non vi ponete in ridicolo. Stimate meglio la vostra riputazione.

GRIS. Mi danno dodici zecchini; non li vorrei perdere.

GERON. Imprudentissimo! stimate dodici zecchini più della vostra riputazione? Ve li hanno dati questi danari?

GRIS. Non signore, me li daranno.

GERON. Quando?

GRIS. Domani.

GERON. Piaccia o non piaccia? Vada mal, vada bene?

GRIS. S'intende quando piaccia.

GERON. Voleva ben dire io, che i comici, che sanno il viver del mondo, volessero arrischiare sì malamente il denaro loro. Povero sciocco! Se la commedia va male, voi avrete il danno e le beffe.

GRIS. La commedia mia anderà bene.

GERON. Chi lo dice?

GRIS. Lo dico io, signore, e non parlo senza il mio fondamento. Ho letto, ho veduto, ho studiato; so quel che faccio, so come scrivo, e in poco tempo vedrete il nome mio stampato, vedrete il mio ritratto in rame, e forse forse mi sentirete chiamar quanto prima il nuovo riformatore: il Sachespir italiano. (parte)

SCENA DECIMA

Il signor Geronimo, poi il Procuratore

GERON. Costui ha letto il teatro inglese, e s'è innamorato dello stile di Sachespir. Chi sa se averà preso il buono o il cattivo di quest'autore?

PROC. Si può riverirla, signor Geronimo?

GERON. Oh signor dottore, favorisca. È padrone. Che buon vento? Quant'è che non ci vediamo?

PROC. Ella ha i suoi affari, io ho i miei. Per altro non manco del mio rispetto, e dove potessi obbedirla...

GERON. Lasciamo le cerimonie e parliamoci da buoni amici. Vi occorre nulla?

PROC. Sarebbe ella in grado d'impiegare un migliaio di scudi?

GERON. Perché no? anche duemila, se l'occasione è buona.

PROC. L'investita è sicurissima. I fondi sono liberi, liberissimi, e i debiti notificati non coprono che la metà dello stato del debitore.

GERON. Vediamo i fondamenti, vediamo le scritture che occorrono...

PROC. Tutto è in mano mia, signore. Io difendo la casa ch'è molti anni, e vi assicuro che troverete le cose in chiaro.

GERON. Siete un uomo onesto, lo so benissimo. Con voi si può trattare a occhi serrati.

PROC. Quanto volete voi d'interesse?

GERON. L'onesto, il giusto, caro signor dottore; mi rimetterò a voi.

PROC. Più del cinque per cento non si può fare.

GERON. Mi contento del quattro e mezzo; al giorno d'oggi si dura fatica a trovar da investire con sicurezza e il denaro in cassa non frutta.

PROC. La persona che cerca i mille scudi, siccome ne ha bisogno, non guarderà dal quattro e mezzo al cinque. Se fosse in altre mani, pagherebbe anche il dieci.

GERON. Guai a coloro che fanno simili negozi usuratici, indegni. È una crudeltà, una ladroneria profittare delle miserie altrui, e dar mano alla rovina delle persone. Pur troppo si sentono cose che fanno inorridire. Chi presta col pegno in mano e coll'usura palliata. Chi dà ad interesse coll'utile sfacciato di venticinque o trenta per cento. Chi dà i zecchini in imprestito a trenta paoli l'uno. Ma all'ultimo, signor dottore, il diavolo porta via ogni cosa; e dice il proverbio, quel che vien di ruffa in raffa, se ne va di buffa in baffa.

PROC. Verissirmo, signor Geronimo, verissimo. E se sapeste quanti ne hanno mangiato per questa strada al povero galantuono, che ora ha bisogno dei mille scudi!

GERON. Chi è egli?

PROC. Sapete chi è? Il signor Ridolfo, che sta qui sopra di voi.

GERON. Il signor Ridolfo?

PROC. Sì signore

GERON. Amico caro, compatitemi. Io non gli voglio dar niente.

PROC. Per qual ragione? V'assicuro io che vedrete le cose chiare.

GERON. No certo; a lui non do denari per assoluto.

PROC. Avete inimicizia con il signor Ridolfo?

GERON. Sono inimico del suo modo di vivere, del suo costume, della sua mala condotta; e non voglio io coi miei denari contribuire alle sue pazzie. Mille scudi? se li spende tutti in un mese in villeggiatura.

PROC. Non li prende per questo; ma per pagar i suoi debiti.

GERON. Tralasci di andar in villa. Moderi le sue spese, si metta in un poco d'economia, e potrà pagare i suoi debiti, senza aggravarsi d'un altro peso di quarantacinque scudi di censo.

PROC. Dite bene, signore; ma se non glieli date voi, glieli darà un altro.

GERON. E bene? Se si vuol rovinar, si rovini. Ma io non ne voglio parte.

PROC. Mi dispiace che il povero signore ha tutto disposto per andar in campagna. Ha perfino mandato i letti questa mattina, ed ora è circondato dai creditori; e se non paga...

GERON. Suo danno, impari a misurare l'uscita coll'entrata; e poi, sapete che cosa mi hanno fatto il signor Ridolfo e la garbatissima sua sorella? Hanno sedotto i miei nipoti ad andare in villa a dispetto mio. Oh, se non ci andassero nemmeno loro, affé di mio, questa volta l'avrei ben caro.

PROC. Certo non istà bene che vada la signora Felicita in compagnia dove vi son de' giovani.

GERON. E giovani di che taglia! Dite, signor dottore, vorrei disfarmene di questa nipote in casa.

PROC. Quanto le volete dare di dote?

GERON. Secondo il partito. Sino a dodici mille scudi le darei, se si trovasse da collocarla bene.

PROC. L'avrei un buon partito io.

GERON. Ne ho avuti quattro sinora.

PROC. Chi son eglino? Li conosco io?

GERON. Non me ne ricordo bene di tutti. Ho i nomi entro dello scrittoio.

PROC. Vediamoli. Vi dirò il mio parere.

GERON. Sì, caro signor dottore. Parlando si fa tutto.

SCENA UNDICESIMA

Servitore e detti.

SERV. Signore, manda a dirle il signor Grisologo, se comanda restar servita a sentir leggere la sua commedia, che sono lesti.

GERON. No, no, ditegli che non ho tempo. Ho pensato di non volerne far altro. Sia com'esser si voglia; se è buona, l'ho caro; se è cattiva, non siamo in tempo di trattenerla.

PROC. Ha dello spirito il signor Grisologo; ha del talento.

GERON. Ma non ha giudizio. A che serve lo spirito, se non vi è la prudenza?

PROC. L'acquisterà col tempo.

GERON. Questo è quello ch'io dubito. Volete andar voi signor dottore, a sentir qualche cosa?

PROC. Andrò volentieri. Ma prima vediamo, se vi contentate, i nomi di cui abbiamo parlato.

GERON. Sì, passiamo dallo studio; ve li do subito; già non principieranno sì presto.

PROC. La fa recitare questa commedia?

GERON. Questa sera, dic'egli.

PROC. Desidero si faccia onore.

GERON. È difficile, ne' tempi in cui siamo. Si farà corbellare. Perché una commedia riesca, non basta ch'ella sia buona. Vi vuol partito.

PROC. Il partito si fa col merito.

GERON. Si fa col merito? Si fa col merito?... Non mi fate dire, per carità. (partono)

SCENA DODICESIMA

Camera grande.

Grisologo, Felicita, Leonide, Ridolfo, Roccolino, Policastro, Mario. Criccaindietro. Si tira innanzi il tavolino, in mezzo, per il signor Grisologo, e le sedie per tutti, e tutti si pongono a sedere.

GRIS. Favoriscano accomodarsi. (siede nel mezzo)

LEON. (Prendiamoci questa seccatura). (da sé)

ROCC. Bravo, signor Grisologo, bravo, me ne rallegro con lei.

LEON. Bravo gli dite, prima d'aver sentito niente? Vi rallegrate con lui troppo presto.

ROCC. Son prevenuto che abbia a essere cosa buona. Bravo, me ne rallegro.

GRIS. Obbligatissimo alle di lei grazie.

POLIC. E l'ha fatta in meno di quattro mesi, sa ella?

ROCC. Così presto? bravo.

POLIC. Io non l'avrei fatta in quattro anni.

RID. Via, signore, non ci tenete più in pena. Fateci godere le vostre grazie.

GRIS. Subito vi servo. Se il signore zio non vuol venire, suo danno, principieremo senza di lui.

POLIC. Già mio fratello non sa niente. Non sa far altro che numerar quattrini lui.

RID. Se fosse mio zio, farei che ne numerasse meno.

GRIS. Alle volte vengono a me pure delle tentazioni...

LEON. Spicciatevi, signore, perché noi vogliamo andare in campagna. (a Grisologo)

GRIS. Subito. (prepara il libro e si va accomodando)

FELIC. (E Grilletta non si vede con il vestito. Già lo prevedo. Mi converrà poi andare così. Andar certo; come si sia). (da sé)

GRIS. Sono pregati del loro compatimento. Finalmente questa è la prima commedia che ho fatto.

MAR. E questa sera si rappresenta in teatro?

GRIS. Sì signore, per servirla.

MAR. Spiacemi di non vederla. Restiamo qui questa sera, signor Ridolfo.

LEON. Signor no, signor no, questa sera s'ha da partire; ed il signor Mario ha da venire con noi.

MAR. Come comanda la signora Leonide. Sentiamola dunque ora.

GRIS. Certamente in teatro farà maggior figura, colla varietà delle voci, coll'azione de' personaggi. Basta, m'ingegnerò di gestire alla meglio.

ROCC. Bravo, me ne rallegro infinitamente.

POLIC. Ma via, principiate. Muoio di volontà di sentirla.

LEON. Sarà breve, m'immagino.

FELIC. Ha una gran fretta la signora Leonide.

LEON. L'averebbe anche lei, se si trattasse d'andare.

FELIC. Da questa sera a domani...

GRIS. Signori, supplico tutti umilmente di ascoltare e tacere, poiché patisco assaissimo, quando leggo, se sento un menomo zitto. Principiamo.

La Vita di Cromuel protettore dell'Inghilterra, commedia di carattere in versi.

MAR. La Vita di Cromuel? La vita d'un uomo in una sola commedia?

GRIS. Sì signore. Sachespir, celebre autore inglese, ha fatto La vita e la morte di Riccardo terzo Re d'Inghilterra.

ROCC. Sachespir? (a Grisologo)

GRIS. Sì signore.

ROCC. Bravo, me ne rallegro infinitamente.

POLIC. Sentite che testa? Io non sapeva nemmeno che Sachespir fosse stato al mondo. (a Roccolino)

GRIS. Zitto, signori, per carità.

POLIC. Zitto. (forte, poi cava dalla veste da camera qualche pasta dolce, e va mangiando)

GRIS. Atto primo, scena prima. La moglie di Cromuel e la sua cameriera.

Moglie.

Stelle! dov'è lo sposo? ahi, che in romita cella

Agito l'ali in vano misera rondinella!

Ei del Tamigi oppresso vendica i torti e l'onte

Bagna di sangue il fianco, e di furor la fronte;

Ed io fra le tempeste vivo nell'ozio infido,

Qual peregrin che il mare stassi a mirar dal lido.

ROCC. Bravo, bravo. Me ne rallegro infinitamente

POLIC. Ah? (maravigliandosi mangiando)

LEON. Io non capisco niente.

FELIC. (E Grilletta non si vede). (da sé)

RID. Gran bei versi!

MAR. Perdoni, signore. Quell'ozio infido non mi pare che cada a proposito.

GRIS. Quell'epiteto è incastrato con arte, signore, per far risaltare il verso che seguita.

... Ozio infido,

Qual peregrin che il mare stassi a mirar dal lido.

ROCC. Oh bravo! me ne rallegro infinitamente.

MAR. E poi, perdonatemi. Per commedia lo stile è troppo elevato.

POLIC. Eh! (con disprezzo, mangiando)

GRIS. Sì signore, è elevato, ma non è sempre così. Sentite ora.

Serva fedel mia cara, d'amor dammi una prova.

Cerca lo sposo mio. Dimmi dov'ei si trova.

MAR. Chi parla ora?

GRIS. La moglie di Cromuel. Non sentite?

MAR. Quella del Tamigi, della tortorella, dell'ozio infido?

POLIC. Non sa niente. (mangiando)

ROCC. Rispondetegli. (a Grisologo)

GRIS. La varietà dello stile è il bellissimo mosaico delle composizioni. Leggete Sachespir. Leggete le sue Donne di bell'umore, o siano le Comari di Windsor. Leggete il Sogno d'una notte etc. etc.: sentirete com'egli talora si solleva, e talora si abbassa.

ROCC. Bravo, me ne rallegro infinitamente.

POLIC. Ah? (mangiando)

MAR. Signore, perdonatemi; intendete voi bene l'inglese?

LEON. Innanzi, innanzi, che l'ora si fa tarda.

GRIS. In teatro sentirete che fracasso farà.

FELIC. Ehi? È venuta Grilletta? (verso la scena)

GRIS. Zitto. (a Felicita)

POLIC. Zitto. (mangiando)

GRIS. La cameriera.

Sì sì, padrona mia, subito immantinente

Ricercherò il padrone di cui non si sa niente.

Voglio in questa giornata trovarlo a tutti i patti,

Domanderò di lui fin per trovarlo ai gatti.

ROCC. Bravissimo.

POLIC. (Ride fortemente, mangiando)Ai gatti! (poi s'addormenta)

GRIS. Zitto. Sentite ora.

Quinci e quindi fiutando, qual cacciator mastino,

Ritroverò gli effluvii, ch'ei sparsi ha nel cammino:

Poiché da tutti i corpi, sien buoni o sien malvaggi,

L'esalazion si spargono, fatte a guisa di raggi;

Onde qual fido cane scopre l'errante cerva,

Io scoprirò il padrone, fedelissima serva.

ROCC. Oh bravo, oh bravo! me ne rallegro infinitamente.

MAR. Così parla una donna?

GRIS. Sì signore, parla così. Credete voi che le donne in Inghilterra non sappiano che cosa sono gli effluvii?

MAR. Con licenza di lor signori. (s'alza)

LEON. Va via, signor Mario?

MAR. Vado per un piccolo affare, signora. Tornerò, tornerò. (Non ne voglio più. Ho sentito abbastanza). (da sé, e parte)

LEON. Pare che i versi del signor Grisologo gli abbiano fatto movere il corpo.

ROCC. Me ne rallegro infinitamente.

GRIS. Eh! genti che non gustano il buono. Tiriamo innanzi.

RID. Ehi! guardate un poco se fosse venuto il procuratore. Quando viene, avvisatemi. (a Cricca)

CRI. Sarà servita. (parte)

GRIS. Andiamo innanzi.

FELIC. (E Grilletta non viene. Son disperata). (da sé)

LEON. Ehi! il signor Policastro dorme. (a Roccolino)

GRIS. Scena seconda. Un messo e detti.

Messo. Batto coll'ali il piede, fendo dell'aere i spazi.

Nuove felici io reco. Di strage i Dei son sazi.

Moglie. Dove è il britanno eroe, dov'è degli Angli il duce?

Messo. Viene, e venendo ei sparge gloria, trionfi e luce.

ROCC. Oh bravissimo!

GRIS. La serva. E dalla luce stessa dell'alme tue parole

Giubbilo anch'io di gloria, e mi trasformo in sole.

ROCC. Oh che roba, oh che roba!

SCENA TREDICESIMA

Il Procuratore e detti.

PROC. Con licenza di lor signori.

RID. Oh! ecco il signor dottore. (s'alza)

GRIS. Favorisca. Là vi è una sedia vuota. Ascolti, e stia zitto. (al Procuratore)

RID. E così, è fatto il negozio? (al Procuratore)

PROC. Non ancora.

RID. . No? Perché?

PROC. Parleremo.

RID. Sono impaziente.

PROC. Ho fatto il possibile.

GRIS. Ma zitto, signori miei.

LEON. Vi è qualche cosa di nuovo? (s'alza)

RID. Andiamo di sopra. (al Procuratore)

PROC. Vogliono qui lasciare?...

RID. Andiamo, andiamo. Compatite, ho un affar di premura. (a Grisologo, in atto di partire)

LEON. Si parte? Siete all'ordine? (a Ridolfo)

RID. Credo di sì, io: basta, vedremo. (parte)

PROC. Con licenza di lor signori. (parte)

GRIS. Schiavo suo.

LEON. Compatite. Non abbiamo tempo per trattenerci. Ci conviene andar via. Portatela in campagna, che la goderemo con comodo.

ROCC. Sì, in campagna ammireremo il vostro spirito, il vostro talento.

GRIS. Sentite almeno una scena.

LEON. Signora Felicita, a buon riverirla.

FELIC. Se ne va, eh?

LEON. Per servirla. Serva umilissima. Padroni tutti. (parte)

ROCC. Servo di lor signori. Bravo, signor Grisologo. Aspetteremo le nuove dell'esito della sua bella commedia; bravissimo, me ne rallegro infinitamente. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Il signor Grisologo, la signora Felicita, il signor Policastro che dorme.

GRIS. Bellissima scena! Mi hanno impiantato qui come uno stivale.

FELIC. (Ma questa Grilletta mi fa dare al diavolo). (da sé)

GRIS. Voi che avete tanta volontà di sentire, sentite il fine di questa scena.

FELIC. Lasciatemi stare. Ho altro in capo io. (Sto a vedere che mi toccherà stare in città, o andare con quest'abito in villa. Sia maladetto!) (da sé, si pone a sedere con distrazione, coprendosi la faccia col fazzoletto)

GRIS. Signor padre. Dorme? Signor padre. (lo sveglia)

POLIC. Che c'è? Bravo, bravissimo. Eh? dove sono andati? L'avete finita la commedia?

GRIS. L'ho principiata appena. Chi per una cosa, chi per l'altra, ciascuno è partito. Vuol ella sentir niente?

POLIC. Caro figliuolo, ho un sonno che non posso reggermi in piedi. La sentirò stassera al teatro. Lasciatemi andar un poco a dormire. (sbadigliando parte)

SCENA QUINDICESIMA

Il signor Grisologo e la signora Felicita; poi Grilletta

GRIS. Ma vorrei almeno finir questa scena. Sentitela voi e ditemi la vostra opinione. (a Felicita)

FELIC. Dite, dite. (stando nella medesima positura)

GRIS. La moglie di Cromuel.

Dunque fia ver che amico alla Britannia il fato

Abbia da' colpi illeso il Protettor serbato?

Dunque...

FELIC. Venite, venite, Grilletta; che nuova c'è?

GRILL. Niente.

FELIC. Non si è trovato?

GRILL. Niente.

FELIC. Né si troverà?

GRILL. Niente.

FELIC. Per poco, per poco mi getterei da un balcone.

GRIS. E bene?

FELIC. Lasciatemi stare, che non ho voglia di sentir commedie. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Grisologo e Grilletta

GRIS. Che diamine ha mia sorella?

GRILL. Impazzisce per un vestito da viaggio. Non si trova.

GRIS. Sentite voi, che siete una serva, un discorsetto che fa la serva della moglie di Cromuel.

GRILL. E chi sono queste genti? Non le conosco io.

GRIS. Sentite.

Suol l'allegrezza il duolo scacciare in cotal modo,

Come la ferrea punta scaccia dall'asse il chiodo.

Fabbro sagace, antico, colla sinistra mano

Alza il duro metallo, e lo presenta al piano.

E là 've dell'antico spunta la ferrea testa,

Tronca la superficie, ed il novello innesta.

Indi col destro pugno maglio ferrato innalza,

Repplica i colpi al centro, batte, ribatte, incalza:

Finché dal lato opposto della scheggiata scorza

Esca l'antico chiodo, entri il novello a forza.

Ah? che ne dite?

GRILL. Che linguaggio è questo?

GRIS. Italiano perfetto.

GRILL. Io l'ho creduto arabo, in coscienza mia; se la vostra commedia è scritta tutta così, partiranno stupiti, senza intendere una parola. (parte)

GRIS. Tutti ignoranti; tutti ignoranti. Questa sera l'universale deciderà del merito della novità. M'aspetto sentire risuonare gli applausi da tutti i lati. Parmi vedere il popolo affollato d'intorno a me, a consolarsi meco, a portarmi in trionfo per l'allegrezza. E domani anderò in campagna? Sì, sarà riputata la mia partenza un atto di modestia. Sarà meglio ch'io parta, anzi che andar pettoruto raccogliendo gli applausi per tutti gli angoli della città. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Sala terrena comune alle due case, con fanale acceso.

Il signore Ridolfo ed il Procuratore

RID. Sì signore, voglio aspettar qui il signor Geronimo, e sentire un poco da lui, come c'entra ne' fatti miei; e quale difficoltà, quale dubbio egli abbia di darmi a censo i mille scudi. E se niente mi stuzzica, gl'insegnerò io il modo di trattare co' galantuomini pari miei.

PROC. E in casa sua lo vorrebbe ella insultare?

RID. Questa, ove siamo, non è casa sua. Questo luogo, che serve d'ingresso alla sua ed alla nostra casa, è comune. Posso, se mi monta davvero, strapazzarlo liberamente.

PROC. Strapazzarlo poi, signore... non si fa nemmeno in mezzo alla strada, che è più comune ancora di questa sala terrena.

RID. Lo sapete voi, signore, ch'io sono mezzo disperato e più di mezzo ancora?

PROC. Veramente la compatisco. I suoi creditori non dormono questa notte. Altri sono alle porte della città, altri virano qui d'intorno...

RID. Come! m'assediano! mi circondano! Sono io un qualche fallito? Mi maraviglio di voi, che abbiate anche l'ardire di dirmelo.

PROC. Io penso di far bene avvisandola.

RID. Non averanno tanta temerità. Sarà poi più interesse vostro, che loro.

PROC. Interesse mio, eh? Che caro signor Ridolfo! S'ella non mi conosce bene sinora...

RID. Siete di una razza di gente, che non si conosce mai abbastanza.

PROC. Mi maraviglio di lei, signore: a quest'ora dovrebbe conoscermi. Se nella professione mia vi è qualche briccone, sarà particolarmente segnato, ma il numero maggiore è quello de' galantuomini, ed io mi vanto di essere fra questi. Un giorno conoscerà meglio chi sono. Andrà, andrà nelle ugne di alcuno di quelli che tengono mano a contratti illeciti; troverà di quelli che le faranno avere il denaro ad usura, e poi verranno con lei a mangiare la loro quota in campagna. Servitor umilissimo. (in atto di partire)

RID. Venite qui, sentite.

PROC. Non occorr'altro; la riverisco divotamente. (parte)

SCENA SECONDA

Il signor Ridolfo, poi Grilletta

RID. Io sono nel maggior imbroglio di questo mondo. Se non fosse l'impegno... Sento gente dalla parte del signor Geronimo. Sento scender le scale; se fosse lui almeno... Ma no, è la serva di casa.

GRILL. (Guardate se sono vere pazzie queste. Mandarmi a quattr'ore di notte fuori di casa). (da sé)

RID. Ehi! Grilletta; il signor Geronimo è in casa?

GRILL. Non signore, non c'è.

RID. È molto che a quest'ora non sia tornato.

GRILL. È ito alla commedia egli pure.

RID. Se verrà a casa, dovrà passare di qui.

GRILL. Ci sarebbe nessuno de suoi servitori, che volesse un po' accompagnarmi?

RID. Dove avete d'andare a quest'ora?

GRILL. Oh, veda lei se questa è ora da mandare una fanciulla come me, sola sola, e di più al buio ancora.

RID. Chi vi manda?

GRILL. La padrona mi manda.

RID. È in casa la signora Felicita? Non è ita alla commedia ella pure?

GRILL. Non signore, suo fratello e suo padre volevano che ci andasse. Lo zio non voleva. Hanno gridato un poco; poi ella ha voluto restare in casa.

RID. Segno ch'è una figliuola rassegnata e discreta.

GRILL. Sì, discretissima! rassegnatissima! Lo sa vossignoria perché è restata in casa?

RID. Che volete ch'io sappia? Credeva per non disgustare lo zio.

GRILL. È restata in casa per far impazzire me, ed altre due donne ancora. Vuole in ogni maniera un vestito da viaggio per domattina. Il sarto non lo può fare; fatto non si trova; ed ella presto presto ha tagliato un andrienne, ha chiamato una sarta con un'altra donna; lavora lei, ci lavoro io, e non si va a letto, se l'abitino non è finito.

RID. Queste signore sono capricciosissime.

GRILL. Ma come la mia non se ne dà.

RID. Anche mia sorella ha voluto fare il vestito...

GRILL. Ma non è niente il vestito. Senta, se vuol ridere. Mi manda a quest'ora dalla signora Taddea, che non istà poi tanto vicina; mi manda a pregarla che le dia in prestito un tabarrino da viaggio, un cappellino alla moda, ed un ombrellino da parar il sole.

RID. Non le ha queste cose la signora Felicita?

GRILL. Non le ha, e vuol parere di averle. In verità mi fanno da ridere queste signore, che per comparire in qualche occasione vanno qua e là accattando le robe in prestito; e chi le dà, lo dice, e si fanno poscia burlare.

RID. E se altri non lo dicesse, lo dicono le cameriere.

GRILL. Oh, io lo dico a lei, ch'è nostro vicino di casa. Del resto ad altri non lo direi.

RID. So che siete una figliuolina di garbo.

GRILL. Mi dispiace ora... Non ha nessuno in casa da farmi un po' compagnare?

RID. Non c'è nessuno. Sono al teatro con mia sorella.

GRILL. Si sa niente ancora della commedia nuova?

RID. Niente, non sarà ancora finita.

GRILL. Oh, la sarebbe bella che non incontrasse.

RID. Che male sarebbe egli? L'esito è sempre incerto.

GRILL. Male sarebbe per la signora Felicita, che avrebbe persa una notte, rovinato un andrienne, e non andrebbe in villa.

RID. Perché? Come c'entra la riuscita della commedia coll'andar di fuori?

GRILL. Come c'entra? Ve lo dirò io, come c'entra. Se non piace, i comici non daranno al signor Grisologo il regalo promessogli di dodici zecchini, e senza questi non si va in campagna.

RID. Dite il vero?

GRILL. Verissimo.

RID. Ma come? Raccontatemi; ditemi un poco meglio...

GRILL. Oh, voi mi vorreste far dire, ed io non voglio dir niente. Anderò dalla signora Taddea per il tabarrino, per il cappellino e per l'ombrellino. Ma se non vengono i dodici zecchini, non si va di fuori. Il padre non ne ha; lo zio non ne vuol spendere. La figliuola è ambiziosa. Basta basta... non dico altro. (parte per la porta di mezzo)

SCENA TERZA

Il signor Ridolfo

RID. Il mondo è fatto così, per quello ch'io vedo. Ciascheduno vuol fare più di quello che può. Io mi rovino a debiti, e non so come anderà a finire. Mi basterebbe per quest'anno solo poter tirar innanzi con riputazione. L'anno venturo mi metterei un poco in economia. Gli è vero, che sono cinque o sei anni che vo dicendo così, ma una volta poi ci s'ha da venire ad una riforma. Se non altro in occasione di maritarmi. Se crepasse questo vecchiaccio del signor Geronimo! Se potessi metterci le ugne in quei dobloni di Spagna... Oh, ecco che tornano dalla commedia. E per partire non c'è fondamento. Oh sì, che vogliamo sentire la signora sorella a cantarmi la solfa in tutte le quattro chiavi.

SCENA QUARTA

La signora Leonide col signor Mario, serviti di lumi da Servitori, ed il suddetto.

LEON. Eccoci, eccoci; fate attaccare, che siamo all'ordine.

RID. È finita la commedia?

LEON. Non ancora; non abbiamo avuto la sofferenza di starci sino alla fine.

RID. Avrei piacer di sapere, come da ultimo il popolo l'ha applaudita.

LEON. Il signor Roccolino, che vi è rimasto, ve lo saprà dire. Intanto ordinate che attacchino; non perdiamo tempo.

RID. Aspettiamo il signor Roccolino. Ma ditemi qualche cosa della commedia. C'è niente di buono?

LEON. Se la finiscono, fanno molto.

RID. È cattiva dunque?

LEON. Scelleratissima.

RID. È vero, signor Mario?

MAR. Cosa peggiore non ho sentito a' miei giorni.

RID. Sachespir non piace dunque?

MAR. Non piace, perché il signor Grisologo non l'ha saputo imitare.

LEON. Non vi è ordine, non vi è intreccio, non ci sono caratteri. Oh che pasticcio!

MAR. Io non so mai, perché il signor Grisologo siasi posto ad un tale impegno.

RID. Ve lo dirò io il perché. Per guadagnare dodici zecchini.

LEON. Poveri comici! li hanno gettati via.

RID. Se non piace, non glieli danno.

LEON. Oh, non li ha dunque?

RID. E se non li ha, né lui, né la signora Felicita vanno in villa.

LEON. Come lo sapete? Chi ve l'ha detto?

RID. Grilletta me lo ha detto, la cameriera.

MAR. È bellissima l'istoriella.

LEON. Non ci viene più a ritrovare la signora Felicita.

RID. Zitto, zitto, ch'ella scende le scale, e viene da voi.

LEON. Povera donna! mi fa compassione.

RID. Usate prudenza con lei, non la state a mortificare.

LEON. Se si tratta di compiacervi, le darò gusto.

MAR. Meglio per lei, che non sia stata al teatro.

SCENA QUINTA

La signora Felicita e detti.

FELIC. Serva di lor signori. Perdonino. Ho veduto dalla finestra tornare la signora Leonide; la curiosità mi sprona. Come è riuscita la commedia di mio fratello?

LEON. Bellissima.

FELIC. Davvero?

LEON. Lo domandi al signor Mario.

FELIC. Mi dica qualche cosa, signore. (a Mario)

MAR. Eh, il signor Grisologo è giovine; si farà sempre meglio.

FELIC. Ma non ha fatto bene ora?

LEON. Sì, ha fatto benissimo.

FELIC. Ha avuto applauso in teatro?

LEON. Ho sentito tre o quattro paia di mani che battevano.

FELIC. Battevano dunque? (a Mario)

MAR. Sì signora, battevano.

LEON. Ed il signor Policastro come s'affaticava a battere!

FELIC. Anche mio padre batteva?

LEON. Anche lui, e il parrucchiere, e il sarto, e i portinai del teatro battevano terribilmente.

FELIC. È piaciuta dunque la commedia di mio fratello. (a Ridolfo)

RID. Si può sperare che l'universale l'abbia aggradita.

FELIC. (Buono, buono. Anderemo in villa). (da sé)

LEON. Che volevano significare, signor Mario, coloro che sbadigliavano?

MAR. Gente che non sa, che non bada.

FELIC. Ignoranti saranno stati.

LEON. E quelli che strillavano, che sussurravano, che corbellavano?

MAR. Potevano essere anche genti maligne.

FELIC. Genti mandate a posta saranno state.

RID. Non occorre badare a tutto.

FELIC. Basta, la commedia è riuscita bene. (a Leonide)

LEON. Riuscì a maraviglia.

FELIC. È finita? (a Leonide)

LEON. Non ancora; siamo partiti ch'erano all'atto terzo, e la commedia è di cinque atti.

FELIC. Perché non è stata sino alla fine?

LEON. Perché dobbiamo partire.

RID. Ecco il signor Grisologo.

FELIC. La commedia è finita dunque.

LEON. Così presto? non è possibile.

MAR. Sarà venuto via innanzi, dunque.

SCENA SESTA

Il signor Grisologo e detti.

LEON. (Vedendo venire il signor Grisologo melanconico, se ne ride in segreto col signor Mario)

GRIS. (Ah! pazienza!) (da sé in aria melanconica)

LEON. (Fa lo stesso col signor Ridolfo)

FELIC. È finita la commedia? (a Grisologo)

GRIS. È finita.

LEON. Come mai così presto? Siamo partiti ora, ch'erano all'atto terzo.

GRIS. Sapete l'impertinenza che m'hanno fatto i maligni? Hanno sollevato il teatro, ed hanno costretto i comici a calar la tenda.

LEON. (Ride col signor Mario)

FELIC. Sono stati i maligni? (a Grisologo)

GRIS. E chi volete che l'abbia fatto?

LEON. Povero signor Grisologo. Tutta invidia.

GRIS. Dicano la verità, essi che ci sono stati: era una cosa che meritasse un affronto simile?

LEON. Far calar la tenda? Piuttosto non alzarla nemmeno.

GRIS. Non l'intendo, signora Leonide.

MAR. Vuol dir la signora, che in questi casi è da desiderare di non essersi esposti.

GRIS. Sa ella che cos'è, signore? Non intendono niente.

LEON. Questo è quello che diceva io; non intendono niente.

RID. Non vi perdete per questo, signor Grisologo. Un'altra vi rimetterà in riputazione.

GRIS. Sì; voglio farne delle altre, a dispetto de' miei nemici.

LEON. Ecco il signor Roccolino; fate attaccare. E che si parta una volta. (a Ridolfo)

RID. (Non si vede venire il signor Geronimo. Non so che risolvere). (da sé)

SCENA SETTIMA

Il Signor Roccolino e detti.

ROCC. Servitor umilissimo di lor signori. Bravo, signor Grisologo; me ne rallegro infinitamente.

LEON. Gli è piaciuta la commedia, signor Roccolino?

ROCC. Bella davvero; ci ho avuto gusto. Bene scritta; bei sentimenti, belle parole, bello stile, bella frase, bellisima dicitura; in verità, me ne rallegro infinitamente.

GRIS. Sentono, signori miei? Non l'ho detto io, che i maligni me l'hanno buttata a terra?

LEON. Certo una gran bella cosa! È un peccato, signor Roccolino, che non l'abbiano terminata.

ROCC. Come? non l'hanno terminata? Sì, signora, terminatissima. Ho veduto io calare la tenda.

LEON. Ma la tenda l'hanno calata prima che la commedia fosse finita.

ROCC. Davvero! questo non lo sapevo. La commedia è fatta con tale artifizio, che si può finire quando si vuole; bravo, signor Grisologo, me ne rallegro infinitamente.

GRIS. Obbligatissimo alle di lei grazie. S'ella avesse desiderio di sentir il fine, posso servirla anche adesso, se vuole.

ROCC. Mi farebbe un piacere singolarissimo.

LEON. (Non ci mancherebbe altro, che questo resto di seccatura). Signor Ridolfo, voi siete incantato, a quel che si vede. Anderò io a sollecitare questo gran viaggio. Con licenza di lor signori, la signora Felicita ci verrà a ritrovare in campagna; il signor Grisologo ci finirà di leggere la sua bella commedia in campagna. (Poveri spiantati, non ci vengono per quest'anno). (da sé, e parte col signor Mario)

ROCC. Io ho l'onor di servir la signora, e ho l'onore di riverir lor signori. E al signor Grisologo ho l'onore di dirgli: me ne rallegro infinitamente. (parte)

SCENA OTTAVA

La signora Felicita, Ridolfoe Grisologo

FELIC. (I zecchini ci saranno?) (piano a Grisologo)

GRIS. (Pensate! se mi hanno fatto calar la tenda). (piano)

FELIC. (Pazienza. Povero il mio andrienne!) (da sé)Signor Ridolfo, ella va in campagna. Faccia buon viaggio. Si diverta bene. (con passione)

RID. Non ci sono ancora andato, signora.

FELIC. Se non è andato, è vicino a andarvi, ed io resterò qui. (asciugandosi gli occhi)

RID. Dunque, signor Grisologo, non siete più in caso ora d'andar in villa?

GRIS. Lasciatermi stare. Sono arrabbiato quanto mai posso essere.

FELIC. E il signor Ridolfo anderà a divertirsi. Bella premura che ha per me! Sono sincere l'espressioni che ha avuto la bontà di farmi. (con ironia)

RID. (Vo' cogliere qualche profitto dalla mia disgrazia). (da sé)Signora Felicita, le mie espressioni sono sincere. Se ella non parte, non partirò nemmen io.

FELIC. E la signora Leonide?

RID. Nemmeno.

FELIC. Ma se è vestita da viaggio.

RID. Colla facilità con cui si è vestita, potrà spogliarsi.

FELIC. Sì è verissimo; potrà spogliarsi. Caro signor Ridolfo, vedo ch'ella ha della bontà per me. Si assicuri della mia gratitudine. (Pazienza, s'io non vado in campagna; bastami che non ci vada la signora Leonide). (da sé, e parte)

SCENA NONA

Il signor Grisologo e il signor Ridolfo

GRIS. Non mi sarei mai creduto, che la mia commedia dovesse avere un esito così infelice.

RID. Non avete perciò ad affliggervi. Sono accidenti che accadono.

GRIS. Se l'avessero lasciata finire, si sarebbe replicata dieci volte almeno.

RID. M'immagino che il buono sarà stato nel fine.

GRIS. La faceva terminare con questi versi. Se gli uditori non erano statue, conveniva per forza che la facessero replicare. Sentite, se si può dire in modo più obbligante, più tenero, più convincente:

Ecco, uditori, il fine dell'opera piacevole:

L'onor, la gloria, il merto fra noi fu vicendevole.

Da noi aveste in dono il grande e l'ammirabile,

Noi ricevemmo in cambio l'aggradimento amabile.

Dell'umile poeta vadan gli applausi all'etera:

Battete e ribattete mani, piedi etcetera.

RID. Poteva darsi che avessero battuto, ma se poi la sera dopo non andava gente al teatro, era peggio.

GRIS. Per me era meglio. I comici, a loro dispetto, avrebbono dovuto confessare che la commedia aveva incontrato.

RID. E vi avrebbono pagato i dodici zecchini?

GRIS. Dodici zecchini? Che cosa sapete voi de' dodici zecchini?

RID. Caro amico, le cose si sanno. Ma non vi prendete soggezione di me. Sappiate che io pure sono nel caso vostro. Senza trovar denaro, non posso andare in campagna.

GRIS. Resteremo qui tutti dunque.

RID. Se avessi io uno zio ricco come il vostro, so bene che, per amore o per forza, ne vorrei certo delli denari.

GRIS. Se sapessi il modo.

RID. Egli finalmente maneggia il vostro. In quello scrigno vi è la parte di vostro padre e la parte vostra.

GRIS. È verissimo; ma come ho da fare?

RID. Se foss'io in luogo vostro, vorrei aprirgli lo scrigno e prendermi la parte mia.

GRIS. Mi consigliate a farlo dunque?

RID. Io non vi consiglio a farlo, vi dico quello che per me farei.

GRIS. Lo farò, io.

RID. Torno a dirvi: non vi consiglio di farlo, ma quando mai lo faceste, caro amico, ho bisogno di mille scudi. Vi pagherò il vostro censo, e anderemo in campagna.

GRIS. Prima ch'ei torni a casa, volete che tentiamo ora, presto presto, se potessimo fare il colpo?

RID. Io non vi consiglio di farlo.

GRIS. Son persuaso da me, senza che me lo consigliate. Venite solamente per compagnia.

RID. Verrò, ma avvertite bene, per qualunque caso vi protesto che non vi consiglio di farlo.

GRIS. Non occorr'altro. Andiamo; si perde il tempo. Dirò, come diceva Arlecchino nella mia commedia...

RID. Che c'era Arlecchino in Inghilterra, a tempo di Cromuel?

GRIS. Ci fosse o non ci fosse, queste sono licenze poetiche. Io ce l'ho messo per far ridere. Sentite, se non è una cosa da far crepare:

No vôi perder più temp; a Londra vôi andà,

A fà quel ch'el patrù m'ha dicc e comandà.

Mo che gran bella cossa! el patrù parla ingles,

Mi parli bergamasch, all'us del mi paes.

Lu no m'intend mi, mi no l'intendi lu

E pur se fa, se dis, di coss in tra de nu.

Qualchedun me dirà come fet, Arlecchin?

Respond che la virtù la sta in tel me codin.

Questo no l'è el demoni, questa no l'è magia:

L'è virtù del poeta: viva la poesia. (parte)

RID. Scioccherie sono queste... ma mi preme il denaro, se mai si potesse avere. Oh impegno, impegno, che cosa mi consigli di fare? Basta... Il denaro lo prendo a censo. Il rapitore è nipote, e gli ho protestato e riprotestato... Ah, è meglio non ci pensare. Se ci penso, la delicatezza d'onore non lo comporta. (parte)

SCENA DECIMA

Il signor Geronimo, il signor Policastro e Geppino servitore, colla lanterna.

GERON. V'ho detto, e vi torno a dire, che Grisologo è un ignorante.

POLIC. Ed io vi dico, che ne sa più di voi.

GERON. Nella commedia di questa sera ci sono più spropositi che parole.

POLIC. Spropositi? Se scrive da Cicerone. Scrive colla Crusca alla mano; dice paroloni stupendi.

GERON. Paroloni fuor di proposito. E poi, che pasticcio è quello che ha egli fatto? Si può far peggio?

POLIC. Pasticcio chiamate una commedia fatta sul gusto di quelle di Sacca... di Sacchi... di Sacco...

GERON. Di Sacchespir volete dire. C'è tanta differenza, come dal giorno alla notte.

POLIC. Chi sente voi, non ci sono altri dottori che voi, e io non so niente, io.

GERON. Oh, voi sapete molto! Povera la vostra famiglia, se venisse regolata da voi.

POLIC. Povera, povera, povera... Geppino

GEPP. Signore.

POLIC. Ce ne sono più fichi?

GEPP. Tre o quattro ancora.

POLIC. Date qui.

GEPP. Eccoli. (gli dà il cartoccio)

POLIC. Povera, povera, povera (mangiando fichi)

GERON. Eccoli lì i due mestieri del signor Policastro. Mangiare e dormire.

POLIC. E voi taroccare, e contar quattrini.

SCENA UNDICESIMA

Cricca e detti

CRI. Signor padrone.

POLIC. Che c'è?

CRI. Non dico a lei, dico al signor Geronimo.

POLIC. Eh già; non sono padrone io; non conto nulla io.

CRI. Ho una cosa da dirle. (a Geronimo)

GERON. Ditela.

CRI. Che non senta il signor Policastro. (piano a Geronimo)

GERON. Venite qui. (lo tira in disparte)

POLIC. Non ho da sentire io; non c'entro io; non conto nulla io. (mangiando fichi)

CRI. (Ho sentito strepito nella di lei camera. Ho guardato per il buco della chiave, e ho veduto il signor Grisologo, unitamente al signor Ridolfo, che forzavano il di lei armadio). (piano a Geronimo)

GERON. (Cospetto di bacco! ) (parte subito)

POLIC. Che c'è? dove va?

CRI. Non so niente io. (parte)

POLIC. Va a vedere che cosa c'è. (a Geppino)

GEPP. Vuol restare qui solo?

POLIC. Anderò ancor io a vedere... No, è meglio che me ne vada nella mia camera... (parte da un altro lato con Geppino)

SCENA DODICESIMA

Camera con lumi sul tavolino.

La signora Felicita, poi Grilletta

FELIC. Pagherei uno scudo a poter vedere la signora Leonide, e corbellarla un poco. Ma la vedrò domani. Spero che il signor Ridolfo tratterà meco da galantuomo; mi manterrà quello che mi ha promesso; ed io poi sarò obbligata di corrispondere...

GRILL. Eccomi qui. La signora Taddea la riverisce. Le manda il tabarrino....

FELIC. Non mi occorre altro. Glielo potete riportare.

GRILL. Ci è il cappellino, e l'ombrellino ancora.

FELIC. Se vi dico che non mi occorre.

GRILL. Non si va altro in villa?

FELIC. Per ora no. Domattina riportate le robe sue alla signora Taddea, ditele che la ringrazio. Sentite, potete dirle che ho mandato a prendere queste cose per mostra, e che mi faccio un tabarrino nuovo, un cappellino nuovo ed un parasole.

GRILL. Sì signora, ho capito. Ma che vuole dire, che non si va in campagna?

FELIC. Vuol dire che non va più nemmeno la signora Leonide.

GRILL. Certo, egli è vero. Non ci va più. Passando ora per la sala terrena, l'ho sentita gridar come un'aquila. Lo sa ella, signora padrona, il perché non va la signora Leonide?

FELIC. Lo so certo. Il signor Ridolfo, che ha della stima di me, si è impegnato meco di non partire, se non siamo in grado di partir seco.

GRILL. Oh signora mia, ella è male informata.

FELIC. Come! non sarà vero che il signor Ridolfo abbia della premura per me?

GRILL. Sarà verissimo; ma non è questo il motivo che lo trattiene.

FELIC. Che altro dunque lo può arrestare?

GRILL. Sono stata informata di tutto, ora in passando, dalla cameriera della signora Leonide. Dice così, che il signor Ridolfo è circondato da' creditori, e se non li paga prima d'andarsene, gli succederanno de' guai.

FELIC. Oh, questa è bella davvero! Ora vorrei che mi capitasse alle mani la signora Leonide. Ci ho tanto gusto, Grilletta, quanto se andassi ora in villa, e credo ancora di più.

GRILL. Affé, mi pare... è dessa senz'altro. (guardando tra le scene)

FELIC. Chi?

GRILL. La signora Leonide.

FELIC. Oh bellissima! viene a tempo.

GRILL. Vado a ripor queste robe. Dica forte, che sentirò ancor io. (parte)

SCENA TREDICESIMA

La signora Felicita, poi la signora Leonide, poi Grilletta

FELIC. Pare che il demonio l'abbia mandata a posta.

LEON. Compatisca, signora Felicita, è qui mio fratello?

FELIC. Non l'ho veduto, signora.

LEON. Dove diamine si è cacciato? In casa non si trova: mi è stato detto ch'egli sia col signor Grisologo.

FELIC. Io non ho veduto né l'uno, né l'altro.

LEON. Mi vuol far disperare questo mio fratello.

FELIC. Quando va di fuori, signora Leonide?

LEON. Tutto è pronto, e non trovasi il signor Ridolfo.

FELIC. Il signor Ridolfo non sarà lontano. Ma mi dispiace darle una cattiva nuova.

LEON. Che vuol dire, signora?

FELIC. Vuol dire, che il signor Ridolfo per ora non anderà più in villa, e a lei toccherà star qui, poverina.

LEON. Come! dice davvero? Che cosa mai gli è accaduto?

FELIC. Credo che sia per una picciola difficoltà.

LEON. Ma perché mai?

FELIC. In confidenza, in segno di vera amicizia; già nessuno ci sente. Credo sia perché gli manchino de' quattrini.

LEON. Mi maraviglio, non può essere. Casa nostra non è in questo stato; s'ingannerà, signora.

FELIC. Non occorre farsene maraviglia. A tutti qualche volta può mancare il denaro. E guai a chi manca. Casa sua, per esempio, paga tutti con tanta pontualità; e una sol volta che non ha potuto pagare il sarto monsieur Lolì, dice cose colui, che meriterebbe di essere bastonato. Fa bene a non servirsi più da lui, a mortificarlo.

LEON. (La capisco l'impertinente. Ma giuro al cielo, mi saprò vendicare). (da sé)

FELIC. Grilletta. (chiama)

GRILL. Signora. (di dentro)

FELIC. Portami quell'abitino da viaggio.

GRILL. La servo subito. (di dentro)

LEON. Un abito fatto sì presto?

FELIC. Lo vedrà. Non è finito del tutto.

GRILL. Eccolo, signora. (porta l'abito)

LEON. Oh oh, dove l'ha preso? In ghetto? (ridendo)

FELIC. Non signora, le donne lo lavorano in casa.

LEON. Un bell'abito nuovo di pezza vecchia!

FELIC. Almeno non farò aspettare né il mercante, né il sarto.

LEON. E perché se l'è fatto quell'abitino?

FELIC. Per andar in campagna.

LEON. Quando?

FELIC. Presto, prestissimo.

LEON. In confidenza, in segno di vera amicizia; già nesuno ci sente. Come vuol ella andar in campagna, se il signor Grisologo non ha avuto i dodici zecchini della commedia?

GRILL. (Uh povera me! ) (da sé)

FELIC. Come! che dic'ella de' dodici zecchini?

LEON. Domandatelo a Grilletta, che lo sa meglio di me.

FELIC. Temeraria! come lo potete voi dire? (a Grilletta)

GRILL. Vado a rimetter l'abito nel guardarobe. (parte)

LEON. Incartatelo, che non venga nera la guarnizione. (verso Grilletta)

FELIC. Credo ch'ella lo saprà, signora, che in casa nostra si vive d'entrata.

LEON. E con tante ricchezze non le fanno un abito con un poco di civiltà.

SCENA QUATTORDICESIMA

Il signor Geronimo e dette.

GERON. Che si fa qui, signore mie garbatissime?

LEON. Io cerco di mio fratello, signore.

GERON. Il suo signor fratello so io dov'è. Non è molto di qua lontano.

LEON. Mi faccia il piacer d'avvisarlo che tutto è in pronto, che non si aspetta che lui.

GERON. Ha qualche cosa che fare ora; non potrà venir così subito.

LEON. E che cosa fa egli? si può sapere?

GERON. Lo saprà da qui a poco; ora non posso dirglielo.

LEON. Son curiosa ben di saperlo.

FELIC. Vi è qualche novità, signore? (a Geronimo)

GERON. Vi sono delle bellissime novità di lui e di vostro fratello. (a Felicita)

FELIC. Son curiosa anch'io di saperlo.

GERON. Se lor signore vogliono aver il piacere di saper tutto, favoriscano ritirarsi per qualche poco, e si chiariranno perfettamente.

LEON. Dica, signore, crede ella che questa notte si vada altro in campagna? (a Geronimo)

GERON. Ho paura di no.

LEON. Vogliamo star bene. Si dormirà sulle seggiole. (entra in una camera)

FELIC. (Non ci voglio stare con lei. Ho troppa vergogna ch'ella abbia saputo dei dodici zecchini). (entra in un'altra camera)

SCENA QUINDICESIMA

Il signor Geronimo, poi Cricca

GERON. Cricca.

CRI. Signore.

GERON. Avete trovato il signor Policastro?

CRI. Sì signore, è qui di fuori in sala.

GERON. Fatelo venire. Ditegli che ho una cosa da comunicargli. Hanno tentato d'uscire dall'altra porta i due manigoldi?

CRI. Non ho sentito niente alla porta. Lavorano ancora intorno all'armadio.

GERON. Bene dunque. Tenete queste chiavi. Aprite per di là, ed entrate a drittura. Essi resteranno sorpresi. Voi fingete di volerli assistere; e dando loro a credere di salvarli, aprite quest'altra porta, e conduceteli per di qua. Portatevi bene, e ci sarà per voi un paio di scarpe.

CRI. Lasci fare a me, che quando voglio, so far le cose come vanno fatte. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Il signor Geronimo, poi il signor Policastro

GERON. Ora spero di condurre la cosa bene, senza strepiti.

POLIC. Siete voi che mi vuole?

GERON. Sono io, che disdicendomi del male che ho detto di vostro figlio, desidero ora che siate a parte di un frutto novello della di lui virtù.

POLIC. Lo toccherete con mano, che Grisologo è virtuoso.

GERON. Virtuosissimo anzi, non c'è dubbio. Eccolo che egli viene da quella stanza. Non ci facciamo vedere così presto. (si ritira un poco col signor Policastro)

SCENA DICIASSETTESIMA

Il signor Grisologo, il signor Ridolfo e Cricca dalla porta che s'apre; e detti.

CRI. Vengano per di qua, che non saranno veduti.

GRIS. Troppo tempo abbiamo perduto.

RID. E quel ch'è peggio, non si è fatto niente.

GERON. Dove, dove, signori miei?

GRIS. (Si cava il cappello e resta confuso)

RID. Servitor umilissimo.

CRI. (Il tempo non ha loro servito. Hanno fatto qualche danno all'armadio; ma non l'hanno aperto). (piano a Geronimo)

RID. Con licenza di lor signori. (vuol partire)

GERON. Favorisca trattenersi un momento.

GRIS. (Povero me! non so in che mondo mi sia). (da sé)

RID. Signore, se mi vedete uscire da quella stanza...

GERON. Lasciate parlare a me, signore. Quando toccherà a voi, lo farete. Signor Policastro, ecco il vostro degno figliuolo, di cui ho da farvi conoscere un'altra bella virtù. Sapete voi che cosa faceva egli entro di quella camera? Tentava di aprire il mio armadio per prendere il denaro; ed il degnissimo signor Ridolfo gli serviva di scorta.

POLIC. Io non so niente. Io non c'entro per niente.

RID. Io non l'ho consigliato a farlo...

GERON. Lo credo benissimo.

GRIS. Io finalmente voleva prendere...

GERON. Sì nipote carissimo, so che volete dirmi; prevedo le vostre oneste difese, e voglio io contro di me medesimo far per voi l'avvocato. Io finalmente (intendevate dirmi) non voleva prendere che roba mia. Il signore zio maneggia le entrate della casa, che tiene rigorosamente serrate. Noi non siamo padroni di niente. Se si vuol un divertimento, non si può avere; se si vuol andar in villa, non si può andare. Ed io vorrei andare in campagna con mia sorella, col mio signor padre; ed in mancanza d'assegnamenti, non faceva che prendere colle mie mani quello che col signor zio mi sarebbe stato barbaramente negato. Per farlo, non aveva coraggio io solo, ho pregato l'amico; l'amico, persuaso delle mie ragioni, mi ha assistito; ma siamo due galantuomini, due persone oneste, incapaci di prendere quello che non è nostro, incapaci di una furfanteria. Eh? dico bene? sono queste le difese vostre? quelle del signor Ridolfo? quelle del signor Policastro?

POLIC. Io non so niente. Non c'entro per niente, io.

GERON. Oh, sentite ora come all'avvocato vostro risponde il mio. Finalmente non volevate prendere che roba vostra. Come sapete voi gl'interessi di questa casa, voi che col bell'esempio di vostro padre trascurate d'interessarvene, per non soccombere alla fatica di un cotal peso? Chi vi assicura, che le rendite annuali vostre bastino alle spese quotidiane della famiglia, onde possiate dir francamente che quegli avanzi sian vostri? No, che vostri non sono; poiché derivano essi dall'industria mia, da' miei traffichi particolari, e son frutti onorati de' miei sudori. Sono vostri, egli è vero, in quanto l'amor mio a vostro pro li destina; ma non per farne mal uso, non per convertirli vilmente in passatempi, in gozzoviglie, in villeggiature. Evvi una figliuola da collocare. Voi avete bisogno di un onorato impiego per mantenervi. È in necessità vostro padre di assicurarsi il pane della vecchiaia. Il mio scrigno è il vostro deposito; ma voi insidiandolo barbaramente, siete un figlio snaturato, un ingrato nipote, un nemico del vostro sangue medesimo. Il signor Ridolfo, persuaso delle vostre ragioni, vi prestava amorosa assistenza. Lo crederei fors'anche, se non sapessi di certo esser egli in grado di pretendere da voi il prezzo dell'amicizia, per rimediare ai disordini della pessima sua condotta. I mille scudi negati onoratamente dal zio, si procurano dal nipote. Non si consiglia a rubare, ma gli si tien mano perché lo faccia; si fomenta la gioventù, si dà scandalo ai più pusillanimi, si eccita col mal esempio, e poi si potrà dir francamente: siamo due galantuomini, siamo persone oneste, incapaci di commettere una furfanteria? Le persone onorate non antepongono alla propria riputazione il piacere, il chiasso, il divertimento. È un'azione onorata quest'ultima che fatta avete nella camera di un uomo che stenta per una famiglia non sua, che aumenta per il bene de' suoi nipoti, che ama i nipoti suoi, come se fossero di lui figliuoli? Vergognatevi. (a Grisologo)Vergognatevi. (a Ridolfo) Vergognatevi. (a Policastro)Il mio avvocato ha ragionato così.

POLIC. Vergognatevi a me pure? Come c'entro io?

GERON. Gli avvocati hanno dette le vostre e le mie ragioni. Sentite ora il giudice, che pronuncia la sua sentenza. Ma questo giudice, sapete voi chi egli sia, nipote mio? Consolatevi, egli è l'amore, non è lo sdegno. E buon per voi, signor Ridolfo imprudentissimo, incauto, buon per voi, che associato nel delitto di mio nipote, sarete a parte della sentenza dolcissima che gli destino. Sì, figlio, il mio amore per questa volta vi assolve. Non voglio perdervi, non voglio abbandonarvi per ora. Scuso un primo delitto; ma giurovi sull'onor mio, che punirei severamente il secondo. Ed il castigo che vi preparo, è il più fatale che avvenir vi potesse: è l'abbandono all'arbitrio di voi medesimo, alla tutela d'un miserabile genitore.

POLIC. Come c'entro io? Non so niente io.

GERON. Deh, movetevi a compassione di voi medesimo se conoscete che io non la meriti; se grato non volete essere ad uno zio che vi ama, che vi assiste, che vi benefica, siatelo alla provvidenza del cielo. Non la stancate, figliuolo mio, non l'irritate; che s'ella con voi si sdegna, ahimè! s'ella vi scorge ingrato, leverà a me il piacere che ho di soccorrervi, e malgrado le mie diligenze, sarete un dì miserabile; mendicherete quel pane che ora vi sembra amaro, perché vi vien dato con parsimonia da chi vi ama, da chi vi ama di cuore.

GRIS. Ah, signore zio, eccomi a' vostri piedi a domandarvi perdono.

RID. Per carità, signore, vi raccomando la mia riputazione.

POLIC. Caro fratello, non ci abbandonate. (piangendo forte)

SCENA DICIOTTESIMA

La signora Felicita, poi la signora Leonide; e detti.

FELIC. Signore zio, ho sentito tutto; siate benedetto; mi raccomando a voi; se voi non mi maritate, non v'è nessun che ci pensi. (piangendo)

LEON. E così, signor Ridolfo, quando si parte?

RID. Sorella carissima, per ora non si parte più.

FELIC. (L'ho caro). (da sé)

RID. Il signor Geronimo mi ha toccato il cuore, facendomi toccar con mano la verità. I denari che destinati avevo per la villeggiatura, pagheranno una parte de' miei creditori; e per il resto, se il signor Geronimo non mi aiuta, io non so più come tirare innanzi.

GERON. Non ho difficoltà di prestarvi mille scudi, e anche più se vi occorrono, purché li veda bene impiegati. Ma per andare in villa? piuttosto che pagar i debiti con quel denaro che avete serbato per i cavalli, per i trattamenti, per il gioco, per la villeggiatura? Avrei rimorso, se lo facessi. Sono amico de' galantuomini, non nego un piacere a chi mi par che lo meriti; ma non contribuisco a pazzie, a disordini, a vanità.

FELIC. Signora Leonide, che vuol ella fare? Ci goderemo in città con più comodo.

LEON. Una bellissima novità. Che diranno i convitati da noi?

RID. Torneranno alle case loro.

LEON. Non mi sarei creduta una cosa simile.

FELIC. È un peccato con quel bell'abitino da viaggio.

LEON. Mandi a chiamare monsieur Lolì, che gliene faccia uno compagno.

GERON. Figliuoli miei carissimi, signori amatissimi, mi spiace infinitamente vedervi tutti essere malcontenti; però voglio procurare di confortarvi, voglio farvi toccar con mano, che sono di buon cuore per tutti...

SCENA DICIANNOVESIMA

Il signor Roccolino e detti.

ROCC. Signori miei gentilissimi, scusino, perdonino, mi compatiscano, se vengo arditamente ad intendere quando si principia a trottare.

RID. Per ora, signore, non si va più.

ROCC. Non si va più in campagna? (a Leonide)

LEON. Certamente; per causa di certo affare, non si va più. Or ora, tornando in casa, lo saprà il signor Mario pure.

ROCC. Resteremo qui dunque?

LEON. Resteremo qui.

ROCC. Me ne rallegro infinitamente.

RID. Vostra signoria può ritornarsene a casa.

ROCC. A casa ho da ritornare? (a Leonide)

LEON. Certamente; noi non abbiamo comodo per servirla.

ROCC. Ho da ritornare a casa? (a Ridolfo)

RID. Così è.

ROCC. Me ne... dispiace infinitamente.

LEON. Domani può favorire a pranzo da noi.

ROCC. Sarò a servirla.

GERON. Quel signore, per quel ch'io sento, è di quelli che va in campagna e in città onorando le mense or di questo, or di quello.

ROCC. Chi è cotesto signore? (a Ridolfo)

RID. Il signor Geronimo, zio del signor Grisologo.

ROCC. Ella ha un bravo nipote. Una bella testa. Una testa originale massiccia. Gran bei versi! gran belle cose! Me ne rallegro infinitamente, me ne rallegro infinitamente. (parte)

GERON. Nipote mio, adulatori, scrocchi, ignoranti. Questi son quelli che vi lodano, che vi acciecano, e che vi faranno impazzire, se li ascolterete più oltre. Torno al proposito di prima: siete malcontenti, figliuoli miei? Vo' procurare di rallegrarvi. Nipote mia, voi avrete diecimila scudi di dote. So che inclinereste al signor Ridolfo, ed egli inclinerebbe a voi. Muti vita; lo faccia conoscere, e non sarò contrario ai desideri vostri. Mio nipote lasci il fanatismo delle commedie; e avrà un impiego fra pochi giorni, onorifico, lucroso, e di non molta fatica. Mio fratello sarà contento di vedere ben collocati i figliuoli; e la signora Leonide, che è senza padre, si assicuri, per l'interesse che averò della sua famiglia, che potrà in me ritrovarlo, se con una savia rassegnazione si lascierà condurre da' miei consigli; ma lasciamo da parte le vanità, le grandezze. Piace a voi la campagna? Andremo a goderla insieme in altro tempo, in altro sito, con altra miglior maniera, con parsimonia, moderazione e cervello. Siete più malcontenti? Alla cera mi par di no; mi par di vedervi tutti rasserenati.

GRIS. Ah signore zio, compatitemi. Voi mi consolate davvero, e se mi assicurate dell'amor vostro, son contentissimo.

RID. Ed io non posso esser più lieto di quel che sono, se mi recate una sì soave speranza. Cercherò di farmi degno di conseguirla; e ne vedrete gli effetti.

FELIC. Caro signore zio, capisco che dite bene. Voglia il cielo che mio fratello v'ascolti. Di me non temete: son contentissima.

POLIC. Fratello... fratello... Mi fate piangere per l'allegrezza.

LEON. Anch'io sono quanto gli altri, e più degli altri, contenta. Voglia il cielo che Malcontenti non sieno i spettatori di questa nostra commedia, ma piuttosto vogliano essi renderci consolati con qualche segno della loro allegrezza.

Fine della Commedia.