I mercatanti

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Carlo Goldoni

I mercatanti


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: I mercatanti

AUTORE: Goldoni, Carlo

TRADUTTORE:

CURATORE: Ortolani, Giuseppe

NOTE:

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza

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TRATTO

DA: "Tutte le opere" di Carlo Goldoni; a cura di Giuseppe Ortolani; volume 4, seconda edizione; collezione: I classici Mondadori; A. Mondadori editore; Milano, 1955

CODICE ISBN: informazione non disponibile

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 17 giugno 2004

INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO: Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

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Vittorio Bertolini, vittoriobertolini@inwind.it

PUBBLICATO DA:

Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

Alberto Barberi, barberi.a@e-text.it

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I MERCATANTI

di Carlo Goldoni

Commedia di tre atti in prosa rappresentata per la prima volta ìn Venezia nel Carnovale dell'anno 1753

A SUA ECCELLENZA

IL SIGNOR MARCHESE

BONIFAZIO RANGONI

Quantunque nato io sia Veneziano, mi pregio di essere originario di Modena, da dove trasportò l'Avolo mio paterno l'abitazione in Venezia; e mi pregio poi molto più di godere in Modena la protezione altissima di V. E., due fregi in vero de' quali sono io ambiziosissimo, e me ne vanterò sempre a fronte di qualunque onore e di qualunque fortuna. Modena è stata in ogni tempo Città ,feconda di uomini illustri, e tuttavia nelle Lettere può disputare a qualunque altra il primato; che però essendo io uno de' Cittadini suoi, non per origine solamente, ma per l'attuale possedimento de' miei scarsi effetti, posso sperare che le Opere mie, quantunque d'imperfezione ripiene, vengano dalla fama de' Modanesi ad essere accreditate.

Molto più poi saranno queste dagli uomini di buon senno accolte, e dai maligni critici rispettate, quando fra loro noto, che dall' E. V. sono elleno compatite, benignamente accolte, ed in modo particolare protette.

Per quest'unico mio avvantaggio, da cui le Opere mie gloria e lustro e sicurezza ricevono, desiderava io sempremai di render pubblica al mondo la protezione di V. E., il di cui giudizio prevale a quello dell'universale, che le ha fortunatamente sinora accolte. Chi scrive per dar piacere soltanto ad un pubblico, di tanti ordini e di tanti geni composto, appagar si dovrebbe di un'aura favorevole che lo seconda; ma io non ne sarei contento, se dagli uomini illustri non mi vedessi almen compatito; per lo che fin dal principio, e da lontano ancora, cercai per ogni strada di assicurarmi con qual animo dall'E. V. fossero le Opere mie ricevute. Non posso bastantemente esprimere quanta mi recasse consolazione il sentire che fossero da Lei con piacere e lette e vedute rappresentare, e giunse all'estremo il mio giubilo, allora quando in Modena nel di Lei Palagio sofferse Ella che il mio Molier io le leggessi, col vantaggio d'averlo benignamente dell'autorevole sua approvazione, fatto degno. Unendosi in V. E., oltre la fondata erudizion nelle Lettere, un vivissimo genio alle Teatrali composizioni, opere traducendo de' più accreditati stranieri Autori, in una maniera che pregio accresce agli originali medesimi, cercava Ella di riparare per questa via ai disordini delle nostre Scene, ridotte alla più deplorabile decadenza; desiderando però nell'animo suo, che per se medesimo potesse il Teatro Italiano riprendere lo smarrito splendore antico, senza mendicare dagli esteri le opere, l'onestà, il verisimile, e delle buone regole l'osservanza. E a chi può premere l'onore della nostra Nazione più che all'animo grande dell'E. V., gloria e splendore degl'Italiani, o se riguardasi la grandezza dell'antichissima sua Famiglia, o se alle infinite personali di Lei virtù si rifletta? Se dato a me fosse di poter formare gli elogi delle famiglie illustri di quegli a' quali, come miei Protettori, indirizzo i fogli, campo avrei spaziosissimo per diffondermi in questo, in cui della prosapia de' Rangoni parlando, potrei empier molte pagine coi nomi illustri di tanti Eroi, che l'onorano delle imprese loro nell'Armi, della loro autorità nelle Lettere, e delle innumerabili Dignità che per l'Europa tutta occuparono. Ma oltrecché le forze mie troppo deboli sono per un tal peso, vano parmi anche il ripetere ciò che gli Storici più accreditati hanno diffusamente narrato, fra' quali il celeberrimo Muratori, gloria d'Italia, e splendore ed esempio de' Letterati, nostro valorosissimo compatriota, che dal Sansovino, dal Bembo, dal Guicciardini, da


Paolo Giovio, da Onofrio e da altri moltissimi accreditati Scrittori le memorie ha tratto di una sì illustre e sì conosciuta Famiglia, di cui il Pontefice Paolo IV disse: Che non vi era Principe Cristiano, che non potesse essere dalla sua parentela onorato. E chi bramasse raccolti leggere in poche pagine i nomi eccelsi de' Rangoni, le Imprese loro, le Dignità, i Governi, i Comandi, i Domini, le Parentele, i Meriti e le Maraviglie, troverà nel Tomo VII del Moreri1 alla lettera R., pag. 343, ed in colonne 20 che seguono, Soggetti degnissimi di poema e d'istoria.

Delle qualità ammirabili che adornano poi l'E. V., non posso io cimentarmi a discorrere, senza temer di adombrarle. Sono elleno bastantemente palesi, e comunemente si sa, essere Ella il vero modello del Cavalier dotto, magnanimo e di gentilezza ripieno. Si sa ch'Ella è nata per proteggere e beneficare; ed è un effetto di codesta sua virtù dolcissima e prediletta la somma benignità, ond'Ella risguardare si degna l'umilissima persona mia, e le Opere che da me sono o da' Torchi o dalle Scene prodotte. Questa Commedia, che ha per titolo I Mercatanti, è una di quelle che in Venezia e in Livorno, dove l'ho fatta rappresentare, ebbe un esito fortunato. V. E. non l'ha veduta ancora, ed io mi prendo l'ardire li presentargliela, accompagnata da questo mio ossequiosissimo foglio. Non so, se avrà la fortuna di andar fra quelle che meno spiacciono al di Lei gusto finissimo e delicato, ma tanta fiducia ho nel di Lei animo generoso, che nell'atto medesimo di comunicargliela, all'altissima protezione sua vivamente la raccomando, e col di Lei nome autorevole in fronte la pubblico per mezzo delle stampe. Questo è un ardir assai grande, ma chi ha la fortuna di essere da Lei protetto, è sicuro che non gli venga negata grazia veruna; onde se non avrà Ella motivo di essere internamente di questa Commedia mia persuasa, la proteggerà non ostante, appunto per questo, perché ne avrà più bisogno: e profondamente all'E. V. inchinandomi, ho l'onore di essere pieno di venerazione e di ossequio

Di V. E.

Umiliss. Divotiss. ed Obbligatiss. Serv. Carlo Goldoni


L'AUTORE A CHI LEGGE

I mercatanti è il titolo della presente Commedia, ma allora quando la scrissi, e quando la feci la prima volta rappresentare, la intitolai I Due Pantaloni: titolo strepitoso per un cartello in Venezia, e che allora benissimo le conveniva. Trovandosi nel valoroso Pantalone per cui la scrissi, l'abilità di far da vecchio e da giovine eccellentemente, guidai la Commedia in modo ch'egli medesimo potesse rappresentare il Padre ed il Figlio, variando soltanto colla maschera il personaggio, e l'abito ritenendo, che figurandosi essere il mercantile degli antichi tempi in Venezia, può a tutti due convenire. Egli, assistito da una singolare prontezza di spirito, riuscì nell'impegno mirabilmente, avendo io intrecciata la rappresentazione in modo che il Padre ed il Figlio non avessero mai ad incontrarsi, tutto che nella medesima casa abitassero, appunto per questo, perché il Figlio discolo ragionevolmente procura sottrarsi dagli occhi di un Padre disobbedito, oltraggiato ed eccitato a sdegno.

Piacque la Commedia in tal guisa rappresentata, ma dovendola ora dare alle stampe, non posso lusingarmi che sì facilmente trovisi un altro simile personaggio, che i due caratteri sostener possa, onde separando il Padre ed il Figlio, ho fatto in modo che abbiano ad essere due personaggi distinti. In tal guisa l'ho fatta rappresentare a Livorno, ed è riuscita egualmente bene: il Pantalone abilissimo della Compagnia che chiamasi di San Luca, fece a maraviglia il vecchio, ed il bravo comico Francesco Falchi il giovine, ambidue nella loro Veneta lingua. Anche questa difficoltà mi si oppose, stampandola, di ritrovar due persone di abilità che in tal linguaggio favellino, e perché è inconveniente cosa che il Padre ed il Figlio, in questa tale Commedia, non parlino col linguaggio medesimo, perciò li ho trasportati in Toscano, onde più facilmente possa essere da qualunque Compagnia recitata; e siccome in essa della Mercatura trattasi principalmente, e sono di tal professione i personaggi in essa più interessati, quindi è che le ho dato per titolo: I Mercatanti.

Pancrazio ci rappresenta un Mercante onorato, di buona fama e d'illibata coscienza, il quale anche in mezzo alle calamità ed ai pericoli, teme di commettere un'azione indegna, approfittando dell'altrui buona fede col pericolo di dover fallire. Questo carattere meriterebbe esser distinto in tele e scolpito in marmi, per regola e buon esempio di chi non ha la fortuna di ben conoscerlo.

Non ebbe però codesto buon uomo tutta la prudenza che basta per sapersi reggere e governare. Innamorato un po' troppo di un unico suo figliuolo, si è rovinato per sostenerlo; quindi è che Giacinto, discolo ed imprudente, può servire di norma ai Figliuoli ed ai Padri nel medesimo tempo, mostrando a quelli il precipizio della loro mala condotta, e a questi la vera regola dell'amore paterno, il quale talvolta dalla severità ottiene assai più di quel che promettersi possa dalla condescendenza.

Mi sono poi dilettato assaissimo nel carattere dell'Olandese, di cui parecchi originali ho conosciuti io medesimo. L'onore è il loro scopo primario, in secondo luogo amano far del bene, e per ultimo hanno in veduta il loro onesto interesse; e chi sa unire in se medesimo queste tre massime, che in tanti e tanti discordano, forma l'uomo da bene, l'uomo utile, il vero Mercante.


Personaggi

PANCRAZIO mercante in Venezia.

GIACINTO suo figliuolo.

Monsieur RAINMERE mercante olandese, ospite di Pancrazio.

Mademoiselle GIANNINA nipote di Monsieur Rainmere.

BEATRICE figliuola di Pancrazio.

LELIO amico di Giacinto.

Il DOTTOR MALAZUCCA medico avaro.

CORALLINA cameriera di Beatrice.

FACCENDA servitore di Pancrazio.

PASQUINO servitore di Pancrazio.

Primo GIOVINE di Pancrazio.

Secondo GIOVINE di Pancrazio.

Terzo GIOVINE di Pancrazio.

SERVITORE di Pancrazio, che parla.

Servitori di Monsieur Rainmere, che non parlano.

La Scena si rappresenta in Venezia.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Stanza di negozio in casa di Pancrazio, con suoi banchi e scritture; e vari giovini che stanno scrivendo.

Pancrazio e giovini.

PANC. (Tre lettere di cambio oggi scadono, e conviene pagarle. Ma pagarle con che? Denari nello scrigno non ce ne sono. La roba conviene sostenerla per riputazione. Oh povero Pancrazio! siamo in rovina, siamo in precipizio; e perché? Per cagione di quello sciagurato di mio figliuolo). (da sé) Avete estratto il conto corrente con i corrispondenti di Livorno? (ad un Giovine)

PRIMO GIO. Sì signore, l'ho estratto.

PANC. Come stiamo?

PRIMO GIO. Ella deve quattromila pezze.

PANC. (Una bagattella!) E voi avete fatto il conto con quelli di Lione? (ad altro Giovine)

SECONDO GIO. L'ho fatto; e siamo in debito di seimila lire tornesi.

PANC. (Meglio!) E con la Germania, voi, come stiamo? (ad altro Giovine)

TERZO GIO. Con tremila fiorini si pareggia il conto.

PANC. (Va benissimo!) Ho capito tutto: non occorr'altro. I conti di Costantinopoli e di tutto il Levante li ho fatti. In quelle piazze son creditore di molto, e con un giro saldo facilmente gli altri conti. (Conviene dir così per riputazione, acciò i giovini non mi credan fallito. Pur troppo ho de' debiti per ogni luogo, e non so come tirar innanzi). (da sé)

SCENA SECONDA

Faccenda e detti.

FACC. Signore, vi son due giovini che dimandano di lei.

PANC. Chi sono?

FACC. Uno è il primo giovine del negozio Lanzman; l'altro il cassiere di monsieur Saisson.

PANC. (Saranno venuti per riscuotere le lettere di cambio). (da sé) V'hanno detto che cosa vogliono?

FACC. A me non han detto nulla. Ma ho sentito da loro stessi, mentre parlavano, certe cose che... non vorrei che questi giovini mi sentissero.

PANC. Andate tutti tre al Bancogiro2, fatevi vedere. Se alcuno cerca di me, ditegli che fra poco vi sarò anch'io. Se vi sono persone che abbiano da riscuotere, dite loro che alla mia venuta soddisfarò tutti; e se vi sono di quelli che abbiano da pagare, riscuotete il denaro. Ho un piccolo affare, mi spiccio, e vengo subito.

PRIMO GIO. (Ho paura che il nostro principale, in vece di venire al Banco, voglia andare a Ferrara). (piano al secondo Giovine)

SECONDO GIO. (Eppure è un uomo di garbo; ma suo figlio l'ha rovinato). (piano all'altro Giovine)

TERZO GIO. (Quanti padri per voler troppo bene ai figliuoli rovinano la famiglia!) (partono li tre Giovini)

SCENA TERZA

Faccenda e Pancrazio.

PANC. Ora dite quel che volevate dirmi.

FACC. Ho sentito, come diceva, quei due giovini parlar sotto voce, e dire che dubitano del pagamento; che la ragione di vossignoria è in pericolo, e che tengono ordine, non ricevendo il denaro, di protestare.

PANC. Ah Faccenda, son rovinato!

FACC. Che mi tocca a sentire! Sento gelarmi il sangue nell'udir tai parole. Ma come mai, caro signor padrone, come ridursi in questo stato?

PANC. Causa quello sciaurato di Giacinto mio figlio. L'ho messo in piazza, gli ho fatto credito, gli ho dato denari da trafficare, ha fatto cento spropositi, e per coprir lui, ho dovuto andar io in rovina.

FACC. Ma perché dar a lui il maneggio? Perché fidarsi tanto di un giovinotto?

PANC. Sperava che vedendosi in mezzo a tanti onorati mercanti, impegnato in negozi, in traffichi, con lettere, con affari, si assodasse, badasse al serio, e lasciando le male pratiche, si mettesse al punto di fare onor alla casa e a lui medesimo. Mi sono ingannato, confesso di aver male pensato; ha fatto peggio, si è rovinato del tutto, ed ha seco precipitato il suo povero genitore.

FACC. Qui conviene pensare al rimedio.

PANC. Non saprei dove gettarmi; son fuori di me medesimo.

FACC. Mi scusi: ha mai confidato nulla a monsieur Rainmere, a questo olandese che si ritrova alloggiato in casa sua?

PANC. Vi dirò, voleva dirgli qualche cosa, ma per tre ragioni mi sono trattenuto. Per la prima, sono a lui debitore di sette in ottocento ducati; per la seconda, voi sapete che madamigella Giannina, sua nipote, ha qualche inclinazione per mio figlio, e avendo ella di dote seimila lire sterline, che poco più, poco meno, fanno la somma di quarantamila ducati, se a me riuscisse di fare un tal matrimonio, spererei di rimettermi in piedi. Per questo procuro di tenermi in riputazione coll'amico; ma se sono costretto a render pubbliche le mie indigenze, ho perduto, posso dire, ogni speranza di risorgimento, ho perduto ogni cosa.

FACC. Dunque per queste ragioni...

PANC. Ve n'è un'altra. Monsieur Rainmere ha qualche premura per Beatrice mia figlia. A un uomo ricco come lui, potrei sperar di darla con poca dote. Ma se a lui scopro le mie piaghe, tutte le mie speranze svaniscono, perdo il credito, e precipito i miei figliuoli.

FACC. Mi perdoni, il credito lo perde se in oggi non paga le cambiali, e se i creditori principiano a sequestrare gli effetti.

PANC. Pur troppo è vero. Penso, rifletto e non so a qual partito appigliarmi.

FACC. Quei giovani aspettano; che cosa ho loro da dire?

PANC. Se sono venuti per riscuotere le lettere, dite loro che questa mattina li vedrò a Rialto, che m'attendano al Banco, che farò loro un giro, oppure li pagherò in contanti, come vorranno.

FACC. Sì, signore, e dirò che dicano in che monete li vogliono. Ungheri, zecchini, doppie, quel che vogliono. Quando si è in pericolo di fallire, si procura sostenersi; e se non crede uno, crede l'altro, e si acquista tempo sinché si può. (parte)

SCENA QUARTA

Pancrazio, poi Faccenda.

PANC. Io sono stato sempre un uomo onorato, e tale sarò fin che viverò. Ho de' debiti non pochi, ma ho de' crediti e de' capitali. Se le cose anderanno male, cederò ogni cosa, resterò in camicia, ma non sarò capace di un'impostura.

FACC. Sono andati via.

PANC. Che hanno detto?

FACC. Che l'attenderanno al Bancogiro.

PANC. Voglia il cielo, che vi possa andare.

FACC. Signor padrone, spero che la sorte questa mattina lo voglia consolare.

PANC. In qual maniera?

FACC. Si ricorda vossignoria, che ieri le feci un piccolo discorso di quel medico, che aveva desiderio d'impiegare duemila ducati al sette per cento?

PANC. Me ne ricordo, e mi sovviene ancora di avervi risposto, che il sette per cento non si poteva dare, che il sei alla mercantile si lascia correre, ma non più.

FACC. Eh, caro signor padrone, quando si ha bisogno, si paga anche l'otto, e anche il dieci.

PANC. E così si va in rovina più presto, e così ha fatto mio figlio; ed io per liberarlo da simili aggravi, ho pagato in contanti, e son rimasto scoperto. Ma se non avessi fatto così, non avrei nemmeno cenere sul focolare.

FACC. Egli è qui in sala il signor Dottore; è venuto in persona a offerirglieli; l'ascolti, guardi se per il sei per cento vuol lasciare il denaro, e se può, si approfitti di questa occasione, che nel suo caso non può essere più necessaria.

PANC. Faccenda caro, a prender questi denari ho le mie difficoltà. Se per mia disgrazia i miei creditori mi stringessero per li pagamenti, e dimani fossi costretto a ritirarmi, questo povero galantuomo che ora mi dà il suo denaro, domani lo avrebbe perduto, ed io avendolo in tal guisa tradito, diverrebbe il mio fallimento criminale, ed oltre le mie sostanze, perderei anche la riputazione. Fallire per disgrazia, merita compatimento; fallire per malizia, è un delitto da assassini di strada.

FACC. Non vuole nemmeno udirlo?

PANC. Fate che venga, gli parlerò. Se si contenterà dell'onesto, supplicherò monsieur Rainmere che li prenda per me. Così il Dottore non li perderà, ed io me ne varrò, se vedrò che possano servirmi a rimaner in piedi, con la speranza di rimettermi e di rimediare al disordine in cui ora sono.

FACC. Ma come mai un uomo di tanta onestà, di tanta prudenza, si è ridotto in istato di dover fallire?

PANC. Disgrazie sopra disgrazie. Fallimenti de' corrispondenti, perdita di roba in mare; e poi mio figlio, quello sciagurato di mio figlio, senza amore, senza riputazione.

FACC. (Povero mio padrone! è veramente degno di compassione). (da sé; parte)

SCENA QUINTA

Pancrazio, poi il dottor Malazucca.

PANC. Tremo, quando penso che ho da parlare di queste cose a monsieur Rainmere. L'uomo più onorato di questo mondo, il più buon olandese ch'io abbia mai conosciuto: uomo sincero, di un ottimo cuore. Ho timore che si scandalezzi di me, che mi perda la stima e che mi abbandoni. Anderò con delicatezza, e se vedrò in lui qualche mutazione, mi regolerò con prudenza.

DOTT. Servitor di vossignoria, signor Pancrazio.

PANC. Fo riverenza al signor dottor Malazucca.

DOTT. Son venuto a incomodarvi.

PANC. Mi comandi: in che posso servirla?

DOTT. Il vostro servitore Faccenda vi ha detto nulla?

PANC. Mi ha detto che vossignoria vorrebbe impiegare duemila ducati: è egli vero?

DOTT. È verissimo. In tanti anni che faccio la professione faticosa del medico, ecco quanto ho avanzato, e l'ho avanzato a forza di risparmiare. Son ormai vecchio, e in vece che l'età mi faccia moltiplicar le faccende, queste mi vanno anzi mancando, perché il mondo è pieno d'impostori; e chi opera secondo le buone regole di Galeno, non è più stimato. Pazienza! Ho questi duemila ducati, vorrei impiegarli, e vorrei che la rendita mi bastasse per vivere.

PANC. Vuol far un vitalizio?

DOTT. No, non voglio perdere il capitale.

PANC. Dunque come vorrebbe fare? Duemila ducati, se gl'investe in depositi, o in censi, le renderanno il quattro o il cinque per cento.

DOTT. Eh, i censi non son sicuri. Vorrei impiegarli senza pericolo, e vorrei il sette per cento.

PANC. Sarà difficile che ritrovi il sette con la sicurezza.

DOTT. Mi hanno detto che i mercanti li prendono al sette e anche all'otto per cento.

PANC. Quando ne hanno bisogno, può darsi.

DOTT. Voi non ne avete bisogno?

PANC. Non ne ho bisogno, ma per servirla, al sei per cento potrebbe darsi che li prendessi.

DOTT. Il sei è poco, almeno il sei e mezzo.

PANC. Basta, si trattenga qui un momento, se non ha premura, tanto che vada a fare certi conti con uno de' miei corrispondenti, e torno da lei.

DOTT. Son qui; non parto, se non tornate.

PANC. Vengo subito. (Voglio prima parlare coll'olandese, e poi qualche cosa risolverò). (da sé) Il denaro lo ha seco?

DOTT. Sì, l'ho qui in tanto oro. Lo porto sempre meco, per paura che non me lo rubino.

PANC. Stimo assai che porti indosso quel peso.

DOTT. Lo porto volentieri. L'oro è un peso che non incomoda niente affatto.

PANC. (Povero Dottore! mi fa compassione. Se fossi un uomo senza coscienza, gli farei perdere in un momento quello che per tanti anni ha procurato avanzare). (da sé; parte)

SCENA SESTA

Il dottor Malazucca.

DOTT. Glieli darò al sei e mezzo, per non tenerli più in tasca. Ma quando troverò di darli al sette, li leverò al signor Pancrazio, e li darò a chi ne avrà più bisogno. Intanto ch'egli torna, voglio contarli. Iersera mi parve che ci fossero due zecchini di più. Non vorrei perderli, se fosse la verità. (tira fuori la borsa, versa il denaro sul tavolino, e si pone a contare) Oh che bell'oro! oh che bei zecchini! E pure li ho fatti tutti a tre o quattro lire alla volta. Tanti medici, che ne sanno meno di me, hanno per paga zecchini e doppie; ed io, povero sfortunato, non ho mai potuto avere più di un ducato, e ho dovuto contentarmi sino di trenta soldi. Eppure ho fatto duemila ducati a forza di mangiar poco, bevere acqua, e tirar qualche incerto dagli speziali.

SCENA SETTIMA

Giacinto, Lelio e detto.

GIAC. Venite qui, amico, che vedremo se v'è il cassiere.

DOTT. (Copre col mantello i denari sul tavolino)

LEL. In ogni maniera bisogna ritrovare questi trenta zecchini. Caro Giacinto, siete nell'impegno.

GIAC. Li troveremo senz'altro. Mi dispiace che non vi sia il cassiere. Chi diavolo è colui? (a Lelio)

LEL. Quegli è un medico. Lo conosco.

GIAC. Fo riverenza a vossignoria. (al Dottore)

DOTT. Servitor suo.

GIAC. Mi dica, signore, ha ella nessun rimedio per i calli? (scherzando)

DOTT. Perché no? Se diceste davvero, ho un segreto mirabile.

GIAC. Sentite che pezzo di uomo! Ha il segreto per i calli. (a Lelio, deridendolo)

LEL. Caro amico, non ci perdiamo in barzellette. Pensate a trovare trenta zecchini, che vi vogliono per l'abito che avete promesso alla virtuosa.

GIAC. Se avessi la chiave dello scrigno, li troverei subito. Aspettiamo che venga il cassiere.

LEL. Basta; pensate a mantenere la vostra parola.

GIAC. Son curioso di sapere che cosa fa quel Dottore appoggiato sopra del tavolino. (a Lelio) DOTT. (Vorrei che venisse il signor Pancrazio). (da sé)

GIAC. Mi dica, signore, comanda nulla? (al Dottore)

DOTT. Sto aspettando il suo signor padre.

GIAC. Se vuole alcuna cosa dal negozio, posso servirla ancor io.

DOTT. L'interesse per cui son qui, ho da trattarlo col principale.

GIAC. Ed io chi sono? Non sono principale quanto lo è mio padre? Non sa vossignoria che in piazza Giacinto Aretusi ha la sua ragione cantante, e che faccio i primi negozi di questa città? Se ella è qui per affari di negozio, può parlare con me.

DOTT. Vi dirò, signore, ho questi duemila ducati da impiegare, e trattava di farlo col vostro signor padre.

GIAC. (Ehi, guarda: zecchini!) (a Lelio, piano)

LEL. (Verrebbero a tempo). (a Giacinto, piano)

GIAC. Che dice mio padre? (al Dottore)

DOTT. Non mi vorrebbe dar altro che il sei per cento ma io per meno del sette non glieli posso fidare.

GIAC. Se vuole il sette per cento, lo darò io.

DOTT. Ma voi, signore, siete figlio di famiglia.

GIAC. Figlio di famiglia? Un mercante che traffica del suo, indipendente dal padre, se gli dice figlio di famiglia? Che dite, signor Lelio? Sentite che sorta di bestialità.

LEL. Quel signore è compatibile. Un medico non ha obbligo di sapere le regole mercantili, e molto meno di conoscere tutti i mercanti.

DOTT. È verissimo; io non so più di così. Conosco il signor Pancrazio, e non conosco altri.

GIAC. E me non mi conosce?

DOTT. So che siete suo figlio.

GIAC. E non sa niente di più?

DOTT. Non so di più.

GIAC. Caro amico, informatelo voi. (a Lelio)

LEL. Vossignoria sappia che il signor Giacinto negozia del suo...

GIAC. Che ha nel Banco trentamila ducati. Ditegli tutto.

LEL. Il signor Giacinto non è figlio di famiglia...

GIAC. Perché tiene la sua firma a parte, e che sia il vero, prendete, fategli vedere queste lettere di cambio, queste accettazioni.

LEL. Ecco qui, guardate: Al signor Giacinto Aretusi di Venezia. Vedete? Accetto ad uso ecc., Giacinto Aretusi. Lettere da lui pagate.

DOTT. È verissimo, ma...

GIAC. E poi, resti servita, signore. Questo è il mio banco, e quello è di mio padre. Osservi come sono intitolati questi libri: Cassa Giacinto Aretusi, Giornale, Libro Mastro, Salda conti, Registro, Copialettere. Non gli faccio vedere tutte queste cose per volere i suoi denari; non ne ho bisogno, e non so che farne. Faccio per giustificare quel che ho detto, e per farle vedere che sono un uomo, e che non sono un ragazzo.

DOTT. Signore, vi prego, non vi riscaldate. Ho piacere di essere illuminato, e conoscere in voi un mercante di credito, indipendente dal padre. Anzi, se mai...

GIAC. Non mi parlate di denaro, che non ne voglio.

LEL. (Non ve li lasciate scappare). (a Giacinto, piano)

GIAC. (Lasciatemi fare la mia professione, come va fatta). (piano a Lelio)

DOTT. Mi dispiace che il signor Pancrazio non viene, ed io ho una visita che mi preme.

GIAC. Quanto gli voleva dar mio padre di frutto?

DOTT. Il sei per cento.

GIAC. Eh, lo compatisco. Quando trova i merlotti, li prende. Non dico per dir male di mio padre, ma tutti questi mercanti vecchi fanno così; stanno sul piede antico. Tanto vogliono pagare sopra il denaro che prendono adesso che gli effetti mercantili si vendono di più, quanto pagavano già trenta o quarant'anni, che si vendevano meno.

DOTT. Oggi potrebbero dare qualche cosa di più.

GIAC. A me quando mi è premuto, per fare qualche buon negozio, ho pagato sino l'otto per cento.

LEL. E anche il dieci.

GIAC. No, no, amico. Non sono mai stato in questo caso. L'otto sì, ma il dieci mai.

DOTT. Dunque vossignoria non avrebbe difficoltà di pagare l'otto per cento?

GIAC. Se ne avessi bisogno, ma non ne ho bisogno.

LEL. Ma i denari ai mercanti profittano sempre il doppio.

GIAC. Se ho lo scrigno pieno, che non ne so che fare!

DOTT. Caro signore, potrebbe da un momento all'altro venirgli l'occasione di servirsene.

LEL. Quante volte arrivano dei casi che non si prevedono?

DOTT. La prego, signore, metta ella una buona parola per me. (a Lelio)

LEL. Via, finalmente è un medico, di cui potreste un giorno avere anche bisogno. (a Giacinto)

DOTT. In verità, la servirò con tutto il cuore.

GIAC. Di doppie e di filippi son pieno da per tutto. Se vi fosse una partita di zecchini, forse forse la prenderei, per ispedirli in Costantinopoli.

DOTT. Per l'appunto sono tanti zecchini. Tutti di Venezia. Due mila ducati in tanti zecchini.

LEL. Volete di più? Ecco il vostro caso. (a Giacinto)

GIAC. A quanto per cento? (al Dottore)

DOTT. Almeno, almeno, all'otto.

GIAC. All'otto poi...

LEL. Via vorrete far torto a questo galantuomo? Vorrete profittare per il bisogno ch'egli ha di impiegare il di lui denaro? Fate con lui quello che avete fatto cogli altri. Dategli l'otto per cento, e facciamo la cosa finita.

GIAC. Non so che dire. Siete tanto mio amico, che non posso dirvi di no. Li prenderò all'otto per cento.

DOTT. Sia ringraziato il cielo.

GIAC. Il denaro dove lo ha?

DOTT. Eccolo qui. Se vuole che lo contiamo.

GIAC. A contarlo si sta molto. Venga qui, pesiamolo a marco.

DOTT. Chi è questo marco?

GIAC. Pesiamolo tutto ad un tratto, che tornerà il conto anche a lei.

DOTT. Se mi tornerà il conto, lo vedremo.

GIAC. Lasci fare a me. Due mila ducati hanno da essere cinquecento e sessantaquattro zecchini.

DOTT. Meno sei lire.

GIAC. È vero, cinquecento sessantatrè e quattordici. Sa fare i conti bene vossignoria.

DOTT. Li ho contati tante volte.

GIAC. Subito li peso. (va al banco a pesare li zecchini)

LEL. (Se fossi in voi, li prenderei senza pesare). (piano a Giacinto)

GIAC. (Queste sono cose che vi vogliono per colorir la faccenda). (piano a Lelio)

DOTT. (La sorte mi ha voluto aiutare. Ho guadagnato, dal sei all'otto per cento, quaranta ducati all'anno. In cento visite non guadagno tanto). (da sé)

GIAC. Prenda, signore, quattro zecchini di più.

DOTT. Di più? Che abbia fallato a contare?

GIAC. Il peso porta così. Questo è denaro suo. Son un galantuomo. Non voglio quel che non è mio.

DOTT. Oh onoratissimo signor Giacinto. Voi siete il primo galantuomo del mondo.

GIAC. Ora gli faccio il suo riscontro. E quanto più presto verrà a prendere i suoi denari, mi farà più piacere.

DOTT. Sì, signore, da qui a qualche anno.

LEL. Oh via, ora non è tempo di discorrere di queste cose. Fategli la sua cauzione. (a Giacinto) GIAC. Presto gliela faccio. (va scrivere al banco)

LEL. Non potevate capitare in mani migliori. (al Dottore)

DOTT. È verissimo. La sorte mi ha favorito.

LEL. Vi consiglierei partire, prima che venisse il signor Pancrazio. (al Dottore)

DOTT. Perché? Anzi vorrei dirgli, che non mi occorre altro da lui.

LEL. Se quel vecchio avaro sa che suo figliuolo ha preso denari all'otto per cento, è capace di sconsigliarlo. (al Dottore)

DOTT. Il signor Giacinto negozia del suo.

LEL. È vero, ma alle volte si lascia consigliar da suo padre.

DOTT. Presto dunque. Avete finito, signore? (a Giacinto)

GIAC. Ho finito. Legga, se va bene.

DOTT. (Legge borbottando) Va benissimo.

GIAC. Venga ogni sei mesi, che avrà i suoi frutti puntuali.

DOTT. Non occorr'altro. Signore, la riverisco e la ringrazio.

GIAC. Ringrazi il signor Lelio.

DOTT. Vi sono tanto obbligato. (a Lelio)

LEL. Quando posso far del bene agli amici, lo faccio volentieri.

DOTT. Che siate tutti due benedetti. (Fortuna, ti ringrazio: ho impiegati bene li miei denari. Son contentissimo). (da sé; parte)

SCENA OTTAVA

Giacinto e Lelio.

GIAC. Questo Dottore è il più bravo medico del mondo.

LEL. Perché?

GIAC. Perché con questo recipe ha rimediato alle mie piaghe.

LEL. Io vi ho fatto il mezzano. Voglio la senseria.

GIAC. Tutto quel che volete. Siete padrone di tutto.

LEL. Prestatemi venti zecchini.

GIAC. Volentieri. Sapete chi sono. Per gli amici darei anche la camicia. Prendete, questi sono venti zecchini.

LEL. E i trenta per l'abito da dare alla virtuosa?

GIAC. Volete li dia a voi? Volete andar voi a fare la spesa?

LEL. Sì, se volete, vi servirò io. Comprerò quel drappo che avete scelto, e lo porterò a madama in nome vostro.

GIAC. Bravissimo; mi farete piacere, prendete; questi sono li trenta zecchini, e ditele che mi voglia bene.

LEL. È obbligata a volervene. Voi l'avete levata dalle miserie, ed avete fatta la sua fortuna.

GIAC. E farò ancor di più, se avrà giudizio.

LEL. La sposerete?

GIAC. Sposarla poi no.

LEL. V'aspetto al caffè.

GIAC. Sì, Ci rivedremo.

LEL. (Povero gonzo! Egli spende, ed io mi diverto, alle di lui spalle). (da sé; parte)

SCENA NONA

Giacinto solo.

GIAC. Questi denari son venuti a tempo! Finalmente non glieli ho già truffati: li ho presi all'otto per cento, e se non pagherò io, pagherà mio padre. Non posso stare io senza denari, e quando sono pochi, non mi bastano. Cogli amici sono di buon cuore; con le donne son generoso, mi piace un poco giuocare; la sera non posso star senza un poco di conversazione. Casino a Venezia, casino in campagna, gondola, palchi, osteria, tutte cose necessarie per far quel che fanno tanti altri. Oh, mi dirà alcuno, fallirai, sarai cagione che fallirà anche tuo padre; e per questo? Ci aggiusteremo, e torneremo in piazza.

SCENA DECIMA

Corallina e detto.

COR. Signor padroncino, ho piacere di trovarvi solo; ho bisogno assai di parlarvi.

GIAC. Son qui, parlate. Avete bisogno di nulla?

COR. Avrei bisogno che mi restituiste quei cento e cinquanta ducati, che vi ho prestati.

GIAC. Non me li avete dati a cambio? Non vi pago il dieci per cento?

COR. Sono due anni che non mi date un soldo. Ho bisogno di valermene, e voglio i miei denari.

GIAC. Volete i vostri denari?

COR. Certamente. E se non me li darete, lo dirò a vostro padre, e sarà finita.

GIAC. E avreste tanto cuore di tradire il vostro Giacinto?

COR. Io non ho bisogno delle vostre parole. Voglio i miei denari.

GIAC. So pure che una volta avevate dell'amore per me.

COR. Bella maniera per farsi amare! Nemmeno darmi il frutto de' poveri miei denari.

GIAC. Via, siate buona, e ve li darò.

COR. È un pezzo che mi dite, ve li darò, ma non si vedono venir avanti.

GIAC. Volete il frutto, o volete il capitale?

COR. Voglio tutto quel che mi viene.

GIAC. Via, che cosa vi viene?

COR. Cento e cinquanta ducati di capitale, e trenta de' frutti.

GIAC. Non volete altro?

COR. Questo, e non altro.

GIAC. Certo, certo, non volete altro?

COR. Signor no, non voglio altro.

GIAC. Eh furba, furba.

COR. Perché mi dite così?

GIAC. Perché m'hai rapito il cuore.

COR. Eh, che non ho bisogno di zannate. Voglio i miei denari.

GIAC. Sì, cara, ve li darò.

COR. Tanti anni che servo in questa casa, mi sono avanzata cento cinquanta ducati a forza di stenti e di fatiche, e con tante belle promesse me li levate dalle mani, e mi assassinate così? Sono una povera donna, li voglio; lo dirò al padrone, ricorrerò alla Giustizia. Sia maladetto quando vi ho creduto, quando ve li ho dati, quando vi ho conosciuto.

GIAC. Corallina. (con vezzo)

COR. Il diavolo che vi porti.

GIAC. Sentite questo suono? (fa suonar le monete nella borsa)

COR. Oh quanti zecchini, signor padrone! Quanti denari!

GIAC. Credete che v'abbia mangiato i vostri quattrini? Sono qui in questa borsa, e ogni anno col frutto de' frutti si aumenterebbe il capitale, e adesso vi è di capitale cento e ottanta ducati, e questi ve ne frutterebbero diciotto, e l'anno venturo di più, ed ogni anno sempre crescerebbe la somma; cosicché, in pochi anni, con cento e cinquanta ducati si duplicherebbe il capitale, e vi formereste la dote. Ma già che volete li vostri denari, ve li sborso, ve li do. Non ne vo' più saper nulla. (mostra di voler levare i denari dalla borsa)

COR. Fermate un poco, fermate. Non siate così furioso. Ho detto che voleva i miei denari, supposto che non mi voleste pagar i frutti.

GIAC. Non so niente. Vedo che non vi fidate, ed io vi voglio soddisfare. (come sopra)

COR. Ditemi, in grazia, in quanti anni diverrebbero quattrocento?

GIAC. Nelle mie mani, m'impegno in pochissimo tempo.

COR. Ma pure?

GIAC. In tre o quattro anni al più.

COR. Ditemi: e se fossero adesso trecento, nel medesimo tempo diverrebbero seicento?

GIAC. Con la stessa regola, non v'è dubbio.

COR. Sentite, in confidenza. Ho prestati cento e cinquanta ducati anche al vostro signor padre, ma non mi paga altro che il sei per cento.

GIAC. Fate una cosa. Procurate che ve li renda, e venite da me, che vi darò il dieci.

COR. Son quasi in istato di farlo.

GIAC. Ma poi un giorno o l'altro tornerete da capo con volere i vostri denari, non vi fiderete, mi farete andar in collera, onde è meglio ch'io ve li dia adesso.

COR. No, caro signor Giacinto, li tenga. Mi faccia questa carità.

GIAC. Via, per farvi piacere, li terrò.

COR. E gli porterò quegli altri, quando il signor Pancrazio me li avrà restituiti.

GIAC. Ma sopra tutto badate che non si sappia; non parlate con nessuno, non lo dite nemmeno ai vostri congiunti. Neppure al vostro amoroso.

COR. Oh, io amanti non ne ho.

GIAC. Eh, ti conosco!

COR. No, davvero.

GIAC. Vuoi far all'amore con me?

COR. Oh, col padrone non m'impiccio.

GIAC. Vien qui, fammi una finezza.

COR. Oh certo! Chi vi pensate ch'io sia? Non fo finezze a nessuno io.

GIAC. Dammi solamente la mano in segno d'amicizia.

COR. Nemmeno, nemmeno. Le mani ognuno le tenga a sé.

GIAC. Siete molto delicata. La mano si porge senza malizia.

COR. Io sono così. Neppure un dito.

GIAC. Nemmeno un dito? Se tu mi porgi un dito, ti regalo due zecchini.

COR. Oh sì, mi darete due zecchini per porgervi un dito!

GIAC. Te li do da galantuomo.

COR. Mi fate venir da ridere.

GIAC. Eccoli qui: due zecchini per un dito. (li leva dalla borsa)

COR. Qual dito vorreste?

GIAC. Mi basta anche il dito mignolo.

COR. Due zecchini li buttate via.

GIAC. Basta, mi rimetterò alla vostra discretezza.

COR. Che zecchini sono?

GIAC. Di Venezia. (glieli fa vedere)

COR. Oh come son belli! (prendendolo per la mano)

GIAC. Volete che vi porga il dito?

COR. Se mi avete data la mano.

GIAC. È vero, e non me n'era accorto.

COR. Via, datemi li zecchini.

GIAC. Volentieri. Sono qui. Questi due zecchini son vostri. Li metto nella borsa, e vi frutteranno ancor essi il dieci per cento, e anderà il frutto sopra il capitale. Animo, Corallina, allegramente, e quando avete bisogno di denaro, venite da me. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Corallina, poi Pasquino.

COR. Questi due zecchini mi dispiace che vadano in quella borsa; ma pazienza, in pochi anni avrò fatto un bel capitale. Se posso aver i denari dal signor Pancrazio, felice me! Mi deve anche non so quanti mesi di salario; voglio unirli tutti, e tutti darli al signor Giacinto, al dieci per cento.

PASQ. Corallina, ti vorrei dire due parole.

COR. Sì, il mio caro Pasquino, son qui che ti ascolto.

PASQ. Quando pensi che facciamo questo matrimonio?

COR. Presto.

PASQ. Ma quando?

COR. Da qui a tre o quattro anni.

PASQ. Sei matta? Perché vuoi aspettar tanto?

COR. Per cagion della dote.

PASQ. Non l'hai la tua dote?

COR. L'ho, è vero; ma intanto si va aumentando.

PASQ. S'aumenterà dopo il matrimonio.

COR. No, allora quel ch'è fatto, è fatto.

PASQ. Ma dov'è la tua dote?

COR. Zitto, non si ha da sapere.

PASQ. Nemmen io l'ho da sapere?

COR. Signor no.

PASQ. Ma se ho da essere tuo marito.

COR. Ma non lo sei ancora.

PASQ. Corallina, ho paura che vi sia dell'imbroglio.

COR. Che imbroglio?

PASQ. Voglio sapere dove è la tua dote.

COR. Te lo dirò, ma non lo dir a nessuno.

PASQ. Non dubitare, che non parlo.

COR. È nelle mani del signor Giacinto.

PASQ. E si va aumentando?

COR. Sì, mi paga il dieci per cento, e va il frutto sopra il capitale: in poco tempo si raddoppierà; ma guarda non lo dir a nessuno.

PASQ. Non v'è pericolo. Ma non si potrebbe maritarsi, e lasciar che la dote crescesse?

COR. Certamente che si potrebbe.

PASQ. Pensa, e risolvi.

COR. Ma di quel che t'ho detto, zitto.

PASQ. Zitto.

COR. (Se sapessi come far entrar in quella borsa degli altri zecchini! Basta, m'ingegnerò). (da sé; parte)

SCENA DODICESIMA

Pasquino, poi Faccenda.

PASQ. Per altro, se ha da accrescersi la dote di mia moglie, l'ho da sapere ancor io.

FACC. Amico, ho veduto che parlavi con Corallina; va innanzi questo matrimonio?

PASQ. Il matrimonio rimane indietro per cagione della dote.

FACC. Come della dote? Non ti capisco.

PASQ. Ti dirò in confidenza, ma non dir niente a nessuno.

FACC. Oh, non v'è dubbio.

PASQ. Corallina ha dato dei denari al signor Giacinto, ed egli le paga il dieci per cento, e va il capitale sopra il frutto della dote.

FACC. (Ho inteso, stanno freschi). (da sé) E non seguirà questo matrimonio, se il signor Giacinto non rende questi denari a Corallina?

PASQ. Tu vedi bene: è la dote.

FACC. Amico, t'auguro buona fortuna.

PASQ. Obbligato. Siamo tutti in casa, staremo allegri. Caro Faccenda, ti prego, non lo dire a nessuno.

FACC. Non parlo, non dubitare.

PASQ. È una gran bella cosa la segretezza. (parte)

FACC. Vado a dirlo al signor Pancrazio. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Camera in casa di Pancrazio.

Pancrazio ed un giovine.

PANC. Dite a monsieur Rainmere, se vuol favorire di venire a bevere il tè; e poi guardate se vi fosse più quel medico; se vi è, che aspetti un poco, o che ritorni dopo pranzo.

GIO. Sarà servita. (parte)

PANC. Non sono mai stato in tanti impicci, in tanti affanni: si tratta del mio stato, della mia riputazione. Il bilancio che presto presto ho fatto sopra i conti correnti, mi fa scoperto di diecimila ducati. Finalmente non è una gran somma: ma ciò non ostante, se non pago queste lettere, vanno in protesto, mi manca il credito, e per poco dovrò fallire. Conviene rimediarvi, se si può. Ecco qui l'olandese: egli mi può aiutare, ma egli è uomo delicato, né so come contenermi.

SCENA QUATTORDICESIMA

Monsieur Rainmere e detto; poi un giovine.

RAIN. Buon giorno, signor Pancrazio.

PANC. Buon giorno, monsieur Rainmere. Perché col cappello e col bastone?

RAIN. Andava fuori di casa.

PANC. Così a buon'ora? A che fare?

RAIN. A fumare una pipa col capitano Corbrech.

PANC. Non volete prima bever il tè?

RAIN. Sì, beviamo il tè.

PANC. Chi è di là?

GIO. Signore.

PANC. Dite che portino il tè.

GIO. Il medico, signore, è andato via.

PANC. Buon viaggio. Che portino il tè.

GIO. Sarà servita. (parte)

PANC. Monsieur Rainmere, sediamo un poco.

RAIN. Obbligato. (siedono)

PANC. Per quel che sento, spero che non anderete via così presto.

RAIN. Anderò col capitano Corbrech il mese venturo.

PANC. Non vorrei che venisse quel giorno. La vostra compagnia mi è carissima.

RAIN. Bene obbligato.

PANC. Questi tre mesi che vi siete degnato di stare in mia casa, mi sono sembrati tre giorni.

RAIN. Bene obbligato.

PANC. Dovreste star qui tutto questo inverno.

RAIN. Non posso.

PANC. Madamigella Giannina, vostra nipote, ci sta volentieri a Venezia.

RAIN. Mia nipote è più italiana che olandese.

PANC. È nata in Olanda, ma da fanciulla l'hanno condotta in Italia. Però conserva un certo non so che, un certo serio nobile e grazioso, che non è carattere così ordinario in queste nostre parti.

RAIN. Mia nipote studia volentieri.

PANC. So che a Milano, dove è stata quindici anni, era l'idolo del paese; e a Venezia, in questi pochi mesi, si è fatta adorare.

RAIN. Bene obbligato.

PANC. La volete condurre in Olanda?

RAIN. Farò tutto quello che piace a lei.

PANC. La dovreste maritare in Venezia.

RAIN. La mariterò dove a lei piacerà di essere maritata.

PANC. Volete che le troviamo un partito a proposito?

RAIN. Bisognerebbe trovare un marito che piacesse a lei, d'una famiglia che piacesse a me.

PANC. Caro amico, datemi licenza che vi parli con libertà. La mia casa vi dispiacerebbe?

RAIN. Oh, signor Pancrazio!

PANC. Vi degnereste di casa mia?

RAIN. Mi fate onore.

PANC. Mio figlio vi piacerebbe?

RAIN. Questo ha da piacere a mia nipote.

PANC. E se piacesse a lei, voi sareste contento?

RAIN. Perdonate... non sarei contento.

PANC. No? Per qual cagione?

RAIN. Perdonate.

PANC. Dunque non istimate la mia casa?

RAIN. Mi maraviglio. La darei a voi.

PANC. E a mio figlio no?

RAIN. No.

PANC. Ma perché a me sì, e a lui no?

RAIN. Perdonate.

PANC. Ditemi almeno il perché.

RAIN. Voi siete onest'uomo.

PANC. E mio figlio?

RAIN. Perdonate, non è puntuale.

PANC. Come lo potete dire?

RAIN. Ho prestato a lui cento zecchini, e non me li ha restituiti.

PANC. (Ah disgraziato!) (da sé) Se egli non ve li ha restituiti, ve li restituirò io. Vi fidate di me?

RAIN. Sì.

PANC. E se vi risolvete di concedere vostra nipote a mio figlio, la dote la riceverei io, e ne sarei il debitore.

RAIN. Certamente.

PANC. Dunque volete che facciamo questo matrimonio?

RAIN. Perdonate.

PANC. Ho capito. Non avete di me quella fede che dite d'avere. Non mi credete quell'uomo onesto che sono. Voi mi adulate.

RAIN. Signore, voi non mi conoscete.

SCENA QUINDICESIMA

Servitore con il tè, e detti.

PANC. Beviamo il tè. (beve il tè)

RAIN. Ben obbligato. (beve il tè)

PANC. Non avrei mai creduto, che aveste di me così poco concetto.

RAIN. Sì, anzi tutto. (bevendo)

PANC. La vostra dote sarebbe sicura.

RAIN. Sicurissima.

PANC. E la giovine non istarebbe bene?

RAIN. No; perdonate.

PANC. Ma perché no?

RAIN. Vostro figlio non è puntuale.

PANC. È giovine, il matrimonio lo assoderà.

RAIN. Prima si assodi; poi si mariti.

PANC. Finalmente son io che la chiede.

RAIN. Per chi?

PANC. Per mio figlio.

RAIN. Perdonate.

PANC. E se la chiedessi per me, me la dareste?

RAIN. Sì, con tutto il cuore.

PANC. Bisognerebbe poi vedere se ella fosse contenta.

RAIN. Lo sposo ha da piacere a lei.

PANC. Dunque non faremo niente.

RAIN. Buon tè, buon tè. (bevendo)

PANC. Ho capito, monsieur, voi mi burlate.

RAIN. Io? Mi maraviglio.

PANC. Compatitemi, non mi pare di ritrovare in voi quella amicizia che mi avete protestata.

RAIN. Provatemi.

PANC. Io son un uomo, che per gli amici darei il sangue. Voi non credo fareste lo stesso per me.

RAIN. Provatemi.

PANC. Se vi metterò alla prova, troverete de' pretesti per disimpegnarvi.

RAIN. Voi mi offendete. Non conoscete la mia sincerità.

PANC. Per istabilire un negozio mi preme di trovare diecimila ducati. Avreste difficoltà a farmi l'imprestito?

RAIN. Quando li vorreste?

PANC. Questa mattina a mezzogiorno.

RAIN. Disponetene.

PANC. Mi darete diecimila ducati in prestito, e negherete di dare vostra nipote per moglie al mio figlio?

RAIN. Voi siete onesto, voi siete puntuale, voi siete onorato.

PANC. E mio figlio?...

RAIN. Perdonatemi.

PANC. (Ah, pur troppo ha ragione, pur troppo dice la verità). (da sé)

RAIN. I diecimila ducati ve li scriverò in Bancogiro.

PANC. Sentite: non vorrei che lo faceste per puntiglio; e poi...

RAIN. Voi non mi conoscete.

PANC. Più tosto...

RAIN. Non altro. Ve li scriverò in Banco. (s'alza)

PANC. Vi pagherò il sei per cento; siete contento? (si alza)

RAIN. Non parlo.

PANC. Monsieur Rainmere, voi siete un galantuomo, voi siete un vero amico.

RAIN. Per farmi credere buon amico, non sapeva che vi bisognasse una prova di diecimila ducati.

PANC. Come? Siete forse pentito?

RAIN. Ve li scriverò in Banco. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Pancrazio solo.

PANC. Non so che dire, son confuso, sono stordito, son fuori di me medesimo. Non sapeva come introdurmi a chiedergli questo denaro, e casualmente l'ho preso in parola, e mi girerà i diecimila ducati. Con questi salderò le mie piaghe, e per l'avvenire leverò il maneggio a mio figlio, e le cose anderanno con più regola, con più direzione. Ah, se mio figlio si mutasse, se mio figlio si assodasse, se potessi ridurre l'olandese a questo matrimonio, felice me! felice la nostra casa! Voglio andar da mio figlio, e voglio sino pregarlo, che procuri di mettersi in grazia della giovane, e farsi ben volere da suo zio. Eccolo mio figlio: Giacinto, ascolta, vien qui, t'ho da parlare. Bravo, invece di venire, mi volta le spalle... Ti troverò, ti arriverò. (parte)

SCENA DICIASSETTESIMA

Madamigella Giannina con un libro in mano, e Beatrice.

BEAT. Voi, madamigella, studiate sempre.

GIANN. Leggo assai volentieri.

BEAT. Che libro è quello?

GIANN. La Spettatrice.

BEAT. Che cosa vuol dire l'aspettatrice? Una donna che aspetta?

GIANN. Oh, perdonatemi, non vorrei sentirvi parlar così. La Spettatrice, l'Osservatrice. Una filosofessa che osserva le azioni umane, esamina le passioni, e ragiona con buon criterio sopra vari sistemi del nostro secolo.

BEAT. Come volete ch'io intenda certe parole, che hanno per me dell'arabico? Criterio! Che vuol dire criterio?

GIANN. Vuol dire discernimento per distinguere il falso dal vero, il buono dal cattivo, il bene dal male.

BEAT. Criterio sarà parola olandese.

GIANN. No, amica, è parola di cui si servono gl'Italiani.

BEAT. Non l'ho mai sentita in vita mia.

GIANN. Vi compatisco, vostro padre non vi avrà permesso studiare.

BEAT. Lo studio che mi ha fatto fare, consiste nella rocca, nell'ago e nel ricamo.

GIANN. Povere donne! Ci tradiscono i nostri padri medesimi; essi c'impediscono di studiare, fondati sulla falsissima prevenzione che lo studio non sia per noi. Credono che l'intelletto delle fanciulle non sia disposto alle scienze, e talora violentano allo studio un maschio, che inclinerebbe al lavoro, e condannano alla rocca una figlia, che avrebbe tutta l'abilità per diventare sapiente.

BEAT. Dite la verità, cara amica: se mio padre mi avesse fatto studiare, sarei riuscita assai meglio di mio fratello.

GIANN. Il signor Giacinto ha sortito bellissimi doni dalla natura.

BEAT. E quali sono questi doni?

GIANN. Quelli che cogli occhi si veggono. Un bell'aspetto, un'aria brillante, un primo abbordo che ferma.

BEAT. Vi piace dunque mio fratello? Che sì, che ne siete innamorata?

GIANN. Forse ne sarei innamorata, se a fronte di quelle cose che in lui mi piacciono, non ne avesse altrettante che mi dispiacciono.

BEAT. E quali sono le cose che in lui vi dispiacciono?

GIANN. Quelle che da una mala educazione derivano.

BEAT. Nostro padre lo ha sempre bene educato.

GIANN. Mentre il padre lo educava bene, le male pratiche lo educavano male.

BEAT. Eccolo ch'egli viene.

GIANN. Peccato! Un giovine di quella sorta senza una dramma di buona filosofia.

SCENA DICIOTTESIMA

Giacinto e dette.

GIAC. Padronissima, le sono servidoretto.

GIANN. Padronissima e servidoretto! Queste sono caricature.

GIAC. Oh, in quanto alle caricature ciascheduno ne ha la sua parte.

BEAT. (Abbiate giudizio). (piano a Giacinto)

GIANN. Spiegatevi: mi credete voi caricata?

GIAC. Una donna tutto il giorno coi libri in mano...

GIANN. È peggio assai veder un giovine colle carte in mano da giuoco.

BEAT. Sentite? Vostro danno. (a Giacinto)

GIAC. Vossignoria parla con una gran libertà.

GIANN. Parlo come mi avete insegnato voi.

GIAC. È molto che una sapiente della sua sorte si degni d'imparare da me.

GIANN. Da' cattivi maestri s'impara il male per forza.

GIAC. Eppure, con tutto che mi disprezza, mi dà piacere.

GIANN. Né voi mi dispiacereste, se foste un poco più ragionevole.

BEAT. Via, siate buoni tutti due. Si vede che avete del genio, ma non vi sapete far intendere. (Volesse il cielo, che seguisse un tal matrimonio). (da sé)

GIANN. Sapete voi che cosa sia amore? (a Giacinto)

GIAC. Non so se m'inganni; ma mi pare di saperlo.

GIANN. Come lo sapete?

GIAC. Perché ho fatto all'amore tutto il tempo della vita mia.

GIANN. Voi non sapete nulla. Amore nasce dall'intelletto.

GIAC. Ed io dico che amore nasce dalla volontà.

GIANN. Prima di amare, bisogna conoscere se la persona merita di essere amata.

GIAC. Per me, quando mi corrisponde, merita sempre.

GIANN. Questo è l'amor delle bestie.

GIAC. Io vado alle corte. Se mi vuole, son qui.

GIANN. Non so che fare di voi. Non posso amare un irragionevole, uno che non distingue le finezze del vero amore da quelle della vilissima compiacenza. (parte)

BEAT. Vostro danno. Per causa della vostra insolenza perderete quarantamila ducati di dote, ed una sposa bella, giovane e virtuosa. (parte)

GIAC. Della bellezza e della virtù non m'importa, mi dispiace per li quarantamila ducati: ma sono così di natura. Non posso dissimulare. Stimo più una giovane, che mi dica ti voglio bene, che non è una di queste sputa sentenze. Che importa a me che la donna sappia parlare latino? A me basta che abbia imparato a compitare queste due lettere, s, i, sì. Per me allora è la maggior filosofessa del mondo. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Strada.

Lelio solo.

LEL. Oh pazzo maledetto! Non ho veduto una bestia simile a Giacinto. Si può sentire di peggio? Mettersi a giuocare con tre o quattro bricconi, e perdere in meno di un'ora i duemila ducati che ha carpiti di mano a quel povero medico! Manco male che gli ho cavati di sotto cinquanta zecchini, prima che si sia posto a giuocare. S'io tardava due ore, andavano ancora questi. Così gliene avessi levati di più. Giacché li ha da consumar malamente, è meglio che ne dia ad un galantuomo, ad un amico, ad un uomo civile, che avendo poca entrata e poca volontà di far bene, ha bisogno di qualche incerto per poter godere il bel mondo.

SCENA SECONDA

Il dottor Malazucca e detto.

DOTT. Oh padrone mio, ho piacere di rivederla.

LEL. Servitor devotissimo, signor Dottore.

DOTT. Mi sono scordato, due ore sono, quando ella mi ha graziato, di domandarle il suo nome, cognome e patria.

LEL. Ha forse da comandarmi qualch'altra cosa?

DOTT. No, signore, ma quando ricevo qualche finezza, ho piacere di aver memoria di chi mi ha favorito.

LEL. (Questa mi pare una stravaganza). (da sé)

DOTT. Favorisca dirmi il suo nome. Lo metterò nel mio taccuino.

LEL. Ma io non intendo ch'ella abbia meco alcuna obbligazione.

DOTT. So il mio dovere; la prego. (col taccuino in mano, e penna)

LEL. (Eppure non me ne fido). (da sé)

DOTT. Il suo nome?

LEL. Fabrizio.

DOTT. (Scrive) Il cognome?

LEL. Malmenati.

DOTT. Il paese? (scrivendo nel taccuino)

LEL. Fossambruno.

DOTT. Signor Fabrizio Malmenati di Fossambruno, mi faccia restituire i duemila ducati che mi ha carpiti il signor Giacinto, o vossignoria sarà chiamato in giudizio, come mezzano di una patentissima truffa.

LEL. (Il diavolo me l'ha detto). (da sé) Che dite di truffa?

DOTT. Sì signore, il signor Giacinto mi ha truffato, e voi siete d'accordo.

LEL. Io? mi maraviglio di voi. Sono un uomo d'onore, il signor Giacinto è un mercante onorato.

DOTT. Che mercante? È un fallito, è pieno di debiti, non ha più un soldo di capitale. Giuoca da disperato, e ora in questo punto che noi parliamo, è in una biscazza a perdere i poveri miei denari che mi costano tanti sudori, che ho fatte tante vigilie per avanzarmeli, che erano l'unica mia speranza, l'unico sostentamento della mia vecchiaia. Povero me! sono assassinato.

LEL. Ma perché non andate a ritrovarlo sulla biscazza dove dite ch'egli è, e non gli levate il denaro?

DOTT. Se sapessi dov'è, non tarderei un momento. Ma non m'hanno voluto dir dove sia questo maledetto ridotto. Voi, se lo sapete, ditemelo per carità.

LEL. Volentieri: ve lo dirò. Andate per questa strada, troverete un ponte, giù del ponte vi è una fondamenta[1]. In fondo della fondamenta troverete un'altra strada; a mezzo di essa voltatevi a mano dritta, e andate finché trovate una piazzetta: in essa vedrete un sottoportico; passatelo, salite quel ponte, e dopo andate giù per la fondamenta.

DOTT. Piano, piano, che non mi ricordo più niente affatto.

LEL. Vedete questa strada?...

DOTT. Come si chiama il biscacciere?

LEL. Asdrubale Tagliaborse.

DOTT. Vado subito.

LEL. (Va, va, che ti ho insegnato a dovere!) (da sé)

DOTT. Meschino me! Lo troverò questo Tagliaborse?

LEL. Domandatene ad un tal Pancrazio Spaccatesta...

DOTT. Oh che nomi! oh che gente! Poveri i miei denari! Se non lo trovo, ci penserete voi. Signor Fabrizio Malmenati, ci penserete voi. (parte)

SCENA TERZA

Lelio, poi Giacinto.

LEL. Ora che hai il mio nome ed il mio cognome, stai fresco. Manco male che ho sospettato il vero. Povero diavolo, mi fa compassione; ma neanche per questo gli renderei i cinquanta zecchini che ho avuti da Giacinto.

GIAC. Signor Lelio, di voi andava in traccia.

LEL. Anch'io doveva venire in traccia di voi.

GIAC. Li ho perduti tutti.

LEL. Bravissimo.

GIAC. Sono senza un soldo ed ho bisogno di aiuto.

LEL. A questo proposito devo darvi una buona nuova.

GIAC. Dite.

LEL. Il medico vi cerca e vuole indietro i duemila ducati.

GIAC. Eh via, lo fate per farmi dire.

LEL. Se giungevate qui due minuti prima, l'avreste veduto e l'avreste goduto. Ma se volete, siete ancora a tempo. Andate giù di quel ponte, che lo troverete.

GIAC. Che cosa è saltato in capo a colui? è divenuto pazzo?

LEL. È stato informato dello stato vostro. Ha saputo che i suoi denari erano sul banco d'una biscazza, e fa il diavolo contro di voi e contro di me.

GIAC. Se questo vecchio non avrà giudizio, lo ammazzerò.

LEL. Voi volete precipitarvi.

GIAC. Non voglio che questi sciocchi mi facciano perdere la riputazione.

LEL. Il medico vorrà il suo denaro.

GIAC. Che vada da mio padre, e se lo faccia assicurare.

LEL. Benissimo, se lo vedrò, glielo dirò.

GIAC. Non vi è bisogno; un mio amico non ha da far queste figure.

LEL. Vuole che io gliene renda conto; ha preso in nota il mio nome ed il mio cognome.

GIAC. Avete paura? Guardate me e non dubitate. Vedete questo stile? So adoperarlo. E poi, che

serve? Coi denari si aggiusta ogni cosa. LEL. Ma se denari non ne avete più.

GIAC. Se non ne ho, ne avrò. Corallina ha promesso di darmi altri cento e cinquanta ducati. E poi ho fatto un altro negozio di formaggio di Sinigaglia, col respiro di mesi sei al pagamento, e ancor di questo, esitandolo, ricaverò almeno un centinaio di filippi.

LEL. Buono; mangeremo del buon formaggio. Ve lo farò vender io.

GIAC. Ma conviene ch'io gli dia per caparra dieci zecchini.

LEL. Li avete promessi?

GIAC. Li ho promessi.

LEL. Quando avete promesso, bisogna darli.

GIAC. Ma non ne ho uno. Caro amico, prestatemeli.

LEL. Io? non ho un soldo.

GIAC. Vi ho pur dato questa mattina venti zecchini per voi, e trenta per l'abito della virtuosa.

LEL. Bene; li ho spesi.

GIAC. L'abito dov'è?

LEL. L'ha avuto chi l'aveva da avere.

GIAC. Almeno dovevate lasciarmelo vedere.

LEL. Doveva portarvi l'abito nella bisca?

GIAC. Voglio andar ora dalla cantatrice, a vedere se l'abito le va a segno.

LEL. Sì, andate. Appunto ella vi attende per chiedervi la guarnizione.

GIAC. Guarnizione? Anderò un'altra volta. Ma, caro amico, prestatemi voi questi dieci zecchini. Sapete pure, che quando ne ho avuti, ve n'ho sempre dati.

LEL. Anch'io, se ne avessi, ve li darei.

GIAC. Che avete fatto de' venti zecchini?

LEL. Che avete fatto voi de' duemila ducati?

GIAC. Io li ho giuocati.

LEL. Ed io li ho spesi.

GIAC. Ingegnamoci per questo formaggio.

LEL. Non saprei.

GIAC. Guardate se avete qualche cosa da impegnare; per gli amici si fa di tutto.

LEL. Io non ho niente.

GIAC. Caro amico, non mi abbandonate.

LEL. Che cosa posso fare per voi?

GIAC. Sono senza denari.

LEL. Dovevate tralasciar di giuocare. (parte)

SCENA QUARTA

Giacinto, poi monsieur Rainmere.

GIAC. Questo è il bel conforto che mi ha dato: dovevate tralasciar di giuocare. Un amico parla in tal guisa? Un amico che me ne ha mangiati tanti? Ci parleremo. Ma intanto sono senza quattrini, non so dove battere il capo.

RAIN. (Diecimila ducati? Ho data la mia parola). (da sé, passeggiando)

GIAC. (Questo mi potrebbe aiutare). (da sé)

RAIN. (Bisogna andare al Bancogiro. Ho data la mia parola).

GIAC. Monsù, votre servan.

RAIN. (Lo guarda e lo deride)

GIAC. Coman ve portè vu, monsù?

RAIN. (Sorride e non risponde)

GIAC. Io sto malissimo.

RAIN. Che male avete?

GIAC. Non ho denari.

RAIN. Signore, questa è la vostra salute.

GIAC. Perché la mia salute?

RAIN. Il perché voi mi dispenserete di dirlo.

GIAC. Ditelo, che mi fate piacere.

RAIN. Perdonate; perché quando non avrete denaro, sarete meno vizioso.

GIAC. Chi sono io? un malgoverno?

RAIN. Perdonate.

GIAC. Ho bisogno di denari per fare li fatti miei, e non per gettarli via.

RAIN. Bene.

GIAC. Ho comprato una partita di formaggio di Sinigaglia, e vi posso ricavare il trenta per cento di utile.

RAIN. Bene.

GIAC. Avrei necessità di dugento ducati; posso sperare che monsù me li presti?

RAIN. Aspettate. (mette le mani in tasca)

GIAC. (Finalmente è alloggiato in casa nostra, non mi dirà di no). (da sé)

RAIN. Favorite: conoscete questo carattere? (gli mostra un foglio)

GIAC. Signor sì; questa è una mia lettera di cambio per cento zecchini che m'avete prestati; avete timore che non ve li dia?

RAIN. Quando avrete pagati questi, me ne chiederete degli altri. (rimette il foglio in tasca)

GIAC. O che caro signor olandese! (con disprezzo)

RAIN. (Lo guarda bruscamente senza parlare)

GIAC. Quattro mesi ch'è in casa nostra, e non si può avere un servizio.

RAIN. Vi pagherò l'incomodo di quattro mesi.

GIAC. Ma casa nostra non è una locanda.

RAIN. È vero; in una locanda si spende meno.

GIAC. I cento zecchini ve li renderò.

RAIN. Dovevate avermeli resi.

GIAC. Son un galantuomo.

RAIN. Vi è alcuno che non lo crede.

GIAC. Chi è che non lo crede?

RAIN. La piazza.

GIAC. Mi maraviglio di voi.

RAIN. Ed io niente di voi.

GIAC. Che vorreste dire?

RAIN. Perdonate.

GIAC. Via, siamo amici; non voglio averlo per male. Siete più vecchio di me, potete esser mio padre. Vi amo e vi rispetto, ed ho per voi quella stima che meritate.

RAIN. Bene obbligato.

GIAC. Mi siete amico? mi volete bene?

RAIN. O signore... (con riverenza)

GIAC. Datemi un bacio.

RAIN. Bene obbligato. (si danno un bacio)

GIAC. Ehi, mi prestate questi dugento ducati?

RAIN. No, perdonate.

GIAC. Mi siete amico?

RAIN. Sì, amico.

GIAC. E non mi volete prestare dugento ducati?

RAIN. No, perdonate.

GIAC. Andate, che siete un tanghero.

RAIN. (Lo guarda bruscamente)

GIAC. Mi guardate? credete di farmi paura?

RAIN. (Lo guarda come sopra)

GIAC. Viene a mangiar il nostro, e non si può avere un servizio.

RAIN. (Smania per la scena, movendo il bastone)

GIAC. Che c'è, signore, mi fareste qualche affronto? Son uomo di darvi soddisfazione; e imparate a trattare con gli uomini della mia sorta. E quando un galantuomo vi domanda dugento ducati in prestito, non gli avete a dir di no. Monsù, ci siamo intesi. (parte)

SCENA QUINTA

Rainmere, poi Faccenda.

RAIN. Gioventù scorretta, mal educata, ignorante!

FACC. Signore, il padrone è a Rialto, che l'attende. Mi mandava in traccia di lei, pregandola di lasciarsi vedere, che gli preme assaissimo.

RAIN. (Rimproveri? temerità? impertinenze?) (da sé, passeggiando)

FACC. È in bottega del caffè, signore, in un camerino. Non si vuol lasciar vedere se ella non va a consolarlo.

RAIN. (Il figlio fa disonore al padre, ed il padre si rovinerà per il figlio). (da sé, come sopra)

FACC. M'ha capito?

RAIN. Ho inteso. (come sopra)

FACC. E più presto che anderà a sollevarlo...

RAIN. Di' al tuo padrone che torni a casa, che qui l'aspetto. (parte)

SCENA SESTA

Faccenda, poi Pancrazio.

FACC. Che mai vuol dire questa novità? È forse pentito di girare al mio padrone li diecimila ducati, che gli ha promesso? È pure un uomo puntuale, che fa conto della sua parola quanto della sua vita. Che dirà il povero signor Pancrazio? Piangeva dall'allegrezza narrandomi come una provvidenza del cielo l'esibizione di questo galantuomo; e ora, se gli porto questa risposta, che mai dirà? È veramente sfortunato. Tutte le cose vanno male per lui, e ho timore senz'altro...

PANC. Che fai, Faccenda, che non vieni mai? Hai trovato l'olandese?

FACC. L'ho trovato.

PANC. Che dice? viene a Rialto?

FACC. Un momento fa era qui, ed ora è tornato a casa.

PANC. Ma non gli hai detto, che con premura lo stava attendendo?

FACC. Gliel'ho detto e mi ha risposto...

PANC. Che? È forse pentito?

FACC. Ha detto che vossignoria vada a casa subito, che l'aspetta.

PANC. A che fare a casa? I denari ha detto di girarmeli in Banco. Sta a vedere che si è pentito. Faccenda, se questo è vero, sono precipitato.

FACC. Vada a casa per sentire che cosa dice.

PANC. Ma se a Rialto m'attendono: i creditori sono lì colle lettere nelle mani. I miei nemici stanno con tanto d'occhi. I giovini avranno detto che vado, e se non mi vedono, diranno che son fallito.

FACC. Caro signore, non può essergli sopraggiunto qualche affare, che gl'impedisca il poter portarsi là?

PANC. Bisognerebbe avvisarli.

FACC. Anderò io, ritroverò un pretesto.

PANC. Eh Faccenda mio, questo nostro mestiere è delicato assai. Quello che ci tiene in piedi, è la fede, il credito, l'opinione. Tanti e tanti hanno più debiti di me, e tutti loro credono, perché la fortuna li aiuta, e si mantengono a forza di apparenza. Ma quando un uomo principia a dar indietro, quando principia a mancar di credito, tutti gli sono addosso, tutti cercano di rovinarlo, tutti attendono di godere la bella scena; e sapete perché? Per invidia del bene degli altri, e per amor del proprio interesse. Perché la torta si divida fra di loro, e il precipizio di un pover'uomo accresca i loro utili, moltiplichi loro le corrispondenze, e dia fomento e pascolo alla loro maledetta ambizione.

FACC. Signor padrone, ora non è tempo né di perdersi di animo, né di formare riflessi sulle vicende del mondo. Vada a sentire che cosa dice monsieur Rainmere.

PANC. Che ti pare, caro Faccenda? Che cosa ti ha detto? Come ha parlato l'olandese?

FACC. Mi pare un poco turbato, ma non sarà niente.

PANC. Hai veduto mio figlio?

FACC. Signor no, non l'ho veduto.

PANC. Va a Rialto.

FACC. E che cosa dirò?

PANC. Che mi attendano... Ma poi se non potessi venire?

FACC. È meglio che per questa mattina li licenzi.

PANC. Ma le lettere che scadono in questa giornata?

FACC. Se scadono oggi, ci è tempo tutto il giorno.

PANC. Si costuma pagare la mattina a Rialto, al Banco.

FACC. Mattina o sera, quando si paga, basta.

PANC. Va pure, già è tardi. L'ora di Rialto è quasi passata. Per questa mattina non saremo più a tempo. Procura di dar delle buone parole, che pagherò...

SCENA SETTIMA

Il dottor Malazucca e detti.

DOTT. Signor Pancrazio riveritissimo.

PANC. Schiavo, signor Dottor carissimo. Compatisca se l'ho fatta aspettare; e mi dispiace, che non mi posso nemmeno adesso trattenere.

DOTT. Una parola, signore.

FACC. (Prenda intanto questi duemila ducati). (piano a Pancrazio)

DOTT. Una parola, padron mio. (a Pancrazio)

PANC. Dica, ma presto, che ho qualche premura.

DOTT. Signore, i duemila ducati...

PANC. I duemila ducati, per servirla, li prenderò io.

DOTT. Quanto mi darete?

PANC. Il sei per cento.

DOTT. Non posso farlo; non posso dall'otto venire al sei.

FACC. (Faciliti, che ne ha bisogno). (piano a Pancrazio)

PANC. (Non vorrei che questo povero vecchio li perdesse). (piano a Faccenda)

FACC. (Le cose si aggiusteranno. Intanto con questi duemila ducati si può far tacer qualcheduno). (piano a Pancrazio)

DOTT. (Per assicurarli, mi converrà perdere qualche cosa). (da sé)

PANC. Ascolti, signor Dottore, sino il sette lo darò, ma niente di più.

DOTT. Via, mi contento del sette.

PANC. Che monete sono?

DOTT. Non lo sapete? Zecchini.

PANC. Andiamo a contar il denaro, e gli farò la scritta.

DOTT. Il denaro è bello e contato. Io vi do questa carta, e voi me ne darete un'altra di vostra mano.

PANC. Ma il soldo dov'è?

DOTT. Domandatelo a vostro figlio.

PANC. A mio figlio? Come c'entra mio figlio?

DOTT. Oh bella! Questa è la sua ricevuta. A lui ho dato i duemila ducati all'otto per cento...

PANC. A lui?...

DOTT. Sì, a voi che siete il capo di casa, non ho difficoltà di lasciarli al sette.

PANC. Oh povero me! Faccenda...

FACC. Un negozio buono, signor padrone.

PANC. Dunque voi avete dato a mio figlio duemila ducati?

DOTT. Non lo sapevate?

PANC. Non lo sapeva, né lo voglio sapere, e faccio il conto di non saperlo.

DOTT. Bisognerà bene che lo sappiate; e se non vi chiamerete voi debitore di questa somma, farò i miei passi, e vostro figlio anderà prigione.

PANC. In prigione mio figlio? Voi meritate di andare in berlina. Voi, vecchio avaro, che per un utile illecito, per guadagnare un per cento di più, mi avete mancato di parola, e li avete dati a un giovine che negozia, è vero, ma finalmente in casa ha ancora suo padre vivo. Se glieli avete dati, vostro danno, meritate di perderli: maledetti tutti quelli della vostra sorte, che facendo usure e scrocchi, precipitano la gioventù.

FACC. (Bravo da galantuomo! Ha parlato da par suo). (da sé)

DOTT. Se non mi pagate con altra moneta che con questa, ora vado a farmi fare giustizia. (mostra d'andarsene)

PANC. Fermatevi, uomo senza onore, senza coscienza.

FACC. (Lasci che vada. Che cosa può fare?) (a Pancrazio)

PANC. (Ah Faccenda, mio figlio non merita che io lo assista, ma è finalmente mio figlio). (piano a Faccenda)

DOTT. Ebbene, che cosa mi dite?

PANC. Meritereste di perder tutto.

DOTT. Ma non perderò niente.

PANC. Avaro, usuraio.

DOTT. Non voglio altri strapazzi. Anderò alla giustizia. (in atto di partire)

PANC. Venite qui.

DOTT. Che volete?

PANC. Vi contentate, che di quell'obbligo mi chiami debitore?

DOTT. Sì, son contento.

PANC. Con un patto però, che riduciamo il cambio dall'otto al sei per cento.

DOTT. Oh, questo poi no. Sino al sette mi contento.

PANC. Il sette non ve lo voglio dare.

DOTT. E noi non faremo niente.

PANC. Perderete il denaro.

DOTT. Ci penserà vostro figlio.

PANC. E per venti ducati precipitereste un uomo?

DOTT. E voi per venti ducati non salverete la riputazione a un figliuolo?

PANC. È una bricconata, una ingiustizia.

DOTT. Schiavo suo. (in atto di partire)

PANC. Fermatevi. Vi renderò io il vostro denaro.

DOTT. Sì, datemelo.

PANC. Venite domani, che ve lo renderò.

DOTT. Sì, tornerò domani. Mi fate anche voi compassione: tornerò domani. Ma sentite, o i miei denari, o il sette per cento, o vostro figlio prigione. Il cielo vi dia vita e salute. (parte)

SCENA OTTAVA

Pancrazio e Faccenda.

PANC. Pover'uomo! da una parte mi fa pietà.

FACC. Le fa pietà? È l'uomo più finto che vi sia al mondo.

PANC. Perché dici ch'è finto?

FACC. Non sente? È medico, e le augura buona salute.

PANC. Mi augura vita e salute, acciò non muoia prima di pagarlo.

FACC. E vuole addossarsi vossignoria quest'altro debito?

PANC. O salvar tutto, o perder tutto. E se mi salvo io, voglio anche salvare il mio figlio.

FACC. E poi...

SCENA NONA

Corallina in zendale, e detti.

COR. Oh signor padrone...

PANC. Che fate a quest'ora fuori di casa?

COR. Veniva in cerca di lei.

PANC. V'è qualche novità?

COR. Ho premura di dirle una cosa.

PANC. Per parte di chi?

COR. Per parte mia.

PANC. E non potete aspettare a parlarmi a casa?

COR. Vorrei che mi restituiste i miei cento e cinquanta ducati.

PANC. Per qual ragione? Non vi pago il vostro pro puntuale?

COR. Compatitemi, non ve li lascio, se non mi date il dieci per cento.

PANC. Il dieci per cento? Con chi credete parlare? Chi vi ha posto in capo simile bestialità.

COR. Ho trovato chi me lo dà.

PANC. Chi è questo disperato, che vi vuol dare il dieci per cento?

COR. Non posso dirlo, signore.

FACC. Glielo dirò io: è il signor Giacinto, suo degnissimo figlio.

PANC. Mio figlio?

FACC. Signor sì, e tempo fa Corallina medesima ne ha dati a lui altri cento e cinquanta al medesimo prezzo.

PANC. Oh povero me! Sempre peggio.

COR. Come diavolo l'avete saputo? (a Faccenda)

PANC. Disgraziata! Vai a dar denari a mio figlio? Ancor tu per avarizia procuri il precipizio della mia casa? Ma senti, questa volta il male cade sopra di te. I tuoi denari li hai perduti: te li ha mangiati, pazza, senza cervello che sei. Tuo danno: maledetto interesse! Ed io misero ho da soffrire il danno e la vergogna! Ah figlio sciagurato! Maledetto giuoco! Questo me l'ha rovinato, me lo ha precipitato. (parte)

SCENA DECIMA

Faccenda e Corallina.

COR. Ma voi come l'avete saputo!

FACC. Padrona, vado a Rialto...

COR. Ditemi, come avete saputo ch'io abbia dati questi denari al padron giovine?

FACC. Vuole che glielo dica?

COR. Sì, mi farete piacere.

FACC. Me l'ha detto Pasquino.

COR. Pasquino?

FACC. Signora sì, il suo caro, il suo sposo: donne, donne, che si attaccano sempre al peggio.

COR. Ma sentite...

FACC. Padrona, vado a Rialto. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Corallina sola.

COR. Pasquino disgraziato! L'ho tanto pregato che non dica niente a nessuno, e subito lo ha detto a quel chiacchierone di Faccenda! Me la pagherà. Lo voglio far pentire. È vero che ancor io aveva promesso di non parlare, e ho parlato: ma finalmente l'ho detto ad uno che ha da essere mio marito, ed egli lo va a dire a Faccenda? Me la pagherà! Ma ora che ci penso il padrone mi dice che i miei denari li ho perduti, ché il padroncino me li ha mangiati? Non vorrei che fosse la verità. Eh, non può essere; se li ho veduti nella borsa due ore sono, se vi ha messi dentro anche li due zecchini del dito mignolo!

SCENA DODICESIMA

Camera in casa di Pancrazio.

Madamigella Giannina e Beatrice.

GIANN. Così è, amica, voglio provarmi.

BEAT. Farete un'opera portentosa.

GIANN. Credo che nel signor Giacinto vi sia un fondo buono, e che tutto il male provenga dai pregiudizi che si sono nel di lui spirito insinuati. Questi si possono facilmente distruggere, quando l'uomo riducasi ad ascoltare un linguaggio nuovo, che abbia forza di scuotere la ragione e di convincere la volontà.

BEAT. Mio fratello avrebbe a voi una obbligazione ben grande, se arrivaste a correggerlo, ad illuminarlo, e l'avrebbe a voi tutta questa nostra povera casa, afflitta e disordinata per sua cagione.

GIANN. Non è egli in casa?

BEAT. Sì, è in casa da un'ora in qua, passeggia solo, è turbato, e qualche volta sospira.

GIANN. (Chi sa che io non abbia fatta qualche impressione nel di lui animo!) (da sé) Amica, con qualche pretesto mandatelo qui da me. Ora che non è in casa mio zio, posso prendermi qualche poco di libertà.

BEAT. Procurerò di mandarlo. Ma ditemi, madamigella, vostro zio vuol egli ammogliarsi?

GIANN. Credo che lo farà, quand'io sarò allogata.

BEAT. Una volta pareva ch'egli avesse della bontà per me.

GIANN. Sì, è vero, ha della stima di voi.

BEAT. Basta... non dico altro.

GIANN. V'intendo; e credetemi, che anche per questa parte vi sarò amica.

BEAT. Ora vi mando subito mio fratello. (con allegria)

GIANN. Fatelo con buona grazia.

BEAT. (Oh, monsieur Rainmere sarebbe per me una bella fortuna). (da sé; parte)

SCENA TREDICESIMA

Madamigella Giannina sola.

GIANN. Eppure è vero. Lo provo io medesima. Amore è un non so che superiore al nostro intelletto, e vincitor delle nostre forze. Per quanta resistenza voglia fare ad una passione che mi trasporta ad amare uno che non lo merita, sono quasi forzata ad arrendermi, e ad assoggettare la mia ragione ad un piacer pernizioso. Che forza è questa? D'attrazione? Di simpatia? O di destino? Qual filosofo me la saprebbe spiegare? Ma la dottrina è inutile, dove l'affetto convince. Io l'amo, e tanto basta. Il conoscerlo indegno d'amore non opra ch'io l'abbandoni, ma che lo desideri degno d'essere amato. Al desiderio unir voglio l'opera mia; e se mi riesce cambiargli il cuore, potrò dir con ragione che il di lui cuore sia mio, e andrò gloriosa di una tale conquista, più di quel ch'io farei se cento cuori, docili per natura, mi si volessero soggettare. Eccolo il mio nemico. Chi lo vuol vincere, conviene batterlo dove si può credere men difeso. Anche l'adulazione può esser laudevole, quando tende ad onesto fine.

SCENA QUATTORDICESIMA

Giacinto e detta.

GIAC. È ella che mi domanda?

GIANN. Chi v'ha detto che siete voi domandato?

GIAC. Mia sorella.

GIANN. Vostra sorella è bizzarra davvero. La premura che siate meco, è sua; dovrei parlarvi per una sua commissione, e mi dispiacerebbe che mi credeste sì ardita d'avervi per conto mio incomodato.

GIAC. Signora... Mi maraviglio... Io non so far cirimonie, e ora! per dirgliela, ne ho pochissima voglia. Son qui, che cosa mi comanda?

GIANN. Non volete sedere?

GIAC. Se il discorso è lungo, ho un affare di premura, lo sentirò un'altra volta; se è corto, tanto sto anche in piedi.

GIANN. Se non volete seder voi, permettete che sieda io.

GIAC. Si accomodi pure.

GIANN. Ora tirerò innanzi una sedia.

GIAC. Si accomodi.

GIANN. (Questa sua inciviltà me lo dovrebbe render odioso, eppure ancora lo compatisco). (da sé; va per la sedia)

GIAC. (Se non avessi per la testa la maledizione del giuoco, mi divertirei un pochetto). (da sé)

GIANN. Signor Giacinto, non mi darete nemmeno una mano a strascinar questa sedia? (di lontano)

GIAC. Oh sì, compatisca. Non vi aveva badato. La servirò io. (porta egli la sedia)

GIANN. Siete poco avvezzo a trattar colle donne.

GIAC. Dirò. Sinora ho sempre praticato con persone di confidenza. Soggezione non ne ho voluto mai.

GIANN. Avete fatto un gran torto a voi medesimo.

GIAC. Perché?

GIANN. Il vostro merito non doveva portarvi alle conversazioni indegne di voi.

GIAC. Crede ella che io sia un giovine che meriti qualche cosa?

GIANN. Sì, lo credo con fondamento.

GIAC. Grazie, grazie, signora, grazie.

GIANN. Le vostre amabili qualità potrebbero farvi onore, se voi le teneste in maggiore riputazione.

GIAC. Signorina garbata, voi mi adulate, ma non ci sto. Se voi avete studiato i libri della filosofia, io ho studiato quelli del mondo, e ne so tanto che basta per condurvi alla scuola voi e dieci della vostra sorta.

GIANN. Questo libro del mondo vi ha insegnato a disprezzar voi medesimo?

GIAC. Mi ha insegnato a conoscere quando mi vien data la burla.

GIANN. Credete dunque ch'io vi burli?

GIAC. E come!

GIANN. Ditemi: vi guardate mai nello specchio?

GIAC. Qualche volta, quando mi pettino.

GIANN. Lo specchio vi dirà che siete bruttissimo.

GIAC. No, signora, quando lo specchio mostra il naturale, non sono di me scontento.

GIANN. Gli occhi vostri vi parranno imperfetti.

GIAC. Non saprei: mi pare, se ho da dir quel ch'io sento, che sieno passabili.

GIANN. Che dite della vostra fronte?

GIAC. Io non dovrei dirlo, ma la mia aria non è da villano.

GIANN. Signor Giacinto, begli occhi, bella fronte, bel labbro, e non sarete amabile?

GIAC. Signora... mi fa arrossire.

GIANN. Vi burlo, eh?

GIAC. Non so che dire...

GIANN. Vi ha insegnato bene il vostro libro del mondo!

GIAC. Confesso anch'io che alle volte si falla.

GIANN. Sapete che cosa vi ha insegnato questo vostro bel libro del mondo?

GIAC. Che cosa dunque?

GIANN. A trattar male colle persone civili.

GIAC. Perché, signora?

GIANN. Parvi una civiltà, una buona grazia, tollerare che una fanciulla per causa vostra soffra il disagio di favellarvi in piedi?

GIAC. Perché non si accomoda?

GIANN. I miei libri, che non sono del vostro cattivo mondo, m'insegnano di non sedere, quando stia in piedi chi mi deve ascoltare.

GIAC. Dunque converrà che sieda ancor io.

GIANN. Così fareste, se aveste meglio studiato.

GIAC. Quando non v'è altro male, vi rimedio subito.

GIANN. (Gran giro mi convien fare, per giungere al punto che io mi sono prefisso). (da sé)

GIAC. Ecco qui la sedia.

GIANN. Sedete.

GIAC. Mi maraviglio. Tocca a lei.

GIANN. Effetto di vostra gentilezza. (siede)

GIAC. Obbligo della mia servitù.

GIANN. Oh signor Giacinto, questi termini, queste buone grazie, non le avete studiate nel vostro libro.

GIAC. No, signora, sono cose che imparo da lei.

GIANN. Dunque confessate che sinora avete avute delle cattive lezioni.

GIAC. Sarà così.

GIANN. (Va cedendo: spero bene). (da sé)

GIAC. Ma che cosa ha da comandarmi?

GIANN. Deggio parlarvi per commissione di vostra sorella.

GIAC. Che vuol da me mia sorella?

GIANN. Ella è innamorata.

GIAC. Ho piacere. S'accomodi.

GIANN. Ma l'amante, per dirla, non è degno di lei.

GIAC. Con chi fa all'amore?

GIANN. Vi dirò: il di lei genio la porta ad amare una persona che non merita l'amor suo.

GIAC. Che vuol dire?

GIANN. Un giovine nato civile, se vogliamo, ma che ha massime vili.

GIAC. Oh, fa male mia sorella.

GIANN. Accordate anche voi, che fa torto alla nascita chi la deturpa?

GIAC. Non v'ha dubbio.

GIANN. Sappiate di più, che codesto giovine da lei amato è un giuocatore, che consuma nelle biscazze il tempo, il denaro e la salute medesima. 

GIAC. Peggio. Starebbe fresca!

GIANN. Ah! che dite? Un giuocatore di questa sorta è un bel fior di virtù?

GIAC. Il giuoco, il giuoco... Basta. Tiriamo innanzi.

GIANN. Oh, che poca considerazione ha questa vostra sorella! Il di lei amante è rovinato, ha precipitata la casa in crapule, in feste, in divertimenti, in compagnia di gente trista, in case o disonorate, o sospette.

GIAC. Come! È divenuta pazza? Con questa sorta di gente fa all'amore? Voglio dirle l'animo mio. Voglio che mi senta...

GIANN. Fermatevi: non tanto caldo. Sapete chi è la persona viziosa, che ama vostra sorella?

GIAC. Chi è questo miserabile uomo?

GIANN. Il signor Giacinto.

GIAC. Io?

GIANN. Sì, voi. Guardatevi in quello specchio in cui i vizi e le virtù si distinguono. Guardatevi in quello specchio che vi ho posto dinanzi agli occhi, e conoscerete voi stesso. Se un cristallo sincero vi assicura che siete amabile, un ragionamento veridico vi convinca che non siete degno d'amore. Poveri doni di natura in voi traditi da un ingratissimo abuso! Infelici le grazie del vostro volto, deturpate dal vostro costume! Misero quel padre che a voi diede la vita! Infelice colei che ingiustamente vi ama!

GIAC. Ah sì, mi riconosco pur troppo. Voi dite la verità, e ne arrossisco. Madamigella, voi m'obbligate... Voi m'intenerite... Son qui... Son tutto vostro. Intendo qual è la sorella che m'ama.

GIANN. Andate, che non so che fare di voi. (s'alza)

GIAC. Sono indegno della vostra bontà?

GIANN. Non avete studiato altro libro, che quello del mondo pessimo.

GIAC. È vero, ma... son giovine, sono ancora in tempo di fare de' nuovi studi.

GIANN. Sareste voi disposto a prendere delle migliori lezioni?

GIAC. Sì, cara; sotto una maestra così virtuosa imparerei in poco tempo.

GIANN. Come sta il vostro cuore?

GIAC. Il mio cuore è di una pasta così tenera, che si lascia regolare con somma facilità.

GIANN. Vi annoiano i miei discorsi?

GIAC. Anzi mi danno piacere.

GIANN. Sedete.

GIAC. Volentieri. (siedono)

GIANN. Ascoltatemi.

GIAC. Son qui. (s'accosta bene)

GIANN. Non vi accostate tanto. Le parole si sentono anche in qualche distanza. (si scosta)

GIAC. Ma le parole operano meglio, quando sono sostenute dalle azioni.

GIANN. Questa è una lezione del vostro libro.

GIAC. Via, non dico altro. Vi ascolterò, come volete.

GIANN. Vo' darvi la prima lezione, la quale farà onore a me, se la saprò dire: farà onore a voi, se la saprete ascoltare.

GIAC. Son qui, vi ascolto con tutto il cuore.

GIANN. Caro signor Giacinto...

GIAC. (La lezione principia bene). (da sé)

GIANN. L'uomo che non conosce se stesso...

SCENA QUINDICESIMA

Monsieur Rainmere e detti.

GIANN. Mio zio... (alzandosi)

GIAC. Monsieur, la riverisco.

RAIN. Servitore obbligato.

GIAC. Compatisca, se do incomodo a madamigella.

RAIN. Bene obbligato. Andate nella vostra camera. (a madamigella)

GIANN. Signore.

GIAC. È piena di scienze.

RAIN. Obbligato. In camera. (a madamigella con autorità)

GIANN. Vado, signore. (fa una riverenza a Giacinto)

GIAC. Comanda che io la serva? (vuol darle braccio)

RAIN. Non importa, non importa. (lo trattiene ironicamente)

GIAC. Il mio dovere...

RAIN. Bene obbligato.

GIANN. (Anche mio zio ha poco studiato quella morale moderna, che unisce cotanto bene la società ed il decoro). (da sé; parte)

SCENA SEDICESIMA

Monsieur Rainmere e Giacinto.

GIAC. Che belle massime s'imparano dalla di lei nipote!

RAIN. O ne sono contento.

GIAC. Ma perché, signore, farla andar via?

RAIN. Vi avrà incomodato bastantemente.

GIAC. Anzi m'insegnava delle bellissime cose.

RAIN. Mia nipote non è nata per fare la maestra alla gioventù.

GIAC. Ragionando sempre s'impara.

RAIN. Non vorrei che ella imparasse da voi.

GIAC. Che può imparare da me?

RAIN. Perdonatemi. A non conoscere né la civiltà, né l'onore.

GIAC. Come parlate?

RAIN. Vi dico in casa quello che non vi doveva dir sulla strada.

GIAC. Io sono un uomo incivile?

RAIN. Con me non avete usata la civiltà.

GIAC. Io non conosco l'onore?

RAIN. Se conosceste l'onore, sareste più puntuale.

GIAC. Ora capisco il fondamento de' bei discorsi di madamigella. Voi m'avete posto in discredito con vostra nipote. Mi ha ella strapazzato con buona maniera, ma mi ha strapazzato. Da lei ho sofferto tutto, da voi non voglio soffrir nulla. (alza la voce)

RAIN. Io non parlerò con voi, se voi non parlerete con me.

GIAC. E mi maraviglio de' fatti vostri. (forte)

RAIN. Non alzate la voce.

SCENA DICIASSETTESIMA

Faccenda e detti.

FACC. Signori, che cosa c'è?

GIAC. Coi galantuomini non si tratta così.

FACC. Signore, il signor Pancrazio è qui, che vorrebbe parlare con V.S. (a monsieur Rainmere)

RAIN. Ditegli che or ora io e mia nipote ce ne anderemo di casa sua.

FACC. Ma perché, signore?

RAIN. Perché suo figlio è un pazzo. (parte)

SCENA DICIOTTESIMA

Giacinto e Faccenda.

GIAC. A me pazzo? A me?... (vuol seguirlo)

FACC. Si fermi. È qui il suo signor padre.

GIAC. Ingiuriarmi! Lo voglio mortificare.

FACC. Venga, signor padrone. Veda suo figlio. (alla scena)

GIAC. Viene mio padre. È meglio ch'io parta. Lo ritroverò il signor Olanda, lo ritroverò. (parte)

SCENA DICIANNOVESIMA

Pancrazio gli corre dietro sino dentro la scena, e detto.

FACC. Si fermi, ascolti. Questo giovine vuol essere il suo precipizio.

PANC. Scellerato! ti giungerò. Si è chiuso in camera. Che è stato, Faccenda?

FACC. Non so niente. Strepiti grandi. Monsieur vuole andarsene di questa casa.

PANC. Per qual cagione?

FACC. Per causa del di lei figliuolo.

PANC. Oh povero me! Monsieur Rainmere dov'è?

FACC. Gli parli, ma presto.

PANC. Dove sarà?

FACC. In camera. Andiamo, non perda tempo.

PANC. Sì, andiamo... Ma prima voglio parlare a mio figlio. Voglio sentire che cosa è stato, avanti di presentarmi a monsieur Rainmere, per sapere come ho da contenermi.

FACC. Ma se il signor Giacinto si è chiuso in camera?

PANC. Va tu, procura di farlo aprire, digli che gli parlerò con amore.

FACC. Farò quello che potrò. In verità, signor padrone, ho il cuore afflitto per causa sua. (parte)

PANC. Ah figlio indegno! figlio disgraziato! poveri padri! poveri padri! Chi si augura de' figliuoli, si specchi in me. Chi li ha buoni, ringrazi il cielo, e chi ne ha de' cattivi, può dir d'aver un travaglio che supera tutti i travagli del mondo. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera con burò, tavolino e bauli.

Monsieur Rainmere e due Servitori. Monsieur Rainmere va levando dal burò vari sacchetti di monete, e li mette in un baule, mentre due Servitori ripongono in un altro baule i di lui vestiti: tutto facendo senza parlare. Poi Madamigella Giannina

GIANN. Signor zio, mi è permesso?

RAIN. Che cosa volete? (con un sacchetto in mano)

GIANN. Vorrei, se mi permettete, dirvi il mio sentimento sulla risoluzione che siete per fare.

RAIN. La risoluzione è fatta; andiamo a Livorno. (mette il sacchetto nel baule)

GIANN. Partir da Venezia così repentinamente, parmi che sia un affronto al padrone di questa casa.

RAIN. Ne ho ricevuti dei peggio. (va al burò per un sacchetto)

GIANN. Avete parlato col signor Pancrazio?

RAIN. Non l'ho veduto. (porta il sacchetto nel baule)

GIANN. Vorrebbe la convenienza, che gli parlaste.

RAIN. Andate nella vostra camera.

GIANN. Ma... signore...

RAIN. Andate a far della vostra roba quello che qui si fa della mia. (torna al burò)

GIANN. Mentre vi parlo, le robe mie si ripongono nei bauli. Rispetto gli ordini vostri.

RAIN. Bene. (ripone un sacchetto nel baule)

GIANN. Vorrei soltanto che vi compiaceste di lasciarmi dire due parole.

RAIN. Parlate. (si ferma ad ascoltarla)

GIANN. Bramerei sapere, prima di tutto, per qual dispiacere volete allontanarvi da questa casa.

RAIN. Mi hanno insultato.

GIANN. Ma chi v'ha insultato? Il signor Pancrazio?

RAIN. No, il suo figliuolo.

GIANN. Qual colpa ha il padre nelle debolezze del figlio?

RAIN. Tutti sono nella medesima casa. Non soffrirei altre ingiurie senza risentimento.

GIANN. Finalmente il signor Giacinto è giovine, merita qualche compatimento.

RAIN. Egli è un pazzo. (voltandosi a lei)

GIANN. Le pazzie della gioventù si correggono.

RAIN. Con tutta la vostra filosofia diverreste pazza peggio di lui, se io non vi provvedessi. (va al burò)

GIANN. Se amore si può dire pazzia, pochi saranno savi, signor zio.

RAIN. Non so compatirvi. (camminando con un sacchetto verso il baule)

GIANN. Eppure voi mi dovreste compatir più di ogni altro.

RAIN. Perché? (voltandosi col sacchetto in mano)

GIANN. Signore, vi dimando perdono.

RAIN. Perché? Parlate.

GIANN. Perché con tutta la vostra austerità, so che amate anche voi.

RAIN. Io?

GIANN. Sì, signore, perdonatemi. Voi amate.

RAIN. Come potete... (corre a mettere il sacchetto nel baule; poi torna) Come potete voi dirlo?

GIANN. Amore non si può tenere nascosto.

RAIN. Credete voi che io ami madamigella Beatrice?

GIANN. Lo credo con fondamento.

RAIN. Se io l'amassi, amerei una figliuola che merita esser amata. (va verso il burò)

GIANN. Ed io...

RAIN. E voi amereste un pazzo. (voltandosi, poi va al burò)

GIANN. L'amore mio sarà sempre più virtuoso del vostro.

RAIN. Perché? (voltandosi, stando al burò)

GIANN. Perché io amo con costanza uno che secondo voi non lo merita, e voi abbandonate per un puntiglio una persona degna dell'amor vostro.

RAIN. Il mio abbandonamento non le fa alcuna ingiuria... (prende il sacchetto)

GIANN. Ma la mortifica e la fa piangere.

RAIN. Piange madamigella Beatrice? (col sacchetto in mano si ferma)

GIANN. Sì, fa compassione.

RAIN. Perché piange?

GIANN. Per quella ragion istessa, per cui io piangerei, se lasciassi il di lei fratello.

RAIN. Beatrice non ha per me quell'amore che voi avete per codesto discolo malcreato. (s'incammina verso il baule)

GIANN. Io non so che si pianga per una persona che non si ama.

RAIN. Piange? (con tuono compassionevole)

GIANN. Sì; per voi.

RAIN. (Senza parlare va lentamente al baule, poi si volta) Piangerà per le disgrazie della sua casa.

GIANN. A me ha confidato il motivo delle sue lagrime.

RAIN. Credete che ella le versi per me?

GIANN. Certamente.

RAIN. Voi m'adulate. (ripone il sacchetto nel baule)

GIANN. Eccola. La vedete? (accenna di vederla in lontano)

RAIN. Non mi pare che pianga.

GIANN. Ha gli occhi rossi. Il timore suol trattenere le lagrime.

RAIN. Osservate. Ella vi chiama.

GIANN. Mi permettete che io la faccia venir qui?

RAIN. Cerca di voi, non cerca di me. Andate. (va al baule, voltandosi dall'altra parte)

GIANN. Mi fa cenno che vorrebbe parlarvi.

RAIN. Nipote, voi vi prendete spasso di me. (voltandosi)

GIANN. Perdonatemi: non ardirei di farlo. Amica, volete me, o il signore zio?

RAIN. (Si volta, come per rossore)

GIANN. Desidererebbe parlar con voi.

RAIN. Con me?

GIANN. Sì, signore; se non volete ascoltarla, unirà anche questo agli altri favori di uno che mostrava d'amarla.

RAIN. Fatela venire. (va a chiudere il burò)

GIANN. (Chi sa! S'egli avesse compassione della sorella, potrei anch'io aver tempo di guadagnare il fratello). (da sé, parte)

RAIN. (Chiuso il burò, va per chiudere il baule) Ehi, partite. (ai Servitori, che partono) L'amo, ma non ho mai detto d'amarla. Queste donne conoscono troppo bene i movimenti degli occhi. (chiude il baule) Eccola.

SCENA SECONDA

Beatrice e monsieur Rainmere.

BEAT. Monsieur. (inchinandosi)

RAIN. Madamigella. (con bocca ridente)

BEAT. Perdonate l'ardire.

RAIN. Mi fate onore.

BEAT. Son qui venuta...

RAIN. Perdonate. (va per due sedie)

BEAT. (Madamigella Giannina mi ha bene istruita, ma non so se vi riuscirò). (da sé)

RAIN. Accomodatevi.

BEAT. Anche voi.

RAIN. (Con un risetto s'inchina, e siede)

BEAT. Monsieur, sono venuta ad augurarvi un buon viaggio.

RAIN. Ben obbligato. (con riverenza gioviale)

BEAT. Possibile che ci vogliate abbandonare sì presto?

RAIN. Vi ho dato un incomodo di quattro mesi.

BEAT. Vi sarete annoiato.

RAIN. No, madamigella, io ci stava assai volontieri.

BEAT. Ma dunque perché partite?

RAIN. Perdonate.

BEAT. Forse per le leggerezze di mio fratello?

RAIN. Le sue leggerezze pesano molto a chi sente l'onore.

BEAT. Mio fratello sarà la rovina di questa casa.

RAIN. Me ne dispiace infinitamente.

BEAT. Mio padre è fuor di se stesso.

RAIN. Il signor Pancrazio è onest'uomo.

BEAT. Povero vecchio! Piange amaramente.

RAIN. Me ne dispiace infinitamente.

BEAT. Mio fratello comincia a conoscere i suoi disordini, e si vergogna di se medesimo, e piange unitamente a suo padre.

RAIN. Padre buono di un figliuolo cattivo.

BEAT. Io poi sono la più afflitta di tutti.

RAIN. Voi? Perché?

BEAT. Ho troppe cose che mi tormentano.

RAIN. E quali sono, madamigella?

BEAT. Il padre.

RAIN. Bene.

BEAT. Il fratello.

RAIN. Sì.

BEAT. La casa.

RAIN. Giustamente.

BEAT. E un'altra cosa, che non ardisco di dire.

RAIN. Se non ardite dirla, crederò che non vi convenga, né io v'importunerò per saperla.

BEAT. Certamente sarete poco curioso di quelle cose che non vi premono.

RAIN. Se si tratta del vostro bene, questo è quel che mi preme.

BEAT. Eh monsieur Rainmere, voi sapete fare dei complimenti.

RAIN. No, madamigella, non ne so fare. Amo la verità.

BEAT. Per questo, perché amate la verità, capisco che non vi curate di persona alcuna di questa nostra famiglia.

RAIN. Perché pensate questo?

BEAT. Perché volete partire. Perché partendo non avete riguardo di rovinare una casa, d'uccidere un vecchio, e di... (si cuopre gli occhi col fazzoletto)

RAIN. Seguitate. (con premura)

BEAT. Perdonatemi. (come sopra)

SCENA TERZA

Faccenda e detti.

FACC. Si può venire? (di dentro)

RAIN. Che vuoi?

FACC. Perdoni; il mio padrone... La padroncina? Compatisca...

BEAT. Che cosa vorresti dire?

FACC. Niente, signora...

RAIN. Che vuoi?

FACC. Il mio padrone desidera parlare a V.S., se si può... (parlando a Beatrice)

RAIN. Dove vi è la figliuola, può venire il padre liberamente.

FACC. Benissimo. (parte)

BEAT. Signore, io partirò. (si alza)

RAIN. Potete restare.

BEAT. Non ho per mio padre così poco rispetto.

RAIN. (Buona figliuola). (da sé)

BEAT. Vi prego non interpretare sinistramente le mie parole.

RAIN. Io non penso male di chi mi fa l'onore di amarmi.

BEAT. Io non ho detto di amarvi.

RAIN. Ma lo capisco...

BEAT. Ecco mio padre. Vi sono serva.

RAIN. Vostro servitore, madamigella.

BEAT. (Ah fortuna, non m'ingannare). (da sé, parte)

SCENA QUARTA

Monsieur Rainmere, poi Pancrazio.

RAIN. In questa casa tutti non somigliano a madamigella Beatrice. Ella ha delle massime... Signor Pancrazio, vostro servitore obbligato.

PANC. Monsieur, compatitemi se vengo a disturbarvi.

RAIN. Mi fate onore.

PANC. Mi date licenza che sieda?

RAIN. Sì, accomodatevi; lo farò ancor io (siedono)

PANC. Non so come principiare...

RAIN. Volete fumare una pipa?

PANC. Vi ringrazio. Avanti desinare non fumo, e poi non sono qui, caro amico, per conversazione, ma per discorrere con serietà. Oh cielo! si tratta di assai, donatemi un quarto d'ora per carità.

RAIN. Parlate quanto vi piace. Voi meritate di essere ascoltato

PANC. Monsieur, conviene levarsi la maschera, e parlare schietto. Questa mattina m'avete promesso diecimila ducati, mi avete promesso venirmeli a scrivere nel Bancogiro. Vi ho atteso, né vi ho veduto. I diecimila ducati che avete promesso fidarmi al sei per cento, ve li ho chiesti in una maniera bizzarra, senza mostrar d'averne gran bisogno. Caro amico, vi parlo adesso con altro linguaggio, vi mostro le mie piaghe, vi apro il mio cuore, e mi getto nelle vostre braccia. Tre lettere di cambio, che scadono in questo giorno, mettono in pericolo la mia fede, il mio credito, l'esser mio. Voi solo mi potete aiutare: sì, voi mi potete aiutare, senza vostro pericolo e senza tema di perderli, anzi con tutta la sicurezza di ricuperare in meno di un anno il cambio ed il capitale. Vedrete il mio bilancio. Ho de' crediti buoni, ho de' capi vivi in negozio. Sono più tosto in avvantaggio, ma sapete che non si fallisce tante volte per ritrovarsi al di sotto, ma per cagione di qualche creditore indiscreto, che senza carità vuole il denaro nel momento istesso ch'ei lo domanda, e precipita in tal guisa un uomo d'onore. Io sono in questo caso; vi esibisco i miei libri, il mio negozio, le chiavi de' magazzini, e vi chiedo i diecimila ducati che promessi mi avete, per salvezza della mia povera casa, per la riputazione del mio povero nome. Caro monsieur Rainmere, mio figlio, quel disgraziato di mio figlio, vi ha disgustato, vi ha offeso e se potessi scancellar col mio sangue le vostre offese, tutto ve lo darei per muovervi a compassione. Un figlio traditore, dopo avermi consumato tanto, e avermi, si può dire, precipitato, mi priverà ancora di quell'unico amico che mi restava per conforto delle mie estreme necessità? L'avrei ucciso colle mie mani, se dopo i flagelli di questa vita, non mi spaventassero quelli dell'altra. Separate, vi prego, il padre dal figlio. Lasciate a me castigar quell'ingrato, e voi movetevi a pietà di un povero padre, che in voi unicamente confida.

RAIN. Datemi la vostra mano. (s'alza)

PANC. Eccola. (si prendono per la mano)

RAIN. Giuratemi sul vostro onore di non celarmi la verità.

PANC. Ve lo giuro sull'onor mio...

RAIN. Andiamo. Io vi voglio aiutare. (parte)

SCENA QUINTA

Pancrazio solo.

PAN. Che sia benedetto! Uomo veramente d'onore. Buon amico, vero amico. Cauto sì, ma sincero. Vero mercante, specchio de' galantuomini. Buoni per se stessi, buoni pe' loro amici, che uniscono perfettamente all'onesto interesse la giustizia, la moderazione e la carità. (parte)

SCENA SESTA

Camera.

Giacinto e Faccenda.

GIAC. (Con uno stile alla mano, che vuol ferirsi)

FACC. Si fermi, signore... Non faccia... Per amor del cielo, non dia in queste disperazioni.

GIAC. Lasciami andare.

FACC. Ma che vuol fare?

GIAC. Voglio ammazzarmi.

FACC. Si fermi.

GIAC. Son disperato. (si scioglie da Faccenda)

FACC. Aiuto, gente.

GIAC. Va da mio padre, e digli che sarà soddisfatto.

FACC. Aiuto.

SCENA SETTIMA

Madamigella Giannina e detti.

GIANN. Che è questo?

GIAC. Ah madamigella, andate via per carità.

GIANN. Oh cielo! quello stile...

FACC. Si vuol uccidere, signora.

GIANN. Come! un giovine della vostra sorta?...

GIAC. Non mi tormentate.

GIANN. Datemi quello stile. (con autorità)

GIAC. Vi prego...

GIANN. Indiscreto, incivile! Voglio quel ferro.

GIAC. Ah! (getta il ferro, e vuol partire)

GIANN. Fermatevi. (con autorità)

GIAC. (Si getta a sedere senza parlare, e si cuopre il volto col fazzoletto)

FACC. Gran forza hanno le donne sopra gli uomini! Armano e disarmano, quando vogliono. (prende lo stile di terra, e parte)

SCENA OTTAVA

Madamigella Giannina e Giacinto.

GIANN. Vergogna! La disperazione è un effetto della ignoranza. Ora principio a credere che siete pazzo davvero.

GIAC. Ma lasciatemi stare. Le vostre parole feriscono più di uno stile.

GIANN. Ascoltatemi.

GIAC. Son qui. Non posso star in piedi.

GIANN. Posso sapere la causa della vostra disperazione?

GIAC. Mio padre m'ha detto cose che m'hanno atterrito. Non credeva che la casa fosse in tale stato. Non credeva che i miei disordini fossero giunti a questo segno. Ho veduto le nostre piaghe, ho veduto un povero vecchio, che m'ha dato l'essere, per cagione mia in precipizio, in rovina, in disperazione; ed io ho da mirare con questi occhi il mio povero genitore fallito, spogliato, in prigione per cagion mia? Non ho cuor di soffrirlo, son disperato. (s'alza furioso)

GIANN. Fermatevi. Aspettate ch'io parta, e fate poi tutto quel che volete.

GIAC. Via, partite.

GIANN. Voglio prima parlare.

GIAC. Parlate.

GIANN. Sedete.

GIAC. Tutto quel che volete. (siede)

GIANN. Ascoltatemi.

GIAC. Son qui.

GIANN. Appressatevi.

GIAC. Le parole si sentono anche in distanza. L'avete detto voi stessa.

GIANN. Volesse il cielo, che s'imprimessero nel vostro cuore tutte le mie parole.

GIAC. Avete finito?

GIANN. Non ho ancor principiato.

GIAC. Mi vien freddo.

GIANN. Ma caro signor Giacinto... (s'accosta a lui)

GIAC. (Ora mi vien caldo). (da sé)

GIANN. Questa vostra disperazione è affatto irragionevole. Se ella dipende dai dispiaceri che conoscete aver dati al vostro povero padre, volete aggiungere alle sue disgrazie la più dolorosa di tutte, col sagrifizio di voi medesimo? Se amate il genitore, cercate di consolarlo; se siete pentito d'averlo oltraggiato, fate che il vostro pentimento medichi le sue piaghe, e non le inasprite coi vostri pazzi trasporti. Un reo che si vuol privare di vita, mostra non essere capace di pentimento, ma piuttosto fa credere, che amando le colpe voglia morire anzi che abbandonarle. Tutti i mali hanno il loro rimedio, fuor che la morte. Le disgrazie di vostro padre non saranno poi irrimediabili: l'ho veduto andar con mio zio nel suo studio, dopo essere stati per qualche tempo seduti insieme. Il signor Pancrazio è uomo d'onore, è un mercante di credito; mio zio è buon amico. Vedrete che le cose di casa vostra prenderanno miglior sistema. Rimediato a questa parte del vostro rammarico, vi resterà il rossore di essere un figlio ingrato; ma finalmente non sarete voi il solo figliuolo discolo, che abbia dissipato, speso, scialacquato e malmenati a capriccio i giorni bellissimi della gioventù. Chi invecchia nei vizi è detestabile, ma chi cade, nell'età vostra fervida troppo e troppo solleticata dalle occasioni, è compatibile. Il momento in cui vi pentite, scancella tutte le colpe andate e due lagrime di tenerezza, che voi versiate a' piedi di vostro padre, compensano tutte quelle che egli ha versate per voi. Fatevi animo dunque, lasciate a noi la cura degl'interessi, pensate solo a voi stesso, e dalla cognizione del male prendete regola per l'avvenire.

GIAC. Madamigella. (si getta a' di lei piedi)

GIANN. Alzatevi, che non ho finito di ragionare.

GIAC. Che mai potete dire di più?

GIANN. Ditemi prima qual impressione abbia fatto nel vostro animo il mio ragionamento.

GIAC. Che volete ch'io dica? Mi sento intenerire, sono convinto, sono stordito.

GIANN. Chiederete perdono a vostro padre?

GIAC. Sì, altro non bramo.

GIANN. Parlate più di morire? (con dolcezza)

GIAC. No, cara.

GIANN. Cara mi dite?

GIAC. Sì. Se mi date la vita.

GIANN. Promettetemi di far buon uso de miei consigli.

GIAC. Lo prometto, lo giuro.

GIANN. Così mi basta.

GIAC. Vi basta?

GIANN. Sì, mi basta così.

GIAC. E non mi chiedete altro?

GIANN. Che poss'io domandarvi di più?

GIAC. Non mi domandate il cuore?

GIANN. Non conviene a me ricercarlo.

GIAC. È vero, tocca a me il darvelo: è tutto vostro.

GIANN. Non lo accetto per ora.

GIAC. Perché?

GIANN. Sul punto che io vi fo un benefizio, non esigo la ricompensa. Il dono del vostro cuore potrebbe ora essere una mercede involontaria: pensateci. Vi lascio in libertà di disporre di voi medesimo. (parte)

SCENA NONA

Giacinto.

GIAC. Sarei un barbaro, se le negassi affetto. Che massime! Che discorso! Che buon amore! Ma non sono io degno di ottenerla. Suo zio non me l'accorderà. Mio padre non vorrà ch'io la prenda; ed ella, quantunque paia che abbia per me dell'amore, non si fiderà, non mi crederà, si scorderà di me. Ah, temo di ricadere nella mia nera disperazione. (parte)

SCENA DECIMA

Camera.

Pancrazio e Faccenda.

PANC. Non mi parlare di mio figlio: è un ingrato.

FACC. Mi creda ch'è pentito.

PANC. Non sarà vero, fingerà: è uno sciagurato.

FACC. Che vuole di più? si voleva ammazzare.

PANC. Si voleva privar di vita?

FACC. Signor sì, l'ho trovato con uno stile alla mano...

PANC. Ah... dove si trova?...

FACC. Si fermi; è arrivata madamigella Giannina, ha fatto che getti via il ferro, e non è stato altro. L'assicuro, signore, ch'è pentito di cuore.

PANC. Il ciel lo voglia. Caro Faccenda, dov'è? Perché non viene dal suo povero padre, che lo ama tanto? Io stesso anderò a ritrovarlo...

FACC. Si fermi per un momento; mentre vi sono dell'altre novità.

PANC. Buone, o cattive?

FACC. Nella strada vi sono sette o otto persone che aspettano. Vi sono quei tre giovini di questa mattina con le lettere di cambio. E v'è il medico de' duemila ducati.

PANC. Anche colui? Gli ho pur detto che venga domani.

FACC. Avrà inteso mormorare in piazza, ed ha anticipato. Vi è dell'altra gente. Certe faccie toste che non conosco; non so che dire, ho paura di qualche disgrazia.

PANC. Che vi sieno de' birri?

FACC. Non crederei.

PANC. Qualche ministro per sequestrare?

FACC. Può essere. Tengo chiusa la porta della scaletta, e dico a tutti ch'è a pranzo.

PANC. In casa mia non si sono più udite di queste cose!

FACC. Ma che ha detto monsieur Rainmere?

PANC. Siamo stati nello scrittoio insieme, ha veduto i conti, non gli ho celato nulla. Parve contento, ed è andato via senza dirmi nulla.

FACC. Possibile che l'abbandoni?

PANC. Non so che dire; mi raccomando al cielo e lascio operare a lui.

FACC. Vuole che vada io da monsieur?

PANC. Sì, caro Faccenda. Intanto anderò io da mio figlio. (va per andarsene)

FACC. Si fermi, che viene l'olandese.

PANC. Parti, parti.

FACC. Vado a dar delle parole a quei che aspettano. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Pancrazio, poi monsieur Rainmere con un uomo che porta un sacchetto in ispalla.

PANC. Ha un uomo con lui. Chi mai è?

RAIN. Metti lì. (l'uomo pone il sacchetto sul tavolo)

PANC. Monsieur Rainmere. (con allegrezza)

RAIN. Quelli sono seimila ducati.

PANC. Seimila?...

RAIN. E quattromila val questa lettera. (gli dà un foglio)

PANC. Che siate benedetto! Lasciate che vi dia un bacio.

RAIN. Bene obbligato. (si danno i due soliti baci)

PANC. Voi mi date la vita, mi date lo spirito, mi rinnovate il sangue, che dalle mie disgrazie principiava a guastarsi.

RAIN. Fatemi la lettera di cambio, tempo due anni, coll'interesse ad uso di piazza.

PANC. Subito ve la faccio.

RAIN. L'ho fatta io, sottoscrivetela. (gli dà una carta)

PANC. Subito. (vuol sottoscriverla)

RAIN. Leggetela. Non si negozia così.

PANC. Di voi mi fido.

RAIN. Tutti gli uomini possono far errore.

PANC. Va benissimo, e la sottoscrivo. (sottoscrive) Prendete, che siate mille volte benedetto.

RAIN. Voi mi dovete settecento ducati.

PANC. È vero.

RAIN. E vostro figliuolo mi deve cento zecchini.

PANC. Verissimo.

RAIN. Per queste due partite mi dovete considerare creditor come gli altri.

PANC. E vi pagherò prima di tutti.

RAIN. E poi so il mio dovere per l'incomodo di quattro mesi.

PANC. Mi maraviglio. Vi ho da dare una buona nuova.

RAIN. Consolatemi.

PANC. Mio figlio è pentito d'ogni cosa. Piange, sospira, mi dimanda perdono.

RAIN. Gli credete?

PANC. Si voleva fino ammazzare.

RAIN. Voglia il cielo che il suo pentimento non sia una disperazione.

PANC. Caro monsieur Rainmere, sono a pregarvi di un'altra grazia. Ora lo manderò da voi a chiedere scusa del suo mal procedere, a fare un atto del suo dovere. Accettatelo, ascoltatelo e perdonategli per amor mio.

RAIN. Se sarà pentito davvero, l'amerò come amo suo padre.

PANC. Ora lo sentirete. Se vi contentate, prendo questi denari, e vado a pagare i creditori che mi tormentano.

RAIN. Voi siete il padrone.

PANC. E vi porterò il vostro avere.

RAIN. Non ne dubito.

PANC. Io non posso portare un tal peso. Ehi, chi è di là?

SCENA DODICESIMA

Faccenda e detti.

FACC. Signore.

PANC. Aiutami.

FACC. Che roba è questa?

PANC. Denari.

FACC. Denari?

PANC. Sì, caro Faccenda, andiamo a pagare.

FACC. Sia ringraziato il cielo. Ho tanto piacere, come se si trattasse di me stesso.

PANC. Andiamo, andiamo. Non so dove mi sia per la consolazione. (parte)

FACC. I denari pesano, ma i debiti pesano molto più. (parte col sacchetto)

RAIN. Non si può far servizio di minor peso, oltre quello di prestar il denaro, quando è sicuro.

SCENA TREDICESIMA

Madamigella Giannina, Beatrice, monsieur Rainmere.

GIANN. Signor zio.

RAIN. Nipote... Madamigella. (salutando gentilmente Beatrice)

GIANN. Sento che non partirete più così presto. (a Rainmere)

RAIN. No, la partenza è sospesa.

BEAT. Ed io ho sentito con giubilo, che la vostra buona amicizia abbia consolato mio padre.

RAIN. L'ho fatto per lui, e l'ho fatto ancora per voi. (ridente)

BEAT. Per me, signore?

GIANN. Cara amica, non ve l'ho detto che mio zio vi ama?

RAIN. Mia nipote non suol dire delle bugie.

BEAT. Non posso crederlo, se voi volete partire...

RAIN. Io non parto per ora.

GIANN. Prima di partire potrebbe ancora sposarvi.

BEAT. Cara amica, voi mi adulate.

RAIN. Nipote, mi lodereste voi, se prendessi moglie?

GIANN. Signore, vi parlerò con sincerità. Vi loderei più se non la prendeste. Ma avendovi sentito dire più volte, che volete farlo per dare un maschio alla casa amerei che lo faceste piuttosto

con Beatrice che con un'altra.

BEAT. (Oh cara amica!) (da sé)

RAIN. L'amate molto questa vostra amica. (a madamigella Giannina)

GIANN. Sì, l'amo assai.

RAIN. Senza interesse?

GIANN. Che interesse posso avere con lei?

RAIN. Non l'amereste per ragion di suo fratello?

GIANN. Può anche darsi.

RAIN. Eh donne! vi conosco.

BEAT. Siete furbo la vostra parte.

RAIN. Siete adorabile.

SCENA QUATTORDICESIMA

Giacinto e detti.

GIAC. Monsieur, vi chiedo perdono...

RAIN. Basta così. Arrossisco per parte vostra.

GIAC. Ma se vi ho offeso, lasciate che vi mostri il mio pentimento.

RAIN. Lo voglio credere senza più.

GIAC. Vi chiedo scusa...

RAIN. Non altro. Tenete. (lo bacia)

GIAC. (Veramente uomo di buon cuore! Un uomo da bene!) (da sé)

GIANN. Signor Giacinto, mi rallegro con voi.

GIAC. Eppure, con tutto questo, non sono ancor contento.

GIANN. Che vi manca per contentarvi?

GIAC. Il meglio.

GIANN. Che vuol dire?

BEAT. Non lo capite? Gli manca una sposa.

GIANN. Che se la trovi.

GIAC. Per me avrei ritrovata; ma ella non vuole il mio cuore.

GIANN. Ci avete bene pensato?

GIAC. Più che ci penso, più la desidero.

GIANN. Che dite, signor zio?

RAIN. Questo giovine è stato cattivo. Ora si dice che sia diventato buono. Avete voi coraggio di fidarvi di lui?

GIANN. Sì, mi fiderò, ma con una indispensabile condizione.

GIAC. Qual è, signora, questa condizione?

GIANN. Che venghiate a Livorno, e poscia in Olanda con noi, acciocché abbandonando le pratiche, le amicizie e le occasioni che vi circondano, possiate ancora cambiar il cuore.

GIAC. Per me vengo ancora nell'Indie. Con una compagnia di questa sorta? Con uno zio di sì buon cuore? Mi dispiacerà lasciar mio padre, ma quando si tratta della mia fortuna, anche mio padre sarà contento, e sono disposto a partire in questo momento, se occorre.

GIANN. Che dite, signor zio?

RAIN. Il pensier vostro non mi dispiace. Venga con noi; se non riuscirà bene, lo rimanderò in Italia.

GIANN. E se sarà mio sposo?

RAIN. Vi caccerò in Italia con lui.

GIAC. Non vi sarà questo pericolo. Son qui, vengo via con voi, col signor zio, colla mia cara sposa. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Monsieur Rainmere, madamigella Giannina e Beatrice.

BEAT. Ed io resterò qui senza mio fratello?

RAIN. No, madamigella. (ridente)

BEAT. Ma... dunque.

RAIN. Voi verrete in Olanda con noi.

BEAT. Davvero?

RAIN. Se vorrete...

GIANN. Oh verrà, verrà.

BEAT. Oh verrò, verrò.

SCENA ULTIMA

Pancrazio, Giacinto e detti.

PANC. Sì, figlio, fa tutto quello che vuoi.

RAIN. Signor Pancrazio...

PANC. Mio figlio m'ha detto tutto.

BEAT. Ma non vi avrà detto, signor padre, che io pure anderò in Olanda con lui.

PANC. Tu? come?

BEAT. Colle nozze di monsieur Rainmere.

PANC. Dici davvero?

RAIN. Se vi contentate.

PANC. Perché non devo contentarmi? Una fortuna di questa sorta vorreste che io non l'approvassi?

RAIN. A vostra figlia quanto darete di dote?

PANC. La dote che ha avuto sua madre, è stata sedicimila ducati. Questi li darò ancor a lei, ma con un poco di tempo.

RAIN. Il denaro di mia nipote lo tengo io. S'ella è contenta dei sedicimila ducati, faremo un giro e due contratti.

PANC. Ed io a lei li assicurerò sopra i miei effetti.

GIANN. Le disposizioni di due uomini quali voi siete, non ponno essere da me che approvate.

GIAC. Monsieur Rainmere e mio padre sono due persone che ci amano veramente. Io sono l'ingrato, chiedo all'uno e all'altro perdono...

PANC. Tutto è accomodato. Figlio, lascio che tu parta. Mi strappi il cuore, ma il ciel volesse che prima d'ora t'avessi allontanato. Quando i figliuoli non riescono bene nella loro patria, convien farli mutar cielo. Le pratiche li rovinano, le occasioni li precipitano, e la facilità del padre che vi rimedia, dà loro il modo di far del male. Padri, specchiatevi in me: invigilate sopra la condotta de' vostri figliuoli, poiché il troppo amore li rovina; e chi sa tenere i suoi figliuoli in dovere, in soggezione, in buona regola, è felice, è fortunato, e gode in sua vecchiezza il maggior bene, il maggior contento, che dar si possa nel mondo.

Fine della Commedia

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1 Edizione magnifica del 1748, si vende da Francesco Pitteri in Venezia.

2 Luogo in Venezia, situato in Rialto, dove i mercanti si radunano ecc.

3 Fondamenta dicesi in Venezia una strada lungo il canale.