I morbinosi

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I MORBINOSI

di Carlo Goldoni

La presente Commedia, di cinque Atti in Versi Martelliani, fu per la prima volta rappresentata in

Venezia nel Carnovale dell'Anno .

A CENTO E VENTI

GALANTUOMINI

E BUONI AMICI

A Voi, Onoratissimi Signori e Cordiali Amici, dedico questa mia Commedia, poiché Voi stessi me ne avete somministrato l'idea, e dalla vostra amabile Compagnia ne ho tratto il principale argomento. Ricordatevi di quel lieto giorno, in cui raccolto il numero di cento e diciannove Compagni, faceste a me l'onore di compiere il cento e venti; e raunatici alla Giudecca, tutti ad una tavola, al suono di trombe e timpani si diede una solenne mangiata. Non è cosa così ordinaria unire in un giorno sì vasto numero di comensali. Sarebbe facile averli, se alcuno con liberalità gli invitasse, ma pare un poco difficile trovar cento e venti che paghino la loro quota. Ci vuole un uomo alla testa, conosciuto, amato e stimato; pratico di tai partite; abile alla direzione, e armato di sofferenza cortese. Noi lo abbiamo trovato, Voi lo sapete, e ne restammo perfettamente contenti. Con quale armonia, con quale tranquillità si passò una sì bella, una sì gioconda giornata! Dicasi a gloria della nostra nazione, cento e venti persone, per li due terzi almeno della gioventù più brillante, osservare sì esattamente la più rigorosa moderazione è cosa degna di lode, e lo stesso divertimento diviene un merito, ed un buon esempio. Vero è che non vi erano Donne. Se vi fossero state di queste belle sollevatrici del nostro spirito, non so se l'armonia, se la concordia si fosse fra di noi mantenuta. Non avrei dubitato della loro prudenza, ma della nostra.

Per formare questa Commedia ho dovuto introdurvi le Donne. Osservate, per altro, che non le ho introdotte alla tavola. Bacco è troppo amico di Venere. Ho vissuto anch'io in questo Mondo; non sono ancora fra' morti, e so qual effetto può produrre la tavola fra persone di vario sesso. Non parlo della intemperanza, non di quelli che, alterati dal vino, perdono la ragione, ed agiscono come puri animali. M'intendo di una certa tenera confidenza, di una certa libertà che inspira la tavola, della comoda vicinanza all'oggetto, delle finezze che si cambiano e si permettono, delle attenzioni a tempo, delle barzellette allegoriche dall'allegria inspirate, dell'effetto de' cibi, della soavità de' liquori, dell'umanità in cimento. Colà è dove le brutte paiono meno brutte, e le belle più belle; dove brillano le spiritose; dove si arrendono più facilmente le sciocche; dove il cuore s'impegna, e l'occasione si medita. Guai se vi si meschia la gelosia! Guai se l'amante prende a sospettar dell'amico! Guai se la Moglie adocchia il Marito! Guai se i piedi, che non hanno occhi, s'ingannano! Qual orrore, quale scompiglio in cento e venti persone! Grazie al Cielo, noi siamo stati come tanti angioletti, e mi ricordo che avete voluto collocarmi in capo di tavola. perché fossi a portata di veder tutto, e raccogliere tutto ciò che mi paresse a proposito per una Commedia. Ma vi siete condotti con tanta moderazione e contegno, che ho avuto motivo di edificarmi, e se ho voluto soddisfare all'eccitamento che dato mi avete di scrivere una Commedia, ho dovuto inventare degli Episodi, stranieri affatto alla verità della nostra conversazione. Comunque siasi, la Commedia è fatta; ella però nel titolo vi appartiene, e a Voi la dedico e la consacro.

Il Vostro Umiliss. Servitore ed Amico Carlo Goldoni


L'AUTORE A CHI LEGGE

Questa è una Commedia fatta unicamente per divertire. L'argomento è spiegato dalla lettera precedente, e la Commedia istessa ne rende conto. Qualche episodio l'adorna, un poco di critica la condisce, non è nuda affatto di caratteri e di accidenti. Pure, l'hanno rappresentata in Venezia, che io non ci era, e mi hanno scritto che è andata male. Ci sarebbe pericolo, che i Comici non l'avessero posta in iscena con quegli adornamenti che sono accennati, e dalla esecuzione de' quali può molto dipendere la riuscita? Mi è stato detto, che la tavola era mal regolata, che lo spettacolo delle gondole e delle barche in tempo di notte, alla fine della Commedia, era meschino, era miserabile. Vi sono delle Commedie che si sostengono da se stesse. Ve ne sono di quelle che hanno bisogno d'aiuti. Questa è una delle più bisognose. Povera per se stessa e abbandonata da' Comici, non è maraviglia che sia caduta. L'ho riletta per altro con attenzione, non sono affatto scontento, mi pare che doveva essere un poco men sfortunata. Può essere ch'io m'inganni, ed invito il Pubblico a giudicarla.

Personaggi

BRIGIDA cantatrice.

OTTAVIO romano.

LELIO toscano.

GIACOMETTO.

TONINA moglie di Giacometto.

FELIPPO.

ANDREETTA.

BETTA.

CATTE.

ANZOLETTA.

TONI.

Un SONATORE che parla.

Sonatori che non parlano.

 Barcaroli da gondola diversi.

 Barcaroli da peota.

Servitori.

La Scena si rappresenta in Venezia.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Fondamenta della Zuecca colla veduta del Canale

Sior Felippo e sior Andreetta

AND.                Cossa diseu, compare? aveu mai più sentio,

Che s'abia un'altra fraggia come la nostra unio?

Ste sorte de spasseti pochi li sa trovar;

Cento e vinti compagni saremo a sto disnar.
FEL.                  Cento e vinti compagni unii così a la presta;

No ghe voleva altro, che quela bona testa.

Come quel nostro amigo, no ghe ne xe nissun.

E quelo che più stimo, a un ducato per un.

No se pol spender manco.
AND.                                                           Ve digo ben, ve digo,

Che el nostro sior Lunardo s'ha tolto un bel intrigo.
FEL.                  El xe un omo de garbo; el farà de pulito;

No v'indubitè gnente so quelo che el m'ha dito.

E po co no gh'è done, se sta come se puol.

Ma co ghe xe carpete, le vol quel che le vol.
AND.                Disè ben, sior Felippo, gh'è manco sugizion;

Ma le done in sti casi, credeme, le par bon.

Mi me contenterave de star anca a dezun,

Se gh'avessimo tuti una dona per un.
FEL.                  Che diavolo diseu? cento e vinti sotane?

No se sentiria gnanca a sonar le campane.

A unir tute ste done el saria stà un stramboto;

I diria a la Zuecca, che ghe xe el taramoto.
AND.                Via, se no cento e vinti, almanco una trentina.

FEL.                  Pezo, caro Andreetta; ti è mato sta matina.

Tuti arente de lori vorave i più bei grugni:

Se farave regata; se se daria dei pugni.
AND.                No digo che le fusse done da strapazzar.

Le muggier, le cugnae se poderia menar.

Staressimo più aliegri.
FEL.                                                       No, xe meggio cussì.

In compagnia le done le me piase anca a mi;

Ma saressimo tropi.
AND.                                                  Eh t'ho inteso, baron.

Le te piase le done, co ti le gh'ha in scondon.
FEL.                  No tanto co fa ti; ma poco manco.

AND.                                                                       Orsù,

Ancuo no gh'è remedio, no ghe pensemo più.

Sémio deboto uniti? Che ghe ne manca assae?
FEL.                  Ho visto fin adesso, dopo de mi arivae


Disdoto o vinti gondole.

AND.

Dove xeli sti siori?

Andemose un pocheto a devertir con lori.

FEL.

Ho visto che diversi i s'ha messo a zogar.

Ghe n'ho visto dei altri per orto a spazzizar.

Qualchedun s'ha liogà in ste case vicine,

A devertir un poco ste bele Zuecchine.

AND.

Voggio andar anca mi.

FEL.

Ma va là, che ti è belo.

Ti xe sempre in borezzo, e no ti xe un putelo.

Quando fastu giudizio? Me par che saria ora.

Ti xe deboto nono, e ti fa el mato ancora?

AND.

Del nono e de la nona mi no me togo affani,

Me par giusto de esser ancora de vint'ani.

E se restasse zovene, me sposeria doman,

Ma ti de casa mia ti staressi lontan.

FEL.

Ti ha rason... Una gondola.

AND.

Vienla da nu?

FEL.

Me par.

AND.

Chi gh'è drento?

FEL.

No so.

AND.

Vardemo a desmontar.

SCENA SECONDA Arriva una gondola, dalla quale sbarca sior Giacometto.

AND.

Oe; xe qua Giacometto. (a Felippo)

FEL.

Bravo, compare, bravo. (a Giacometto)

GIA.

Ve saludo, Felippo. Schiavo, Andreetta, schiavo.

Sémio deboto tuti?

AND.

Tuti gnancora no.

Ghe ne manca dei altri.

FEL.

Andeve a cavar zo.

GIA.

Sior Lunardo ghe xelo?

FEL.

Se lo volè trovar,

Lo troverè in cusina.

GIA.

In cusina? a che far?

FEL.

No saveu, poverazzo? el xe tanto impegnà,

Che el vol esser per tuto a veder quel che i fa.

AND.

Se vedessi che tola, che el ne fa parecchiar!

GIA.

Ma tuti cento e vinti ghe poderemio star?

AND.

Tuti insieme. Gh'è un portego, che el par fabricà a posta,

E vederè un parecchio, che no ghe xe resposta.

Fina i soni gh'avemo.

GIA.

Bela conversazion!

AND.

E quel che se considera, tuto per un lion.

GIA.

Arriva un'altra gondola.

FEL.

Saveu chi ghe sia drento?

AND.

No so, no lo cognosso.


SCENA TERZA

Arriva un'altra gondola, con dentro Lelio.

GIA.

El xe guarnio d'arzento.

AND.

El xe quel forestier, che va al caffè del Pomo.

FEL.

Chi l'averà invidà?

AND.

No so da galantomo.

GIA.

Lo saverà Lunardo. Elo gh'ha l'incombenza.

LEL.

Padroni riveriti.

AND.

Ghe fazzo reverenza.

GIA.

Ne vienla a favorir?

AND.

Xela dei nostri?

LEL.

È qui

La compagnia famosa del desinar?

AND.

Sior sì.

LEL.

Anch'io fra i cento e venti ebbi il grazioso invito.

GIA.

Tuta nostra fortuna.

LEL.

Son io il favorito.

Ehi, ci son donne?

FEL.

Oibò.

GIA.

Done no ghe ne xe.

AND.

Mo no xelo un matezzo? (a Lelio)

LEL.

Pare così anche a me.

FEL.

La me creda, signor, staremo meggio assae.

Con tropa morbidezza le vol esser tratae.

Sta cossa ghe fa mal, st'altra no la ghe piase.

Cussì da nostra posta se goderemo in pase.

AND.

La ne fazza l'onor de dirne chi la xe. (a Lelio)

LEL.

Io sono un galantuomo; son cognito al caffè.

Sto vicino alla Piazza. Lelio dal Sol mi chiamo.

Viaggio per divertirmi, e l'allegria sol bramo.

GIA.

Bravo; cussì me piase.

FEL.

Viva pur l'allegria.

AND.

Un zorno malinconico no son stà in vita mia.

SCENA QUARTA

Arriva un'altra gondola con dentro il signor Ottavio.

GIA.                  Vardè là un'altra gondola.

AND.                                                           Sior Ottavio el me par.

FEL.                  Sì ben, l'è giusto elo.

AND.                                                  Andémolo a incontrar. (si accosta alla riva)

LEL.                  Quel diavolo d'Ottavio certo ha una gran fortuna,

Ha cento donne intorno, io non ne trovo alcuna.

Ho piacere davvero, che oggi ne siamo senza.

(Se mi facesse stare, non avrei sofferenza). (da sé)
OTT.                  Ah ci siete ancor voi? (a Lelio, con allegria)


LEL.                                                       Sì, signor. Vi saluto.

OTT.                  Cos'avete con me, che fate il sostenuto?

AND.                Siori, nu semo qua per star allegramente.

Gh'hai qualcossa tra lori?
OTT.                                                             Oibò, non abbiam niente.

Lelio è mio buon amico, coltiva un amoretto,

E suo rival mi crede.
LEL.                                                    Lo vuol far per dispetto.

OTT.                  Non è vero, signori. Credetemi sul sodo,

Che talvolta gli amici far taroccare io godo.

Ma son poi di buon cuore; son sì cortese e umano,

Che per un buon amico farei anche il mezzano.
LEL.                  Sì, del vostro buon cuore son certo e persuaso;

Ma farebbe per lui, quando si fosse al caso.

Finor quattro signore ch'eran da me trattate,

Me le ha politamente tutte quattro levate.
OTT.                  Davver mi fa da ridere. Sentite, se mi preme

Che siam fra Lelio ed io due buoni amici insieme.

So che a una certa vedova egli facea la posta;

Sono andato stamane a ritrovarla apposta.

E non ci sono andato con altro sentimento,

Che per parte di Lelio a farle un complimento.
LEL.                  Sentite? ei mi beffeggia.

AND.                                                        Cari patroni, a monte.

FEL.                  Co se trata de done, le tàcole xe pronte.

Manco mal, che sta volta done no ghe n'avemo.
AND.                Oe, vien una peota.

GIA.                                                 Chi ghe sarà?

FEL.                                                                         Vardemo.

OTT.                  Saranno i sonatori.

GIA.                                                 Sì, per diana de dia.

Sta matina magnemo al son de sinfonia.

SCENA QUINTA

Arriva una peota, dalla quale sbarcano vari sonatori coi loro strumenti, cioè violini, violoni e corni

da caccia.

AND.               Ben venuti, patroni.

SON.                                                Patroni reveriti.

GIA.                Animo, che deboto credo che siemo uniti.

SON.                Semo qua per servirle.

FEL.                                                       Andeve a despoggiar.

AND.               Andè desuso in portego, e principiè a sonar.

GIA.                E menèghe de schena.

AND.                                                     E ai corni deghe fià.

FEL.                 Non v'indubitè gnente, del vin ghe ne sarà.

SON.                Li avemo sta matina lustrai con de la gripola.

Subito, andémo a farghe una sonada in tripola.

AND.               Mi credo che deboto saremo più de cento.

Cossa stemio a far qua? Voleu che andemo drento?


GIA.

Andémo pur, mi vegno dove che me menè.

LEL.

Andiamo. (incamminandosi)

OTT.

Io son con voi. (a Lelio, seguitandolo)

LEL.

Perché venir con me?

Non potete andar solo? tant'altri non vi sono?

Statemi da lontano, ve lo domando in dono.

OTT.

Cosa dite, signori? da ridere mi viene.

Ei non mi può vedere, ed io gli voglio bene.

LEL.

Non vi voglio dappresso; l'ho detto, e lo ridico.

Del ben che mi volete, non me n'importa un fico.

Voi andate al casino; io vado in altro loco.

Fino all'ora del pranzo vo' divertirmi un poco. (parte)

OTT.

È bellissima in vero, pare che siam nemici,

E pur ve l'assicuro, che siam due buoni amici.

Talor si caccia in testa di non volermi appresso,

Talor, quand'io nol curo, viene a cercarmi ei stesso,

Ha gelosia di me, poi viene a confidarmi

Le avventure amorose, ed io soglio spassarmi,

E gli so dar da intendere cento bestialità;

E talor si riscalda. È bello in verità.

Chi sa che cosa rumina quella sua mente insana.

Voglio tenergli dietro, bel bello, alla lontana.

GIA.

No voria che sti siori...

AND.

Zito, zito; stè atenti.

Prencipia i sonadori a accordar i istrumenti.

FEL.

Godémoli un pocheto, e po dopo anderemo.

GIA.

Cossa diseu, che gusti?

AND.

Cussì se la godemo.

(Si sente una sinfonia con corni da caccia, la quale si suonerà in orchestra)

GIA.

Bravi, bravi dasseno.

FEL.

Sì ben; ghe xe del bon.

AND.

Lunardo xe un gran omo.

GIA.

Se pol dir omenon.

FEL.

A unir sta compagnia poco non gh'ha volesto.

GIA.

E tuti galantomeni; tuta zente de sesto.

FEL.

Tuti amici de cuor, de quei che no xe finti.

AND.

Evviva sior Lunardo.

GIA.

Evviva i cento e vinti. (partono)

SCENA SESTA

Anzoletta, Betta e Catte zuecchine.

ANZ.

Pute, cossa diseu de sta bela matada?

BET.

Cossa mai xe sta cossa? gran zente xe arrivada.

CAT.

Ghe xe qualche novizza?

ANZ.

Oibò.

CAT.

Ho sentio i soni.

ANZ.

I vol magnar coi piffari.

CAT.

Mo vardè che matoni!

BET.

Figureve che roba che i gh'averà a disnar.


Pute, pute, diseme. Che li andémo a spionar?
CAT.                 Del disnar no ghe penso. Mi gh'ho gusto co i sona.

BET.                  E quei boni bocconi? Oh povera minchiona! (parte)

Figureve che torte! a mi no me ne toca.

Me sento propriamente che me vien l'acqua in boca.
CAT.                 Se andessimo de su, no i ne daria qualcossa?

ANZ.                 Sì ben! andè dessuso! l'avè ben dita grossa.

Sti siori veneziani subito i vol licar.
BET.                  Cossa gh'aveu paura, che i ve voggia magnar?

ANZ.                 E po, se no i vol done!

BET.                                                       Oh poveri putei,

Se gh'andessimo nu, i se licherave i dei.
ANZ.                 Mi no ghe vado certo.

CAT.                                                      Oh gnanca mi, sorela.

ANZ.                 I sarà più de cento.

BET.                                                 Aseo!

CAT.                                                         Una bagatela!

BET.                  Se ghe ne cognossesse almanco qualchedun,

No vorave seguro che stessimo a dezun.
ANZ.                 Ghe ne cognosso tanti. Ghe xe sior Giacometo.

CAT.                 Quel che vien qua la festa?

ANZ.                                                            Sì ben, quel picoleto.

CAT.                 Una volta el voleva sempre parlar con mi.

Ma Toni xe andà in colera, e no ghe parlo pi.
BET.                  Cossa gh'astu paura?

CAT.                                                   Se el savesse che parlo,

Povereta mai mi; no, no vôi disgustarlo.
BET.                  Te pòrtelo mai gnente?

CAT.                                                      Co el ghe n'ha, poverazzo,

El me compra dei fiori, squasi ogni festa un mazzo.
BET.                  Vardè che gran cazzada!

CAT.                                                         Cossa m'alo da dar?

BET.                  Mi, co fava l'amor, voleva da magnar.

Tuto me comodava, nose, pomi, zaleti,

Ma co no i dava gnente, musoni maledeti.
ANZ.                 Mi mo son sempre stada de un'altra qualità:

Co ghe n'ho bu, ai morosi mi ghe n'ho sempre dà.

Mio sior pare a l'ingrosso el fava provision,

E mi sempre qualcossa portava via in scondon.

M'arecordo una volta mia mare povereta

La m'ha trovà un persuto sconto soto la piéta.

L'ha volesto saver... no so, mi m'ho confuso,

E la m'ha lassà andar una man in tel muso.
BET.                  Oh, a mi mo per ste cosse, ve zuro in verità

Che da mia siora mare no me xe mai stà dà.

In casa mia, sorela, no ghe xe stà vadagni,

Ma non ho mai volesto de quei che scalda i scagni.
CAT.                 Oe, vardè, un'altra gondola.

BET.                                                                No i ha fenio gnancora?

ANZ.                 No ghe xe miga un omo. Gh'è drento una signora.


SCENA SETTIMA Arriva un'altra gondola, da dove sbarca Tonina.

TON.

Sioria, pute.

BET.

Patrona.

TON.

Saveu dove che sia

La casa dove ancuo se magna in compagnia?

ANZ.

Siora sì. La xe quela; ma no se pol andar.

TON.

Perché?

ANZ.

Perché con lori no i vol done a disnar.

TON.

Ma credeu che là drento no ghe ne sia nissuna?

ANZ.

Oh siora no, dasseno, no ghe n'è gnanca una.

TON.

Vardè, no me burlè.

BET.

Gh'ala qualche sospeto?

TON.

Me vorave fermar. Gh'avaressi un liogheto?

BET.

Ala disnà gnancora?

TON.

Mi no.

BET.

Vorla disnar?

Che la vegna da mi; ghe l'anderò a comprar.

Ghe farò una fortaggia. Conzerò la salata;

Gh'ho de la latugheta, tenera, nome nata.

Che la resta servida, la menerò in te l'orto.

Se vorla devertir? No la me fazza torto.

TON.

(Certo sta gran premura, che ha mostrà Giacometo,

De vegnir coi amici, m'ha messo in tun sospeto.

No credo, se no vedo, che done no ghe sia.

Alfin son so muggier, posso aver zelusia). (da sé)

Andémo; son con vu. (a Betta, e parte)

BET.

Che la resta servida.

La servirò pulito, se de mi la se fida.

Pute, cossa diseu? Anca questa xe bona.

Se la vorà magnar, oe, no sarò minchiona.

ANZ.

Eh, la sa far pulito. (a Catte)

CAT.

Chi xe mai sta signora?

ANZ.

Vàtela a cata ti. Mi no lo so gnancora.

CAT.

Che la sia una lustrissima?

ANZ.

Mi no so in verità;

Ma anche de le lustrissime ghe n'è da bon mercà.

CAT.

Ti disi ben, sorela. No le gh'ha pan, gramazze,

E el lustrissimamento el va per le scoazze.

ANZ.

E che spuzza!

CAT.

E che fumo!

ANZ.

Che aria maledeta!

A revéderse, Cate. (parte)

CAT.

Bondi sioria, Anzoleta. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Camera. Brigida, poi Toni

BRI.                  Cossa mai xe sta cossa? mo cossa mai vol dir,

Che sto sior conte Anselmo no lo vedo a vegnir?

Per devertirme un poco el me fa vegnir qua,

El va via, e no lo vedo; che el m'avesse impiantà?

No crederave mai. La sarave un'azion

No miga da un sior conte, ma da un poco de bon.

Vien el puto dasseno, el me saverà dir

Se el l'ha catà gnancora, se el se vede a vegnir.
TONI                Patrona reverita.

BRI.                                              E cussì?

TONI                                                           Ho caminà

Per tuta la Zuecca, sto sior no l'ho trovà.

Ho domandà al tragheto; a qualchedun ghe par

Che un foresto a Venezia s'abia fato butar.

Gh'ho dito se el gh'aveva i cavei longhi e scuri;

I ha dito che ghe par, ma che no i xe seguri.
BRI.                  Ma coss'oggio da far?

TONI                                                     No so, da servitor.

Se la vol una barca, mi ghe la vago a tor.
BRI.                  E po?

TONI                          Mi no so altro.

BRI.                                                    E po cossa faroggio?

TONI                (Bisogna, a quel che sento, che ghe sia de l'imbroggio).

BRI.                  No me credeva mai, che el me fasse sto trato.

Proprio el m'ha sassinà.
TONI                                                     Mo cossa gh'alo fato?

BRI.                  Gnente, gnente.

TONI                                         La diga. A mi la se confida.

Son un puto onorato. Son Toni da la Vida.

No la creda che voggia... Sior sì, se la m'intende,

Mi bado ai fati mii, no tendo a ste fazende,

E po gh'ho la mia Cate che presto ho da sposar;

Via, cara siora Brigida, la se pol confidar.
BRI.                  Vardè là che bel fusto. Disè, caro patron,

Credeu fursi che sia qualche poco de bon?

Un fio de un ortolan me parla in sta maniera?

Me par che le persone se cognosse a la ciera.
TONI                Xela una zentildona?

BRI.                                                    A vu mi no ve digo

Chi son, né chi no son.


TONI                                                     No me n'importa un figo.

Quel che la xe, patrona, mi lasso che la sia;

Ma che la se destriga, e che la vaga via.
BRI.                  Come! me descazzè? Seu fursi vu el paron?

TONI                Mio sior pare xe un omo, che no vol sugizion.

Deboto el vien a casa, e quando el vegnirà,

La sentirà sior pare cossa che el ghe dirà.

La sarave ben bela! i vien a domandar

Che i se lassa un pocheto per orto a spazzizar.

Quel sior ne vien a dir, ve prego sta signora

Custodir un pocheto, torno da qua mezz'ora.

Xe tre ore che el manca, e nol se vede più;

Nu volemo disnar, vorla disnar con nu?

Nu no femo locanda, nu no femo ostaria,

E no volemo zente che no se sa chi sia.
BRI.                  Mo via, non andè in colera, che ve dirò chi son.

TONI                Se la parlerà schieto, la parerà più bon.

BRI.                  Sior sì, ve dirò tuto, senza che se contenda.

Son una virtuosa.
TONI                                            Vardè, che gran facenda!

BRI.                  Cossa voressi dir?

TONI                                               La diga, cara siora,

Ala cantà a Venezia?
BRI.                                                    A Venezia gnancora.

Giera in qualche tratato; quel che m'ha menà qua,

De cantar in teatro m'aveva sconsegià.

L'ha dito che una dona de la mia condizion,

Ai parenti, a la casa fa torto, e no par bon.

L'ha dito de sposarme. Ma vedo che sto fio,

Dopo tante mignognole, de farlo el s'ha pentio.

Causa mia siora mare. La m'ha fato insegnar

Sto mistier malignazo. Ma mi nol voggio far.

Perché mi, poverazza, vadagno e me sfadigo;

E ela tuti i mi bezzi la i spende co l'amigo.

Tolè, ve digo tuto; vardè se son sincera.

Caro vu, fe de tuto che staga qua sta sera.

In casa da mia mare no ghe voria più andar.

O voggio maridarme, o me vôi retirar.

Aspeto sto sior Conte; spero che el vegnirà.

E se più nol vegnisse, el ciel provederà.
TONI                Mi no so cossa dir, la me fa compassion.

Adesso mo ghe digo, che mi no son paron.

Comanda mio sior pare, ma co lo vederò,

Ghe conterò l'istoria, e lo persuaderò.
BRI.                  Sieu tanto benedeto. Da sto parlar se sente

Che sè un puto de garbo, e no perderè gnente.
TONI                Mi no vôi vadagnar; ma se la resta qua,

Se la vorà disnar, qualcossa ghe vorà.
BRI.                  Mi no gh'ho gnanca un bezzo.

TONI                                                                 La sta fresca, patrona.

No la gh'ha gnanca un bezzo? Cara ela, la perdona;

Sior Conte no gh'ha dà qualche bagateleta?
BRI.                  Oh mi no togo gnente, siben son povereta.


El m'aveva esibio de darme un tanto al dì;

Mi gh'ho dito: sior no. Sposeme, e po sior sì.
TONI                Brava da galantomo. Parlemose tra nu;

L'ha visto el tempo bruto, e nol ghe torna più.
BRI.                  Se el gh'aveva con mi qualche intenzion cativa,

Che el vaga pur al diavolo, e col xe là, che el scriva.

Cossa m'importa a mi del so ben, dei so bezzi?

Son zovene onorata; no vôi sti stomeghezzi.

Se i me dona qualcossa, non uso a refudar,

Ma se i slonga le man, li mando a far squartar.
TONI                Dasseno?

BRI.                                  Sì dasseno.

TONI                                                  Quando la xe cussì,

No i ghe donerà gnente.
BRI.                                                       Cossa m'importa a mi?

Per mi poco me basta.
TONI                                                     E per so siora mare?

BRI.                  Che la ghe pensa ela. Za la gh'ha so compare.

TONI                Me par de sentir zente.

BRI.                                                       Chi xe?

TONI                                                                 No so chi sia. (guarda alla scena)

El xe un de quei siori che disna in compagnia.
BRI.                  Cossa vorlo?

TONI                                      No so.

BRI.                                                    No ghe disè chi son.

TONI                Mi no ghe digo gnente. Cossa vorla, patron? (a Lelio)

SCENA SECONDA

Lelio e detti.

LEL.                  Si può venir?

TONI                                      Sta usanza mi no l'ho vista più.

El domanda se pol, quando che el xe vegnù? (a Brigida)
LEL.                  Servidore umilissimo. (a Brigida)

BRI.                                                       Serva.

LEL.                                                                Mi par foresta.

BRI.                  Sior no, son veneziana.

LEL.                                                       (Che bella donna è questa). (da sé)

TONI                Se pol saver, patron?...

LEL.                                                       Andava un po' a diporto.

Sono entrato qua dentro a passeggiar nell'orto.

Veduto ho la signora, e mi ho preso l'ardire,

S'ella me lo permette, venirla a riverire. (inchinandosi a Brigida)
BRI.                  Mi fa grazia.

TONI                                      Signor, in casa mia

Non se vien da le done, che no se sa chi sia.
LEL.                  Mi faresti un piacere? (a Toni)

TONI                                                     Cossa vorla da mi? (con alterezza)

LEL.                  Dove avete imparato a favellar così?

Andatemi a comprare un'oncia di melato,


Il resto ve lo dono, ecco mezzo ducato.
TONI                (El zergo l'ho capio). (da sé) Semo un poco lontani.

Starò un pezzo a tornar.
LEL.                                                       Stateci fin domani.

TONI                Mo no la va a disnar? deboto sarà ora.

LEL.                  Lascierei mille pranzi per star colla signora.

TONI                Séntela? (a Brigida)

BRI.                               L'ho sentio. No saveria el perché.

LEL.                  Perché voi mi piacete.

TONI                                                     Vorla che vaga? (a Brigida)

BRI.                                                                                  Andè.

TONI                Vago a tor el tabaco. La resta qua con elo.

(Mi no lo voggio perder sto mezzo ducatelo). (da sé, e parte)

SCENA TERZA Brigida e Lelio

BRI.

(Gh'ho bisogno de tuti in tel stato che son;

Ma però che sia salva la mia reputazion). (da sé)

LEL.

Signora mia, perdoni, è sola o accompagnata?

BRI.

Xelo orbo? no védelo?

LEL.

Veramente è garbata.

Posso saper, signora, la vostra condizione?

BRI.

Cossa gh'importa a elo?

LEL.

Ci ho anch'io la mia ragione.

BRI.

Elo, la me perdona, nol gh'ha da far con mi.

LEL.

Non ho che far con voi? potria darsi di sì.

Io sono un galantuomo. Molto voi mi piacete.

E se posso servirvi, dispor di me potete.

BRI.

Grazie, grazie, patron; grazie de sto regalo.

Ela no me cognosse, e la m'ha tolto in falo.

LEL.

Ma di che vi offendete? So il mio dover, ridico;

Desidero soltanto d'esservi buon amico.

Se siete una signora, anch'io son nato bene,

Vi saprò in ogni grado trattar qual si conviene.

Siete voi maritata?

BRI.

No lo so in verità.

LEL.

Ma perché mi volete celar la verità?

BRI.

Gh'oggio fursi sto obligo de dirghe i fati mi?

LEL.

Ma via, cara signora, non parlate così.

Posso saper il nome?

BRI.

Marfisa.

LEL.

Eh, non lo credo.

BRI.

Mo no xelo un bel nome?

LEL.

Scherzate, io me ne avvedo.

Fidar non vi volete della persona mia.

BRI.

Perché m'oi da fidar, se mi no so chi el sia?

LEL.

Lelio dal Sol mi chiamo.

BRI.

Gh'alo muggier?

LEL.

Io no.


BRI.                  Se vorlo maridar?

LEL.                                                 Presto risolverò.

BRI.                  (El me par un bon zovene; de le volte chi sa?

De sti bei accidenti al mondo se ne dà). (da sé)
LEL.                  E voi siete fanciulla?

BRI.                                                    Son puta, patron sì.

LEL.                  Volete maritarvi?

BRI.                                              Ghe penserò anca mi.

LEL.                  Se almen saper potessi chi siete e chi non siete.

BRI.                  (Sto sior, per quel che vedo, el vien presto a le strete;

Ma cussì no me fido). (da sé)
LEL.                                                       Non rispondete ancora?

BRI.                  Risponder a ste cosse xe un pocheto a bon'ora.

Che intenzion gh'averavelo?
LEL.                                                                Intenzion bella e buona.

Mi piace il vostro spirito, mi piace la persona.

Quand'io saprò chi siete, forse mi spiegherò.
BRI.                  Vorla saver chi son? doman ghe lo dirò.

(Spero ancora che el Conte no me lassa cussì). (da sé)
LEL.                  (Appena l'ho veduta, subito mi ferì). (da sé)

Posso goder intanto il piacer di servirvi?

Posso dopo pranzato venire a riverirvi?
BRI.                  Perché no? el xe patron.

LEL.                                                          Vedo da tal bontà,

Che avete un cuor gentile al par della beltà.

Ed io vi userò sempre quell'umile rispetto...

SCENA QUARTA

Ottavio e detti.

OTT.                  Servo di lor signori.

LEL.                                                 (Che tu sia maladetto!)

BRI.                  Cossa vorla, patron?

OTT.                                                    Non son per darvi intrico;

Sono, signora mia, di Lelio un buon amico.

Soggezion non abbiate; so tutti i fatti suoi.

Lelio, buon pro vi faccia. Mi rallegro con voi.
LEL.                  Caro il mio caro Ottavio, se mi volete bene,

Fate il piacer d'andarvene.
OTT.                                                             So quel che mi conviene. (in atto di partire)

BRI.                  Perché el mandelo via? Mi no gh'ho sugizion.

Le visite onorate no le se fa in scondon.

La perdona, sior Lelio, co sto so bel parlar,

De ela e anca de mi la farà sospetar.
OTT.                  Dice ben la signora. (Mi pare e non mi pare

D'averla in qualche loco veduta a recitare). (da sé)

Posso saper chi sia? (a Lelio)
LEL.                                                    Non lo so né men io.

OTT.                  Come! non lo sapete?

LEL.                                                       Nol so sull'onor mio.


L'ho ritrovata a caso. Da lei son ben veduto,

E non vorrei che foste al solito venuto

A far le vostre scene.
OTT.                                                    Anzi giovar procuro

A ogni vostro piacere. (È lei, ne son sicuro).
BRI.                  (Sto sior me par a mi che el gh'abia più de l'omo). (da sé)

OTT.                  Non sapete chi sia? Bella da galantuomo!

Parmi, se non m'inganno, d'averla conosciuta.

Non mi ricordo dove, ma so che l'ho veduta.
BRI.                  La senta una parola. (ad Ottavio)

OTT.                                                 Son qui, che comandate? (a Brigida)

BRI.                  (Dasseno, el me cognosse?) (piano ad Ottavio)

OTT.                                                                (Sì, ma non dubitate). (piano a Brigida)

LEL.                  (Ecco qui, mi perseguita sempre in una maniera).

OTT.                  Mi consolo con voi, se questa cosa è vera. (a Lelio)

LEL.                  Di che cosa?

OTT.                                        (Mi ha detto questa cortese dama...) (piano a Lelio)

LEL.                  (È una dama?) (piano ad Ottavio)

OTT.                                           (Sicuro) (piano a Lelio)

LEL.                                                          (Buono!) (da sé) Come si chiama?

OTT.                  Con licenza, signora. (a Brigida) (La contessa Narcisa). (piano a Lelio)

LEL.                  (Ed a me aveva detto che avea nome Marfisa). (piano ad Ottavio)

BRI.                  No me vergogno gnente de dir quela che son.

Ma trovarme qua sola, lo so che no par bon.
LEL.                  No, signora Contessa, non stia a rammaricarsi.

BRI.                  Dìsela a mi, patron?

OTT.                                                    Non occorre celarsi;

Io son dei buoni amici un amico fidato.

L'esser suo, mia signora, a Lelio ho confidato.

Anch'egli è nato bene, e certo non saprei

Trovarne un altro simile, che convenisse a lei.
BRI.                  Me burlela, signor?

OTT.                                                 Dico la verità.

LEL.                  Un amico sincero in me ritroverà,

Un servitor fidato, umile e rispettoso.
OTT.                  E se saprete fare, forse un tenero sposo. (a Brigida)

BRI.                  (Come xela st'istoria?) (da sé)

LEL.                                                       Lo so che non son degno,

Ma ad incontrar son pronto ogni più grande impegno.

Ottavio sa chi sono.
OTT.                                                 Certo, signora sì.

LEL.                  (Possibil ch'io non trovi da maritarmi un dì?)

BRI.                  Se el disesse dasseno?

LEL.                                                       Per me, non so mentire.

OTT.                  Lelio è un giovin di garbo; quel che è ver, si ha da dire.

È ricco, è senza padre, è amabile, è giocondo.
BRI.                  (El sarave un negozio el più bel de sto mondo). (da sé)

SCENA QUINTA

Giacometto e detti.


GIA.                  Cossa feu qua, patroni? andémo, che i ne attende.

OTT.                  Cosa dite di Lelio? (accennando Brigida)

GIA.                                                 Roba sóa? (ad Ottavio, accennando Lelio)

OTT.                                                                   Ci s'intende.

GIA.                  Bravo, compare Lelio. Anca mi scambieria

Cento e vinti compagni per sta tal compagnia.
LEL.                  Lo sapete chi è?

GIA.                                           Mi no.

LEL.                                                       È una contessa.

GIA.                  Dasseno?

LEL.                                  Domandatelo. (a Giacometto, accennando Ottavio)

OTT.                                                          Posso attestar per essa.

GIA.                  Cossa fàvela qua sola senza nissun? (a Brigida)

BRI.                  Oggio mo i mi interessi da dirli a un per un?

LEL.                  Basta che io li sappia.

OTT.                                                    Ed ancor io li so.

GIA.                  E a mi gnente, gramazzo.

LEL.                                                          Ed a voi, signor no.

GIA.                  Me despiase che a tola done no i ghe ne vol.

Che la vegna; faremo tuto quel che se pol.
BRI.                  No no, sior paronzin, ghe son tanto obligada.

Sola con tanti omeni? la xe una baronada.

Me maraveggio gnanca, che el me la vegna a dir.
OTT.                  Sentite? vostro danno. (a Giacometto)

GIA.                                                       La prego a compatir.

Ho dito quel che ho dito senza pensarghe su.

Dopo d'aver disnà, vegniremo qua nu.
OTT.                  Ma, signor Giacometto, così non si favella,

Lelio è il sol possessore del cuor di questa bella.

Egli non vuol nessuno, lo so di certa scienza,

E di venirvi, al più, avrò io la licenza.

LEL.

Né anche a voi nol concedo. (a Ottavio)

GIA.

Sentìu? (ad Ottavio)

OTT.

Perché tal cosa? (a Lelio)

Possibil che per me siate così ritrosa? (a Brigida)

Non volete ch'io venga? siete crudel così? (a Brigida)

BRI.

Che el vegna pur.

GIA.

Sentìu? vôi vegnir anca mi. (a Lelio)

SCENA SESTA

Andreeta e detti.

AND.

Presto, che se dà in tola.

BRI.

(Deboto i vien qua tuti). (da sé)

AND.

Cossa xe sto negozio? Oe, principieu dai fruti? (ai tre compagni)

GIA.

Lelio gh'ha de sti tòcchi. (ad Andreeta)

OTT.

Non vuol che gli si guardi.

GIA.

E a nu no ne ne tocca.

AND.

Cossa sémio, bastardi?


BRI.

Cossa voleu da mi?

AND.

Semo tuti golosi.

BRI.

Voleu che ve la diga, che sè i gran morbinosi?

AND.

Sior Lelio.

LEL.

Che volete?

AND.

Se la volè menar,

Serrada in t'una camera la poderia restar.

Mi che son quel che trinza, ghe manderò el bisogno.

LEL.

Se volete venire... (a Brigida)

BRI.

Oh sior no, me vergogno.

OTT.

Ma via, cara Contessa...

AND.

Contessa? bisinele!

Co gh'è de ste signore, no ghe vol bagatele.

Come xela qua sola?

BRI.

Za me l'ho imaginada,

Che el me dava anca elo la solita secada.

Ghe son, perché ghe son, cossa gh'importa a lu?

AND.

No la se scalda el sangue, che mi no parlo più.

SCENA SETTIMA Felippo e detti.

FEL.

Via, no ve fe aspetar. I ha messo suso i risi.

Cossa vien qua ste femene per intrigarne i bisi?

BRI.

Quel sior la civiltà nol l'ha imparada tropo.

OTT.

Colle donne, signora, Filippo è misantropo.

BRI.

Nol par mai venezian.

FEL.

Son venezian, patrona.

Né son gnanca de queli taggiadi a la carlona.

Co le done xe bele, antipatia no gh'ho.

Le me piase anca a mi, ma per ancuo, sior no.

LEL.

Non si potria condurla in qualche appartamento?

OTT.

Questo potrebbe farsi.

GIA.

Mi per mi me contento.

FEL.

La diga, cara ela. Chi xela? (a Brigida)

BRI.

Velo qua.

El vol saver chi son.

FEL.

Mo la saria ben bela...

GIA.

V'oi da dir chi la xe? la xe una mia sorela.

FEL.

Se l'è vostra sorela, mi ve digo cussì...

SCENA OTTAVA

Tonina e detti.

TON.                 Bravo, signor consorte.

GIA.                                                       (Oh povereto mi!)

TON.                 Se me fa anca de queste? cussì con mi tratè?


Dirme i xe tuti omeni, done no ghe ne xe?

E vualtri, patroni, che me l'avè desvià,

No avè per le muggier gnente de carità?
FEL.                  Da nu no ghe xe done, vel digo e vel mantegno.

Chi ha ordenà sto disnar, l'ha fato con inzegno.

Ma se i le va a cercar, cossa gh'intremio nu?

Mandarave le femene a casa de colù.

Per mi vago a disnar. Vegna chi vol vegnir.

E chi no vol, bon viazo; mi no voggio immatir. (parte)
AND.                Andémo, cari siori, no se femo aspetar.

Tuti a nome per nome Lunardo ha da chiamar.

S'ha da passar rassegna, su de una scala sola,

E po tuti per ordene s'ha da sentar a tola.

Anca a mi qualche volta me piase sti bei visi,

Ma adesso vôi andar a far l'amor coi risi. (parte)
TON.                 Andè, che podiè andar, fin che ve chiamo indrio.

GIA.                  Anca mi voggio andar.

TON.                                                      La diga, sior mario,

Chi xela sta signora?
BRI.                                                    Oh per diana de dia,

Deboto me vien caldo: chi crédela che sia?
TON.                 So sorela no certo.

BRI.                                                 Son zovene onorata,

E qua con so mario no vegno a far la mata.

No lo gh'ho gnanca in mente. De lu no so che far;

El so caro mario la se lo pol petar. (parte)
LEL.                  Lasciatevi servire. (in atto di seguitarla)

OTT.                                                 No, no; fate una cosa. (lo trattiene)

Pacificate in prima lo sposo con la sposa.

Voi dileguar potete tutti i sospetti suoi.

Se la signora è sola, la servirò per voi. (parte)
LEL.                  (D'Ottavio non mi fido; voglio andar io con lei;

Non vo' che me la levi). (da sé) Schiavo, signori miei. (parte)
TON.                 Chi èla quela petegola? (a Giacometto)

GIA.                                                       Zito, la xe contessa.

TON.                 Cossa m'importa mi, se la fusse duchessa?

Parlo con vu, sior sporco, che ve sè andà a inventar

Che l'è vostra sorela.
GIA.                                                    Ho fato per burlar.

TON.                 Ai omeni ste burle in testa no le vien,

Quando che a so muggier dasseno i ghe vol ben;

Ma mio mario per mi nol gh'ha né amor, né stima;

El me fa de sti torti, e no la xe la prima.
GIA.                  (E no la sarà l'ultima). (da sé)

TON.                                                   Coss'è? no respondè?

GIA.                  Cossa v'oi da responder? mi lasso che disè.

Se avesse da parlar, ve poderave dir

Che qua assolutamente no dovevi vegnir.

Che una dona civil, consorte de un par mio,

No va a far de ste scene in fazza a so mario.

Torné a montar in gondola, batèvela, ma presto;

Parleremo sta sera, e ve dirò po el resto.

Se vegno a devertirme, se stago alegramente,


A casa mia, parona, ve lassio mancar gnente?
Ho speso el mio ducato. No lo vôi butar via,
No vôi per causa vostra star in malinconia.
Quanto me par e piase vôi rider e burlar.
Animo, a casa vostra, e no me stè a secar. (parte)
TON.                 Finzerò de andar via, ma tornerò a la riva.

No, no ghe voggio andar, se i me scòrtega viva.

So sorela? baron; vôi véderla a fenir.

Gh'ho una smania in tel cuor, che me sento a morir.

Oh povere muggier, credèghe a sti baroni.

Oh ghe ne xe pur pochi dei marii che sia boni.

Co i xe arente, i ne dise vissere, vita mia,

E co i ne xe lontani, bona sera sioria. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Sala con tavola dei .

La tavola formerà un T, cioè in fondo alla scena, vicino al prospetto di camerone, sarà lunga da un

capo all'altro, entrando di qua e di là nelle quinte, per fingere che sia di  persone. A mezzo

della tavola ne sarà attaccata un'altra che forma la gamba del T, e questa verrà innanzi verso i

lumini, cioè fin dove si potrà mettere fra un tendone e l'altro; se la camera avanti fosse stata

indietro, si potrà calare un tendone fra l'atto, per preparare la tavola. In faccia saranno i

personaggi muti, parte colla faccia e parte colla schiena al popolo. In quella che viene avanti, si

metteranno i personaggi che parlano di qua e di là. Alla prima scena ai lumini, di qua e di là, vi

saranno due porte di camera con portiere. Si avverte che la tavola sia un poco in declivio, acciò sia

goduta, e di mettere otto candele, benchè sia di giorno, potendosi tollerare questa improprietà per

non perdere affatto la scena per l'oscurità. Sopra la tavola vi vorranno vari piatti, e si può fingere

che siano ai frutti. Vi saranno delle bottiglie, dei rosoli, e poi a suo tempo il caffè.

AND.                Amici da levante, a la vostra salute. (beve)

GIA.                  Amici da ponente, viva le bele pute. (beve. Tutti gridano evviva)

OTT.                  Lelio, evviva. (col bicchiere in mano)

LEL.                                        Chi viva?

OTT.                                                       Evviva la Contessa.

LEL.                  Viva, viva di core. Oh se ci fosse anch'essa!

FEL.                  Senza le done in boca, no i sa star un momento.

Viva chi ha procurà sto bel divertimento.
GIA.                  Evviva sior Lunardo, che n'ha tratai da re.

AND.                Viva quel bon amigo.

FEL.                                                    Sonadori, soné.

(L'orchestra suona una patrte di sinfonia allegra, con i corni da caccia e colle

trombe)
AND.                Mi ho magnà ben, compare. (a Giacometto)

GIA.                                                                Semo stai ben tratai.

LEL.                  Gran sfarzi nella tavola per me non ci trovai.

FEL.                  Per mi son contentissimo, e la rason xe questa:

Cossa voleu de meggio per un ducato a testa?

I primi cinque piati i è stai sontuosonazzi;

Certo che in ti segondi no ghe xe stà gran sguazzi.

Ma misurando ben la spesa co l'intrada,

Me par che abiemo fato una bona zornada.
GIA.                  Gran risi!

AND.                                E quela sopa?

OTT.                                                          La carne era squesita.

FEL.                  Che castrà! che fritura! Mi ghe andava de vita.

GIA.                  Quele quatro moleche no gièrele perfete?

AND.                I s'ha desmentegà de taggiarghe le ongiete.

FEL.                  Boni quei colombini.

AND.                                                  Boni per la stagion.

GIA.                  E quel salà co l'aggio mo no gierelo bon?


FEL.

La torta veramente giera assae delicata.

GIA.

No cavàvela el cuor quela bela salata?

FEL.

E sto desèr? dasseno, no se pol far de più.

LEL.

Lo chiamate desèr?

FEL.

Tasè là, caro vu.

Se sa che in cento e vinti qualcun s'ha da doler.

Ma sta cossa, per dirla, la me dà despiaser.

Dei disnari in diversi anca mi ghe n'ho fato;

Ma no son mai stà meggio a spender un ducato.

OTT.

Conviene compatirlo. A Lelio non dispiace

La tavola che ha avuta, anzi se ne compiace.

Ma il desinar gli sembra che meriti assai manco,

Perché non gli si è data una signora al fianco.

FEL.

Sior sì, per oto lire, co sta bela grazieta,

L'averave volesto anca la so doneta.

AND.

Amici, gh'aveu gnente che ve avanza de bon?

Mandè qua, mandè qua, che gh'ho el tirabusson.

Porto sempre con mi le mie arme in scarsela.

Dè qua quela botiglia. Rosolin de canela.

GIA.

Xelo del calzeniga?

AND.

Adesso el sentiremo.

FEL.

Anca mi un gotesin.

AND.

Sì, se lo spartiremo.

OTT.

Lasciate che lo senta.

LEL.

Ed io sono bastardo?

AND.

Evviva i cento e vinti!

GIA.

Evviva sior Lunardo! (tutti bevono il rosolino)

SCENA SECONDA

Tonina e Betta nascoste dietro la portiera da una parte, Brigida, Anzoletta e Catte dall'altra, volendo sedere alzano un poco la portiera, ora di qua e ora di là.

GIA.                  Oe, ghe xe de le done. (ad Andreetta)

AND.                                                     Zito, che le ghe staga. (a Giacometto)

LEL.                  Vi son donne là dentro. (ad Ottavio)

OTT.                                                       Davvero? Oh questa è vaga!

FEL.                  Cossa gh'è? coss'è stà? Se vede a bulegar.

Per diana, le xe done che ne vien a spionar.
GIA.                  Oe, la xe la Contessa.

AND.                                                  Ghe xe un'altra con ela;

Che la sia to muggier?
GIA.                                                       La sarave ben bela;

La xe montada in barca; l'ho vista mi a montar.

No crederia che ancuo la volesse tornar. (si vedono a muovere le portiere)
FEL.                  La xe longa sta istoria. Dove xe sior Lunardo?

Ste done per adesso le ha abù qualche riguardo;

No le pol star in stropa, le vol vegnir de filo.

Adesso no se varda più tanto per sutilo.

El disnar xe fenio, podemo levar su.

Vorle vegnir a rider? Rideremo anca nu. (tutti s'alzano, e partono le parti mute)


GIA.

Bravo, Felippo, bravo.

AND.

Bravo da galantomo.

FEL.

Cossa credeu, patroni? Anca mi son un omo.

Benché son in ti ani, me piase l'alegria,

E me vôi devertir al par de chi se sia.

S'aveva dito: a tola done no ghe sarà.

S'ha mantegnù l'impegno, e no ghe ne xe stà.

Adesso sta pramatica l'ha avù el so compimento;

S'avemo da inventar qualche devertimento.

Parlerò con Lunardo, aspetè qua un tantin;

Vôi che se devertimo, vôi che femo un festin;

Vôi co ste Zuecchine che femo i generosi;

Vôi che i diga a Venezia che semo i morbinosi. (parte)

GIA.

Mi ghe stago.

AND.

Anca mi.

OTT.

Anch'io non mi ritiro.

FEL.

(A servir la Contessa unicamente aspiro). (da sé)

GIA.

Mo via, care patrone, no le fazza babao;

Che le vegna con nu. Le scampa da recao?

LEL.

Queste belle signore patiscono i rossori.

Anderò io da loro, servo di lor signori. (entra dov'è Brigida)

OTT.

(Non lo lascio di vista il caro amico mio;

S'ei si vuol divertire, vo' divertirmi anch'io). (parte dietro Lelio)

AND.

Lori va per de là; nu andémo per de qua;

Anca per nualtri do qualcossa ghe sarà. (parte)

GIA.

Za che no gh'è Tonina, me togo boniman.

Vôi balar, vôi saltar, magari fin doman. (parte)

SCENA TERZA

Camera.

Brigida e Lelio

LEL.

Ma via, cara signora, siate meco bonina.

BRI.

Cossa vorlo da mi?

LEL.

Datemi una manina.

BRI.

Co le done civil tratar nol sarà uso.

LEL.

Mi negate una mano? (vuol prenderla)

BRI.

Ghe la darò sul muso.

LEL.

Per aver una grazia da una gentil signora,

Mi contento di prendere una guanciata ancora. (come sopra)

BRI.

Ma la xe un'insolenza.

LEL.

Ma se per voi nel seno

Ardere già mi sento.

BRI.

Ghe la puzo dasseno.

LEL.

Se avete cor, battetemi. (come sopra)

BRI.

Nol sarà miga el primo.

LEL.

Voi di me non curate, ed io tanto vi stimo.

BRI.

Se per mi, caro sior, el gh'ha de la bontà,

Che el scomenza a tratar come che va tratà.


LEL.                Una finezza sola. (accostandosi)
BRI.                 Che el staga con respeto.

LEL.                Ma se amor mi tormenta. (come sopra)
BRI.                 Deboto ghe la peto.

LEL.                Quella mano gentile male non mi può far.

BRI.                 Se sta man xe zentil, ghe la farò provar.

LEL.                Qua nessuno ci vede, qua nessuno ci sente.

Mio tesoro, mio bene, pietà...
BRI.                                                                   Sior insolente. (gli dà uno schiaffo)

SCENA QUARTA

Ottavio e detti.

OTT.                  Cos'è stato?

LEL.                                     Non so.

OTT.                                                 Cosa fu? (a Brigida)

BRI.                                                                Non saprei.

Domandatelo a lui.
OTT.                  (Si volta da Lelio)

LEL.                                                 Domandatelo a lei.

OTT.                  Non so se ciò sia vero, o se mi sia ingannato:

Un schiaffo a qualcheduno mi par sia stato dato.

Dite se ciò sia vero, o se ingannato io fui.
LEL.                  Domandatelo a lei.

BRI.                                                 Domandatelo a lui.

OTT.                  Se alcun non lo vuol dire, lascierò che si taccia.

Chi l'ha avuto, se 'l goda, e che buon pro gli faccia.

Pensiamo a un'altra cosa. Lelio, codesta dama

Lo so di certa scienza che vi rispetta ed ama.
LEL.                  Lo so anch'io di sicuro.

OTT.                                                       E del suo amore in segno,

So che brama di darvi di tenerezza un pegno.
LEL.                  Mi ha di già favorito.

OTT.                                                    Davver? me ne consolo. (a Lelio)

Ma non è a sufficienza, se gliene deste un solo.

Quando si ama davvero, si replica il favore.
BRI.                  Replicherò, se el vol.

LEL.                                                    Grazie di tanto onore.

OTT.                  Come! voi ricusate la grazia generosa

Di una che sol desidera di essere vostra sposa?
LEL.                  Mia sposa?

OTT.                                     Sì signore. Contessa, non conviene

Che tenghiate l'amico più lungamente in pene.

Perché credete voi ch'ella sia qui venuta?

La donna, lo sapete, è per costume astuta.

L'amor mi ha confidato, che per voi prova in petto.

Io le ho fatto la scorta a entrare in questo tetto.

Nulla vi ho detto in prima, per osservar se a voi

Piaceva il suo bel volto, piacevan gli occhi suoi.

Or che mi par che siate per lei contento e lieto,


Vi parlo schiettamente, vi svelo il gran segreto:

La contessa Narcisa arde per voi d'amore,

E voi siete un ingrato, se le negate il cuore.

LEL.

(Burla, o dice davvero?) (da sé)

BRI.

Andemo co le bone... (ad Ottavio)

OTT.

(Non lasciate fuggire questa buona occasione). (piano a Brigida)

LEL.

Voi dite cento cose, io non ne credo alcuna;

Se diceste davvero, l'avrei per mia fortuna.

È ver, per confidarvelo, che un schiaffo ella mi ha dato;

Ma se poi mi vuol bene...

OTT.

Per amor ve l'ha dato. (a Lelio)

Non è vero? (a Brigida)

BRI.

È verissimo.

OTT.

Sentite? In verità

Questo è un segno d'affetto. (a Lelio)

LEL.

Grazie alla sua bontà.

OTT.

Concludiamo l'affare. Ella per voi si mostra

Inclinata all'estremo; se la volete, è vostra.

LEL.

Come?

OTT.

Come, si dice? Di voi mi maraviglio.

Far sentir questo come a lei non vi consiglio.

Come, mi domandate? Vostra potete farla

Sol coll'unico mezzo di amarla e di sposarla.

Vi è noto il di lei grado, vi è noto il di lei nome,

Non ardite mai più di pronunciar quel come.

LEL.

Non so che dire, amico, lascio da voi guidarmi;

La Contessa mi piace. Desio di maritarmi.

OTT.

Lo sentite, signora? Disposto è a dir di sì.

BRI.

Ma se l'ha dito come, come dirò anca mi.

OTT.

Come voi pur mi dite? Come si fan tai cose?

Domandar lo potete a quelle che son spose.

Per me posso servirvi a stendere il contratto;

Il come lo saprete quando che sarà fatto.

BRI.

Ma vôi saver avanti...

OTT.

Che volete sapere?

Non vi dirò che Lelio sia nato cavaliere.

Ma è persona civile, ricco di facoltà,

Buono come una pasta.

LEL.

Tutta vostra bontà.

OTT.

Signora mia, del tempo non dobbiamo abusarci.

BRI.

Zito, che sento zente.

OTT.

Chi viene a disturbarci?

SCENA QUINTA

Toni e detti.

TONI

Posso vegnir avanti?

BRI.

Vegnì, vegnì, Tonin.

TONI

Un barcariol per ela m'ha dà sto polizzin.

BRI.

Chi lo manda?


TONI

No so.

BRI.

(El xe quel traditor). (da sé)

Con so bona licenza. (Ah, che me batte el cuor).

OTT.

(Lelio, me ne consolo). (a Lelio)

LEL.

(Chi mai scrive quel foglio?) (ad Ottavio)

OTT.

(Di che cosa temete?) (a Lelio)

LEL.

(Temo di qualche imbroglio).

TONI

Che la diga, patron. (a Lelio)

LEL.

Che cosa vuoi da me?

TONI

Vorla che vaga a torghe un'onza de gingè? (a Lelio)

LEL.

No, il gingè non mi piace, prendo solo il melato,

E tu puoi contentarti di quel mezzo ducato.

BRI.

(Ah, che sto desgrazià me lassa e me abandona.

A crederghe a costù, son stada tropo bona.

Se Lelio no minchiona, ghe posso remediar;

Ma son tropo scotada, no me voggio fidar).

OTT.

Che vuol dir che vi vedo confusa ed agitata?

Forse è cagion la lettera?

LEL.

(Temo sia innamorata.)

BRI.

La senta, sior Ottavio.

OTT.

Eccomi a voi repente.

BRI.

Ghe confido sta polizza, ma che nol diga gnente.

OTT.

(Brigida mia carissima, a forza son costretto

Lasciarvi in abbandono, ad onta dell'affetto.

Mio padre mi richiama...) (legge in disparte)

LEL.

Posso sentire anch'io?

OTT.

Permettete che il senta anche l'amico mio.

BRI.

Me despiase...

OTT.

Che importa?

LEL.

Sono in curiosità.

OTT.

Non vi perdete d'animo; qualche cosa sarà. (a Lelio)

Quel che scrive, è un amante.

LEL.

L'ho detto.

OTT.

E che per questo?

Le cose di tal sorte io le accomodo presto.

Contessa adoratissima.

BRI.

Dise cussì?

OTT.

Tacete.

So leggere, signora.

LEL.

Caro amico, leggete.

OTT.

Pur troppo da gran tempo io vidi a più d'un segno,

Che della grazia vostra son diventato indegno.

So che Lelio dal Sole teneramente amate.

BRI.

Dise cussì? (a Ottavio)

OTT.

Tacete. (a Brigida)

LEL.

Amico, seguitate.

OTT.

Di ciò solo vi prego, ditemi sì o no.

Cosa risponderete? (a Brigida)

BRI.

Mi dasseno nol so.

OTT.

Galantuomo. (a Toni)

TONI

Signor.

OTT.

Avete un calamaro?

TONI

Se la vol sto strazzeto calamar da scolaro. (tira fuori di tasca un calamaro)


OTT.

Carta?

TONI

No ghe ne xe.

Gh'ho sto libro da conti.

OTT.

Lascia vedere a me. (straccia un foglio)

TONI

El mio libro! (lamentandosi)

OTT.

Sta zitto. Scrivete, io detterò. (a Brigida)

BRI.

Cossa vorlo che scriva?

OTT.

Quello ch'io vi dirò.

BRI.

(Mo la xe ben curiosa. Dove vala a finir?) (da sé, si mette per scrivere)

LEL.

(Sentiam che cosa scrive).

OTT.

(Mi voglio divertir)

Scrivete.

BRI.

Scriverò.

OTT.

Signor Conte carissimo.

Che tutto a voi sia noto, ho un piacere grandissimo.

Adoro il signor Lelio, lo dissi e lo ridico;

E di voi, compatitemi, non me n'importa un fico.

BRI.

Ho da scriver sta roba?

OTT.

Senza difficoltà.

LEL.

(Se licenzia il rivale, ho gusto in verità).

OTT.

Scrivete. Innanzi sera forse sarò tornata

Col caro signor Lelio unita e maritata.

BRI.

Sta roba? (ad Ottavio)

OTT.

Non occorre che a bada lo tenete.

Terminate di scrivere, e poi sottoscrivete.

Qui non ci sarà nulla per sigillare il foglio.

Non importa, per questo più differir non voglio.

Come si può, pieghiamolo. Fate la soprascritta:

Al Conte della Bosima che sta sulla via dritta.

Prendi tu questo foglio, e reca la risposta. (a Toni)

TONI

A chi?

OTT.

Non perder tempo. (gli dà una moneta)

TONI

Vago via per la posta.

(No saverò a chi darlo. Basta, per no falar,

Lo buterò in canal, e lo lasserò andar). (da sé, e parte)

BRI.

(Mi son mezza confusa). (da sé)

OTT.

Lelio, cosa vi pare?

Del ben della Contessa potrete dubitare?

Ecco, per amor vostro, per esservi costante,

Punto non ha tardato a licenziar l'amante.

Ora siete in impegno, se avete un cuore umano,

Se galantuom voi siete, di porgerle la mano.

LEL.

Sì, mia cara colonna... (vuole abbracciarla)

BRI.

Cossa vorlo ziogar,

Che un affetto d'amor ghe torno a replicar? (minacciandolo d'un altro schiaffo)

LEL.

Mi vuol bene così?

OTT.

Anzi di cuor vi adora.

Un affetto più grande non ho veduto ancora.

S'io trovassi una donna che mi battesse, affé,

Sarei, per il contento, sarei fuori di me.

LEL.

Quand'è così, signora, son qui; quanto volete,

Il mio povero viso battete e ribattete.

OTT.

Ma convien provocarla.


LEL.                                                          Ho a dir delle sciocchezze?

OTT.                  Provocar la dovete coi scherzi e le finezze.

LEL.                  Fin qui non mi ritiro. Io voglio ad ogni patto. (vuole abbracciarla)

BRI.                  Andeve a far squartar, che sè un pezzo de matto.

OTT.                  Brava.

BRI.                            E vu, sior Ottavio...

OTT.                                                             Or or, d'amore in segno,

Anche contro di me prende un pezzo di legno. (a Lelio)
LEL.                  Vuol bene ancora a voi?

OTT.                                                          Chi sa?

LEL.                                                                      Non ho sospetto;

Dategli in mia presenza qualche segno d'affetto. (a Brigida)
BRI.                  Ve dirò a tuti do quel che me vien in boca;

A vualtri paronzini burlarme no ve toca.

Cortesani d'albeo, scartozzi mal ligai,

Se credè minchionarme, resterè minchionai.

Mo che gran matrimonio! mo che bela fortuna!

Sior cavalier dal Sol, andè a sposar la luna. (parte)
OTT.                  Sempre più mi consolo.

LEL.                                                          Di che?

OTT.                                                                      Voi siete certo

Che di voi la Contessa ha conosciuto il merto.

Quanti vi son che cercano d'essere strapazzati!

Voi, in genere di questo, siete dei fortunati.

Andiam le vostre nozze a preparar di volo.

La Contessa vi adora; con voi me ne consolo. (parte)
LEL.                  Ti ringrazio, fortuna: se l'esser strapazzato

È dell'amor la prova, son più di tutti amato.

Cara Contessa mia, se da te amato io sono,

Sì, strapazzami pure, battimi, e ti perdono. (parte)


ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Orto all'uso della Zuecca.

Betta e Catte

CAT.                 Za che no gh'è nissun, spazzizemo un pocheto.

BET.                  Varda, no ghe parlar, se vien sior Giacometo.

So muggier xe tornada.
CAT.                                                      Dasseno?

BET.                                                                      In verità.

De lu no la se fida.
CAT.                                                Che gran bestialità!

Lo savè, siora Beta, come che mi son fata.

Lo savè che coi omeni mi no fazzo la mata.

Toni xe assae sutilo: no lo vôi desgustar.

Ma giusto co sta siora me la voria cavar.

SCENA SECONDA Anzoletta e dette.

ANZ.

Oe, no savè? Sta sera i vuol far un festin.

CAT.

Baleremio anca nu?

ANZ.

Pol darse un pochetin.

BET.

I darà anca da cena.

ANZ.

Sì, ma nu no gh'intremo.

BET.

Quando che i dà da cena, qualcossa magneremo.

CAT.

Mi me basta balar.

ANZ.

E mi gh'ho el mio dileto

A véder a fenir un certo negozieto.

Quella certa signora, che no se sa chi sia,

I dise che la sposa un de sta compagnia.

Mi me par impussibile; ghe vederemo el fin.

CAT.

Donca per le so nozze i farà sto festin.

ANZ.

Pol esser.

BET.

Sì, seguro, e co ghe xe novizzi,

No ghe mancherà certo né torte, né pastizzi.

SCENA TERZA

Giacometto e dette.


GIA.                  Pute, bondì sioria.

CAT.                                                Patron.

GIA.                                                             Bondì, fia mia. (a Catte)

BET.                  (Oe, no ghe disè gnente, che so muggier ghe sia.

La m'ha dito che tasa). (piano a Catte)

GIA.                                                       Coss'è? ghe parlè in rechia?

BET.                  No ghe posso parlar?

GIA.                                                    Eh, vu sè volpe vechia.

BET.                  Vechia a mi?

GIA.                                        Non intendo de parlar de l'età;

Digo che sè una dona, che el fato soo lo sa.

BET.                  Certo no son minchiona.

ANZ.                                                         Credeu che solamente

Le vostre Veneziane sia brave e sia valente? Nualtre Zuecchine lustrissime no semo, Ma i nostri catareti anca nu li gh'avemo. Chi vol pute de sesto, s'ha da vegnir da nu. Per aria e per bon gusto, Zuecchine e po no più Se se metemo in testa un galaneto, o un fior, Sento che tuti dise: le fa cascar el cuor. In materia de balo, per far de le furlane, No ne pol impatar gnanca le Veneziane. Mi no parlo de mi, che mi no son de quele, Ma su sta fondamenta le luse co fa stele. Bei musi, bele vite, penini che inamora. Se vedessi! ma tute no le vol vegnir fora. La festa da Venezia vien via sti licardini, I va da un cao a l'altro, facendo i paregini, Col codegugno niovo, col fazzoletto al colo, Co la vita scavezza a usanza de bigolo. Varda, passa, saluda, i se voria butar, Ma i sol trovar dei ossi duri da rosegar. Stimemo un Zuecchin più assae de un Venezian, Volemo un mariner, volemo un ortolan. Se no gh'avemo el gusto de star a la cità, Ne piase più de tuto la nostra libertà.

GIA.                  Care fie, mi ve lodo. Ma i omeni, me par,

Tuti no li mesura l'istesso brazzolar. Mi son un galantomo; cognosso el mio dover.

ANZ.                 Eh, vu faressi meggio tender a la muggier.

GIA.                  Ghe tendo a le so ore.

BET.                                                    Cossa voleu, gramazzo?

Anca lu el vien a torse un poco de solazzo. Xe vero che sta sera i fa un festin?

GIA.                                                                         Se dise.

BET.                  Fene vegnir a véder, care le mie raìse.

GIA.                  Perché no? Vederemo.

CAT.                                                      Se vegno, vôi balar.

BET.                  E se i dasse da cena, voggio anca mi cenar.

GIA.                  Se no i volesse done come è stà stamatina?

BET.                  Che i voggia anca sta sera sta bela secadina?

Senza done no i bala; co le gh'è, le ghe sta.


Sè tuti galantomeni, savè la civiltà.

ANZ.

Che bisogno ghe xe, che s'abia da cenar?

BET.

Tasè là, cara vu, no ve ne stè a impazzar.

GIA.

Basta, farò de tuto, perché vegnì anca vu,

E se i altri no magna, faremo tra de nu.

SCENA QUARTA

Tonina e detti.

TON.

Bravo, sior Giacometto. Me piasè in verità.

GIA.

No sè andada a Venezia?

TON.

Dasseno che son qua.

GIA.

Cara siora Tonina, andemo co le bone.

TON.

Tuto el dì v'ho da véder a star co ste frascone?

ANZ.

Come pàrlela, siora?

CAT.

Frascone la n'ha dito.

BET.

A nualtre frascone? Cossa crédela?...

GIA.

Zito.

BET.

Chi crédela che siemo?

ANZ.

Semo zente onorata.

CAT.

E no semo de quele.

BET.

E cussì no se trata.

TON.

Co sta bela insolenza se parla a una par mio?

Feme portar respeto: tocca a vu, sior mario.

GIA.

Voleu aver creanza? (alle Zuecchine)

ANZ.

Ela n'ha strapazzà.

GIA.

Se parla con maniera. (a Tonina)

TON.

Mandèle via de qua.

GIA.

Andè via. (alle Zuecchine)

CAT.

Semo in orto, e ghe volemo star.

TON.

Fe che le vaga via. (a Giacometto)

GIA.

Se no le vol andar! (a Tonina, con collera)

TON.

Donca vegnì con mi.

BET.

Vardè che bel mario!

GIA.

Cossa aveu dito?

BET.

Gnente.

CAT.

Andè, corèghe drio.

ANZ.

Povero pampalugo.

TON.

Andémio, o non andémio?

GIA.

(Se ghe vago, i me burla). (da sé)

TON.

Sior mario, cossa femio?

GIA.

(E se no vago, è pezo). (da sé)

TON.

Sì, ve lezo in tel cuor,

Ve cognosso a la ciera, che gh'avè del brusor

Per causa de ste sporche...

BET.

Oh per diana de dia!

CAT.

Coss'è sto strapazzar?

ANZ.

Coss'è sta vilania?

CAT.

Qua no ghe xe sporchezzi.

ANZ.

Ela s'ala insporcà?


BET.

La se vaga a netar...

GIA.

Zito, per carità.

SCENA QUINTA

Ottavio e Lelio travestiti da marinai, e detti.

OTT.

Cossa xe sto sossuro? (affettano il veneziano, e lo parlano male)

LEL.

Cossa xe sto fracasso?

GIA.

(Sior Ottavio e sior Lelio, sì, tolemose spasso).

OTT.

Questa xe mia moggier. (accennando Betta)

LEL.

Questa ghe xe mia sposa. (accennando Anzoletta)

OTT.

Questa xe mia sorella. (accennando Catte)

LEL.

De Giacomo morosa.

TON.

(Me vien suso el mio caldo). (da sé)

BET.

(Bisogna segondar). (piano a Catte e Anzoletta)

GIA.

(I parla el venezian, ma no i lo sa parlar).

TON.

Se una è vostra muggier, l'altra vostra sorela,

Disè, con mio mario cossa gh'ìntrela quela? (accennando Catte)

Subito andemo via. (a Giacometto)

OTT.

Come! el xe maridao?

LEL.

E el ghe xe vegnù qua per far l'inamorao?

TON.

Sentìu? (a Giacometto)

OTT.

Cossa disìu? (a Giacometto)

GIA.

Mi no so cossa dir.

(Me vien da ghignazzar, no me posso tegnir). (da sé)

TON.

Ridè, sior Giacometto? Ancora me burlè?

GIA.

Mi no rido de vu.

TON.

El bel omo che sè!

OTT.

Presto, andémo al festin. (a Betta)

BET.

Son qua, caro paron.

LEL.

Andémoghe anca nu. (ad Anzoletta)

ANZ.

Se me volè, ghe son.

LEL.

E sta puta con chi ghe xanderala?

BET.

(Oh belo!)

Cate ghe xanderà col so caro fradelo.

LEL.

(Parlo ben veneziano?) (piano a Giacomino)

GIA.

(In venezian perfeto). (piano a Lelio)

OTT.

Che ghe dago la man la Cate a Giacometo.

GIA.

Sentìu?

LEL.

Cossa disìu?

TON.

Chi xe sti papagai?

OTT.

Semo do Giudechini, che ghe xe qua arivai.

TON.

No, sto vostro parlar nol xe da Veneziani;

Me parè do foresti, parè do oltramontani.

Scoverzive chi sè, ve prego per favor.

OTT.

Mi ghe xe mariner.

LEL.

Mi ghe xe pescador.

TON.

Con vostro mi ghe xe no me l'avè impiantada.

Mi ghe xe, mi ghe xe... la xe una baronada.

Co le done civil no se trata cussì.


E ve lo digo in fazza.

OTT.

Gh'avè rason, uì.

TON.

Uì, sior Venezian?

GIA.

Mo no vedèu, minchiona,

Che i xe do cari amici, che ve dà la baldona?

TON.

Ben, se i vol minchionar, se i gh'ha sta bela peca,

Che i vegna a minchionar quele de la Zueca.

BET.

Come sarave a dir?

CAT.

Chi crédela che siemo?

BET.

Burlar le Zuecchine?

CAT.

Per diana, no ghe stemo.

ANZ.

No semo spiritose, come le Veneziane,

Ma gnanca no se femo piantar de le panchiane.

OTT.

Eh scacciate, signora, codesta gelosia.

LEL.

Vi vogliamo guarire da tal malinconia.

TON.

No la xe la maniera.

GIA.

Cossa avémio da far?

OTT.

Presto, andiamo al festino. (a Tonina)

GIA.

Presto, andemo a balar.

TON.

No vôi.

OTT.

Non c'è risposta.

LEL.

Ci dovete venire; siamo venuti a posta.

GIA.

Mo via, cara muggier?...

TON.

Chi ghe sarà a sta festa?

OTT.

Gente di ordini vari, ma tutta gente onesta.

BET.

Ghe saremo anca nu. (con aria grave)

CAT.

Con nu la vegnirà.

TON.

Oh, co ghe sè vualtre, gh'è el fior de nobiltà. (ironica)

ANZ.

Se no semo lustrissime, semo done da ben.

CAT.

No me n'importa un bezzo, se con nu no la vien.

LEL.

Via venite, signora.

OTT.

Non fate la ritrosa.

LEL.

Che volete di più? Vi sarà la mia sposa.

TON.

Dasseno?

LEL.

Senza dubbio.

TON.

Quando la xe cussì,

Co ghe xe la so sposa, posso esserghe anca mi.

OTT.

Brava, così mi piace.

GIA.

Brava, muggier, andémo.

Vôi che se devertimo, e voggio che balemo.

OTT.

Faccia ogni uno di voi quello che faccio io.

Date mano a qualcuna. (dando mano a Betta)

TON.

Mi voggio mio mario. (vuol dare mano a Giacometto)

OTT.

Che mario che mario? Ecco, così si fa. (lascia Betta)

Un bracciere di qua, un altro per di là. (Ottavio e Lelio prendono in mezzo Tonina, e

la servono di braccio)

LEL.

Non sapete la moda? Io ve l'insegnerò.

TON.

Con un poco de tempo anca mi me userò. (parte con Lelio e Ottavio)

SCENA SESTA


Betta, Catte, Anzoletta, Giacometto

BET.

Le vol far le smorfiose, e po co le ghe xe,

Le ghe sa star pulito.

GIA.

Mi son solo, e vu tre.

A chi ghe daghio man?

ANZ.

Cedo el logo a la puta. (a Giacometto)

CAT.

So caminar mi sola, senza che la me agiuta. (a Giacometto)

GIA.

Voleu vu, siora Beta? (a Betta)

BET.

Che el daga man a ela. (accennando Catte)

ANZ.

Che el serva la più zovene.

BET.

Che el serva la più bela. (a Catte)

GIA.

Via, no ve fe pregar. (a Catte)

CAT.

Za no andemo lontan. (ritirando la mano)

ANZ.

Cossa xe ste scamoffie? (a Catte)

BET.

Eh, lassève dar man. (a Catte)

CAT.

No disè gnente a Toni.

BET.

No, nol lo saverà.

GIA.

Andémo, puta bela. (dando mano a Catte)

ANZ.

Oh per diana, el xe qua.

SCENA SETTIMA Toni e detti.

TONI

Come xela sta storia?

BET.

Gnente, gnente, Tonin.

Semo anca nu con ela, la menémo al festin.

TONI

Cossa gh'intra sto sior?

GIA.

Gh'intro, perché ghe son.

ANZ.

Vardè ben che una puta sola no la par bon.

CAT.

Toni, mi no voleva.

TONI

No voggio tarocar,

No digo che a la festa no ve voggia menar.

E se una puta sola non ha d'andar cussì,

Senza che altri s'incomoda, la vôi compagnar mi. (la prende per mano, e la

conduce via)

BET.

No li lassémo soli.

ANZ.

Presto, andémoghe drio.

GIA.

Donca co ste signore farò l'obligo mio. (esibisce la mano a tutte due)

BET.

Grazie. (si fa dar braccio)

ANZ.

Aceto el favor. (si fa dar braccio)

GIA.

Posso dir stali e premi;

E ariverà a la festa un copano a do remi. (partono)

SCENA OTTAVA

Sala da ballo.


Tutti disposti ai loro luoghi ballano vari minuetti, fanno poi una contradanza, e con questo termina l'atto. Frattanto che ballano, Lelio procura di star vicino a Brigida, e Ottavio procura lo stesso, e

tormenta Lelio.


ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Camera con lumi

Brigida ed Ottavio

BRI.                  Fin che sior Lelio bala, ghe vorave parlar.

OTT.                  Sono con voi, signora.

BRI.                                                       Lo prego a perdonar.

Che el me diga de grazia. Come xelo sto intrigo?

Falo per mi dasseno, o per burlar l'amigo?

Crédelo che sior Lelio me possa un dì sposar?

Da tuti sti reziri cossa possio sperar?
OTT.                  Ora che siamo soli, vi parlerò sul sodo.

L'amico ha poco spirito, per questo io me lo godo.

Lelio ha vari fratelli: il primo è maritato;

Anch'ei vorrebbe moglie, ma non si trova in stato.

Rovineria se stesso, la casa e i suoi parenti;

Tutti delle sue nozze sarebbero scontenti.

E la povera donna, che fosse sua consorte,

Andrebbe ad incontrare una pessima sorte.
BRI.                  Donca de far ste nozze perché tratar za un poco?

OTT.                  Con un, siccom'è Lelio, posso prendermi gioco.

BRI.                  El se pol devertir con chi ghe par e piase;

Che con mi el se diverta, xe ingiusto, e me despiase.

Che confidenza gh'alo, caro patron, con mi,

De scherzar, de vegnirme a minchionar cussì?

Lo so che el me cognosse, el saverà chi son;

E per questo me crédelo qualche poco de bon?

Perché ho cantà in teatro, ho perso el mio conceto?

Nissun no m'ha per questo da perder el respeto.

El teatro, la scena, xe cossa indifferente.

Fa ben chi gh'ha giudizio, fa mal chi xe imprudente.

E non ocorre dir, quelo xe un logo bruto,

Ché ghe xe per le mate pericolo per tuto.

Cossa fale de mal quele che in mezzo a tanti

Riceve su le scene i amici e i diletanti?

Fa mal quele che in casa le visite riceve,

E el teatro e la casa confonder no se deve.

Vedo che tante e tante le gh'ha mile favori

Da dame e cavalieri, da prencipi e signori.

Vedo che in t'una corte, a un publico servizio,

Se stima anca in teatro le done de giudizio.

Ghe xe del mal per tuto; in ogni profession,

In qualunque esercizio ghe xe el cativo e el bon.

Ma no pol el cativo chi è bon pregiudicar,


E no se pol dai pochi dei molti giudicar.

Ho cantà, m'avè visto, ma me posso vantar,

Che de mi no ha podesto la zente mormorar.

E pur con tuto questo, savendo el pregiudizio

De sto nostro mistier, ho fato un sacrifizio.

Quel pocheto che aveva, me ho contentà magnarme,

Per viver retirada col fin de maridarme.

Me xe capità uno de meza qualità,

El m'ha dà la parola, e adesso el m'ha impiantà.

Sola qua me retrovo; mia madre no me piase,

Perché sto mio pensier lo so che el ghe despiase.

Ho persa un'ocasion. Ghe ne sospiro un'altra.

Vu me burlè, credendo che sia femena scaltra.

El desiderio mio creder me fa a l'ingano;

Vu burlè una meschina, e mi ricevo el dano.

Che carità xe questa? che modo de pensar,

Cole povere done vegnirse a solazzar?

Se sè un omo d'onor, pensè a la mia desgrazia;

Abième compassion, ve lo domando in grazia.

Socorème, gramazza; quelo che mi sospiro

Per viver onorata, xe un consorte o un ritiro.

Lassè, lassè ste burle, che al ciel no le ghe piase;

Consolème, ve prego, metè el mio cuor in pase.

Sième mio bon amigo, sième mio protetor:

Questa è la degna impresa de un cavalier d'onor.
OTT.                  Voi col parlar sincero, voi mi colpiste a segno,

Che assistervi prometto col più onorato impegno.

Vi condurrò a Venezia colla mia barca istessa,

Verrete in casa mia, verrà la madre anch'essa.

Dove son alloggiato, vi son delle signore;

Sarete custodita con zelo e con onore.

Moglie ancor non ho preso, forse la prenderò;

Non prometto sposarvi, ma non vi dico un no.

Noi ci conosceremo col praticarci a prova:

Vedrò, se mi conviene, farò quel che mi giova.

Ma in qualunque maniera, altrove o nel mio tetto,

Voi sarete assistita, lo giuro e lo prometto.
BRI.                  Pianzo da l'alegrezza. (piangendo)

OTT.                                                    Le lacrime son vane.

Spesso solete piangere, voi altre Veneziane.
BRI.                  Nol creda che ste lagreme sia lagreme sforzae.

In verità da seno, dal cuor le xe mandae.

Una povera puta...
OTT.                                                 Basta così, ho capito.

Vedo che dalla sala il signor Lelio è uscito.

Ritirarvi potete in sala o in altro loco.

Al mio albergo in Venezia noi anderem fra poco.

E per condurvi in casa con alquanto d'onore,

Verrete con alcuna di coteste signore.
BRI.                  Mi no voggio balar. In portego no vago.

Anderò in st'altra camera, e fin ch'el vol ghe stago.

Pregherò el ciel de cuor che de mi nol se penta.

Brigida, povereta, ti sarà pur contenta. (parte)


SCENA SECONDA Ottavio, poi Lelio

OTT.                  Il ciel mi ha qui condotto per fare un'opra buona;

Quando di ciò si tratta, affé non si canzona.

Ma vo' col caro Lelio seguir la burla ancora.

Quando di qua si parte, la finiremo allora.
LEL.                  La Contessa dov'è?

OTT.                                                 Finora è stata meco.

LEL.                  Perché con voi, signore?

OTT.                                                          Perché Cupido è cieco.

LEL.                  Non capisco.

OTT.                                        Sappiate ch'è il di lei cuor sdegnato,

Perché con altre donne voi avete ballato.
LEL.                  Davver? s'ella è gelosa, segno che mi vuol bene.

OTT.                  Ella è meco venuta ad isfogar sue pene.

In pubblico voleva darvi d'amore un segno;

Ma io l'ho sconsigliata.
LEL.                                                       Siete un uomo d'ingegno.

OTT.                  Tutti non sanno mica quale sia il vero affetto.

LEL.                  Certo avrebbero detto che lo fa per dispetto.

OTT.                  Piuttosto, se volete qualche nuovo attestato

Dell'amor suo, la chiamo.
LEL.                                                             No no, bene obbligato.

OTT.                  Siete forse pentito?

LEL.                                                 L'adoro più che mai.

Ma in materia di questo, mi ha favorito assai.
OTT.                  Quando poi sarà vostra, io credo in verità

Che di queste finezze ne avrete in quantità.
LEL.                  Quando poi sarà mia... non so che dir, vedremo;

Credo che le finezze noi ce le cambieremo.
OTT.                  Dite, avete risolto sposar quella signora?

LEL.                  Se ho risolto, mi dite? Ma se non vedo l'ora!

OTT.                  La conoscete bene?

LEL.                                                 So quel che avete detto.

OTT.                  Se non fosse contessa?

LEL.                                                       Come! vi è del sospetto?

OTT.                  Ella è una cantatrice.

LEL.                                                    Affé, l'ho conosciuta

Che sapeva la musica nel batter la battuta.
OTT.                  Sposerete una donna che ha esercitato il canto?

LEL.                  Questo cosa m'importa? La sposo tant'e tanto.

OTT.                  Ma il decoro?

LEL.                                        Il decoro... intesi a dir così,

Che suol la maraviglia svanir dopo tre dì.
OTT.                  Bravo, così mi piace. A rivederci, amico.

LEL.                  Dove andate?

OTT.                                        Ove vado sinceramente io dico.

Vado dalla Contessa, idest dalla cantante.


LEL.                  Che avete a far con lei?

OTT.                                                       Oh, delle cose tante.

LEL.                  Non vorrei che pensaste levarmi ancora questa.

OTT.                  Questo tristo pensiere non vi cacciate in testa.

Vado a parlar per voi. Vado a disingannarla Che voi, perché è cantante, vogliate abbandonarla. Anzi che voi talora avete un bel falsetto, E che con lei potrete cantar qualche duetto. Circa al ballo, dirò che, se avete ballato, Vi hanno quelle signore pregato e ripregato; E al di lei cuor temendo recar qualche molestia, Siete stato costretto ballar come una bestia. Dirò che il caro Lelio la virtuosa apprezza; E che venga qui subito a farvi una finezza. (parte)

SCENA TERZA

Lelio solo.

Maledette finezze! possibile che poi

Non mi faccia di quelle che piacciono anche a noi?

Sento ancora meschino sul viso, a mio dispetto,

Le marche generose del suo tenero affetto.

Ma se non è contessa, tanto meglio per me.

Di queste tenerezze più non ne voglio affé.

Quando la virtuosa ad isposar sia giunto,

Se canterà il soprano, io farò il contrappunto. (parte)

SCENA QUARTA

Tonina e Andretta

TON.                 No no, lassème star.

AND.                                               La senta una parola.

TON.                 Se mio mario no vien, voggio andar via mi sola.

AND.                Mo cossa mai xe stà?

TON.                                                   L'ho visto coi mi ochi.

A quela Zuecchina l'ha urtà in ti zenochi.

E nol l'ha fato in falo. Sto mato senza inzegno

Per balar co sta frasca el gh'averà dà un segno.
AND.                Cara siora Tonina, non abiè zelusia,

Za savè che la festa xe deboto fenia.

Anderemo a Venezia. Quel che xe stà, xe stà.

Ma partimo d'acordo in pase e carità.

SCENA QUINTA


Felippo e detti.

FEL.                  Gran Lunardo, compare. El vol che se fenissa

Come s'ha prencipià, e che tuti stupissa. Quando che andémo via, l'ha ordenà una tartana; L'ha laorà in do ore per una setimana. Ghe xe de le peote, gondole in quantità, Soni, canti e baloni, e luse in quantità. Con alegria in laguna staremo infina dì.

TON.                 Ma voggio mio mario sentà arente de mi.

FEL.                  Cossa gh'aveu paura, che i ve ne magna un toco?

TON.                 Eh che no savè gnente, povero sior aloco.

Mi so quel che ho passà, cognosso Giacometo, E no voggio che el vegna a far de zenochieto.

SCENA SESTA Betta, Catte, Anzoletta, Toni¸e detti.

BET.

Gh'ho gusto in verità.

CAT.

Anderemo anca nu.

ANZ.

De sta sorte de spassi no ghe n'ho abuo mai più.

TONI

Arecòrdete, Cate, che te vôi star darente,

No te vôi sbandonar in mezzo a tanta zente.

S'avemo da sposar; poco ne mancherà;

E avanti de sposarte no voria novità.

TON.

Fe ben, cussì me piase.

ANZ.

Via, sareu più zelosa?

TON.

Eh, ghe xe tempo ancora avanti che el la sposa.

No ghe xe de le gondole? Se s'ha da star fin dì,

Voggio star da mia posta, e mio mario con mi.

AND.

Gh'averè tempo a casa.

FEL.

Sè una gran secatura.

Una muggier zelosa? piutosto in sepoltura.

SCENA SETTIMA

Ottavio, Brigida, Giacometto e detti.

OTT.

Tutto è già preparato.

GIA.

Deboto andemo via.

TON.

(Velo qua, co le done sempre el xe in compagnia).

Vegnì qua, Giacometto.

GIA.

Coss'è? cossa xe stà?

TON.

Fina che andemo via, no ve partì de qua.

GIA.

Lighème a le carpete.

TON.

Eh, so chi sè, fradelo.

GIA.

Cossa songio, patrona?

TON.

Sè pezo de un putelo.


SCENA ULTIMA

Lelio e detti.

LEL.                  Siete qui? da per tutto vi cerco, e non vi trovo. (a Brigida)

BRI.                  Da mi cossa voressi?

LEL.                                                    Vi è qualcosa di nuovo?

OTT.                  Certo, amico carissimo, vi è qualche novità.

Ella ha per maritarsi le sue difficoltà.

Più di cento ragioni mi ha detto in confidenza

Per cui di maritarsi ha qualche renitenza.
LEL.                  Quali son questi obbietti?

OTT.                                                             Eccoli in due parole.

Principiamo da questo: dice che non vi vuole.
LEL.                  Bastami questa sola. Più non v'incomodate.

S'ella ciò mi conferma, vi riverisco, andate.
BRI.                  Sior sì, ghe lo confermo; no per poco respeto,

Ma perché in tel mio stato un'altra sorte aspeto.

In te le mie desgrazie el ciel me agiuterà,

Perché in te l'assistenza del cielo ho confidà.

Ma no parlemo più de ste malinconie;

Andémo che le barche xe a l'ordene fenie.

Andémo che i ne aspeta, e tuti xe curiosi

De véder in sta sera el fin dei Morbinosi.

Certo che nol sarà quelo che molti aspeta;

Come se poderà, se farà qualcosseta.

Ha dito sior Lunardo che averzì quel porton;

E a tuti sti signori ghe femo un repeton.

Si apre il tendone e si vede una tartana illuminata, con peote illuminate, e varie gondole, dove tutti vanno a montare, chi in un luogo, chi nell'altro. Si sentono suoni, sinfonie e canti, e con questo

termina la Commedia.

Fine della Commedia.