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Una storia di guerra medioevale

di Jean Froissart, Auguste Rodin e Bernard Shaw

1934

Traduzione di Paola Ojetti

A. Mondadori Editore - Milano

1982

I PERSONAGGI

(nell'ordine della loro entrata in scena)

Il Principe Nero

Giovanni di Gaunt

Il re Edoardo

Una dama

La regina Filippa

Eustachio

Pietro

I Sei di Calais è stato rappresentato per la prima volta ne! Tea­tro all'aperto di Sydney Carroll, a Regent's Park in Londra, il 17 luglio 1934, con Phyllis Neilson Terry, Charles Carson, Leo-nard  Shepherd e Vincent Sternroyd nelle quattro parti  principali.


PREMESSA AI SEI DI CALAIS

Ilfenomeno  più  divertente che si  ricollega alla prima rappresentazione di questa commediola è la rivelazione dello strano  analfabetismo  dei  nostri   moderni  giornalisti londinesi. Essi si figuravano un re soltanto come un simpa­tico e  rispettabilissimo gentiluomo con la bombetta e la barba vittoriana, intento a stringere la mano a una intimi­dita e reverente squadra di calcio. Per essi una regina era una signora  dignitosa,  vittoriana  anch'essa  nella   pettina­tura, intenta a ricevere mazzi di fiori da bambini eccessiva­mente lavati e splendidamente vestiti di nuovo. così erano ritrattati nella loro mente il nipotino del grande Edoardo e la sua regina Filippa. Essi sono rimasti feriti, urtati, scan­dalizzati davanti allo spettacolo di un medievale monarca-soldato che s'infuria e impreca in pubblico, grida e ride, afferma  la  propria autorità con  ferocia da Traso  e,  un minuto dopo, piagnucola in grembo alla moglie o ringhia come un cane rabbioso di fronte a un commerciante im­pavido e smargiasso: che si conduce, insomma, come un essere   umano   incapace   di   frenare   il   proprio   malumore di fronte a una situazione difficile, anziché come un mo­narca   moderno  costituzionale   in   grande  parata  che   non tradisce la faticosa finzione di un'esistenza vissuta nel vuoto mondo della politica e disposto a muoversi soltanto quando i ministri tirano i suoi fili. Edoardo Plantagenet III aveva da tirare i fili di tutti e da tirarli con una certa forza, dato che suo padre era stato miseramente assassinato per aver preso il proprio compito troppo alla leggera. Ma i critici dei  giornali  non  sapevano niente di tutto questo. Un re Edoardo, che non si conduceva come il figlio di re Edoar­do VII,  sembrava loro innaturale e indecente, e di conse­guenza si strappavano i panni in segno di indignazione. Essi erano forse messi in imbarazzo dal fatto che la commedia non aveva alcuna morale. Io scaravento loro addos­so, quasi ogni anno, una lunga commedia piena di insidio­sa propaganda, con una morale in ogni battuta. Essi non scoprono mai dove voglio arrivare: è un fatto sempre trop­po chiaramente e familiarmente dichiarato, perché le loro menti sottili e lungimiranti possano individuarlo; ma sen­tono che voglio arrivare a qualche cosa: a qualche cosa che essi, probabilmente, se tengono a sbarcare il lunario, non dovrebbero condividere. Una mia commedia, nella quale io non miri ad altro che a espletare la diretta funzione del com­mediografo, è per loro inimmaginabile quanto un re me­dievale.

Eppure la diretta funzione del commediografo consiste nel fornire una commedia a un teatro. Quando ne scrivo una con il supplementare intento di offrire al XX secolo una religione moderna o qualcosa di simile, questo di più è offerto gratuitamente; e la commedia, come commedia, non ci guadagna e non ci perde. Che cos'è, dunque, una com­media, vista come commedia?

Beh, è un mucchio di cose. La vita, come la vediamo, è così balorda che soltanto cogliendone le situazioni chiave e siste­mandole in un ordine significativo (ordine che non è mai uguale a quello in cui esse si verificano) può essere resa intelligibile. Il poeta drammatico presuntuoso vuol renderla intelligibile e sublime. Lo scrittore farsesco vuol renderla buffa. Il mercante di melodrammi vuol renderla avvincente come sono avvincenti, per taluni, le notizie poliziesche. Lo scrittore pornografico vuol renderla piccante. Tutti gli in­terpreti della vita attiva, nobile o ignobile che sia, trovano il loro strumento nel teatro; e tutte le definizioni accade-miche di una commedia sono variazioni di questa funzione fondamentale.

Eppure v'è una funzione alla quale oggi non si allude quasi mai, per quanto essa sia stata sfruttata anche troppo dal tempo di Shakespeare alla metà del XIX secolo. Men­tre scrivo commedie l'ho continuamente presente, ed è mol­to di mio gusto. Questa funzione consiste nel fornire una esibizione dell'arte della recitazione. Una buona commedia con cattive parti non è un'impossibilità; ma è una mostruo­sità. Una cattiva commedia con buone parti può reggere la scena ed essere mantenuta in vita dagli attori per secoli e secoli, ma, senza di esse, sarebbe stata condannata a morte dalla sua retrograda mentalità. Una gran parte del teatro britannico, da Shakespeare a Bulwer Lytton, è morto quan­to un arrosto di montone, e assolutamente insopportabile, se non recitato eroicamente; eppure Otello e Richelieu pos­sono ancora ammucchiare molto danaro nei botteghini dei teatri; e la Scuola della maldicenza rivive continuamente con immutato vigore. Rosalinda può sempre condurre in porto Come vi garba nonostante le saccenti futilità del ma­linconico Jacques; e Millamant, per quanto assurda es­sa sia, provoca ancora le stesse lodi allo spirito e allo stile di Congreve, il quale riteneva che la sifilide, i cornuti e le vecchie donne concupiscenti fossero argomenti di cui si poteva ridere.

I Sei di Calais è un pezzo di recitazione, e niente altro. Peraltro, è stata recitata tanto bene che nel XVIII secolo non si sarebbe parlato d'altro che della Siddons nella parte di Filippa. Ma la compagnia non è stata ringraziata che dal pubblico: i critici erano atterriti dallo scandalo, stramale­detta sia la loro vista!

Ho dovuto migliorare molto la vicenda raccontata da quello sciocco vecchio snob di Froissard, il quale credeva che « derubare e saccheggiare fosse una bella vita » quan­do il ladro era per lo meno un barone. A parer mio, egli ne trasse assai poco vantaggio.

In Alto Mare, 28 maggio 1935.

A. D. 4 agosto 1347. Di fronte alle mura di Calais, l'ul­timo giorno dell'assedio. Il padiglione di Edoardo III, re d'Inghilterra, è alla sinistra di chi guarda le mura. Il pa­diglione della sua consorte, Filippa di Hainault, è alla de­stra. Tra essi, vicino al padiglione del re, v'è un tronetto a due posti per le cerimonie pubbliche. Il fondo è gremito di tende; ma nel centro v'è un passaggio libero che con­duce attraverso il campo fino alla grande porta della città, che ha il ponte levatoio ancora alzato e la bandiera svento­lante.

Il Principe Nero, di diciassette anni, arriva impetuoso oltre la tenda della regina, inseguito da uno stalliere.

Il principe. Questo è il padiglione del Re ma non c'è neanche un soldato che mi annunci. Che sarà accaduto?

Si ode lo strillo di un bambino, proveniente dal pa­diglione reale, e Giovanni di Gaunt, di sette anni, bal­za fuori correndo verso la tenda di sua madre; ma il principe lo afferra.

Ohé, Giovanni! Che succede?

Giovanni (dimenandosi) Lasciami andare. Mio padre è su tutte le furie.

Il principe. Fra poco sarò sulle furie anch'io. (Lasciandolo andare) Via dalla mamma. (Il bambino va a rifugiarsi nel padiglione della regina).

Voce del Re. Grrr! Oa! Perché non m'è stato detto? Poffarbacco, perché non m'è stato detto?  

(Edoardo III, di trentacinque anni, balza fuori dal suo padiglione, con la bava alla bocca).

Fuori! 

(Lo stalliere vola via a gambe levate, per mettersi in salvo).

Quanto tempo è che sei qui? Nessuno mi dice mai niente. Tanto varrebbe fossi un cane invece di un re.

Il principe (sul punto di inginocchiarsi) Maestà...

Il re.     No no: niente convenevoli. Fuori le notizie. Niente di nuovo dalla Scozia? E dal Galles?

Il principe. Io...

Il re      (senza aspettare la risposta) Qua succedono cose inaudite. Il furore di Dio e di tutti i suoi santi si è scate­nato su questa spedizione.

Il principe. Spero di no, sire. Io...

Il re      (sempre infuriato) Che Dio sprofondi e stramaledica questa dannata città! C'era da pensare che questi cagnac­ci sarebbero usciti dai loro canili e sarebbero venuti stri­sciando ad appellarsi alla mia misericordia. Sono o non sono il loro legittimo sovrano?

Il principe. Indubbiamente, sire. Sono...

Il re.     Mi hanno tenuto in scacco per dodici mesi! Un an­no intero!! I miei affari in malora! I miei piani sconvol­ti! Il mio danaro finito! Morti, malattie, ammutinamenti, vita da cani qua in questo campo, inverno ed estate. Quel figlio di una malafemmina che sta al comando delle loro mura è venuto da me a chiedere le mie condizioni! le mie condizioni!!! M'ha guardato fisso negli occhi, a testa alta come se io... io, il suo re! fossi la polvere delle sue scar­pe. Perdio, voglio quella testa: per scaraventarla con un calcio ai miei cani, perché se la mangino. Voglio spaccare in quattro quell'impertinente del suo araldo...

Il principe (scandalizzato) Oh no, sire: l'araldo no: non lo potete fare.

Il re.     Mi hanno trascinato agli estremi, ora sono capace di squartare tutti gli araldi della cristianità. (Si siede in trono, e subito diventa ridicolmente sentimentale). Non ti ho detto il peggio. Tua madre, la regina, la mia Filippa, è qui: qui! Edoardo, delicata di salute com'è. Neanche questo li ha commossi. Vogliono che muoia: vogliono assassinare lei e quell'innocente nostro figlio non nato. Pensa un po', ragazzo: oh, pensa che orrore (sta quasi per piangere).

Il principe. Calma, padre mio; non è colpa loro: è colpa vostra.

Il re.     Ci scherzi sopra? Se non ne hanno colpa ne avranno sciagura; perché farò fare a brandelli i loro uomini, le loro donne e i loro bambini, dal primo all'ultimo, con un ferro rovente.

Il principe. Certo, sire, avete gran motivo di essere sec­cato; ma parlando sul serio e con calma, come stanno le cose? Debbono essere arrivati all'estremo della fame. Le mura reggono; ma lo stomaco no. Non potete offrire una condizione qualsiasi, tanto perché la finiscano. Il danaro scarseggia. Il tempo scarseggia. Le vostre minacce non fanno che disperarli di più. Ricordate:  è buona regola costruire ponti d'argento per il nemico in fuga.

Il re.     Credi che non lo sappia? Non sono stato buono, magnanimo? Non ho fatto tutto ciò che la cavalleria cri­stiana poteva pretendere? Essi ingiuriano la mia bontà: essa li incoraggia: mi disprezzano perché sono buono.

Il principe. Che condizioni avete loro offerto?Io

Il re.     Io non ho minacciato la vita di un solo cavaliere. Ho detto che a nessun uomo di condizione civile e di sangue nobile si doveva negare la grazia e il riscatto. Avevano il cavalieresco diritto di provare le armi contro me. Ma (alzandosi furente) questi infami lazzaroni di borghesi, questi animali di bottegai, e di mercanti che hanno ridotto il porto di Calais a un covo di pirati, que­sti usurai e trafficanti, questi cagnacci ribelli che si sono permessi di impugnare le armi contro chi è meglio di loro: dovrei perdonare la loro presunzione? Tradirei il nostro ordine, la cristianità, se non dessi un segnalato esempio.

Il principe. Ma scusate, sire, che cosa avete chiesto?

Il re.     Sei dei più danarosi tra i loro borghesi, così si fanno chiamare - perdio, cominciano a darsi arie di baroni -sei di loro debbono venire qua in camicia, con la corda infilata al collo, a farsi impiccare da me, di fronte a tut­to il loro popolo. (Alzando di nuovo la voce, tuonando) Moriranno della vergognosa morte che si sono meritati. Moriranno...

Una dama di corte entra.

La dama. Sire: la Regina. Sssh!

Il re      (in un soffio) La Regina! Ragazzo: non una parola, adesso. Il suo stato: non bisogna turbarla: prende que­ste cose tanto in uggia: sii discreto, per l'amor del cielo.

La regina Filippa, di trentatré anni, viene dal suo pa­diglione, col seguito.

La regina. Figliolo caro: benvenuto.

Il principe. Come state, signora madre? (Le bacia la mano).

Il re      (premuroso) Signora: siete ben coperta? È prudente che veniate qua, al freddo? Non è meglio che portino un braciere e dei cuscini, e una bevanda calda... una taz­za di latte...

La regina (con un inchino) Sire: mio diletto, non agita­tevi. Sto molto bene; e l'aria fresca mi giova. (Al Prin­cipe) Rallegra tuo padre, tesoro mio. Si preoccupa per la mia salute ma è della sua che deve aver cura. Io gli ho dato undici figli; e Sant'Anna m'è testimone che ho penato meno a sorvegliare loro che a sorvegliare questo soldatone, il bambino più grosso di tutti i nostri figli. (Al Re) Caro, ti sei messo la pancera di flanella?

Il re.     Sì, sì, sì, amor mio: non pensare a me. Pensa a te stessa e al nostro bambino...

La regina. Oh, lascia che di me stessa e del nostro bam­bino mi curi io. Ti assicuro che non sono una madre tanto gracile. E adesso, augusto figliolino, dimmi che cosa c'è di nuovo. Ho...

È interrotta da un acuto squillo dì tromba.

Il re.     Che c'è di nuovo? Che cos'è stato?

Giovanni di Gaunt, che è stato alle porte della città per godersi lo spettacolo,  arriva festoso.

Giovanni di Gaunt (piegando il ginocchio distrattamen­te) Sire: si sono arresi; hanno abbassato il ponte levatoio. I sei vecchi sono usciti dalla città in camicia e con le corde al collo.

Il re      (con uno scapaccione) Sssh! Sta' zitto, demonietto.

La regina. Dei vecchi in camicia di questa stagione!! Pi-glieranno freddo.

Il re.     Non è niente, signora mia amatissima: è la cerimo­nia della resa. Dovete rientrare: non sta bene che questi uomini seminudi si mostrino alla vostra presenza. Debbo riceverli da solo.

La regina. Non teneteli troppo a lungo in questo freddo, sire dilettissimo.

Il re      (con grande amore coniugale le lancia un bacio) Amo­re mio!

La Regina entra nel suo padiglione; un gruppo di no­bili del seguito, tra i quali sono Sir Walter Alanny e i Lord Derby, Northampton e Arundel, escono dalle loro tende e si radunano dietro il trono del Re, dove sono raggiunti dal Principe Nero, che rimane in piedi alla destra del Re e sorveglia Giovanni di Gaunt.

E adesso vengano avanti questi porci, queste sanguisu­ghe. Impareranno... (strillando) Portatemeli qua. Trasci­nateli qua. Glielo insegnerò io a tenermi qui fermo per dodici mesi. Glielo...

I sei borghesi, spinti avanti dagli armigeri, entrano: Sono in camicia e hanno una corda al collo, ognuno di loro ha in mano un mazzo di grosse chiavi di ferro. Il loro comandante, Eustachio de St. Pierre, si inginoc­chia davanti al Re. Quattro delle altre vittime, Piers de Wissant, Jacques de Wissant, Jean d'Aire e Gilles de Oudebolle, si inginocchiano dietro a lui, a due per due, e, seguendo il suo esempio, posano le chiavi in terra. Sono profondamente abbattuti, si conducono come con­dannati ma pure serbano una malinconica dignità. Non così può dirsi del sesto, Piers de Rosty (soprannomi­nato Lingualesta), l'unico che non abbia la barba né grigia né bianca. Ha la bazza straordinariamente osti­nata, coperta di peli radi ed ispidi. Si stacca decisamen­te dagli altri, passando dietro il tronetto regale e an­dandosi a piazzare alla destra del Re, impettito, in at­teggiamento di intensa ribellione. Il Re, accanito contro St. Pierre e gli altri, non se ne avvede fin a quando Pie­tro scaraventa le chiavi in terra con tanta violenza da far intendere che se ne sarebbe servito volentieri per spaccare la testa di Edoardo.

Il re.     In ginocchio, cane.

Pietro.   Sono un buon cane, ma non del tuo canile, Ciccio.

Il re.     Ciccio!!!!

Pietro.   Dài ordini ai cani tuoi: io sono un libero borghese e non prendo ordini da nessuno.

Prima che lo sbalordito  monarca possa ribattere, Eustachio si appella a Pietro.

Eustachio. Mastro Pietro, se non avete riguardo per voi stesso, pensate al nostro popolo, alle nostre mogli e ai nostri bambini, che sono alla mercé di questo grande re.

Pietro.   Loconfondi con suo nonno. Grande! (Sputa).

Eustachio. È così che mantenete la promessa di tolleranza?

Pietro.   Perché consumare la creanza con lui, Mastro Sin­daco? Non può far peggio che impiccarci; e quanto alla città, io l'avrei bruciata volentieri fino all'ultimo mat­tone, uomo per uomo, donna per donna, bambino per bambino, piuttosto che arrendermi. Sono venuto qua per capire bene questa storia dei sei da impiccare. Beh, mi può pure impiccare; ma non mi deve far prepotenza. Io sono cane quanto è cane lui, in qualsiasi giorno della settimana.

Il principe. Ohé, di' un po'! è così che uno del grado tuo parla con un re consacrato? Comportati come si addice a uno del tuo grado in presenza d'un re, oppure, su San Paolo...

Pietro.   Sai benissimo come ci siamo condotti in presenza d'un re per questi dodici mesi. Qualcuno di voi è saltato per aria, grazie a noi. È stata la carestia a batterci, non voi. Datemi un pasto sul serio e una buona spada e gioco tutto quanto su un combattimento leale da solo a solo con questo grosso tiranno, o col suo cuccioletto nero, se ha paura di me; e così vedremo chi di noi è il cane mi­gliore.

Il re.     Buttatelo in ginocchio. A calci negli stinchi, se oc­corre.

Tre armigeri saltano addosso a Pietro e lo costringo­no a inginocchiarsi. Gli prendono la corda che ha at­torno al collo e gli ci legano le caviglie e i polsi. Poi lo buttano su un fianco, dove rimane inerte.

E adesso, mastro borghese...

Pietro.   Bau-bau-bau!

Il re      (furibondo) Imbavagliatelo. Poffarbacco, imbavaglia­telo!

Strappano un pezzo di tela dal dietro della sua camicia e gli ci legano la bocca. Abbaia fino all'ultimo momen­to. Giovanni di Gaunt ride estasiato da questo spetta­colo, e fa ridere qualcuno dei soldati.

Il primo che ride sia scorticato vivo.

Silenzio di morte.

E adesso, scellerati, che cos'avete da dire per giustificare la vostra sfrontata e caparbia resistenza di tutti questi mesi a me, vostro sovrano?

Eustachio. Sire, non siamo degli scellerati. Siamo liberi borghesi di questa grande città.

Il re.     Liberi borghesi! Cantate sempre la solita musica? Benissimo, piegherò il collo di tutti i vostri borghesi ap­pena il boia avrà spezzato il tuo. Non sono forse il vo­stro signore? Non sono forse il vostro monarca consa­crato?

Eustachio. Losostenete voi, signore; e lo avete affermato con la forza delle armi. Ci dobbiamo sottomettere a voi e a Dio.

Il re.     Adesso Dio non c'entra! Che cos'avete a che fare con Dio, te e i pari tuoi?

Eustachio. Niente, signore: non abbiamo tanta presun­zione. Ma col dovuto rispetto per la vostra grandezza vorrei sottomettere umilmente alla vostra Maestà che Dio potrebbe avere qualcosa a che fare con noi visto che ci ha creati tutti uguali e ci ha redenti col sangue del suo amato figliolo.

Il re      (al Principe) Ti ci raccapezzi tu, figliolo? Mi ha ac­cusato di empietà? Se è vero, perdio...

Eustachio. Sire, sta forse a me accusarvi di qualcosa? Sia­mo qui, in ginocchio nella polvere, di fronte a voi, nudi e con al collo la corda che fra poco vi servirà per spe­dirci alla presenza del creatore nostro e vostro. (Batte i denti).

Il re.     Bravo:  tremate pure. Ne avete motivo.

Eustachio. Sì: tremo; e mi battono i denti: quei pochi che mi sono rimasti. Ma è a voi, signori, che vedete in quale pietoso stato siamo ridotti, è alla vostra generosità di nobili, alla vostra lealtà di buoni cavalieri che mi ap­pello perché siate testimoni che tremiamo per il freddo della mattina e per la nostra nudità. Ci inginocchiamo ad implorare la misericordia del Re per i nostri sciagurati e affamati concittadini, non per noi.

Il re.     Chi ha colpa della loro fame? Non hanno che da ringraziare loro stessi. Perché non m'hanno aperto le por­te? Perché hanno impugnato le armi contro il loro con­sacrato sovrano? Perché dovrei avere misericordia di loro o di voi?

Eustachio. Sire: non si è misericordiosi per una ragione, ma per amore di Dio dalle cui mani dobbiamo tutti im­plorare misericordia alla fine dei nostri giorni.

Il re.     Non vi salverete con le prediche. Che diritto avete, voi, di pregare? Parlare di questi misteri spetta ai sacer­doti e ai dottori della chiesa, non ai mercanti e agli usu­rai. Vi insegnerò io a ribellarvi contro i migliori di voi, a coloro che hanno ricevuto da Dio l'ordine di serbarvi in obbedienza e sottomissione. Siete dei traditori; e co­me traditori morirete. Ringraziate la mia misericordia se vi saranno risparmiati i tormenti che traditori e ribelli soffrono in Inghilterra. (Alzandosi) Portateli dal boia; e che i nostri trombettieri chiamino a raccolta sulle mura i loro concittadini perché traggano ammonimento da quei cadaveri penzoloni.

I tre armigeri cominciano a sollevare Pietro. Gli altri afferrano i suoi cinque compagni.

Il re.     No: lasciate in terra quel cane. La forca è troppo onore per lui.

La Regina, gravemente preoccupata, arriva in gran fret­ta, seguita dalle sue dame. Gli armigeri lasciano an­dare, titubanti, i borghesi. È evidente che l'arrivo della Regina annulla gli ordini del Re.

La regina. Sire, ciò che mi è stato riferito è dunque vero?

Il re      (correndo a fermarla) Signora: questo non è luogo per voi. Ve ne prego, ritiratevi. La questione è di natura tale che non sta bene ve ne immischiate.

La regina (eludendolo e venendo avanti a osservare i bor­ghesi) Ma questi gentiluomini! Sono quasi nudi. Non è né decoroso né sufficiente. Sono vecchi: sono mezzi in­tirizziti: dovrebbero essere a letto.

Il re.     Fra poco ci saranno. Lasciateci, signora. Sono affari di Stato. Non soffrono più di quanto meritino. Vi sup­plico e vi prego... vi ordino...

La regina. Mio caro signore, i vostri desideri sono la mia legge e i vostri ordini il mio dovere. Ma questi genti­luomini sono gelati.

Il re.     Fra poco lo saranno anche di più: non dovete, quin­di, preoccuparvi per questo. Vi dispiace, signora, di ri­tirarvi subito?

La regina. Immediatamente, signore mio caro. (A Eustachio) Signore: quando Sua Maestà avrà definito questa faccenda con voi, volete venire coi vostri amici a bere qualche coppa di vino caldo nel mio padiglione? Prov­vedere a farvi rifornire di vesti.

Il re      (soffocando per la collera) Vino cal...

Eustachio. Ahimè, signora, quando il Re avrà definito que­sta faccenda con noi, non avremo bisogno che delle no­stre bare. Anch'io vi supplicò di ritirarvi e di affrettare la nostra partenza per quella corte in cui non saremo ri­tenuti colpevoli per aver difeso i nostri focolari e le no­stre famiglie fino all'estremo delle nostre forze. Il Re non sarà defraudato della sua vendetta: noi siamo confessati e pronti.

La regina. Oh, vi sbagliate, signore: il Re è incapace di vendetta: mio marito è il fior fiore della cavalleria.

Eustachio. Conoscete assai poco vostro marito, signora. Noi sappiamo bene che cosa aspettarci da Edoardo Plantagenet.

Il re      (avventandoglisi addosso, minaccioso, oltre la con­sorte) Ah! davvero, mastro mercante? Mi conoscete me­glio della Regina! Voi e i vostri simili sapete che cosa aspettarvi dai vostri signori e governanti! Bravi, questa, volta non sarete delusi. Avete indovinato giusto. Sarete impiccati, tutti quanti; in camicia, per lo spasso dei miei stallieri e delle loro sgualdrine.

La regina. Oh no...

Il re      (tuonante) Signora: vi proibisco di parlare. Vi ho or­dinato di andar via: non avete voluto; e adesso vedrete che cosa vi avrei risparmiato se mi aveste obbedito. Per­dio, sarò padrone in casa mia e re nel mio campo. Por­tate via questi scellerati e impiccateli con tutta la barba bianca che hanno sul mento.

Il Re prende posto sul suo trono, con le braccia conser­te, implacabile. La Regina lo segue, lentamente e desolatamente. Prende posto vicino a lui. Il silenzio è mor­tale e penosissimo.

La regina (crolla in lagrime coprendosi il volto con le mani) Oh!

Il re      (fremendo) No no no no NO. Portatela via.

La regina. Sire: io sono sempre stata di grave impaccio per voi. Vi ho chiesto mille favori e grazie e regali. Sono esigente e ingrata, non fo che chiedere, chiedere, chie­dere. Quando mai mi avete negato qualcosa?

Il re.     Ebbene, è questa una buona ragione per cui io deb­ba dare e accordare, accordare e dare, per sempre? Non debbo dunque mai fare come voglio?

La regina. Oh, signore mio caro, la prossima volta che vi chiederò un grandissimo favore, negatemelo: mi ser­virà da lezione. Ma questo è così poca cosa. (Col cuore infranto) Non posso sopportare che mi rifiutiate una pic­cola cosa.

Il re.     Una piccola cosa! La chiamate una piccola cosa!

La regina. Una cosa tanto tanto piccola, signore. Voi siete il Re: avete a vostra disposizione migliaia di vite uma­ne: tutte le nostre vite, dalla più nobile alla più mise­rabile. Tutte le vite di questa città sono nelle vostre mani perché ne disponiate come credete meglio in questa ora della vostra vittoria: è proprio come se foste Dio stesso. Una volta avete detto che avreste condotto ai miei piedi dieci re in catene. Per quante cose io abbia implorato da voi, non ho mai chiesto i miei dieci re. Non chiedo che sei vecchi mercanti, uomini indegni del vostro sguardo regale, come mia parte del bottino della vostra conquista. Il loro riscatto non basterà a comprarmi una cintura nuo­va; eppure, mio signore caro, sapete che questa vecchia, che porto adesso, mi sta diventando stretta. Mi costrin­gete, dunque, a mendicare ancora?

Il re.     Vedo benissimo che non mi sarà permesso di fare a modo mio. (Comincia a piangere).

La regina (buttandogli le braccia al collo) Oh, signore mio diletto, sapete bene che morirei per risparmiarvi un atti­mo di dolore. Via, via, mio caro! (Lo accarezza).

Il re      (piagnucolando) Non mi permetti mai di fare quello che mi piace. Tanto varrebbe che fossi un cane invece di un re. Mi tratti come un bambino.

La regina. Oh, no, tu per me sei il più grande dei re, il più nobile degli uomini, il mio più caro signore e il mio più caro, più caro amore. (Si butta in ginocchio) Ascoltami: fai come vuoi; non dirò più una parola; non chiedo nulla.

Il re.     No: non chiedi nulla perché sai che avrai tutto. (Si alza, gridando) Portate via quegli uomini, che io non li veda più.

Il principe. Che cosa dobbiamo farne, sire?

Il re      (buttandosi nuovamente a sedere) Chiedilo alla Regi­na. Portateli a banchetto: offrite loro da mangiare e da bere; che si prendano la mia corona, il mio regno. Che si prendano i panni che ho addosso, il pane che ho in bocca, ma portateli via. Andate via, maledetti!

I cinque borghesi si inginocchiano riconoscenti di fronte alla Regina.

Eustachio (baciandole la mano) Signora: il nostro riscat­to vi comprerà una triplice cintura d'oro e una culla di argento.

Il re.     Sì, bene, che sia così: che sia così.

I borghesi si ritirano, inchinandosi alla Regina, che, ancora inginocchiata, li saluta graziosamente con un cenno della mano.

La regina. Non mi aiutate ad alzarmi, sire diletto?

Il re.     Oh sì, sì (alzandola): dovreste stare più attenta: chissà quanto male avreste potuto farvi buttandovi in gi­nocchio così.

La regina. Non mi sono fatta alcun male, sire diletto; ma voi mi avete fatto un mondo di bene. In vita mia non sono mai stata meglio, né più felice. Guardatemi. Non vi sembro raggiante?

Il re.     E io come sembro? Come un cretino.

Giovanni di Gaunt. Sire: gli armigeri vogliono sapere che cosa debbono fare di questo individuo.

Il re. Ah, me n'ero scordato. Fallo portare qui.

I tre armigeri trasportano Pietro davanti al Re, e lo la­sciano cadere. Il Re sta sogghignando. Il parossismo delle lagrime ha interamente scaricato il suo malumo­re. In lui albeggia l'idea che attraverso Pietro potrà far pari con Filippa per la sua recente sconfitta domestica.

La regina. Oh, questo pover'uomo non ha neanche una camicia sana da mettersi addosso. È tutta strappata: non è decente.

Il re.     Guardatelo bene, signora. Mi ha sfidato. Mi ha spu­tato addosso. Non v'è insulto che non abbia scaricato su me. Mi ha guardato in faccia e m'ha parlato come se fos­si uno sguattero. Vi giuro sulla Croce che m'ha chiamato Ciccio! I somari si chiamano Ciccio. Che cos'avete da dire, adesso? Anche lui ha da essere risparmiato, e acca­rezzato e nutrito e ricoperto coi panni vostri?

La regina (va da Pietro) Ma è livido di freddo. Ho paura che stia morendo. Slegatelo. Alzatelo. Cavategli quel ba­vaglio. Oh via! credo che sia il pizzo della sua camicia.

Il re.     È più pulito della sua lingua.

Gli armigeri liberano Pietro dalle corde e dal bava­glio. Egli è troppo indolito (dolorante) per potersi rialzare. Lo tirano su in piedi.

Pietro    (mentre lo alzano, brontolando e imprecando) Ah-uh-oh-ao!

Il re.     Beh? L'avete avuta la lezione? Siete pronto a invo­care la misericordia della Regina?

Pietro.   Eh-he! La femminuccia! Dài il bacetto a mamma!

Il re      (ridacchia) !!

La regina (severamente) Siete pazzo, mastro borghese? Non sapete che la vostra vita è in mano del Re? Preten­dete che io vi raccomandi alla sua misericordia e parlate in modo così indegno?

Pietro.   Prima di tutto, signora, sappiate che io non sono venuto qui con la camicia a brandelli. Ho dodici camicie tessute più finemente di qualsiasi veste che abbiate ad­dosso voi. Vi pare possibile che io, mastro merciaio, vo­glia andare nella tomba con panni che non siano i mi­gliori dei migliori?

La regina. Intanto aggiustatevi la creanza, signore; e poi aggiustatevi la biancheria; altrimenti non avrete mai il mio appoggio.

Pietro.   Con voi, signora, io non ho niente a che fare, per quanto abbia visto bene chi porta le brache in questa re­gale famiglia. Son poco pratico a trattare con signore belle e di qualità. Lasciatemi sbrigare questa faccenda con quel­lo smidollato di vostro marito.

La regina. Sconterete la vostra insolenza. (Al Re) E voi, mio signore, state li fermo ad ascoltare un bottegaio che mi parla con questo tono?

Il re      (ghignando) Questa mattina sono d'umore pietoso. Quel poverino ha da essere compatito, tutto tremante co-m'è, coperto soltanto da una camicia che non ha neanche il pizzo sano.

Pietro.   Tremante! Anche se foste cinquanta re invece d'u­no, vi direi che siete bugiardo fino alla punta dei denti. Non c'è uomo al mondo che possa compatire Pietro Lin-gualesta, un cane della pidocchiosa Champagne.

Il re      (andandogli accanto) Eh! Un cane della Champagne! Oh, dovete perdonare quest'uomo, signora; perché anche la mia nonna abbaiava da quella pidocchiosa provincia; quindi anch'io sono un cane della Champagne. Ci rico­nosciamo all'abbaio, noi. (Si rivolge a lui digrignando i denti) Eh?

Pietro    (ringhiandogli in faccia, come un cane) Grrrr!!!

Il re      (ricambiando il versaccio, viso a viso) Grrrr!!!!!!

Ripetono questo  esercizio, con grande scandalo della Regina, fino a che diventa una sbalorditiva imitazione di una zuffa tra due cani.

La regina (dividendo i due cani) Oh, vergogna, sire! E voi, scellerato: vi farò mettere la museruola e trascinare per le strade alla catena, e alloggiare in un canile.

Il re.     Siate misericordiosa, signora. Vi ho chiesto molti favori, e voi me li avete accordati, come, fra poco, a Dio piacendo, sarà provato al mondo. Volete negarmi que­sto?

La regina. Volete schernire il mio stato di fronte a que­sto insolente e di fronte al mondo? Non lo tollero.

Il re.     In fede mia, carissima, non c'è scherno. Ma voi non siete avvezza a trattare con i cani della pidocchiosa Cham­pagne. Bisogna compatire questo povero diavolo che trema.

La regina (arrabbiata) Non sta tremando.

Pietro.   No, per tutti i santi del cielo e tutti i diavoli del­l'inferno. Ben detto,  buona donna.

Le dà di gomito, provocando il colmo della sua indi­gnazione.

Il re.     Sentite, sentite, mia cara: vi chiama buona donna. Siate gentile con lui. Non è che un povero vecchio segu­gio che ha perso la metà dei denti. Il suo stato farebbe compassione a un cuore di pietra.

Pietro.   Puòdarsi che sia un vecchio segugio; ma se avessi giurato di impiccarci tutti e sei come aveva giurato lui, non c'è moina di donna, per quanto bella e tenera fos­se, che m'avrebbe fatto cambiar idea. Via, piangi pupo! Dalle la spada e vai nel cantuccio con la conocchia. Qua, il cavallo che corre meglio è la puledra grigia. Fate del vostro peggio, signora: il vostro coraggio mi piace più del suo piagnisteo.

La regina (furibonda) Cacciatelo via, signore. È troppo brutto; e le sue parole sono schifose. Certi oggetti deb­bono star lontani dalla mia vista: volete che partorisca un mostro? Portatelo via.

Il re.     Portatelo via. Non fategli male ma non lasciatelo venire in presenza della Regina. Svelti. Via con lui.

Gli armigeri afferrano Pietro che si dibatte violentemente.

Pietro.   Via le mani, bestiacce. Arrr! Grrr! (Mentre lo tra­scinano via, sopraffatto) Salve, Ciccio. (Finisca con una spiritosa imitazione del raglio d'un somaro).

Il re.     Eccocome li fabbricano gli uomini nella Champa­gne. Ti giuro sulla Croce che non m'importa se un bri­ciolo di quell'uomo entra nel figlio nostro.

La regina. Che vergogna! Che vergogna! Gli uomini non hanno un po' di pudore?

Il Re la afferra tra le braccia, ridendo fragorosamente. La risata si diffonde a tutti i soldati e i cortigiani. L'in­tero  campo sembra sconvolto da un'ondata d'ilarità.

No no: che vergogna! che vergogna!

Il re le chiude la bocca con un bacio. Pietro raglia me­lodioso in distanza.