I studenti

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I Studenti

I Studenti

Di Ludovico Ariosto

PERSONAGGI

BONIFAZIO

vecchio

CLAUDIO

Scolare

EURIALO

scolare figliuolo di Bartolo

ACCURSIO

famiglio di Eurialo

PISTONE

famiglio di Bartolo

VERONESE

vecchia

IPPOLITA

innamorata di Eurialo

STANNA

fantesca di Bartolo

RICCIO

Staffiere

FRATE PREDICATORE

BARTOLO

padre di Eurialo

MESSER LAZZARO

dottore padre di Flamminia

(Aggiunti in L'IMPERFETTA)

AGNOLO

forestiero

FROMBA

famiglio

FANTESCA

di Bonifazio

[La scena è in Ferrara.]

ATTO PRIMO

SCENA I

Bonifazio vecchio, Claudio scolare

BONIFAZIO:

M'incresce che vogliate, messer Claudio,

Così partirvi: non perché mi manchino

Altri scolari a ch'io possa le camare

Mie locar, ché n'ho molti che le vogliono;

Ma perch'in questi pochi giorni postovi

Avevo amor, ché mi parea che proprio

Voi mi foste figliuolo.

CLAUDIO:

Io vi ringrazio

Di cotesto buon animo, e in perpetuo

Ve n'ho d'aver, dovunque io sia, grand'obligo

E veramente non minor molestia

Sento io di lasciar voi che voi me; e abbiatelo

Per certo che la dolce et amorevole

Natura vostra m'ha stretto d'un vincolo

Con voi sì forte di benevolenzia

Che, fin ch'io viva, nol credo disciogliere.

BONIFAZIO:

Onde nasce cotesta così sùbita

Volontà di partirvi?

CLAUDIO:

Da la solita

Disgrazia mia ch'ovunque vo mi séguita;

E perché non crediate, Bonifazio,

Ch'a tal partenza leggerezza d'animo

Mi muova, o ch'io la faccia volontaria,

Io vi dirò quel che però a molti uomini

Io non direi; ma non debbo nascondermi

A voi ch'in luogo di padre vi reputo.

Or ascoltate.

BONIFAZIO:

Io v'ascolto.

CLAUDIO:

A principio

Che da mio padre fui mandato in Studio

Da Verona, la qual è la mia patria,

A Pavia andai, e con un messer Lazzaro,

Che vi leggea la sera l'Ordinaria,

Mi méssi in casa. Quasi in un medesimo

Tempo vi venne a star messer Eurialo,

Figliuol di questo vicin vostro Bartolo,

Che, com'io, pur quell'anno entrava in Studio.

Quivi s'incominciò quell'amicizia,

Quella fraternità fra noi che dettavi

Ho più volte.

BONIFAZIO:

Che forse fu potissima

Cagion di farvi venir qui.

CLAUDIO:

Consentovi

Che ne fu in parte, ma non già potissima.

Udite pur, che ben vi farò intendere

Il tutto. Avea il dottor una bellissima

Figliuola, et ha, nominata Flamminia,

La qual non vidi prima, ch'ardentissima–

mente di lei mi accesi, et ella il simile

Fece di me. Sol non venimmo all'ultime

Conclusion, ché 'l padre con gran studio,

E la madre, dì e notte la guardavono;

E mi giovava poco che la balia

Sua m'aiutasse e m'aiutasse Eurialo

Ancora, ma con qualche più modestia

E più segretamente. E quest'ufficio

Parte facea mosso da l'amicizia,

Parte perché da me n'avea buon cambio:

Ché col mio mezzo si godea una giovane,

Bella e molto gentile, ancor che d'umile:

Grado fosse, la qual stava ai servizii

Quivi d'una Contessa, a cui domestico

Er'io molto et amico, e con cui simile–

mente stava una donna de la patria

Mia, che familiar m'era et intrinseca,

E ne potevo disporre; e disposine

In guisa, che le feci far tal opera

Ch'in pochi giorni al suo disegno Eurialo

Venne. Or, tornando al caso mio, brevissimo

Fu il mio piacer: non poté andar si tacita

La cosa che la madre ad avvedersene

Non comminciasse, et indi messer Lazzaro;

Il qual, come prudente, alcun còlera

Di ciò non dimostrando, trovò idonea

Causa, e diversa da questa, di spingermi

Di casa sua con onesta licenzia.

Io, pur seguendo l'impresa, e avolgendomi

Per quella strada con troppa frequenzia,

E molte volte sul canton fermandomi

E facendo atti e cenni che dar carico

A tutta quella famiglia potevano,

Feci sì che 'l dottor si pose in animo

Di far ch'io non stessi in Pavia, e successegli:

Ch'indi a pochi di occorse ch'in le pratiche

Del Rettor, una notte, un omicidio

Fu fatto. Io mi trovai quella nott'essere

Là presso, e al rumor corsi. Il dottor sùbito

Mi fece dar la colpa, indi procedere

Contra; e in un tratto fui per contumacia

Condennato, e fu forza di fuggirmene,

E de' studenti, amici e gentiluomini

Lasciar le compagnie. Ma più increscevole

Mi fu perder la vista di Flamminia;

E se non fosse stato che con lettere

Spesso novella me n'ha dato Eurialo,

Non so come sì longa resistenzia

Potuto avessi far al desiderio

Che nott'e dì mi rode, afflige e macera.

BONIFAZIO:

Se l'amavate tanto, domandarglila

Per moglie dovevate. Forse datavi

L'avrebbe; e che nol fêste maravigliomi.

CLAUDIO:

Né di domandarglila né di prenderla

Avrei avuto ardir, senza licenzia

Di mio patre che vivea allora; e dubbio

Non è che ciò mio patre consentitomi

Mai non avria: del qual sapevo l'animo

Esser che prima io finissi 'l mio studio

E ch'io mi addottorassi, indi in la patria

Darmi, a suo modo, una moglie ricchissima.

BONIFAZIO:

Ora che senza patre sète libero,

Perché coi vostri amici non fate opera

Ch'egli pur ve la dia?

CLAUDIO:

Scrissi ad Eurialo,

A' di passati, che ne fêsse pratica;

E la risposta sua mi fe' da Padova

Levare incontinente e qui venirmene,

Perch'egli mi avisò che messer Lazzaro,

Poi ch'a Pavia levato era 'l salario

Alli dottor, né più si facea Studio

Per le guerre che più ogni di augumentano,

Avea tramato, pel mezzo di Bartolo,

Suo padre d'esser condotto qui a leggere;

E che l'avea ottenuto, et era in ordine

Con tutta la famiglia per venirsene;

E che l'abitazion sua doveva essere.

Qui ne la casa loro; e confortavami

Ch'anco io mi ci trovassi, che 'n presenzia

Si fan meglio le cose che con lettere.

Per questa causa ero venuto, e postomi

In casa vostra per potere...

BONIFAZIO:

Intendovi.

CLAUDIO:

...Meglio fruir la vista di Flamminia

BONIFAZIO:

Né potevate aver luogo più commodo.

CLAUDIO:

Poi ch'io son qui, mi par che più non séguiti

Che s'abbia a far in questa terra Studio.

Poi giunse, come voi sapete, Eurialo

L'altr'ieri, et apportò che messer Lazzaro

È condotto, e che debb'andar a Padova,

E che la via del Po che va a Vinegia

Farà, senz'altrimenti qui venirsene.

BONIFAZIO:

Oh, quest'è dunque la cagion che Bartolo,

Che molti giorni era stato aspettandolo,

Questa matina si è partito, e dicono

Li suoi di casa che va sino a Napoli.

CLAUDIO:

Potete or, senza ch'io 'l dica, comprendere

Che m'induca, mi sforzi e mi necessiti

A partir da Ferrara e gire a Padova.

Ma, per non perder tempo, anderò a intendere

Qua, dove i carrattieri si riducono,

S'a Francolino è burchio per Vinegia

Che parta oggi o domane; ch'io voglio essere,

S'io potrò, prima là di messer Lazzaro.

BONIFAZIO:

Gli è buon ch'io torni in casa e faccia cuocere

Il desinar, sì che possa ir a tavola

Come ritorni. Ecco il figliuol di Bartolo

Che vien in qua; vuo' intendere se Bartolo

È partito. Buon dì, messer Eurialo.

SCENA II

Eurialo, Bonifazio

EURIALO:

Dio ve ne renda mille, Bonifazio.

BONIFAZIO:

Èssi partito?

EURIALO:

Or ora. Non debb'essere

Ancor al Ponte

BONIFAZIO:

Com'ha egli indugiatosi

Tanto, ch'omai credea fosse a San Prospero?

EURIALO:

Gli avea promesso di prestar, quell'asino

Di Giannuol, un caval ch'iersera, udendolo,

Era Pegaso, e poi gli volea mettere

Sotto una mula che sta come un trespolo

In tre piedi, viziosa più che il diavolo.

BONIFAZIO:

Com'ha egli fatto?

EURIALO:

Siamo iti a un stallatico:

Ch'è andando verso il Ponte: è, credo, l'ultimo;

E quivi ha avuto un ronzino c'ha un ambio

Miglior del mondo, ma sì mal in ordine

Che più d'un'ora siàn stati acconciandoli

Cinghie, staffili, pettoral e redine.

Al fin pur l'ho messo a cavallo e vassene,

Che Dio 'l conduca

BONIFAZIO:

E andarà solo

EURIALO:

Aspettalo

A Bologna un famiglio ch'al servizio

Nostro stette altre volte, e apparecchiatogli

Ha dui cavalli da vettura, ch'ottimi

Son da viaggio, secondo il suo scrivere.

Giunto in Bologna, fa pensier fermarvisi

Tre giorni o quattro, tanto che vi capiti

Alcuna compagnia che vada a Napoli.

BONIFAZIO:

E che buone facende così il menano?

EURIALO:

Già molti anni v'ha voto. Messer Claudio

È in casa?

BONIFAZIO:

Non.

EURIALO:

Com'egli torna, ditegli

Ch'io vuo' che mangi meco alla domestica

Questa matina.

BONIFAZIO:

Gliel dirò. Voletemi

Commandar altro?

EURIALO:

Non altro.

BONIFAZIO:

(Dovendogli

Dar costui disinar, meglio è non cuocere

Quelle starne. Io vo a dir che non si mettano

Più al fuoco.)

EURIALO:

Colui là mi par Accursio.

È egli o no? Senza dubbio egli è Accursio,

Il mio famiglio che dietro restatomi

Era a Pavia, per far miei, libri mettere

E miei forzieri in nave. Alcuna lettera

Arrecata m'avrà da la mia Ippolita.

O vita mia, quanto, duro e difficile

M'è il non poter vederti! Fia impossibile

Che senza la tua vista io possa vivere!

SCENA III

Eurialo, Accursio

EURIALO:

Quando giungesti?

ACCURSIO:

Io giung'ora.

EURIALO:

Hai tu lettere?

ACCURSIO:

N'ho così poche che so a pena leggere,

Avenga che con voi sia stato in Studio.

EURIALO:

Non motteggiar. M'hai tu portate lettere

De la mia vita?

ACCURSIO:

Messerno.

EURIALO:

Farestime

Ben maledir e rinegar e rompere

La pazïenzia. Ma tu ridi? Dammile,

Non mi voler tormentar, ché credibile

Non è che stato tu fossi tant'asino

Che senza farle motto in qua venutone

Fossi, né t'avrebb'ella, senza scrivermi,

Lasciato mai così venire.

ACCURSIO:

Fecile

Motto purtroppo, e pur senza sue lettere

Io son venuto

EURIALO:

Ohimè! com'è possibile?

Io vo' ben dir... Ma tu pur ridi...

ACCURSIO:

Or ridere

Non posso e non aver però sue lettere?

Ma s'io avessi di lei meglio che lettere?

EURIALO:

E che?

ACCURSIO:

Ve lo dirò. Ma prima ditemi

Voi quando il vecchio sia per gire a Napoli.

EURIALO:

Si part'or ora per andarvi, et essere

Non può lontan ancor un miglio.

ACCURSIO:

Ditemi

II vero.

EURIALO:

Io 'l dico: si è partito.

ACCURSIO:

Diagli

Dio buon viaggio. Ora, messer Eurialo,

Potete dir che siate felicissimo

Per la sua andata.

EURIALO:

E come?

ACCURSIO:

Era pericolo

Se non si partiv'oggi ch'ove gaudio

Vi avrò portato, portato molestia

V'avessi e briga:

EURIALO:

C'hai portato?

ACCURSIO:

Vòlsivi

Dir ch'avevo condotto, ché gravatomi

Troppo avrebbon le spalle.

EURIALO:

Or su, espediscimi

ACCURSIO:

S'io vi dicessi che venuta Ippolita

Fosse a Ferrara, vi parria miracolo?

EURIALO:

Come venuta?

ACCURSIO:

In nave.

EURIALO:

La mia Ippolita

È in Ferrara?

ACCURSIO:

È in Ferrara.

EURIALO:

Ove?

ACCURSIO:

Lasciatala

Ho in San Polo e m'aspetta fin che a rendere

Le vo risposta.

EURIALO:

Non ti posso credere,

S'io non la veggo.

ACCURSIO:

Venite, e vedretela.

EURIALO:

Com'è così venuta?

ACCURSIO:

In nave, dicovi.

EURIALO:

Non ti domando cotesto, domandoti

Per qual via e come di casa partitasi

Sia de la sua patrona.

ACCURSIO

Per la solita

Via ch'usan gli altri è venuta; e debb'essere

Uscita per la porta.

EURIALO:

Tu mi strazii

E mi dileggi, gaglioffo!

ACCURSIO:

Anzi dicovi

La verità, né mi volete credere

EURIALO:

Ell'è venuta certo?

ACCURSIO:

Certo.

EURIALO:

O anima

Mia cara, o vita mia! Mi sento struggere,

Mi sento il cor liquefar di letizia.

Ma dimmi un poco la cosa per ordine.

ACCURSIO:

Ve la dirò, se m'ascoltate.

EURIALO:

Ascoltoti.

ACCURSIO:

Io ritrovai la Veronese, e dissile

Ch'io m'ero per partir il marte prossimo

(Questo fu un venerdì), sì che se Ippolita

Volea scriver, scrivesse. Ella, con lagrime

Sugli occhi e tutta infiammata di còlera,

Si scusò non poter far quest'ufficio,

Perché da la Contessa quel di proprio

Era stata di casa, con suo obbrobrio,

Cacciata; e questo perché alcun malevoli

Le avean scoperto l'amor e 'l commercio

Che con voi per suo mezzo tenea Ippolita;

E che rumor e pugni avea la giovane

Avuti, et era per averne in copia;

Ma pur per altra via le faria intendere

Quel che detto io le avea. Poi, la medesima

Sera, venne a trovarmi con dui piccioli

Forzieri e un sacco pien di masserizie,

E mi pregò ch'io gli facessi mettere

In nave con le vostre robe. Tolsigli,

Non pensando altro. L'altro dì, che sabato

Fu, senti' dir per la città ch'Ippolita

E che la Veronese fuggite erano

Da la Contessa e dove non sapevasi.

Io me ne posi, a dirvi 'l ver, fastidio,

Ancora ch'io pensassi ch'elle fossino

Venute a questa via; ma dei pericoli

Stavo in timor ch'incontrar lor potevano

Nel camin.

EURIALO:

Gli è per certo stato l'animo

Lor gagliardo.

ACCURSIO:

Anzi audace e temerario.

EURIALO:

Anzi pur grato, benigno, amorevole.

ACCURSIO:

Io feci por le robe in nave, e messimi

Alla via, e quando ci fermamo al dazio

Di Piacenza, trovai che m'aspettavono.

EURIALO:

Non è già 'l primo né 'l secondo indizio,

Ma si bene il maggior questo che datomi

Ha de l'amor che mi porta. Ma séguita.

ACCURSIO:

Quindi la feci tôrre in nave, et hovela

Condotta. Ma al cor sempre ho avuto un stimolo:

O che de la patrona sua venissemi

Alcun famiglio dietro, o che levatami

Tra via fosse altrimente, o che, trovandosi

Qui vostro patre, voi darle recapito

Non poteste, e ch'in luogo di letizia,

La sua venuta affanno avesse ad esservi.

EURIALO:

La sua venuta in ogni tempo, o fosseci

Mio patre o non ci fosse, non puote essermi

Se non gioconda; e senza fin ringraziola.

ACCURSIO:

Meglio m'è tornar dunque, e far che vengano.

EURIALO:

Dove?

ACCURSIO:

Qui in casa.

EURIALO:

Qui in casa? Non, domine

Non sai come Pistone è rincrescevole?

Diria ch'io comminciassi presto.

ACCURSIO:

Oh diavolo!

Mi maraviglio ben di voi! Voletevi

Lasciar a un sciagurato sottomettere?

Non sète omai più fanciullo. Mostrategli

Che voi volete esser padrone e fatelo,

Se vi vuol soprafar, parere un asino.

EURIALO:

Se 'l vecchio fosse sì lontan, che dubbio

Del suo tornar non avessi pel scrivere

Di costui, la farei secondo l'animo

Tuo; ma sii certo ch'a un'ora medesima,

A un tempo, a un punto ch'elle in casa entrassino,

Manderia dietro al vecchio, e querimonia

Ne faria tal che lo faria rivolgere.

Meglio è che troviàn lor oggi una camera

In compagnia di qualche buona femina.

ACCURSIO:

Bona? e dov'è?

EURIALO:

Che ne so io? Vòlsiti

Dir de le manco rie che si ritrovano.

ACCURSIO:

In questo mezzo vi par ch'elle debbiano

Star in chiesa digiune, o si riducano

Coi frati alla piatanza in reffettorio?

Ma facciàn altrimente

EURIALO:

Come?

ACCURSIO:

Dicasi

In casa ch'elle son di messer Lazzaro

La moglie e la figliuola, che doveano

Venir, e scrisson poi che non venivano

Pin; dichiàn or che di novo mutatesi

Sono, e che pur Ferrara veder vogliono,

Prima che passin per andar a Padova.

EURIALO:

Tu parli ben; ma come verisimile

Potrà parer che senza messer Lazzaro

Siano venute; e che seco non abbino

Almeno una fantesca?

ACCURSIO:

Messer Lazzaro

Con la famiglia e robe diremo essere

Ito per l'altro Po che va a Vinegia,

Ché, com'uom c'ha rispetto et avertenzia,

Non ci vuol dar molta spesa. Lasciatemi

Pur governar questa cosa.

EURIALO:

Governala

Come ti par.

ACCURSIO:

Datele voi principio.

Andate a ritrovar Pistone, e ditegli

Che giunta è la moglier di messer Lazzaro

Con la figliuola a San Polo, e che vengono;

E ch'io son corso inanzi a nunziarvelo,

E ch'io lor torno incontra. Et aspettatemi

In casa, e fate intanto che le camere

Si spazzino, e li letti si rassettino,

E le spalliere ai luoghi lor s'attacchino.

E voi mostrate gran solecitudine,

Come se veramente vi venissero

Persone a casa di rispetto, e siavi

Più ch'altro a core ch'abbian buona tavola.

EURIALO:

Tu che farai?

ACCURSIO:

C'ho a far, se non tornarmene

Là dove l'ho lasciate, e dir che vengano?

EURIALO:

Or va', ma prima avertisci et informale.

ACCURSIO:

Le avertirò, ma d'informarle ufficio

Vostro sarà.

EURIALO:

Non cianciare. Instruiscele

Di ciò ch'elle hanno a dire et a rispondere.

ACCURSIO:

Le farò dotte in modo che ben credere

Si potrà ch'allevate sian in Studio.

Ma udite: quasi m'era di memoria

Uscito che la Veronese, avendole

Io detto a caso che qui è messer Claudio,

M'ha imposto ch'io vi preghi e che di grazia

Domandi che facciate che non sappia

Che siano in questa terra ella né Ippolita.

EURIALO:

Perché?

ACCURSIO:

Mi penso che sia perché, avendola

Posta con la Contessa messer Claudio,

La si vergogni, e le paia che carico

A lui ritorni questo, che fuggitasi

La se ne sia, e sviata abbia Ippolita.

Et appresso mi ha detto che, volendole

La Contessa mandar dietro, non dubita

Mandarà a Ferrara; e qui trovandosi

Messer Claudio, farà il messo ricapito

A lui, sì com'ad uomo ch'amicissimo

Sia de la sua padrona e molto intrinseco.

EURIALO:

Non sa la Veronese, non sa Ippolita

Che, se de la Contessa è messer Claudio,

Ch'egli è più mio, né mai saria per movere

Lingua di cosa ove credesse offendermi?

ACCURSIO:

Ma non sapete voi che messer Claudio

Meglio dirà che non ci son, credendosi

Di dir la verità, che connoscendosi

Bugiardo? E meglio le parole vengono

Che si parton dal cor, che quelle ch'escono

Sol da la bocca, alla intenzion contrarie.

EURIALO:

Tu pensi bene. Or dille che non dubiti,

Ché, poi che non le par, non son per dirglilo.

ATTO SECONDO

SCENA I

Bonifazio, Pistone famiglio

BONIFAZIO:

Meglio è ch'io vada in Piazza, e ch'io faccia opera

Col bidel che mi trovi alcuno giovene

Costumato e da bene, a chi le camere

Mie lochi; che, volendo messer Claudio,

Come dice, partir, vòte non restino.

PISTONE:

Vo' uscir di casa, né prima lasciarmici

Oggi trovar, che sian sonati i vesperi.

BONIFAZIO:

Ecco la feccia di quanti si trovano

Famigli negligenti, temerarii,

Cianciatori! Non so come potutolo

Abbia patir sì longamente Bartolo.

PISTONE:

Dovean mandar un messo inanzi, o scrivere,

E darne almen d'un mezzo giorno spazio.

Gli è un mese ch'io non sento altro che “vengono,

Non vengono”. Al fin pur venuto è il “vengono”,

Et è venuto, quando con più incommodo

Nostro ha potuto venire. Ora mangino

Di quel ch'è in casa, e faccian come possono,

Ch'io non so come proveder sì sùbito,

Né, sapendol, ci ho tempo; che m'importano

Pià le facende che 'l patron impostemi

Ha che l'apparecchiar credenze e tavole.

BONIFAZIO:

Che vuol dir quest'apparecchio

PISTONE:

Ci vengono

Forestier.

BONIFAZIO:

E chi son?

PISTONE:

Non posso dirlovi.

BONIFAZIO:

Perché?

PISTONE:

Perc'ha commesso in casa Eurialo

Che non si dica fuor.

BONIFAZIO:

Fati in qua, dimmelo

Dentro l'orecchia; ma non vòlse intendere

Di me.

PISTONE:

Nol so. Ha ben commesso in specie

Che non si dica a questo vostro giovine

Che vi sta in casa.

BONIFAZIO:

E perché?

PISTONE:

Voglio dirlovi

Pur com'egli è: di voi disse il medesimo,

Che non vi si dicesse.

BONIFAZIO:

È egli possibile?

PISTONE:

Gli è com'io dico. Ma a sua posta vogliolo

A voi dir ogni modo, che vi reputo

De' nostri; poi la cosa non veggo essere

Tanto importante ch'io la debba ascondere;

E gracchii quanto vuol. Son li medesimi

Che questi di aspettamo, e che poi scrissero

Che non volean più venir. Or ci giungono

Adosso alla sprovista, quando Bartolo

È partito.

BONIFAZIO:

E chi son? Pur messer Lazzaro,

Quel dottor da Pavia?

PISTONE:

Non messer Lazzaro,

Ma la moglier e la figliuola. Vogliono

Veder Ferrara. Montati a Fellonica

Son ne le navi del mercato, e vengono

Elle due, e con lor solo è il nostro Accursio,

Senza più.

BONIFAZIO:

E dove resta messer Lazzaro?

PISTONE:

Va giù per l'altro Po. Non ci vuol, dicono,

Dar tanta spesa.

BONIFAZIO:

Debbe esser che misero,

Se si va assottigliando in cose minime!

PISTONE:

Anzi pur grandi, sì che già m'increscono.

BONIFAZIO:

Staranci assai?

PISTONE:

Cinque o sei giorni. Aspettano

Un vecchio lor di casa, che debb'essere

Qui presto, il qual poi le conduca a Padova.

BONIFAZIO:

Perché non vuol che si sappia?

PISTONE:

Al giudicio

Mio, queste donne, perché qui si veggono

Senza serve e famigli, si vergognano

Ma voglio andar.

BONIFAZIO:

La via è spedita e libera.

PISTONE:

Ma, per Dio, questa cosa, Bonifazio,

Stia in voi.

BONIFAZIO:

Non dubitar, che secretario

Non potreste trovar di me più tacito.

(Quel ch'egli ha dett' a me, se cento vogliono

Saper, lo dirà a tutti, ma ponendovi

Patto però ch'ad altri nol redicano.

E di quel ch'egli afferma ch'abbia Eurialo

Commesso, che né a me né a messer Claudio

In specie se ne parli, si può credere

Che se ne menta. Ma quest'è 'l suo solito,

Di sempre riportar ciance e di spargere

Zizzanie e d'attaccar risse e discordie,

Col malanno che Dio gli dia. Ma debbono

Esser queste le donne che s'aspettano

Qui, che con lor veggio che viene Accursio.

Vuo' veder se però questa Flamminia.

È bella come la fa messer Claudio,

E s'egli ha avuto in amar buon giudicio.

SCENA II

Veronese vecchia, Ippolita, Accursio, Bonifazio

VERONESE:

I gesti e i detti nostri si conformino

Con quel ch'abbiamo disegnato, Ippolita,

Sì che né questi altri famigli accorgersi,

Né queste serve c'hanno in casa, possano

Che noi non siamo quelle che 'l nostr'utile

Commun richiede che debbiamo fingersi

IPPOLITA:

Saprò ben fare io per me .

VERONESE:

Sì, se Eurialo

Non ci fosse.

ACCURSIO:

Anzi 'l farà meglio, essendoci

Egli.

VERONESE:

Di quel far non dico, ma dicole

Ch'avrà dificoltà a tenersi, essendoci

Lui, di non usar atto, o riguardandolo

Più del dover, o accennando e ridendoli

In viso, o motteggiandolo, che liquido

E chiaro faccia altrui che fra lor s'amino.

IPPOLITA:

Se ci sarà persona a cui sia debito

D'aver rispetto, io starò cheta et umile,

Con gli occhi bassi, che parrò una monaca:

ACCURSIO:

Ecco la casa là del nostro Eurialo.

IPPOLITA:

O cor mio caro, o vita mia! Difficile

Sarà potermi tener di non correre

Ad abbracciarlo.

VERONESE:

Vedi come, Accursio,

Mi è costei bene ubidïente!

IPPOLITA:

Affrettati,

Vecchia! Cotesto passo di testuggine

Allunga un poco. Vuoi che stiàn a giungere

A quella casa cento anni?

ACCURSIO:

È impossibile

Insomma ch'agli amanti legge mettere

Si possa. Ecco, siàn pur a casa. Entrateci.

IPPOLITA:

Entrate, madre.

VERONESE:

Va' là, ch'io ti séguito,

Figliuola.

ACCURSIO:

Non mi dispiace il principio.

SCENA III

Bonifazio

BONIFAZIO:

È assai bella e, per Dio, c'ha gentil aria.

Ma che tardo io di cercar messer Claudio,

Tanto ch'io 'l trovi, sì ch'altro non l'occupi,

E gli dia prima di me quest'annuncio?

Ma dove 'l cercarò? Potria, dovendosi

Partir domane, o forse bene oggi, essere

Ito a pigliar dai dottori licenzia

E dai compagni, o a farsi far le polizze

De le sue robe in gabella. Più facile

E più sicur sarà star qui, e non perdere

Questa fatica. Non pò star... Ma eccolo,

Eccol, per Dio, gli è desso! Ora apparecchisi.

Di darmi 'l beveraggio, ch' io lo merito.

SCENA IV

Claudio, Bonifazio

CLAUDIO:

Non so se dica il ver, ma mal credibile

Mi par però che senza messer Lazzaro

Debban venir. Ma sia 'l vero che vengano;

Perc'ha così commesso in casa Eurialo,

A quanti ve ne son, che non mel dicano?

Se non vuol pur che gli altri fuor lo intendano

(Che la causa non so, né imaginarmela

Posso), non dovria almeno a me nasconderlo.

Ma sono appresso ove posso chiarirmene.

BONIFAZIO:

Che mi volete pagar, messer Claudio,

S'una novella vi do che gratissima

Vi fia?

CLAUDIO:

La so, ché 'l servitor di Bartolo

Che m'ha trovato su quel canto, dettala

M'ha.

BONIFAZIO:

Ve l'ha detta Piston?

CLAUDIO:

Piston dettami

L'ha.

BONIFAZIO:

Guata bestia! Mi prega di grazia

Ch'io non vel dica, e poi vien egli a dirvela!

CLAUDIO:

Così ha pregato me ancora che tacito

Io me ne stia, né con altri 'l comunichi.

Ma non gli credo!

BONIFAZIO:

Sopra me credetegli,

Perch'egli è vero; né sì poco giungere

Potevate più presto, che vedutele

Avreste entrar là dentro.

CLAUDIO:

Voi vedutele

Avete?

BONIFAZIO:

Con questi occhi.

CLAUDIO:

Raffermandomi

Voi d'averle vedute, posso crederlo.

Chi è con lor?

BONIFAZIO:

Nessun altr'ho vedutoci

Che figlia e madre.

CLAUDIO:

Com'è egli possibile

Che con loro una serva almen non abbino?

Ben è mutato in tutto messer Lazzaro

Di natura. Le mosche che volavano

In casa già in sospetto lo ponevano,

Né mai sarebb'uscito se Flamminia

Non avea prima chiusa ne la camera;

Ne portava la chiave, né fidavasi

De la moglier, e a pena di sé proprio.

Si che mi par sentir come un miracolo

Che senza la sua guardia ora lasciatala

Abbia venir qui, dove vecchi e giovani,

Tutti generalmente dati all'ozio,

Non hanno altro pensier né altro essercizio

Che tuttavia solicitar le femine,

Le qual, più qui ch'in altro luogo libere

E di dir e di far ciò ch'elle vogliono,

Le forastiere ai lor costumi avezzano,

Da non poter Lucrezia né Virginia,

Se ci venisson, servar pudicizia.

BONIFAZIO:

Ah, non dite cotesto, che grandissimo

Torto avete; Se bene hanno licenzia

Le donne nostre, non però si debbono

Né peggior né miglior de l'altre credere;

E s'in ciò accade colpa, perché agli uomini

Non si de' dar più tosto, ch 'el comportano?

Ma mi par che parliate più per còlera

Che per ragione; et io, che darvi annunzio

Di gaudio mi credea, veggio che datovi

L'ho di mestizia, e che vi spiace intendere

Ch'elle sian qui.

CLAUDIO:

Vi dirò, Bonifazio

La verità. Questo volerlo ascondere

A me ch'Eurial fa, mi guasta il stomaco.

BONIFAZIO:

Non date fede a quel poltron. Credibile

Non è ch'Eurialo avesse fatta simile

Commission, e quando anco pur fattala

Avesse, a mal effetto io non la interpreto.

Forse lo fa, ch'egli 'l primo vuol essere

Che ve ne dia la novella, o vuol farlavi

D'improviso veder.

CLAUDIO:

Il “forse” è debole

Fondamento. Le cose che si veggono

Si puon dir certe, le future in dubbio

Son sempre, che ponn'essere e non essere.

BONIFAZIO:

Volete voi ch'io lievi questo dubbio,

Se per ben o per mal costui nascondere

Cerca questa venuta?

CLAUDIO:

Lo desidero.

BONIFAZIO:

Gli vuo' porre una spia, che qual sia minima

Cosa non potrà far né dir, che sùbito

Non la intendiàn.

CLAUDIO:

Fatel, di grazia, e costimi

Quel che vuol.

BONIFAZIO:

Molto non vi vuo' far spendere;

Ma trovarete al fin ch'ell'è una favola.

Si vuol pigliar di voi giuoco, facendovi

Aver a un tempo maraviglia e gaudio

Quando la vederete. Ma in memoria

Mi torna che mi disse dianzi Eurialo

Ch'a disinar v'invita alla domestica

Con essolui, sì che, per Dio, comprendere

Potete ch'egli è a punto com'io giudico.

Ma ecco la sua fante: a chiamar credovi

Venga. S'aveate dianzi guasto il stomaco,

Costì mangiando potrete acconciarvelo.

SCENA V

Stanna fantesca, Bonifazio, Claudio

STANNA:

Io cercarò, ma sempre suole in li ultimi

Giorni del Carnevale esser difficile

Trovar piccioni, perch'i gentiluomini,

Che tutti feste e conviti apparecchiano,

Dieci e dodici di prima gli inarrano.

BONIFAZIO:

Se la Stanna vorrà far quest'ufficio

D'esserci spia, sarà buona.

CLAUDIO:

Bonissima;

Pur ch'ella voglia.

BONIFAZIO:

Ella vorrà, vedretelo.

STANNA:

S'io non ne posso aver, torrò in quel cambio

Un pezzo di vitella, o anatre, o simile

Cosa; ma dirà prima a messer Claudio

Questo ch'io gli ho da dir.

BONIFAZIO:

Ecco, vi nomina.

Vedrete al fin ch'egli è com'io m'imagino.

STANNA:

Ma qui lo veggo a tempo. — Messer Claudio,

Mio patron, che v'avea per Bonifazio

Fatto invitar, vi manda a far intendere

Ch'oggi non può darvi mangiar, ché giuntegli

Son novelle importanti che lo sforzano

Andar in villa. Un'altra volta al debito

Sodisferà.

CLAUDIO:

Come gli piace.

STANNA:

Pregavi

Che voi gli perdoniate.

CLAUDIO:

Non accadono

Qui perdonanze. Egli dov'è?

STANNA:

Partitosi

È già un pezzo e va in villa.

BONIFAZIO:

Debb'io credere

Che sia così indiscreto, che venuteli

Essendo gentildonne a casa, vogliale

Lasciar sole?

STANNA:

Che gentildonne?

BONIFAZIO:

Avemole

(Nol negar) ben vedute, e siàn certissimi

Che non è Eurialo in villa. Anzi, se mossosi

Fosse per irvi, e sentisse che fossero

Venute, egli vorria, per tornar sùbito,

Volar, ché non parria bastassi a correre.

Et ha più che ragion, che quella giovene

È, per Dio, molto bella, e mostra all'aria

Esser non men gentil.

STANNA:

A fede, avetele

Vedute?

BONIFAZIO:

Ambe le vidi, quando vennero,

La madre e la figliuola. Accarezzatele

E fate lor onor, e per lor meriti,

E per rispetto poi di messer Lazzaro,

Al qual odo ch'Eurial ha immortal obligo.

STANNA:

Non mancamo far lor ciò ch'è possibile.

Gli è ver che son venute quando Bartolo

Non c'è, che tutti ne trova in disordine.

BONIFAZIO:

Non dir tutti, ch'io so, quando in disordine

Ben fossin gli altri, tu sei sempre in ordine.

STANNA:

Voi volete la baia.

BONIFAZIO:

Questo è 'l solito

De' vecchi: tôr, quando dar non la possono.

Ma lasciamo le ciance. Vien qui. Vònne tu

Far, Stanna, un piacer grande? E promettemoti

Tener segreta, et appresso guadagnati

Una saia con noi, ch'abbia le maniche

Di seta, che non fasti mai sì orrevole.

STANNA:

Ben bisogno n'avrei: pur senza premio

Son per farvi, ov'io possa, ogni servizio.

BONIFAZIO:

Voglio che, per mio amor e per tuo utile,

Usi, Stanna mia cara, diligenzia

Di chiarirti s'Eurialo in questa giovane

È inamorato. Facilmente accorgere

Te ne potrai.

STANNA:

Ch'accade a voi d'intenderlo?

BONIFAZIO:

Te lo dirò. Sappiàn che 'l patre darglila

Vorrebbe, et anco v'è inclinato Bartolo.

Ma, s'al parlar d'Eurialo avèn a credere,

Non par se ne contenti; e noi, per dirte la

Verità, mal gli crediamo. Tu studia

D'informarti del ver.

STANNA:

Senz'altro studio

So che non dice 'l vero, e son chiarissima

Ch'egli è come pensate. Insieme s'amano,

Et è fra lor altro che ciance.

CLAUDIO:

Ah misero!

Post'avrò il dito nel vespaio.

STANNA:

E dicovi

Più: che la matre istessa è consapevole

Di quest'amor. Ma, per Dio, Bonifazio,

Non se ne parli; non fate ch'Eurialo

Sappia ch'io l'abbia detto, ch'espressissima–

mente m'ha commandato ch'io stia tacita,

E faccia in guisa che né questo giovane

Né voi possiate saper che ci sieno.

BONIFAZIO:

Non er'io qui ne la via quando vennero?

Non temer ch'egli 'l sappia. Ma ch'indizio

Hai tu che sia come ci affermi?

CLAUDIO:

Ah misero!

Avrò cercato quel che rincrescevole

E noioso mi fia trovar.

STANNA:

Diròlovi.

Quando testé le donne in casa vennero,

Io mi trovai che tutta ero di polvere

Piena, e brutta di fumo e di caligine,

Ch'avea scopato il camino e la camera

Dove sono alloggiate, e, vergognandomi

D'esser così veduta, né potendomi

Ritrarre altrove, io corsi in la medesima

Stanza, dentro un scrittoio chiuso di tavole,

Per le qual, dove insieme si congiungono;

Si può guardar per le fissure, e vedesi

Et ode ciò che si fa ne la camera.

Ecco, stando quivi io, venir Eurialo,

E poi le donne, e l'ultim'era Accursio.

Sto cheta, e veggo Eurialo il capo volgere

Di qua e di là due volte e tre, e poi correre

A braccia aperte, e porle a quella giovene

Al collo, et ella a lui, e insieme aggiungersi

Le bocche, che parean quando la rondine

Imbecca i figli.

CLAUDIO:

E la madre vedevagli?

STANNA:

Come voi me. Ma questo è nulla.

CLAUDIO:

Abbiamone

Purtroppo, e non ne vogliàn or più intendere.

BONIFAZIO:

Sta' pur intenta, Stanna, e referiscine

Ciò che tu vedi.

STANNA:

Volete altro?

CLAUDIO:

Eurialo

È in casa?

STANNA:

E dove può star meglio?

BONIFAZIO:

Dettoci

Avevi ch'era ito in villa.

STANNA:

Pote essere

Ch'a Figarolo o di là da Garofalo

Or sia alla Pelosella.

CLAUDIO:

Per Dio, mandala

Via, ch'ella mi distrugge!

BONIFAZIO:

Or su, non perdere

Tempo, va'. Ben noi ti farèn il debito.

STANNA:

Sempre il debito è fatto.

BONIFAZIO:

Messer Claudio,

Poi che lo invito e 'l desinar d'Eurialo

È stato qual li monachetti giovani,

Che van digiuni in dormitor, si sognano,

Bisogna far com'al caldo le chiocciole;

Del nostro umore in casa nostra vivere.

Si che vo' ritornar, e far rimettere

Le starne nel schidone.

CLAUDIO:

Andate, e fatene

Quel che vi par, ch'io per me ho guasto il stomaco,

Né spero mai mai più di racconciarlomi.

BONIFAZIO:

Oh, che volete voi per questo affligervi?

Morir per questo? Quasi che le femine

Debban mancar al mondo! Sète giovane,

Ricco e bello; n'avrete in abondanzia

Ancora tal che vi verrà a fastidio.

CLAUDIO:

Ah lasso, io vo' morir!

BONIFAZIO:

Fate buon animo.

CLAUDIO:

Volete voi farmi un piacer? Lasciatemi

Qui sol.

BONIFAZIO:

Cotesto non ricerca il debito

De l'amor che vi porto.

CLAUDIO:

Non amandomi

Colei che sola al mondo amo, e mancandomi

Colui di fede di che sol fidavomi,

Non curo né d'amor né d'amicizia

Di persona del mondo. M'abbia in odio

Ognuno; ognuno ingannimi e tradiscami,

Ch'anch'io vo' odiar ognuno e mai non essere

Ad alcuno fedele, e donne et uomini,

Sia chi si vuol, menar tutti a una regola.

BONIFAZIO:

Questo non è parlar d'uom ch'abbia animo

Maschio.

CLAUDIO:

Non so s'io l'abbia maschio o femina;

So ben ch'io l'ho mal contento, e che d'essere

Meco gl'incresce, et è per far ogni opera

D'abbandonarmi presto, abbandonatomi

Avendo quella ch'a suo modo volgere

Lo potea.

BONIFAZIO:

Tal parole non convengono

A voi, ch'altrui mostrar la sapïenzia

Dovreste, essendo sempre ne le lettere

Versato e in tanti essempi de filosofi.

CLAUDIO:

Ne' libri, ohimè!, si leggono e si scrivono

Molte cose, ch'in fatti poi non reggono.

BONIFAZIO:

Venite almeno in casa, e disfogatevi

Come vi par, e non state qui in publico,

Come fanciul battuto, a versar lagrime:

Che s'al fin pur non volete ricevere

Da me conforto né consiglio, vogliovi

Esser compagno a lagrimar e piangere.

CLAUDIO:

Né in casa né in Ferrara, Bonifazio,

Mi vo' fermar, se non quanto si carichi

La roba mia, che sia condott'a Mantova,

Per drizzarla a Verona; e voglio ir sùbito

Per questo al porto, e poi cercar di bestia

Che via mi porti. Né più qui, né a Padova,

Né a Bologna, né in terr'altra di Studio

Mi vo' lasciar veder; né mai più leggere

Testi né chiose; e Baldi, Cini e Bartoli,

E gli altri libri stracciar tutti et ardere:

Che maledetto 'l di e l'ora possa essere

Ch'io venni al mondo, e la puttana balia

Che nel bagnuol non mi fece sommergere!

BONIFAZIO:

(Oh, egli è ben disperato! Pover giovane,

E pover tutti gli altri che si lasciano

Tôr da quest'assassino, ch'Amor chiamano,

La mente, il maggior ben che gli uomini abbiano!

Ma ecco torna la Stanna.) Trovastene

Pur?

STANNA:

N'ho trovati senza molto avolgermi;

E sono buoni, in fé di Dio. Toccategli.

BONIFAZIO:

Oh, come son ben sodi!

STANNA:

Non dicevo di

Questi, che non sono però da cuocere.

BONIFAZIO:

Da cuocer no, ma sì ben da goderceli

Vivi e sani.

STANNA:

Saria pasto da giovane,

E non da voi, ché vi potrebbon nuocere

Più che giovar.

BONIFAZIO:

Odi, Stanna.

STANNA:

Lasciateme

Ir, c'ho troppo da far senz'anco spendere

Il tempo in ciance.

BONIFAZIO:

E se fatti ci fossero?

STANNA:

Mi levarei di notte per attenderci.

ATTO TERZO

SCENA I

Eurialo, Accursio

EURIALO:

Chi si governa per cervel di femina

O di genti ch'a' lor pareri attendono,

Non può mai far cosa buona. Lasciatomi

Ho persuader a' suoi preghi e tuoi stimuli

Di celar lor venuta a messer Claudio;

Ecco ch'ora egli 'l sa, ché Bonifazio,

Che le vide venir in casa, dettoli

Ha 'l tutto, et anco più, che gli fa credere

Ch'Ippolita e quest'altra sien Flamminia

E la madre, com'egli crede e credono

Gli altri nostri di casa. Ora, credendolo

Altresì messer Claudio, e pur veggendomi

Tenerla occulta, debbe senza dubbio

Aver sospetto ch'io l'ami, e che postomi

Sia, in sua absenzia, in suo luogo; e dee volermene

Mal. E se perseverasse in questo credere,

Quella antica fra noi benivolenzia,

Dal canto suo, tornaria presto in odio.

Meglio sarebbe stato ch'a principio

Io l'avessi avertito come passano

Le cose.

ACCURSIO:

Or, quel ch'è già fatto è impossibile

Che non sia fatto. Veggiàn pur di mettere

L'unguento, prima che 'l male a procedere

Abbia più inanzi. È buon chiamarlo, e dirgli la

Cosa tutta.

EURIALO:

E menarlo in casa, e farglila

Vedere, e trarlo di questa ignoranzia.

Ma veggio là Piston che torna; vogliolo

Pur aspettar, e fargli, come merita,

Un buon ribuffo: si parte quest'asino

Di casa, sempremai che ci vede essere

Maggior bisogno d'uomini che servano.

SCENA II

Pistone, Eurialo

PISTONE:

S'io avessi tolto il punto de l'astrologo,

Io non avrei potuto il piede mettere

Fuor di casa in miglior otta per giungere

Più a tempo; e voglio creder ch'inspiratomi

Abbia Dio di far oggi, contra il solito

Mio, quella strada, che sei mesi passano

Ch'io non vi son più stato.

EURIALO:

(Quanto intendere

Posso, ha novelle costui che gli piacciono.)

PISTONE:

La mia è ben stata ventura grandissima,

Che nel maggior bisogno, e quando avevone

Minor speme, così veduto io l'abbia.

EURIALO:

(Costui danari o annello o cosa simile

Ha ritrovato. La vuo' bene intendere.)

C'hai tu, Piston, trovato? Ci voglio essere

A parte.

PISTONE:

Vostro padre, il qual...

EURIALO:

Dio, aiutami!

PISTONE:

È ritornato in dietro.

EURIALO:

Come?

PISTONE:

Dicemi

Che non era anco al Ponte, che sferratosi

Gli è 'l caval sotto, e lo facea rimettere

Al maliscalco, sapete, ch'è l'ultimo

Poi ce d'un pezzo si è passato l'Agnolo.

EURIALO:

Pur andarà?

PISTONE:

Non. Gli ho detto io che giunteci

Son queste donne a casa.

EURIALO:

Ah temerario,

Indiscreto, gaglioffo! Or non avevoti

Commesso espressamente e minacciatoti

Che non ne fêssi parola?

PISTONE:

Vietastemi

Ch'io nol dicessi a strani, ma in quel novero

Non è da por vostro padre.

EURIALO:

Vietavoti,

Dunque, ch'al Brusco o ch'a Biagiuol da l'Abaco

Tu nol dicessi? Ma dove, brutto asino,

T'ho parlato io de strani o di domestici?

PISTONE:

Mi credea di far bene, e che molt'obligo

Voi me n'avessi aver, perc'ho fatt'opera

Che restarà.

EURIALO:

Ribaldo! Che ti vengano

Cento cancari! Dunque ha diferita la

Sua andata?

PISTONE:

Sì.

EURIALO:

Non si part'oggi?

PISTONE:

Al credere

Mio, né doman ancor, né fin ch'a Padova

Non vadan elle; far lor si delibera

Carezze e onor, né perdonar al spendere.

EURIALO:

Ma egli ora dove è?

PISTONE:

Tornammo a rendere

La bestia. Io gli trassi i stivali e messigli

Le pianelle; egli da quella via andossene

In Piazza a far provision del vivere,

Et a me disse: — Torna a casa, e portami

Il canestro e la sporta grande, e vientene

Al Castel, ch'io sarò fra i pizzicagnoli. —

EURIALO:

Dunque, fa' come t'ha detto, che rompere

Ti possi 'l collo!

PISTONE:

Io mel ruppi il medesimo

Giorno ch'io venni a star con voi.

EURIALO:

Se prendere

Mi fai due braccia d'un querciuol...

PISTONE:

Che diavolo!

Non ne saprò uscir io senza cacciarmine

Voi col baston, come i cani si cacciano?

EURIALO:

(Non è questo poltron se non superbia.

Per Dio, per Dio! Deh, che farò? Deh, misero

Me, poi che questo vecchio vien a rompermi

Tanto piacer, anzi, tutto a voltarlomi

In pena e in doglia! A lui sarà difficile

Persuader, come a Piston persuasolo

Abbiàn, che queste sian di messer Lazzaro

La moglie e la figliuola; et accorgendosi

Di questa fraude, e me e le donne sùbito

Caccia di casa, con mio vituperio.

Di me poco mi cale e poco curone;

Ma de le donne tanto che, pensandovi

Pur solamente, mi sento distruggere.

Or ecco 'l consiglier che, persuadendomi

Di torle in casa contra quel ch'in animo

Avea, m'ha fatto in quest'error trascorrere.)

SCENA III

Eurialo, Accursio, Pistone

EURIALO:

Hai tu udito Pistone?

ACCURSIO:

Così mutolo

Oggi foss'egli stato, che parlatone

A voi né ad altri avesse!

EURIALO:

Ve' a che termine

Noi siàn condotti per tua colpa!

ACCURSIO:

Fatemi

Indovin, ch'io farò voi ricco. Avrestelo

Pensato voi?

EURIALO:

Gli è qui il vecchio.

ACCURSIO:

Sia in nomine

Domini. Che sarà però? Voletevi

Porre affanno per questo?

EURIALO:

E di che porlomi

Debb'io, che monti più?

ACCURSIO:

Monta più ch'abita

A piè de l'alpi, il falcon monta e l'aquila;

Monta altrimente 'l gallo e i frati 'n pergamo,

E molte volte altrove, pur che possano.

EURIALO:

Che monta e monta! Già tanto non montano

Le ciance tue, che montino un pel d'asino.

Mio patre è in questa terra.

ACCURSIO:

(In terra foss'egli

Pur da dover, com'è suo patre e l'avolo!)

Che volete voi dir per questo?

EURIALO:

Voglioti

Dir che tu non ti pensi fargli credere,

Com'hai fatto a Piston.

ACCURSIO:

Se sarà incredulo,

Vorrò che se n'andiàn a San Domenico.

EURIALO:

Che vi faremo?

ACCURSIO:

Gli faren procedere

Contra, come a infedele e come a eretico,

Dal patre inquisitor.

EURIALO:

Va', tu m'infracidi

Con queste tue sciocchezze. Per Dio, lasciale

Da parte e attendi a questo.

ACCURSIO:

Per Dio, datevi

Buon tempo, e la fatica e tutto 'l carico

Lasciate a me, ch'io tolgo a mio pericolo

E spese quanto mal ci può mai nascere.

Io voglio farmi a vostro patre credere,

Più che credesse a frate mai pinzochera.

Faren venir questa sera medesima

Un vecchio qui a caval, che parrà giungere

Da Pavia allora allora, e diremo essere

Lui quel fattor che dee condurle a Padova;

Che già abbiàn detto in casa ch'elle aspettano.

EURIALO:

E chi avren noi che faccia quest'ufficio

E non sia connosciuto?

ACCURSIO:

Per Dio, mancano

la questa terra i barattieri, voglili

O forastieri o de la terra propria?

Poi, domatina all'alba, sarà in ordine

Una carretta che le lievi, e portile

Poco lontano, con vista ch'ir vogliono

Al lor camin; ma la porta non passino.

Trovaremo a bell'agio oggi una camera

Per quattro o cinque giorni, dove ascondere,

Fin che sia il vecchio partito, si possano.

EURIALO:

Ma ecco che Piston vien fuor.

ACCURSIO:

Portatoci

Foss'egli co' piè inanzi! Deh, mandatemi

Con essolui, ch'io vuo' talmente imprimere

La cosa in capo al vecchio, che possibile

Non fia che possa, se non così, credere.

E voi tornate in casa, et avisate le

Donne e ammaestrate come debbono

E dire e fare; e mostrate il pericolo

In che elle sono, se non si governano

Bene.

EURIALO:

Io 'l farò — Piston voglio ch'Accursio

Venghi teco. Ma tu non odi? Guardati

Di non gli dir che di ciò corocciatomi

Io sia, ma che più tosto avuto io n'abbia

Piacer e gaudio; se non ti certifico

Ch'io ti farò del tuo error riconnoscere.

PISTONE:

Non son stato a quest'ora a riconnoscermi

Et a saper che quest'e peggio merita

Chi cerca altrui servir, e può star libero.

ACCURSIO:

Deh, lascial dir come vuol; non ti mettere

A garrir seco: gli è padron, gli è giovane,

Gli ha buon tempo.

EURIALO:

(Io vuo' prima a messer Claudio

Parlar, ch'io torni in casa.)

ACCURSIO:

È intrato in còlera

Col padre alquanto, e pur dianzi dicevami,

Da lui a me: — Che te ne par, Accursio?

Quasi alloggiar due donne, non essendoci

Lui, non sapessi anch'io! Questo è 'l bel credito

Che dar mi vuole! Ognun dirà, sapendosi

Ch'egli torni per questo, che mi reputa

Un uom ben grosso e ben privo d'industria...

EURIALO:

(Meglio è chiamarlo, e far che con noi disini...)

ACCURSIO:

...Poi che non si è fidato di commettere

Alla mia discrezion cosa sì picciola. —

EURIALO:

(...E ch'egli sganni se stesso, veggendole.)

ACCURSIO:

Egli avrebbe voluto questa gloria.

Tutta per sé: che referito avessero

Poi queste donne a casa a messer Lazzaro

Sì com'egli improviso, non essendoci

Suo patre... Tu m'intendi. Venir sogliono

Simil pensieri in li animi dei giovani.

PISTONE:

E che colpa n'ho io, che s'abbia a movere

Incontra me tant'aspramente?

ACCURSIO:

Lasciala.

(Ma chi è colui che vien in qua? Dio, aiutaci!

Mi par un servitor.)

PISTONE:

C'hai tu, che tutto ti

Sei cambiato nel viso?

ACCURSIO:

(È 'l Riccio.) Vatene,

Piston, pur senza me. Mi bisogna essere

Un poco a casa.

PISTONE:

A Dio.

ACCURSIO:

Gli è desso. Debbelo

Aver mandato dietro a queste femine

La Contessa. Padrone, olà, volgetevi

A me. Vedete colui? Connoscetelo

Voi?

EURIALO:

Sì, per Dio! Gli è 'l Riccio! Ohimè, ohimè misero!

Gli è desso. Ora le cose in più pericolo

E in più scompiglio che mai s'aviluppano.

SCENA IV

Riccio staffiere, Accursio, Eurialo

RICCIO:

(So ch'io non erro; questa è senza dubbio

La strada. Ma la casa dov'egli abita

Io non so già qual sia...)

ACCURSIO:

Noi cerca, uditelo.

EURIALO:

L'odo, e m'incresce udir.

RICCIO:

(...se questi giovani

Non me la mostran. Ma quelli mi paiono

Ch'io cerco; a punto son dessi.) A Dio, giovani

Da bene; Dio vi guardi.

ACCURSIO:

Da ben guardi te

Dio pure e noi da male.

RICCIO:

Tu, al contrario

De l'intenzion, il mio parlar interpreti.

Ma dimmi un poco, Accursio, ch'a te volgere

Mi voglio prima...

ACCURSIO:

A me già non ti volgere;

Volgeti a questi umanisti che cercano

Medaglie, e di rovesci si dilettano.

RICCIO:

Pon da parte le ciance. Ti par ch'opera

Lodevole sia stata il far ingiuria

Alla padrona mia?

ACCURSIO:

Dove le ho ingiuria

Fatto io?

RICCIO:

Non lo sai tu? Torle una giovane

Di casa a questo modo, che da picciola

S'avea allevata, non ti pare ingiuria?

Tu l'hai fatta fuggire; tu menatala

Hai qui teco.

ACCURSIO:

Io?

RICCIO:

Tu sì. Deh, non ti fingere

Così maraviglioso, c'ho chiarissima

Informazion come le cose passano.

So come tuo padron, messer Eurialo,

Che vuo' che m'oda...

EURIALO:

Riccio, non mi mettere

In questa trama.

RICCIO:

...ti lasciò, partendosi

Lui, per questo in Pavia.

EURIALO:

Quando colpevole

Ben ogni altro ne fosse, innocentissimo

Ne son io, e credo ch'innocente Accursio

Ne sia non meno.

RICCIO:

A voi vorrò rispondere

Più ad agio. Or parlo con costui. So, dicoti,

Come in Pavia ti lasciò questo giovane

Perché tu fêssi, uomo da ben, quest'opera;

E che prima di te si partì Ippolita

Con la ruffiana Veronese, e vennero

Ad aspettarti a Piacenza; e levastile

Tu quindi, et in Ferrara tu conduttele

Hai.

EURIALO:

Se tu così ben come epiloghi

Facessi il resto, orator saresti ottimo.

ACCURSIO:

Non si trovarà mai...

RICCIO:

Non puoi negarlomi;

Ch'io son stato alla nave che condottivi,

Ha in questa terra, et il nocchier narratomi

Ha 'l tutto.

ACCURSIO:

È ver ch'a Piacenza ci entrarono

Due donne in nave, una vecchia e una giovane,

Che son fin qui meco venute, e dicono

Che ritrovar alcun legno vorrebbono

Ch'andasse verso Ancona, che disegnano

Di farsi poi condurre a Roma. Rendite

Certo che non son quelle che tu imagini.

EURIALO:

Per Dio, 'l nocchier dicea di queste! Toltele

Tu in cambio hai di quest'altre.

ACCURSIO:

Non pote essere

Altrimente.

RICCIO:

Fingetela e acconciatela

Come meglio vi pare: a me sta credere

Quel ch'io ne voglio. Ma, messer Eurialo,

Siate avvertito c'ho portate lettere

Al Duca et a molti altri gentiluomini,

Che s'in Ferrara saran queste femine,

Non avrete possanza di nasconderle.

ACCURSIO:

Non sono quelle che ti pensi. Vengono

Queste due da Turin: se 'l ver mi dicono,

Sono madre e figliuola. Già partitesi

Credo sian, ch'aver fretta dimostravano

Di ritrovarsi in Roma, dove intendono

Che 'l sangue de li Apostoli e de' Martiri

È molto dolce, e a lor spese è un bel vivere.

RICCIO:

Non mi tôr con tue ciance di proposito

Queste ch'io cerco son qui, e troverannosi,

Credo, con vostro danno et ignominia.

E se non fosse perché messer Lazzaro

Mi ha pregato ch'io non dia queste lettere

Fin ch'egli non sia qui...

EURIALO:

Vien messer Lazzaro

In questa terra?

RICCIO:

...a quest' ora a pentirvene

Stati, per Dio, non sareste!

EURIALO:

Rispondimi:

Vien messer Lazzar?

RICCIO:

Non può star a giungere

Molto.

EURIALO:

(Stiàn freschi!) Ove l'hai visto?

RICCIO:

A Sermide.

ACCURSIO:

Io 'l lasciai pur, ch'in un giorno medesimo

Da Pavia ci partimmo, ch'aveva animo

Di non venir a Ferrara.

RICCIO:

Si mutano

Facilmente le volontà degli uomini.

EURIALO:

(Mira se la Fortuna mi perseguita!)

RICCIO:

Ben ir volea per l'altro Po, ma, avendoli

Detta la causa del venir mio, fecilo

Mutar d'opinion, ché montò subito

In un burchiello, egli e la moglie, insieme la

Figliuola e, credo, una fantesca...

EURIALO:

(Ah misero

Me, destinato alle disgrazie!)

RICCIO:

...e manda li

Altri, col burchio di sue robe carico,

A Francolin, dove vuol che l'aspettino.

ACCURSIO:

Messer Lazzar vien qui?

RICCIO:

Vuoi ch'io tel replichi

Più? Dicovi che viene, e dovrebb'essere

Giunto già un'ora, se 'l vento contrario

Non gli fosse tutt'oggi stato. Dissemi

Voler venir, per far che senza strepito

Tra voi e me le cose s'adattassino.

ACCURSIO:

S'adattaran facilmente, chiarendoti

Che di cotesto noi non siàn colpevoli.

RICCIO:

Pensa pur altro, e credi che pochissimo

Meco il dissimular vi giovi e 'l fingere.

Ma vuo' star cheto fia che messer Lazzaro

Sia venuto, e ch'io vegga che rimedio

Ci vuol pigliare. Io non ero per dirvene

Parola prima; ma da lui partendomi,

Che smontai in terra per più tosto giungere,

Mi pregò ch'io venissi a farvi intendere,

Da sua parte, che vuol questa sera essere

Con essovoi. Vi do da pensar termine

Tutt'oggi. A Dio.

ACCURSIO:

Va', alla buon'ora. Pongati

Dio 'l vero in mente e ti faccia connoscere

Quanto a torto ci dài questa calunnia.

SCENA V

Eurialo, Accursio

EURIALO:

Or siàn usciti pur fuor di pericolo

ACCURSIO:

Usciti? E come?

EURIALO:

Non c'è più pericolo.

Pericolo si chiama ove sta l'animo,

Fra speranza e timor, sospeso in dubbio

Ma questo è manifesto mal, certissimo

Danno; quest'è rovina inevitabile.

Ohimè, io son morto.

ACCURSIO:

I morti non favellano...

EURIALO:

Aiutami, per Dio.

ACCURSIO:

...né dar rimedio

Né aiuto si può a' morti.

EURIALO:

Or apparecchiami

Dunque il sepolcro, e prima in terra ascondimi

Che qui giunga mio padre e messer Lazzaro,

Prima ch'io vegga, con mio tanto carico,

Con mio perpetuo scorno e vituperio,

Che cacciato mi sia di casa Ippolita,

A guisa d'una fante infame e publica.

ACCURSIO:

Se vorrete lasciar voi stesso perdere

Vilmente, siate certo ch'anco lppolita

Voi perderete; ma se per difendervi

Porrete e piedi e mano e senno in opera,

Salvarete amendue.

EURIALO:

C'ho a far? Insegnami,

Ch'io per me mi ritrovo in modo attonito,

Che non so dove io sia.

ACCURSIO:

Mi par che sùbito

Si dica a messer Claudio e a Bonifazio

Il tutto, e che si preghino che vogliano

Che queste donne in la lor casa passino.

Levate ch'elle siano, ogni pericolo

Sarà levato. Venga messer Lazzaro

Quando vuol, torni 'l vecchio a beneplacito

Suo poi: non ci sarà più alcun pericolo.

Avertiremo la Stanna. Lasciate la

Cura a me di parlar seco e instruerla

Come ha a dir. Se Piston detto il contrario

Avrà, che già sien venute, faremolo.

Parer bugiardo. Egli so che vedutele

Non ha. Diremo che dato ad intendere

Così gli avamo, acciò fosse solecito

E diligente più che non è solito.

EURIALO:

Mi piace 'l tuo parer. Or presto facciasi

L'effetto. Torna tu in casa et avisale.

Io parlarò a questi altri.

ACCURSIO:

Ma vedetelo!

EURIALO:

Mio padre? Ohimè, gli è desso! Avremo in aria

Fatto il castel! Non possiàn più difenderci,

Ch'al suo apparir tutt'i ripari cascano.

Accursio, io son ben morto.

ACCURSIO:

Gli è meglio essere

Ben morto che mal vivo. Or raccoglietevi

In voi. Ben sapremo anco a questo prendere

Partito. Andate in casa et avisate le

Donne. Anzi sarà meglio far che chiudano

Uscio e finestre, e che stian ne la camera

Chete; e che voi dichiate ch'elle dormono,

Ché stanotte han vegghiato. Che può nuocere

Aver tempo a pensar, prima che vistole

Abbia il vecchio? Io anderò qui a messer Claudio

Voglio parlar con lui, ché già per l'animo

Mi va un pensiero. Andate, e riposatevi

Sopra di me e dormite, come dicono,

Con gli occhi miei, quieto e sicurissimo.

SCENA VI

Frate predicatore, Bartolo

FRATE:

Voi potete veder la bolla e leggere

Le facultadi mie che sono amplissime,

E come, senza che pigliate, Bartolo,

Questo peregrinaggio, io possa assolvere

E commutar gli voti. E maravigliomi

Ch'essendo, com'io son, vostr'amicissimo,

Non mi abbiate richiesto; perché, dandomi

Quel solamente che potreste spendere

Voi col famiglio nel viaggio, assolvere

Vi posso e farvi schifar un grandissimo

Disconcio, all'età vostra incomportabile,

Oltra diversi infiniti pericoli

Che ponno a chi va per camino occorrere.

BARTOLO:

Se ben agli altri, padre venerabile,

Dico ch'io vo per voto, nihilominus

Dir voglio il ver a voi; che la fiducia

C'ho in vostra carità, per l'odor ottimo

Ch'esce de' santi costumi e del vivere

Vostro tutto essemplar, mi par richiedere

Ch'ogni intrinseco mio con voi communichi;

E tanto più che darmi in ciò qualch'utile

Consiglio forse potrete, e quest'obligo

D'ire a torno levarmi, s'alcun abile

Modo ci fia. Ma quel ch'io dico, dicolo

In confessione.

FRATE:

E in confessione tolgolo.

BARTOLO:

Altro non è ch'el sappia, eccettuandone

Solo il nostro piovan, che la quaresima

Mi confessa; ma non mi sa decidere

Questo caso, che, come voi, teologo

Non è: sa un poco di ragion canonica.

FRATE:

Io v'offerisco, quanto si può estendere

Il saper mio, di darvi quel medesimo

Consiglio che per me mi torrei. Ditemi

Il caso vostro.

BARTOLO:

Io vel dirò. Già passano

Venti anni che in Milan stavo al stipendio

Del Duca, et in quel tempo in la medesima

Corte similmente era un altro giovane,

Pur ferrarese, e insieme un'amicizia

Sì stretta avamo, che parea che fossimo

In dui corpi un volere, un cor, un'anima.

Tenevasi costui quivi una femina,

Di ch'ebbe una figliuola in quelli prossimi

Di che le cose di Milan si volsero:

Che 'l Moro abbandonò il stato et andossene

Ne la Magna. Or, fra gli altri gentiluomini

Che lo seguir, Gentile et io seguimolo,

Che Gentil avea nome questo giovane.

Giunto in la Magna, s'infermò gravissima–

mente Gentile e morì; né trovandosi

Altro amico o parente sì benivolo

Come gli ero io, mi lasciò erede in l'ultima

Sua volontade, e universal; ma fecemi

Prometter che, qual volta il tornar libero

Fosse a Milan, maritarei la femina

Sua con dote e partito convenevole,

E che de la fanciulla la medesima

Cura mi piglierei che del mio Eurialo,

Nutrendola, allevandola et al debito

Tempo, secondo il grado, maritandola.

A questa promission né testimonii

Vòlse chiamar, né privata né publica

Scrittura alcuna farne, ma rimettersi

A me del tutto.

FRATE:

La promessa semplice

D'un amico fedel purtroppo è valida

Senza giurar o testimonii o rogiti.

BARTOLO:

Tornò il Duca in Milan, come debb'esservi

Noto, e poco vi ste', che li medesimi

Che vel menâr, poi lo tradiro e presero.

Tornal con lui io ancora, e trovai ch'erano

Salvi tutti li miei, ma che la femina

Di Gentil se n'era ita: che, sentendolo

Morto, s'avea trovato altro ricapito:

Era piaciuta a un signor che dicevano

Esser napolitano.

FRATE:

È verisimile

Che signor fosse, poi ch'era da Napoli,

Perciò c'ho inteso che ve n'è più copia

Che a Ferrara de conti; e credo ch'abbiano

Come questi contato, quei dominio.

BARTOLO:

Questo napolitan, signor o suddito

Che fosse, se l'avea tolta, e condottala

Seco con la figliuola, e masserizia

Parte portando, parte fatto vendere,

La casa vuota lasciata m'aveano.

Trovand'io questo, differi' a più commodo

Tempo l'ir a cercarne, e tornai sùbito

A Ferrara, ove il testamento autentico

Produssi, e beni mobili et immobili

Che furon di Gentil, senz'altro ostacolo

Ottenni, e mi fei ricco, ch'ero povero

Prima. Ma tuttavia mi par ch'un stimolo

Mi punga il cor, e non possa levarlomi,

Di non aver trovato da principio

Queste donne, o almen fattane la debita

Diligenzia. Gli è ver ch'io ho avuto in animo

Sempre di farlo, ma pur differendolo

Son d'anno in anno venuto, e condottomi

Fin qui. Or, insomma, il mio piovano assolvere

Non mi vuol più, s'io stesso non vo a Napoli

A trovar il signor che queste femine

Levò, e saper da lui dove si trovino,

O seco o pur con altri; e, ritrovandole,

Far quel che già molti anni era mio debito.

FRATE:

Questa fatica volontier, potendola

Schifar, voi schifareste?

BARTOLO:

Chi ne dubita?

FRATE:

Ben si potrà commutar in qualch'opera

Pia. Non si trova al mondo sì fort'obligo

Che non si possa sciôr con l'elemosina.

BARTOLO:

Andiamo in casa e più ad agio parliamone.

ATTO QUARTO

SCENA I

Bonifazio, Eurialo

BONIFAZIO:

Va' ratto, che sii là prima che giungano,

E ch'altra guida piglino; e ricordati

Di menarli di qua, sì che non passino

Da l'uscio vostro. Io chiamerò qui Eurialo

Di fuor, e avertirollo de l'astuzia

Ch'abbiàn tu et io composta per soccorrerlo.

(Io vo' a ogni modo aiutar questo giovane,

E dir diece bugie perché ad incorrere

Non abbia con suo patre in rissa e in scandalo:

E così ancor quest'altro mio, ch'all'ultima

Disperazione è condotto da un credere

Falso e da gelosia ch'a torto il stimola.

Né mi vergognarò d'ordire e tessere

Fallace e giunti, e far ciò che son soliti

Gli astuti servi in l'antiche comedie;

Che veramente l'aiutar un povero

Innamorato non mi par ufficio

Servil, ma di gentil qual si voglia animo.

Non so perché la Chiesa non l'annoveri

Per l'ottav'opra di misericordia.

Ma ecco Eurialo a tempo.)

EURIALO:

Bonifazio,

Havvi parlato Accursio?

BONIFAZIO:

Sì.

EURIALO:

E narratovi

Ov'io mi trovo per voler attendere

Al suo consiglio?

BONIFAZIO:

Ogni cosa per ordine

M'ha detto.

EURIALO:

Che vi par?

BONIFAZIO:

Fu temerario

Consiglio il suo, ogni modo; pur rimedio

Ci prenderemo, secondo che prendere

Si può in tal caso, e spero che succedere

Debbia.

EURIALO:

V'avrei speranza anch'io, se spingere

Io potessi di casa, pur il spazio

D'un quarto d'ora, mio padre solummodo,

Tanto che queste femine passassino

In casa vostra. Ma 'l frate che predica.

In Domo è seco, e buon pezzo tenutolo

Ha in parole, e son posti ad una tavola

Ch'a punto è al dirimpetto de la camera,

In che serrate queste donne fingono

Di dormir.

BONIFAZIO:

Non v'accade di nasconderle.

Lasciate pur

EURIALO:

Non so dove mi volgere,

Se non a voi. Così a voi, da principio

Mi foss'io volto, ché non saria a' termini

Ove mi trovo con tanto pericolo:

Che mi par tuttavia che messer Lazzaro,

La moglie e la figliuola vegga giungere.

Io me vi raccomando.

BONIFAZIO:

Avete dubbio

Che noi vi abbandoniàn, messer Eurialo?

EURIALO:

Per bontà e cortesia vostra, aiutatemi,

Ch'in più travaglio, in più affanno, in più angustia

Mi trovo in che mai si trovasse misero.

BONIFAZIO:

Io non vi mancherò, fate buon animo.

EURIALO:

Levatelo di casa un poco, e ditegli

Che vi bisogna in Piazza la sua opera.

BONIFAZIO:

E di ch'opra ho bisogno io?

EURIALO:

Fingetela:

Che qualche vostra causa ai segretarii

O al Podestà raccomandi.

BONIFAZIO:

Io non litigo.

EURIALO:

Di qualch'amico vostro imaginatevi

Qualche facenda.

BONIFAZIO:

Quest'è troppo incommoda

Ora di tuor di casa un suo par: debbono

Esser per tutto serrati gli ufficii,

E solo i cani restati di guardia

De la Piazza. Ma senza però moverlo

Di casa, o che le donne di qua passino,

Ben sarà luogo ove quest'altre alloggino

Con lor commoditade, senza strepito.

EURIALO:

Come? Volete voi che messer Lazzaro

Con le sue venga, e che queste altre femine

Ci trovi in casa?

BONIFAZIO:

Non cotesto. Statime

Un poco a udir. Mandat'ho inanzi Accursio

Al porto, che vi stia tanto che giungano,

E li raccoglia allegramente, e menili

Qui in casa mia. Io sarò qui a ricevergli,

E voi meco, e diremo ch'io sia Bartolo.

EURIALO:

Che voi siate mio padre?

BONIFAZIO:

Sì; e confannosi

L'etadi, che sarà ben verisimile.

Io so che vostro padre e messer Lazzaro

Non si son mai veduti, e sol per lettere

E relazione vostra si connoscono;

Si che alloggiarlo meco e fargli credere

Che con Bartolo alloggi sarà facile.

Che ve ne par?

EURIALO:

Est generis promiscui:

Esser può ben e mal.

BONIFAZIO:

Non c'è pericolo.

Voi verso me farete i convenevoli

Di figliuol verso il padre. Darà Accursio

Alla fizion aiuto. Onoraremogli

Non meno in questa casa che se fossino

In casa vostra.

EURIALO:

Il veder messer Claudio

Non piacerà al dottor.

BONIFAZIO:

Stia messer Claudio

Occulto intanto; poi, come succedere

Si vedranno le cose, fia in arbitrio

Nostro pigliar novo partito o metterlo

Da parte. Abbiamo commoda et orrevole

La casa, et assai ben sono le camere

Apparate. Condur mi basta l'animo

La cosa in guisa che senza pericolo

Saper da poi la potrà messer Lazzaro,

E sarà a' desir nostri favorevole;

Ché, com'io intendo, è gentil e piacevole.

E spero tra quest'altro e lui concludere

In modo ancora, che prima che partano

Di casa mia farò un suocero e un genero.

EURIALO:

Io non so che mi dica: ponno occorrere

Molti disturbi che il disegno guastino.

BONIFAZIO:

E che volete ch'occorra? Proveggasi

Che non vi venga la ruina a opprimere.

Non vedete voi come vi si approssima?

EURIALO:

Io la veggo purtroppo e, non essendoci

Miglior riparo, è forza a quest'apprendermi;

E sia come si voglia, o forte o debole.

BONIFAZIO:

Gli è forte più che marmo: riposatevi

Pur sopra lui. Ma mi parria a proposito

Che voi ancora andassi a Po, et al giungere

Lor, voi gli raccogliessi e accompagnassili

Qui dentro.

EURIALO:

Sto in gran dubbio che, se restano

Senza me in casa quest'altre, non facciano

O dican qualche cosa onde si scoprano.

BONIFAZIO:

E che ponno elle o dir o fare, avendole

Voi già avisate? Ma vedete Accursio

Ch'a noi torna.

EURIALO:

Ohimè, quest'è messer Lazzaro,

La moglie e tutta la brigata! Domine,

Aiutami, ch'io tremo!

BONIFAZIO:

Ah pusilanime!

Voi siete divenuto così pallido?

Venite, andiàn lor contra; ma veniteci

Con altro volto; cotesto più idoneo

Saria dar lor combiato che riceverli.

EURIALO:

Oh, se mio patre, ohimè, venisse a mettere

In questo tempo il capo fuor!

BONIFAZIO:

Che diavolo

Potria saper che fossin, non avendoli

Mai più veduti?

EURIALO:

Facciàn noi pur ch'entrino.

SCENA II

Messer Lazzaro, Bonifazio

MESSER LAZZARO:

(Io veggo a noi venir messer Eurialo.

Quel che gli è inanzi suo patre dev'essere.)

BONIFAZIO:

Ben venga messer Lazzaro, e ben vengano

Queste madonne.

MESSER LAZZARO:

E voi, che messer Bartolo

Credo siate...

BONIFAZIO:

Son Bartolo, a servizio

Vostro.

MESSER LAZZARO:

...siate per cento e cento milia

Volte il ben ritrovato. Oh mio discepolo!

Voi mi parete, messer Bartol, giovane

Come vostro figliuol. Si potria credere

Che vi fosse fratello.

BONIFAZIO:

Il non mi mettere

Molti affanni e fuggir tutti li incommodi

Mi mantien fresco. Andiamo in casa: debbono

Queste donne aver freddo. E come penetra

Quest'aria il capo! Purtroppo patitala

Hanno stamane in nave! Corri, Accursio,

Di sopra e fa un buon fuoco. Messer Lazzaro,

Venite dentro, e comminciate a prendere

Possession de la casa, che i meriti

Vostri fan vostra con l'aver, con gli uomini,

Con ciò che siamo o che siàn mai per essere.

MESSER LAZZARO:

La vostra umanitade, messer Bartolo...

BONIFAZIO:

Deh, non moltiplichiamo in cerimonie:

O poniànle da parte o diferiamole

A far appresso il foco ne la camera.

SCENA III

Accursio

ACCURSIO:

A punto siàn come gli augei che cascano

Ne la rete, che quanto si dibattono

Più per uscirne, tanto più s'intricano.

Noi procacciàn rimedio a un male, e nascere

Ne facciàn tre peggiori e più difficili

Da risanar; né del primo pericolo

Usciàn però. Se l'astuzie succedono,

Più per necessità che per giudicio

Da noi trovate, debbiamo a miracolo

Attribuir, più tosto che a prudenzia.

Ma che possiàn noi far altro, assaltandoci

Da tanti lati Fortuna contraria?

L'arco è tirato fin dov'è possibile,

E non possibil anco, e sta per rompersi,

Più che per saettar al segno. Io simulo

Speme e baldanza, e studio di far animo

Al giovene padron, ma non men timido

Che 'l suo mi sento il cor nel petto battere;

E non so come una cosa che timida–

mente si faccia possa ben succedere.

Ma poi ch'in questo labirinto postici

Siamo, et io son stato cagion di mettervi

Me e gli altri, è mio principalmente debito

Di non mi sbigottir o perder d'animo,

Quando ben tutti gli altri lo perdessero.

Bisogna che li occhi apra, e ben consideri

Quei mal ch'avvenir ponno, e li rimedii

Tutti apparecchi lor, prima ch'avengano.

La prima cosa, trovar messer Claudio

Bisogna, et avertirlo del pericolo

In che noi siamo, e com'abbiàn, sforzandoci

bisogno, alloggiato messer Lazzaro

In questa casa; acciò che, non sapendolo,

Non venisse, e le cose in pid disordine

Mettesse di quell'anco in che si trovano.

Ma meglio è ch'io l'aspetti sin che capiti

Qui per tornar a casa: ché, volendolo

Cercar né sapendo ove, potrei facile–

mente non lo trovar. Ma ecco ch'escono

Il mio vecchio padrone e questo ipocrita

Gaglioffo che con nostro molto incommodo

L'ha tenut'oggi a ciance.

SCENA IV

Frate, Bartolo, Accursio

FRATE:

Portaròlavi,

E ve la lasciarò veder e leggere.

Siate pur certo che la bolla è amplissima,

E che de tutt'i casi, componendovi

Meco, vi posso interamente assolvere,

Non meno che potria 'l papa medesimo.

BARTOLO:

Vi credo; nondimeno, per discarico

De la mia conscïenza, la desidero

Vedere, e far anco vedere e leggere

Al mio parrochiano.

FRATE:

Sit in nomine

Domini. Portaròlavi; mostratela

A chi vi pare. Intanto, messer, Domene–

dio sia con voi.

BARTOLO:

E con voi, padre, simile–

mente. Ma ecco Accursio.

FINE