IL BARBIERE DI SICILIA
commedia in tre atti
di Salvatore Fiume
PERSONAGGI:
GIULIETTA TUNISIA SALTAVALLE, diciannovenne
SALVATORE ROMEO, ventiduenne
DON ANDREA SALTAVALLE, cinquantenne, padre di Giu-lietta
DON LUCIANO, cinquantaduenne, amico di don Andrea
IL PARROCO, sessantenne
TENENTE HANS CRAUTI, ventitreenne
AMBASCIATORE DI GERMANIA BARONE VON CRAU-TI,
cinquantacinquenne, padre del Tenente Crauti dell’esercito
francese e marito di una baronessa francese
FINTI PARENTI DELLA FINTA FIDANZATA, comparse (a
piacere) di età differenti
TRE O QUATTRO FRA UOMINI E DONNE
GRUPPO DI MUSICANTI VERI, da reperire negli stessi luo-ghi
ove si recita la commedia: stature ed età come si trovano
nelle bande musicali dei paesi.
L’epoca dei fatti è quella dei primi anni del 1900, a Tunisi, do-ve
emigravano molti artigiani siciliani i quali formavano una
colonia nel protettorato francese.
ATTO PRIMO
La scena è un salone con tre sedie da barbiere, altre sedie, uno
o due divani e un tavolino in stile liberty (un po’ pacchiano ma
di lusso). Specchi, attaccapanni, ventilatori, abat-jour. Grande
pannello ad una parete dove (come fosse il campionario di
prodotti della casa) sono disegnati o dipinti barbe e baffi di
tutte le fogge. Sul divano, e appesi ai muri, un trombone, un
clarinetto, delle chitarre e una tromba. Titolare del negozio è
don Andrea Saltavalle il cui nome è scritto con caratteri flo-reali
sugli specchi. Il negozio ha due ingressi, più uno centrale
a vetri, attraverso i quali si intravede una scala che conduce
all’appartamento privato di don Andrea il quale vive con la fi-glia
Giulietta e la vecchia madre portata dalla Sicilia. La figlia
Giulietta ha diciannove anni. Come secondo nome le è stato
imposto quello di Tunisia. Il garzone di bottega – ventiduenne
– si chiama Salvatore di nome e Romeo di cognome. All’aprirsi
del sipario è in scena Salvatore, agitatissimo, in attesa di Giu-lietta,
mentre teme il ritorno del principale. Dalla porta a vetri
sbuca Giulietta che la sbatte chiudendola. Il trombone, il clari-netto
e le chitarre, risuonano a quel colpo.
SALVATORE — (seccatissimo) Ecco, qua tutto suona e tutto
canta. Qua suoniamo tutti. Qua siamo tutti musicanti, musi-comani,
musicofili, musicisti: gli strumenti suonano addirit-tura
da soli.
GIULIETTA — Salvatore, Salvatore, Salvatore mio, senti co-me
batte il mio cuore...
Gli prende la mano e se la stringe al petto.
SALVATORE — Come faccio a sentire il tuo cuore col chiasso
che fa il mio... Tuo padre può arrivare da un momento al-l’altro.
GIULIETTA — Siamo come Giulietta e Romeo, la sai la storia
di Giulietta e Romeo?
SALVATORE — L’ho sentita dire. Ma cosa c’entra adesso? Io
ho una paura folle. Se tuo padre ci scopre ci ammazza tutti
e due.
GIULIETTA — Sì, infatti muoiono tutti e due.
SALVATORE — Ma ti piace scherzare con queste cose?
GIULIETTA — Mio padre è buono, non aver paura.
SALVATORE — Da quando è buono? Tuo padre è un padreter-no
manesco, autoritario, feroce. Non ci si può parlare. Da
quando è buono? È buono con te. Ti adora. (Giulietta gli dà
un bacio) Dio mio! Sei pazza, Giulietta. Sei il diavolo.
Quello ci ammazza. Magari te no, ma a me taglia la gola.
Qui abbiamo rasoi, arnesi pericolosi. (Giulietta gli dà un
altro bacio) Giulietta, ma se arriva in un momento come
questo?...
GIULIETTA — So dov’è andato... Lì ci sta delle ore. Accorcia
persino i capelli della moglie del Generale Grifone, quello
che lo trattiene perfino due ore per farsi arrotondare i favo-riti
e arricciare i baffoni.
SALVATORE — Ma io tremo lo stesso. Io per lui sono niente,
zero, uno scarafaggio. Non mi permette nemmeno di alzare
gli occhi per guardarlo. Devo sempre parlare con lui ad oc-chi
bassi. Lui è il padreterno... È il maestro, il mio mae-stro...
E tu sei una divinità, una divinità che, secondo lui,
dovrà sposare un Dio, non uno scarafaggio come me.
GIULIETTA — Ecco, vedi che siamo come Giulietta e Romeo,
anzi ti voglio chiamare Romeo.
SALVATORE — Ma come?... Mi chiameresti per cognome?
GIULIETTA — E non ti chiami Romeo Salvatore?
SALVATORE — Sì, ma Romeo è il cognome, lo vuoi capire?
GIULIETTA — E noi cambiamo tutto: tu ti chiamerai “Salva-tore”
di cognome.
SALVATORE — Devi aver preso da tua madre. Tuo padre lo
dice: tua madre era indiavolata. Non stava ferma un mo-mento
né coi piedi né con la lingua.
GIULIETTA — E se avessi preso da mio padre come sarei?
SALVATORE — Prepotente, dispotica, arrogante, insopporta-bile...
Tu non lo conosci neanche...
Altro bacio di Giulietta.
GIULIETTA — (recitare ostentatamente col birignao) Senti,
senti cosa diceva Giulietta a Romeo, la so tutta a memoria:
“O Romeo, Romeo perché sei Romeo? Solo il tuo nome è
mio nemico; ma tu sei tu, non un Montecchi. Che è un
Montecchi? Non è né una mano, né un piede, né una faccia,
né un braccio: nessuna parte di uomo. Oh, sii tu qualche al-tro
nome! E che è un nome? Quello che noi chiamiamo ro-sa,
anche con un altro nome avrebbe il suo soave profumo.
Così Romeo, che se non si chiamasse Romeo conservereb-be
un fascino di perfezione, che possiede anche senza quel
nome. Romeo, poiché non ti è nulla il tuo nome, buttalo
via, e prenditi in cambio, tutta me stessa”.
SALVATORE — Mamma mia! Ma dove hai imparato queste
cose? Mi fai impazzire.
GIULIETTA — No, tu dovresti dire come disse Romeo: “Ti
prendo in parola, chiamami soltanto amore, e così, ribattez-zato,
d’ora innanzi non sarò più Romeo”.
SALVATORE — Ma è quello che ti volevo dire: io non sono
Romeo. Sì, sono Romeo ma solo di cognome. Ti piacerebbe
che io ti chiamassi Saltavalle? “Saltavalle amore mio, Salta-valle
mia, quanto sei bella, quanto ti amo”.
GIULIETTA — E che è un nome? Però Saltavalle non mi pia-ce.
SALVATORE — Tuo padre ti ammazzerebbe se ti sentisse, non
hai idea di come è orgoglioso del suo nome.
GIULIETTA — Lo dici a me? Lui me lo ricorda sempre che
sono una Saltavalle: “Non dimenticarlo mai, in nessun mo-mento”
dice, come se potessi dimenticarmene. Ma vorrei
proprio, te lo assicuro. Pensa, quando ci sposeremo sarò la
signora Giulietta Romeo. Non fosse che per chiamarmi così.
ti vorrei come sposo.
SALVATORE — “E che è un nome?” hai detto tu, e adesso, per
un nome, sposeresti un altro purché si chiamasse Romeo.
(Equivocando, si è un po’ abbuiato in viso) Sia lodato il cie-lo
che mi ha fatto nascere un Romeo e che Romeo sia io.
GIULIETTA — Ma sai quanto me ne importa a me di Romeo,
Salvatore mio. Sapessi quanti significati do io al tuo nome!
SALVATORE — Ma io non capisco. Che bisogno c’è di questa
girandola di nomi nella tua testa?
GIULIETTA — Noi siamo donne: l’autore di Giulietta e Ro-meo
sapeva che a noi donne i nomi fanno girare la testa. Io
credo che la tragedia di Giulietta e Romeo sarebbe orribile
se non fosse addolcita dai nomi di Giulietta e Romeo. Lo
sapevi che muoiono tutti e due?
SALVATORE — No.
GIULIETTA — Sono sicura che se si chiamassero “Peppa e
Giacomo”, a quest’ora non la vorrebbe vedere e, tanto me-no
leggerla, nessuno.
SALVATORE — Ma cosa te ne importa, a te? Io mi domando.
Si sente un campanello dall’alto dell’appartamento.
GIULIETTA — La nonna, mi chiama la nonna. Senti il campa-nello?
Debbo scappare. Ciao, amore.
Giulietta lo bacia e va per la porta a vetri. Salvatore resta solo.
SALVATORE — Mi devo leggere questo romanzo di Giulietta
e Romeo. Debbo vedere da dove le viene quella pazzia. Io
non ho mai pensato né al mio nome né al suo. Me ne sareb-be
importato tanto se ci fossimo chiamati Peppa e Giaco-mo?
Che cos’è un nome? Certo Andrea Saltavalle è un no-me.
Don Andrea ha un nome. Lui stesso dice: “Io ho un no-me”,
e lo dice come se gli altri non avessero neanche quello
di battesimo. Lui lo conoscono tutti: i generali, i ministri,
gli ambasciatori, gli alti ufficiali italiani e stranieri. Lui è il
grande maestro, inventore di barbe e baffi di tutte le fogge e
di tutti i colori. Essere suo garzone è un onore, prima di tut-to.
Quanti al mio posto bramerebbero di stargli vicino an-che
senza paga! Anche lui ha la mania dei nomi, va in be-stia
quando il comandante della piazza di Tunisi lo chiama
Monsieur Figarò. Che cosa è un nome? Eh già, se quello di
Figaro gli dà fastidio qualche importanza deve pur averla. E
il comandante della piazza insiste: “Non vi offendete don
Andrea, quando vi chiamo Monsieur Figarò, perché vuol
dire che tutti vi chiamano, che tutti vi vogliono – figaro qua
– figaro là – (cantando) figaro giù, figaro su – qua la botti-glia,
qua la lavanda, qua la parrucca – sono un barbiere di
qualità – figaro figaro figaro”. (Canta tutto il pezzo del
“Barbiere di Siviglia” di Rossini. Poi si Sorprende lui stes-so
di cosa sta cantando e di cosa sta facendo.) Mamma
mia, se mi scoprisse don Andrea, in un momento come que-sto?
Certo che essere chiamato don Andrea invece che Fi-garo
fa una bella differenza. Poi dite: “Che cos’è un no-me?”
Un mistero deve averlo, un nome. Anche mio padre,
che pure non è padrone di nulla, mi diceva: ‘Tu sei un Ro-meo
e devi tenere alto il tuo nome”. I Romeo sono tanti in
Sicilia e sono tutti nobili. Vivono tutti nei palazzi. L’unico
Romeo povero è mio padre. Ma dal momento che porta un
nome da ricchi, di gente nobile, poverino è costretto a man-tenere
un certo distacco dai poveri come lui: noblesse obli-ge,
capite? Come dicono qua. Ma cosa posso fare io? Come
posso tenerlo alto, specialmente con un principale come
don Andrea Saltavalle che si sente tanto in alto da vedere
come pulci tutti quanti, qui a Tunisi. E che per altro non ha
torto, con quella figlia che ha. Da dove è venuta, poi, quella
figlia, lo sa Dio. Quella si che la vogliono tutti, tutti la vo-gliono.
Tutti la chiamano in un modo che a me dà un gran
fastidio. È strana, è imprevedibile. E nata qua. E il padre, in
omaggio a questo Paese che gli ha dato il successo e la ric-chezza,
le ha imposto “Tunisia” come secondo nome. Ma
avrebbe fatto meglio a chiamarla “Francia”, perché lei è più
francese di tutte le francesi che si vedono a Tunisi. No –
non c’è confronto con lei – con la sua eleganza, la sua
strafottenza, la sua astuzia. Qui però fa capolino la natura
siciliana, perché non ci sono donne al mondo più astute di
quelle dei nostri paesi. Se quelle donne tenute in casa come
in convento si scatenassero... Dio, Dio, i miei nonni diceva-no:
“Non date libertà alle nostre donne, non fatele studia-re”.
E questa ha studiato – di libertà ne ha poca, grazie a
don Andrea – e sta studiando. E sarà per questo che fa gira-re
la testa a tutti gli ufficiali della guarnigione. Ad uno in
spécial modo: il tenente Crauti, che è anche un barone, fi-glio
dell’ambasciatore tedesco Sua Eccellenza il barone
Von Crauti. Questo è proprio pazzo per lei, porta sempre
fiori e invia carrettate di fiori che mandano in visibilio don
Andrea. Non di rado vengono padre e figlio a salutarla. E
don Andrea ci fa sopra i suoi progetti. I progetti di nozze di
sua figlia con i baroni tedeschi imparentati con i francesi.
Ma lei dice che i Crauti non le piacciono, ognuno ha i suoi
gusti. Ma se quello si chiamasse Alfredo, non so quanto re-sisterebbe
Giulietta. Ma Alfredo o Romeo, sono la stessa
cosa. Alfredo sono io.
Si sente il grammofono dall’appartamento: “Amami Alfredo –
amami quanto t’amo ecc.” Entra don Andrea.
DON ANDREA — Verdi, La Traviata. Salvatore, è venuto nes-suno?
SALVATORE — Nossignore.
Don Andrea guarda l’orologio.
DON ANDREA — Eppure sono io in ritardo. Meglio così, per-ché
non dovrò scusarmi del ritardo, si dovrà scusare lui.
Entra il tenente Crauti con un mazzo di fiori.
TENENTE — Scusatemi, monsieur, sono in ritardo, sono im-perdonabile.
DON ANDREA — Ma non fa niente.
TENENTE — No, no sono imperdonabile...
DON ANDREA — E allora?
TENENTE — Fate voi, datemi voi la punizione.
DON ANDREA — La punizione che potrebbe dare don An-drea
Saltavalle sarebbe quella di tagliarvi un baffo. Ma poi
cosa me ne faccio d’un vostro baffo?
TENENTE — Ve ne fate un baffo voi.
DON ANDREA — No, non posso aggiungere altri baffi a quel-li
che ho.
TENENTE — E sì, voi siete proprio – come si suol dire – un
uomo con tanto di baffi.
DON ANDREA — Grazie, grazie.
TENENTE — Ma che cosa significhi essere una persona con
tanto di baffi, non lo so; ci deve essere un significato nasco-sto,
un doppio significato.
DON ANDREA — Sedetevi, tenente.
Si siedono; Salvatore resta in piedi.
TENENTE — Grazie.
DON ANDREA — I baffi contengono molti significati e molti
messaggi. Non era per caso che i grandi della storia curas-sero
la propria barba e i propri baffi. E non soltanto i grandi
uomini, ma lo stesso Padreterno, che l’ha poi insegnato a
Mosè, dettandoglielo nelle famose Tavole della Legge. Ve
lo immaginereste voi un Padreterno senza baffi né barba?
TENENTE — No, no di certo.
DON ANDREA — E ve lo immaginereste il Padreterno con
una barba incolta?
TENENTE — Ah no, certamente no.
DON ANDREA — Ebbene, tutti gli angeli che gli stanno intor-no
sono dei perfetti parrucchieri; certo non vengonorappre-sentati
con spazzole, forbici e pettini in mano, anche perché
quando vengono rappresentati intorno al Padreterno hanno
già finito di lavorare, l’hanno – come diciamo noi – l’hanno
già servito. Si ricorda, lei, quando Salvatore dice: “Il signo-re
è servito”? Bene, lui ripete quello che gli angeli dicono
al Padreterno, che è il Signore: “Il Signore è servito”.
TENENTE — Ma allora lei è religioso?
DON ANDREA — Religiosissimo. Sono religiosissimo io, è
religiosissima mia madre che abita nell’appartamento qui
sopra, è religiosissima mia figlia...
SALVATORE — Anche io, sì, anche io sono religiosissimo.
DON ANDREA — Tu stai zitto!...
Salvatore abbassa gli occhi.
TENENTE — Perché deve stare zitto? Ha commesso qualche
cosa che...?
DON ANDREA — Il garzone non deve metter bocca...
TENENTE — Ma lei lo ha presentato come aiutante; perché
ora lo chiama garzone?
DON ANDREA — Forse in Francia non usa, ma in Sicilia è
fondamentale il rispetto delle distanze. Distanze fra padro-ne
e contadino, fra principe e servo, fra maestro e alunno.
TENENTE — Ma lui non è più un alunno, lui è già un uomo.
(Volgendosi a Salvatore) Quanti anni hai?
SALVATORE — Ventidue.
DON ANDREA — Stai zitto! (Salvatore abbassa gli occhi e
don Andrea si volge al tenente). Si può considerare un uo-mo
un ragazzino di ventidue anni?
TENENTE — Guardi che io ne ho ventitré.
DON ANDREA — Davvero? Però, ventitré sono già ventitré.
Vede, lei ha già un pelo forte nei baffi e nella barbetta. In-fatti
ha una grinta che le conferisce autorità nel comando.
TENENTE — Non credo che la grinta sia poi tutta nel pelo
forte della barba, ma che sia soprattutto nel carattere.
DON ANDREA — Sarà, ma a me risulta che i grandi uomini
di successo, i condottieri, i re, i filosofi, i grandi banditi, i
grandi conquistatori si facevano crescere, prima di ogni co-sa,
delle barbe fenomenali. Veda Carlo V, Enrico VIII, il
Barbarossa.
TENENTE — E Cristoforo Colombo, allora?
DON ANDREA — Quello era un cretino. Se avesse avuto una
gran barba, le navi gliele avrebbero date subito. Come vole-te
che la Spagna e il Portogallo potessero credere a uno che
non aveva neanche i baffi?!
TENENTE — Però il Portogallo gliele ha date, poi, le navi.
DON ANDREA — Gliele ha date la regina, una sbarbata come
lui. Tra sbarbati si intendono meglio. Invece guardate Ma-gellano,
Michelangelo...
TENENTE — E Raffaello...
DON ANDREA — Raffaello è morto prima che gli crescessero
i baffi. Ma volete capire il valore che ha il pelo nella storia?
L’importanza che gli hanno dato i cinesi, che sono glabri, e
ai quali qualche pelo cresce sul mento e all’estremità del
labbro superiore? I cinesi sfruttano quell’unico pelo e lo cu-rano
tanto che lo fanno arrivare lungo due metri, e se lo ac-carezzano
fino ai piedi. E badi bene che questa attività sul
pelo non è da gente qualsiasi, ma di pensatori, filosofi,
mandarini.
SALVATORE — Pure i mandarini?
Don Andrea lo guarda con aria di minaccia.
DON ANDREA — Veda, tenente, se questo non è un alunno:
un alunno ignorante che non distingue un mandarino cinese
da un mandarino siciliano.
TENENTE — Veramente neanche io lo distinguerei se non fos-se
per il pelo che ha descritto lei.
DON ANDREA — Sì, sì, i mandarini col pelo! Anche lei non
deve avere studiato molto; dica la verità, che cosa ha studia-to?
TENENTE — Tutti i miei studi sono stati studi militari, studi
di guerra.
DON ANDREA — E allora saprà che l’esercito è dotato di
barbe finte che vengono distribuite ai soldati per incutere
terrore al nemico.
TENENTE — Non mi risulta.
DON ANDREA — Ma le risulta che la barba ha molte funzio-ni.
SALVATORE — Tiene caldo.
DON ANDREA — Stai zitto, perdio! La barba ha funzione
psicologica, persino i baffi hanno funzione psicologica. C’è
uno scrittore il quale dice in un suo romanzo: “I baffi na-scondevano
ai buoni la bontà e ai cattivi la cattiveria”. L’os-servazione
è profonda. Non per nulla i creatori di barbe e
baffi ci sono fin dall’Antico Testamento, fin dall’antico
Egitto. Oggi, attraverso una opportuna accorciatura della
barba e dei baffi, possiamo dare alle persone un aspetto gio-viale
o severo o corrucciato, un aspetto infantile o di perso-na
vissuta, seriosa, taciturna. O un aspetto venerabile o ter-rorizzante.
E tutto con questi: pettine, forbici, spazzole, e
ferri per riccioli. Gli arnesi sono uguali per tutti coloro che
li adoperano, ma è il genio, come con i pennelli o gli scal-pelli,
che fa il capolavoro. Tunisi è la galleria dei miei ca-polavori
– non lo dico solo io. L’altro giorno me lo diceva,
caro tenente, proprio suo padre, l’ambasciatore.
TENENTE — Sa che lei ha ragione. Non avevo mai riflettuto
sulla funzione psicologica dei baffi e delle barbe. ‘Mbeh,
ho sentito dire che lei non è un figaro qualunque.
DON ANDREA — La definizione, la denominazione di figaro
non mi piace affatto. Figaro era un ruffiano; anzi, le dico
che tutti gli appassionati di musica lirica identificano l’arte
di figaro con l’arte del ruffiano.
TENENTE — Mi deve perdonare, monsieur, ma lei, proprio
come per indicare il massimo della sua categoria, viene
chiamato il figaro di Tunisi, e sua figlia la figara di Tunisi!
E tutti i miei commilitoni d’ogni grado desiderano quella fi-gara
meravigliosa, e io sono molto invidiato proprio perché
attraverso mio padre sono amico del padre della più bella
figara del mondo.
DON ANDREA — Tutto questo mi lusinga, caro tenente; e già
che ci siamo debbo dirle, prima di tutto, che io sono don
Andrea Saltavalle e che mia figlia, la signorina Giulietta
Saltavalle, non è parrucchiera. Lei ha studiato, studia anco-ra,
e benché sia vicina alla maturità degli studi non è matu-ra
per essere colta come un fico maturo. Suo padre mi ha
detto delle sue attenzioni per mia figlia Giulietta, ed io ho
risposto di esserne onoratissimo. Lui ha anche detto che
non ha importanza che la cosa (lui ha detto la cosa) si risol-va
subito. Credo si tratti di un eventuale matrimonio fra lei
e mia figlia. E che per ora occorrerebbe accordarsi come in
una specie di fidanzamento, sulla preferenza, prima che la
ragazza possa essere promessa ad altri. Io ho già promesso
a suo padre che non accetterò altre offerte, ma che non de-sidero
fissare la data del fidanzamento, né la data del matri-monio.
Lui mi ha chiesto se dicevo sul serio, se la mia pro-messa
era una promessa da galantuomo a galantuomo, e io
gli ho dato la mia parola d’onore.
Salvatore sbanda, si salva rantolando e girando su se stesso
fra le sedie del negozio.
TENENTE — Sono veramente confuso, non sapevo di tutto
ciò. Ho portato questi fiori, come vede, e vorrei darli perso-nalmente
alla signorina, se permette.
DON ANDREA — Non si disturbi, li porterò io come sempre
ho fatto.
Suona il campanello della nonna.
DON ANDREA — È mia madre che suona il campanello e mi
vuole di sopra. Mi scusi, la saluto. (A Salvatore) Servi tu il
tenente, guarda di che cosa ha bisogno.
Don Andrea va su in casa.
TENENTE — Ha dimenticato i fiori.
SALVATORE — Li lasci qui, in qualche modo arriveranno alla
signorina.
Entra l’ambasciatore.
AMBASCIATORE — Hans, hai finito?
TENENTE — Abbiamo sempre parlato. Ma se il ricevimento
non è questa sera, tornerò a farmi servire nella mattinata di
domani. E poi, con tutta probabilità, quel ricevimento non
ci sarà.
AMBASCIATORE — No, no, il ricevimento ci sarà. Don An-drea
ha dato la sua parola, ma non vuol fare un fidanzamen-to
ufficiale.
TENENTE — Ma una festa possiamo darla ugualmente e invi-tare
il padre e la figlia.
AMBASCIATORE — Ne parleremo. Vieni, vieni, ne parlere-mo.
TENENTE — Buona sera, garçon.
I due escono. Entra (dopo una piccola pausa, con Salvatore ri-gido
come fosse di gesso) don Luciano.
DON LUCIANO — Buona sera. Come, nessuno risponde al
“buona sera”? Che cos’hai Salvatore, è successo qualche
cosa?
SALVATORE — Don Luciano, don Luciano mio. Siamo rovi-nati.
È crollato l’universo.
DON LUCIANO — Addirittura. E morto qualcuno? Qui vedo
dei fiori.
SALVATORE — Altro che morto!
DON LUCIANO — Ma di che si tratta?
SALVATORE — Di me, di me... di me e di Giulietta, la figlia
di don Andrea. Di quei fiori maledetti.
DON LUCIANO — Mamma mia! E che avete fatto? Dio ce ne
liberi, qualche cosa che... Madre mia – siete morti, figli
miei – siete morti. E lo sa don Andrea?
SALVATORE — Non sa niente.
DON LUCIANO — E quei fiori?
SALVATORE — Quei fiori sono del tenente Crauti; il figlio
dell’Ambasciatore tedesco li ha portati come sempre per
darli a Giulietta.
DON LUCIANO — E Giulietta li ha presi?
SALVATORE — Mai, il tenente li ha consegnati sempre a don
Andrea e lui li ha sempre buttati di là nella pattumiera in
cortile. E io ho fatto lo stesso quando il tenente i fiori li ha
dati a me.
DON LUCIANO — E adesso, il tenente si è accorto?
SALVATORE — (scongiurandolo) La faccenda è un’altra, don
Luciano, non mi tradisca, le devo confessare una cosa mor-tale.
DON LUCIANO — Madre mia!
SALVATORE — Altro che “madre mia”, don Luciano; qua bi-sogna
raccomandarsi a Dio. Giulietta e io siamo innamorati.
DON LUCIANO — Dio ce ne liberi! Se lo sa don Andrea vi
ammazza tutti e due.
SALVATORE — Non glielo dica, per carità; non si faccia scap-pare
una parola. Ma il peggio è che lui ha promesso la ma-no
di Giulietta all’Ambasciatore Crauti, quello che ha in
moglie la baronessa francese.
DON LUCIANO — Ma compare Andrea lo sa che quello è
sposato?
SALVATORE — Al figlio, al figlio, al tenente Crauti, quello
dei fiori.
DON LUCIANO — L’ha già promessa? Sei sicuro?
SALVATORE — L’ha detto lui stesso, qui. Prima c’era qui il
tenente.
DON LUCIANO — L’ambizione, l’ambizione di padre, l’am-bizione
maledetta. Dante Alighieri lo diceva...
SALVATORE — Lasci stare Dante Alighieri.., qua ne va di
mezzo la vita mia e di G... G... G... Non ho più il coraggio
di pronunciare il suo nome.
DON LUCIANO — C’è un pezzo di Verdi che fa... (Accenna
un canto).
SALVATORE — C’è poco da cantare qua.
DON LUCIANO — Eh, lo so. Lo conosco io, compare Andrea.
In queste cose non transige. È capace di tagliarti la testa.
SALVATORE — Ma a me della mia testa non mi importa nien-te...
E...
DON LUCIANO — E allora, scusami, tutto è bello e risolto.
SALVATORE — Eh già, non ci avevo pensato. Vede come non
ragiono più? È la disperazione.
DON LUCIANO — Senza di lei moriresti disperato. C’è un
punto della Tosca che dice: “L’ora è fuggita... e muoio di-sperato!...”
SALVATORE — Don Luciano, capisco che non le può interes-sare
la mia disperazione ma per favore non canti adesso.
Questa non è un’opera del teatro, qua ci sono di mezzo due
povere creature.
DON LUCIANO — Tutto è teatro, figlio mio, tutti recitiamo la
nostra parte in un teatro che è la vita. Tu come ti chiami?
SALVATORE — Salvatore Romeo.
DON LUCIANO — Vedi, tu e lei siete proprio nei guai come
Giulietta e Romeo. Guarda se questo mondo non è il teatro
dove tutti vengono a recitare la loro storia. A ripeterla, addi-rittura;
Romeo tu, Giulietta lei, e siamo da capo. Adesso
dimmi che cosa devo fare io. Che parte ho io in questo co-
pione.
SALVATORE — Don Luciano, lei è un amico del cuore di don
Andrea. Lo so perché lo dice lui stesso. Lei è la persona che
lui ama di più, che apprezza come se lei fosse il suo angelo
custode, il suo confidente, la sua anima.
DON LUCIANO — Lo so, e cosa vorresti che facessi?... Che
gli dicessi come stanno le cose? E magari prendere le tue
difese? Sai cosa succederebbe? Addio amicizia!
SALVATORE — E allora?
DON LUCIANO — In questi casi – al nostro paese – i due ra-gazzi
fuggono e poi tutto si aggiusta. Ma qui siamo all’este-ro.
Non possiamo far fare una figura di cornuto a don An-drea
davanti ai suoi clienti. Un’azione del genere si dovreb-be
lavare col sangue.
SALVATORE — E allora?
DON LUCIANO — Dante Alighieri se la cavava bene in que-ste
cose, perché lui...
SALVATORE — Ma cosa c’entra Dante Alighieri?
DON LUCIANO — C’entra, c’entra; perché qua ci vuole un
genio, ci vuole il genio italiano.
SALVATORE — E non è meglio quello siciliano?
DON LUCIANO — Infatti Dante era siciliano, sennò non l’a-vrei
neanche pensato. E qui bisogna pensare. Si dice appun-to:
“Chiedere lumi a Dante”. I lumi. Altro che lumi. Qua ci
vogliono i bengala. Neanche Dante ce la farebbe. Figlio mio!
ATTO SECONDO
Stesso salone di barbiere. Sono in scena: Salvatore e don Lu-ciano.
DON LUCIANO — Ho fatto in modo di portare via don An-drea
al matrimonio di un amico che sta a Beciavilla – lonta-no
da qui – per parlargli a quattrocchi. Ho studiato tutto.
Domani ti dirò come è andata. Calmati, calmati.
SALVATORE — Sono distrutto. Don Luciano, solo lei può fare
un miracolo.
Arriva Giulietta.
GIULIETTA — Don Luciano, papà sta finendo di vestirsi, arri-verà
tra poco. Mi ha detto: “Va a salutare compare Luciano.
Digli che non posso farlo venire su a prendere il caffè per-ché
tutto è in disordine”, e deve accudire un momento an-che
alla nonna. Dove andate?
DON LUCIANO — È vero che tu ami questo ragazzo? Dimmi
la verità perché siete in grande pericolo: tuo padre ti ha pro-messo
ad un altro. Fai presto a dirmelo, devo saperlo; que-sto
viaggio serve a salvarvi. Devo sapere la verità subito,
prima che arrivi tuo padre.
GIULIETTA — Dio mio, che c’è? Come mai? Perché?
DON LUCIANO — Insomma, non c’è tempo da perdere!
GIULIETTA — Lui è la mia vita, lui è...
DON LUCIANO — Basta, basta questo.
GIULIETTA — Se mi tolgono lui io mi ammazzo.
DON LUCIANO — Basta ho detto, non farti accorgere d’esse-re
agitata. Tranquillizzati. Anche tu stai calmo. Ecco, così...
cambiamo discorso. Cambiamo discorso: le barbe francesi
sono più dure o più molli di quelle siciliane?
SALVATORE — Sono più molli, più ricce e più chiare.
DON LUCIANO — E i baffi?
SALVATORE — I baffi... i baffi.. i baffi come i suoi e come
quelli di don Andrea non li ha nessuno.
DON LUCIANO — Sai che ci sono signore che si innamorano
dei baffi? o delle barbe? Ma più dei baffi. Non guardano
neanche gli occhi, il naso. Non ci crederete, ma guardano
soltanto i baffi. Impara a modellare i baffi come li modella
il tuo maestro.
Arriva don Andrea.
DON ANDREA — Giulietta, ti aspetta la nonna. Compare Lu-ciano,
io sono pronto. Salvatore, attenti al negozio. Attento
come un cane da guardia. (Volgendosi a Luciano) Lui è il
mio cane da guardia.
DON LUCIANO — Ma è capace anche lui nel mestiere?
DON ANDREA — Per ora gli faccio fare il lavoro per i com-paesani.
Andiamo.
Escono. Una piccola pausa... Arriva Giulietta.
GIULIETTA — Salvatore mio, mio, mio, mio...
SALVATORE — Attenta che non torni tuo padre per qualche
cosa.
GIULIETTA — Dio voglia. Dio ci deve aiutare. Ma non ho ca-pito
bene che cosa è successo. A chi mi ha promesso? E
perché? Se mi allontanano da te io mi avveleno. Come mai
sapeva tutto don Luciano?
SALVATORE — Io sto pensando a come reagirà tuo padre se
don Luciano gli rivelerà tutto. Ti puoi immaginare, venire a
sapere che sua figlia è innamorata del suo cane da guardia.
Sì, “cane da guardia” mi ha definito poco fa. E non è la pri-ma
volta che lo dice. Non lo dice davanti a tutti, lo ha detto
davanti a don Luciano. Un minimo di rispetto ce l’ha. Ma
mi considera niente. Sa che sono bravo nel lavoro, – lui lo sa
– non mi vuole lodare, non mi vuole dare soddisfazioni, ma
io lo so che lo sa. Ma anche se fossi bravo come lui non mi
riterrebbe mai degno di sua figlia. Lui ti vuole in alto. Lui
vuole andare in mezzo agli ambasciatori, ai generali. Quan-do
vede carrozze e cavalli diventa pazzo. Gli piacciono da
morire. Ti vorrebbe vedere salire e scendere da quelle car-rozze,
di giorno e di notte. Vederti contesa dagli ufficiali, ve-derti
sempre invitata, ossequiata, salutata con tanti inchini.
Vederti con gli ombrellini alle passeggiate sulla banchina in
riva al mare. Lui ormai non si ricorda più da dove viene. Mi
devi perdonare, ma lui viene da dove vengo anch’io. Lui è
grande perché ha saputo fare fortuna – è un maestro. Non
c’è nessuno come lui. Ma io che ci posso fare? Il mestiere, o
“l’arte” come lui lo chiama, l’ho imparato. Ti giuro, l’ho im-parato,
potrei aprirmi un salone per conto mio. Ho anche
qualche soldino. E il fatto di essere stato un suo aiutante è
per me come un diploma, una laurea. Capisci? Ma per lui
sono niente. Ma a te non ha mai parlato di me? Ha detto
qualche cosa? A tavola, mentre mangiate con tua nonna?
GIULIETTA — Mai una parola. Se ti nomina è perché fai par-te
del suo lavoro e sembra sottinteso che tu faccia parte del-la
famiglia.
SALVATORE — Ma a te non ha mai detto niente delle sue in-tese
con l’ambasciatore, col tenente suo figlio?
GIULIETTA — Quale ambasciatore? quale? Quello che si fa
arrotondare i baffi e fa pettinare anche sua moglie, la baro-nessa
francese?
SALVATORE — Quello lì.
GIULIETTA — Sì, quello lì, lo so, ha un figlio che mi manda i
fiori che poi mio padre butta sempre nella spazzatura.
SALVATORE — E come lo sai?
GIULIETTA — Gliel’ho detto io di buttarli nella spazzatura e
lui ce li butta, tutto contento.
SALVATORE — E come si spiega che adesso ha dato la parola
all’ambasciatore che darà te in moglie a suo figlio?
GIULIETTA — Non ci credo.
SALVATORE — Li ho sentiti io... Mi sarei ucciso appena sono
usciti. Ma mi sei venuta in mente tu. E allora ho pensato di
aprirmi un salone di barbiere per dispetto. Poi ho detto: “Se
apro un salone è come volermi mettere in concorrenza col
mio maestro. Dovrei portargli via dei clienti; gli stessi che
ho conosciuto nel suo salone”. Nessun compaesano me lo
perdonerebbe. Ma questo sarebbe niente a confronto della
impossibilità di vederti tutti i giorni. Forse non potrei ve-derti
più. Tuo padre non mi farebbe avvicinare neanche alla
strada dove abiti. Se don Luciano non farà un miracolo sia-mo
rovinati.
GIULIETTA — Mi sento le gambe rotte, ho l’impressione di
esser condannata a camminare zoppa tutta la vita. Mi torna-no
in mente i lati meno belli di mio padre. La sua indole ag-gressiva,
la sua immodestia, la sua sconfinata vanità, la sua
intolleranza. Ma ha sempre annebbiato i miei occhi con la
più grande tenerezza del mondo. Ma come dal fondo della
nebbia alla luce improvvisa, potrebbero saltar fuori quei
brutti lati come cani rabbiosi contro di te, per difendermi da
te, senza sapere che, difendendomi, mi uccide. Guarda,
guarda, arriva il signor Parroco. Io scappo di sopra. Non ri-cordavo
più che è il giorno della sua visita alla nonna.
SALVATORE — Pensi che lui possa aiutarci?
GIULIETTA — Ho paura, ho paura di tutti.
Giulietta fugge in casa. Entra il Parroco.
PARROCO — Salute, figliolo. Non c’è don Andrea?
SALVATORE — Buona giornata, padre Parroco. Il maestro è
andato a Beciavilla col suo compare Luciano, al matrimo-nio
di Liborio Basilisco, quello che si sposa con la figlia di
Orlando, il macellaio.
PARROCO — E già, avrei dovuto andarci anch’io, ma non
posso lasciare la parrocchia, non ho un vice parroco. Devo
fare tutto da solo. Ma laggiù c’è una bella chiesetta e c’è un
giovane parroco efficientissimo.
SALVATORE — Ad essere efficientissimo, a Beciavilla, che è
un villaggio, non ci vuole tanto. È qua che è difficile.
PARROCO — ‘Mbeh, difficile... è questione di buona volontà.
SALVATORE — Ma c’è chi la buona volontà non ce l’ha! O
l’ha persa e non la trova più!
PARROCO — Giovanotto, c’è qualche cosa che non va? Dài,
fammi la barba.
Il Parroco prende posto sulla sedia da barbiere; Salvatore tira
fuori l’asciugamano e glielo sistema addosso.
SALVATORE — Il cappello, padre Parroco, se lo vuole tenere?
PARROCO — No, no, pensando a quello che stavi dicendo mi
ero distratto.
SALVATORE — Però se lo vuole tenere a me non dà fastidio.
PARROCO — Veramente cominciano i giorni di pioggia e non
fa tanto caldo. È come in Sicilia, quando si avvicina l’inver-no;
anche qua il freddo e il caldo si danno il cambio repen-tinamente.
E io che ho la pelata prendo dei mal di testa che
non ti dico.
SALVATORE — Quello è niente a confronto del male che ho
io alla testa!
Nel frattempo Salvatore ha dato la saponata.
PARROCO — Insomma, che c’è?
SALVATORE — Non ho mai visto il mondo così nero. O io
sono diventato cieco e non vedo che buio. E sono in un buio
dentro il quale cammino come un ubriaco che non trova più
l’uscita.
Salvatore intanto prende il rasoio e sta per cominciare a rasare.
PARROCO — Un momento, lascia quel rasoio. Sarei un pazzo
a farmi rasare da un cieco. Tu proprio non ci vedi.
SALVATORE — Ma no, padre Parroco, ci vedo benissimo.
PARROCO — Lo so che ci vedi benissimo, ma non vedi come
ti tremano le mani? Che cosa c’è? Che cosa è successo?
Salvatore trattiene a stento i singhiozzi che lo assalgono.
SALVATORE — (tutto rannicchiato in sé stesso) Padre Parro-co,
io mi devo confessare. Devo venire in chiesa a confes-sarmi.
PARROCO — E che bisogno c’è? Ho qui la stola. Sono venuto
per confessare la madre di don Andrea. Vedi, me la metto e
sono già in confessionale. Inginocchiati, e facciamo subito.
SALVATORE — Come, qua?
PARROCO — Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo, perciò è
anche qua.
SALVATORE — Qua il Padreterno è don Andrea.
PARROCO — Ma che don Andrea e don Andrea. Inginocchiati
e dimmi tutto. Lo sai il paternostro? L’atto di dolore?
SALVATORE — Tutto, tutto so. E che dolore, padre Parroco!
Salvatore s’inginocchia ai piedi del seggiolone da barbiere su
cui è seduto il Parroco come in trono. Il Parroco prende per i
lembi lo stesso asciugamano e lo stende sulla testa di Salvatore.
PARROCO — Da quando non fai la comunione? Da quando
non ti confessi?
SALVATORE — Da quando ci amiamo di nascosto, io e Giu-lietta,
la figlia del principale.
PARROCO — Porca miseria! Porco Giuda! Ecco cosa c’era
sotto! Ora capisco perché ti fa male la testa. Ma avete com-messo
qualche peccato?
SALVATORE — Lo devo dire?
PARROCO — A me devi dire tutto, per filo e per segno.
SALVATORE — Eh! Una parola! Qui ci vorrebbero quindici
giorni. E dobbiamo fare presto.
PARROCO — Cosa vuol dire fare presto? È incinta? L’ha mes-sa
incinta, figlio di puttana!
SALVATORE — Ma cosa dice, padre Parroco?!
Salvatore cerca di uscire da sotto l’asciugamano.
PARROCO — Stai sotto! E confessa tutto. Lo capisci che sei
già all’inferno?
SALVATORE — Sì, sì, ma non per quello che pensa lei.
PARROCO — C’è anche di peggio? Padre, Figliuolo e Spirito
Santo! C’è forse anche di peggio?
SALVATORE — Il peggio è che don Andrea vuole far sposare
la figlia con un ufficiale francese. Figlio di un tedesco natu-ralizzato
francese.
PARROCO — E che tu hai fatto cornuto ancora prima che
quello la sposi. È un bell’affare, questo! Andiamo bene, di
bene in meglio. Avevi ragione a dire che a Beciavilla è tutto
più facile.
SALVATORE — A Tunisi è diverso perché don Andrea bazzica
nelle case dei generali, dei diplomatici, degli ambasciatori,
e si monta la testa. Lui avrà anche ragione di voler salire,
salire in alto. Era povero come me e ora è ricco, ha un no-
me e ci vede tutti come fossimo scarafaggi. Sì, scarafaggi.
PARROCO — Ma a te vuole bene, e tu vuoi bene a lui, questo
io lo so.
SALVATORE — Davvero lui mi vuol bene?
PARROCO — Ti vuol bene, io lo so.
Salvatore scoppia in pianto.
SALVATORE — E io lo tradisco, l’ho tradito! Per favore, mi
tolga questo asciugamano. (Se lo toglie lui stesso e si alza
in piedi). Ma come, ha ancora la saponata in faccia? Guar-da,
qui le si è asciugata, bisogna bagnarla.
PARROCO — Ohè, la confessione non è mica finita!
SALVATORE — Ma io lì sotto muoio soffocato.
PARROCO — E allora facciamo senza asciugamano. Stai giù.
SALVATORE — E la barba?
PARROCO — Dopo, dopo; adesso finisci di confessarti.
SALVATORE — Ma io non ho più niente da dire.
PARROCO — Non hai peccati? Ne hai così pochi?
SALVATORE — Eh sì – pochi ma grossi – e ora sono dispera-to.
PARROCO — E Giulietta?
SALVATORE — Crede di avere tradito anche lei suo padre, in-vece
è suo padre che ha tradito sua figlia.
PARROCO — Ma che famiglia di traditori!
SALVATORE — Però ora lei, padre Parroco, non deve tradire
me; io le ho detto tutto ma non deve saperlo nessuno. Biso-gna
mettere rimedio. Bisogna impedire che don Andrea va-da
avanti per sposare la figlia con l’ufficiale francese.
PARROCO — Ma lei, Giulietta, cosa dice di tutto questo?
SALVATORE — Se vuole la chiamo, la vado a chiamare. Sto
io con la nonna e lei la interroga.
PARROCO — Non sono mica un poliziotto, io.
SALVATORE — Insomma, la confessa. Vado.
Salvatore va a chiamare Giulietta. Il Parroco resta solo, si pu-lisce
il viso; viene sul proscenio.
PARROCO — Siamo nelle mani di Dio, ma siamo troppi, co-me
troppe olive nelle mani dell’agricoltore, qualcuna perciò
casca, anzi ne cascano tante e si ammaccano, e vengono an-che
calpestate. Dio, che vuole coglierle tutte, chiama degli
aiuti per tirarle su, per salvarle e chiama noi, i manovali di
Dio, a cogliere le olive che spesso sono già marce. Questa è
buona gente. Lo stesso don Andrea è un galantuomo un po’
iroso, ma galantuomo. Il vero traditore sarebbe lui, che ha
chiesto addirittura d’essere “naturalizzato”, come dicono
qua, “naturalizzato francese”. Un po’ per vanità, un po’ per
bisogno, ha accettato – io lo so – sta per essere naturalizzato
francese. Se ciò avverrà, la figlia andrà a studiare gratis a
Parigi. Lui potrà andarsene in Francia a pari diritto con i
francesi. E non è poco, qua. Tutti i nostri compaesani sono
emigrati qua per bisogno, per trovar lavoro. Alcuni accettano
la cittadinanza e addirittura la nazionalità francese per to-gliersi
dal bisogno, ma soprattutto per fare studiare i figli
gratis. Don Luciano, – per esempio – l’amico del cuore di
don Andrea, non vuol sapere di questi contratti e cambia-menti
di nazionalità. È tanto contrario a queste cose che se
sapesse delle pratiche che sta facendo il suo amico non lo
avvicinerebbe più. Però dal volersi far francese al volere
sposare la figlia con un aristocratico francese o tedesco che
sia, c’è rischio di incorrere in un bel po’ di guai. Lui non ha
idea di come verrebbe messo in disparte da quella gente, do-po
il matrimonio. Lui non ha la più pallida idea dei dolori ai
quali va incontro... e nei quali caccia la figlia. Il difficile è
farglielo capire. Ma se lui sa che il suo garzone (e non si ha
idea dell’abisso che c’è fra un garzone e un maestro: nean-che
fra un sacrestano e un Arcivescovo, ve lo dico io) vuole
sposare sua figlia, è la fine. Può anche scorrere del sangue.
Arriva Giulietta.
GIULIETTA — Sono qua, padre Parroco.
PARROCO — E Salvatore dov’è?
GIULIETTA — Fa compagnia alla nonna. Mi ha detto che lei
mi vuole parlare.
PARROCO — Figliola mia, devi dirmi cosa è successo. Com’è
questa faccenda?
GIULIETTA — (un po’ spaventata) Parroco mio, non ho col-pa,
non ha colpa neanche Salvatore. Ci siamo innamorati
senza sapere come, né perché. Io avevo desiderio di essere
amata da Salvatore e lui aveva desiderio di essere amato da
me.
PARROCO — Non mi raccontare tutta la storia...
GIULIETTA — Ma è solo questa la storia. Vorrei spiegare,
però, come è. Ecco: io, desiderando che lui si innamorasse
di me, mi sono accorta che ero innamorata di lui.
PARROCO — E lui lo stesso, questo lo so.
GIULIETTA — E allora cosa vuole sapere?
PARROCO — Voglio sapere cosa avete fatto. Andiamo al so-do:
ti ha messo incinta?
GIULIETTA — No! Maria Santissima, no. Qualche bacio, al
massimo. Ora però sarebbe una fortuna se fossi incinta per-ché
mio padre dovrebbe cedere.
PARROCO — Ma tu parli come una pazza.
GIULIETTA — Sissignore. Pazza, pazza, pazza d’amore e di
disperazione. Qui bisogna trovare qualche rimedio, qualche
scusa, non so, qualche miracolo, perché sennò io mi avvele-no
come la famosa Giulietta.
Arriva Salvatore di tutta fretta.
SALVATORE — La nonna si è addormentata. Padre Parroco,
cosa ci consiglia, cosa dobbiamo fare?
PARROCO — Ci sarebbe un sistema, ma è contro i comanda-menti.
E io non posso mettermi in una faccenda così pecca-minosa.
GIULIETTA e SALVATORE — (esortandolo) Ce la dica, ce la
dica, non vede come siamo ridotti? Se con quel sistema ci
può salvare...
PARROCO — “Con quel peccato” è meglio dire.
GIULIETTA — Sì, va bene, quel peccato lo faccia fare a noi,
poi veniamo a confessarci, e lei, signor Parroco, ci fa recita-re
trenta avemarie e quaranta paternostri e ci lava dal pecca-to.
Lei può fare tutto.
PARROCO — Bisogna calunniare il tenente, e tutta la sua fa-miglia,
ecco cosa bisogna fare. Fare informare don Andrea
che quel giovane è un donnaiolo, un giocatore, un bevitore
di vino, che non ha il becco di un quattrino, che è un cac-ciatore
di dote. Che sua nonna è morta pazza.
GIULIETTA e SALVATORE — E se non è vero? E se non è
vero, poi?
PARROCO — Certo poi si viene a scoprire che sono tutte ca-lunnie,
ma le calunnie lasciano la loro traccia: “E il meschi-no
calunniato, avvilito.., calpestato...”.
Canta il pezzo di don Basilio del “Barbiere di Siviglia” (tutto
registrato). Mentre i due giovani, prima stupiti poi animati,
compiono movimenti di danza a tempo del pezzo musicale. Ma
cominciano a spaventarsi quando arriva il pezzo “un tremuoto,
un temporale – un tremuoto, un temporale...” Si spaventano e
si inginocchiano.
GIULIETTA e SALVATORE — No, padre Parroco, basta.
Il Parroco smette e si inginocchia pure lui.
PARROCO — Figliuoli, preghiamo, preghiamo, chiediamo
perdono a Dio di ciò che stiamo tramando.
Si fanno tutti e tre il segno della croce, e si sente il campanello
della nonna: din dlin, din dlin, come nella messa. Il Parroco si
batte il petto, con gli occhi volti al cielo; il campanello suona
ancora; din dlin. I giovani con gli occhi bassi, si battono il pet-to.
Din dlin. Il Parroco si alza in piedi, come in stato di trance.
PARROCO — Ite, Missa Est... Ma cosa sto facendo? Cosa mi
fate dire? Cos’è quel campanello? Chi suona quel campa-nello?
GIULIETTA — È la nonna.
SALVATORE — Si è svegliata la nonna.
GIULIETTA — Venga, venga padre Parroco. L’accompagno io
di sopra.
PARROCO — Cose dell’altro mondo, siamo diventati pazzi.
Giulietta e il Parroco vanno, resta Salvatore. Viene avanti, al
proscenio, e guarda come fosse dietro i vetri.
SALVATORE — Guarda lì: piove. E questa pioggia è capace,
adesso, di durare una quindicina di giorni. Ci manca anche
questo per farmi stringere di più il cuore. Perché il cuore si
stringe, si sgonfia e si gonfia e si asciuga e si bagna e si mette
come un tappo, qua, in gola, e non fa passare il respiro.
Arriva Giulietta.
SALVATORE — Sarà la paura che fa questo effetto.
GIULIETTA — Ma questo a te capita sempre quando piove.
Una volta che è piovuto per tanti giorni tu mi hai scritto una
cosa bellissima. Te la ricordi? La vado a prendere.
SALVATORE — No, sta qua... Tanto, adesso che piove non ar-riva
nessuno.
GIULIETTA — Faccio in un momento. (Corre e ritorna) Vedi?
(Legge) Sì, s’aprirà questo cielo, verrà la primavera col cap-pellone
azzurro puntinato di rondini, Giulietta. Verranno, se
Dio vuole, i due nastri sottili di nuvole bianche fino in fon-do
al paese. Il mare si vedrà laggiù, dopo le vigne di Santa
Croce. E quasi te lo prometto: vedremo correre le lucertole
sui muri caldi per andare a bere dove c’è l’acqua che fa
stelline d’argento ad ogni sorso. Le ortiche pungeranno co-me
vipere. I fichi d’India faranno le regine della Tunisia
con le corone in testa e torneranno anche le mosche; abbi
pazienza, Giulietta, per me e per tutti usciranno le donne: le
fanciulle si pettineranno alle finestre. Poi verranno per i
prati a mettersi nello scrimine quei fiorellini timidi che bi-sogna
scovare sotto l’erba. Ci sarà l’aria che parrà di poter-la
prendere con le mani e ci si tufferà sull’erba. Poi si starà
supini per delle ore a pensare: “Cosa c’è di più in là del cie-lo?”
Più in fondo, più in fondo ancora del Paradiso? E Giu-lietta
dirà distrattamente: “Mah?” Che bellezza: verrà la
primavera, Giulietta correrà con me serpeggiando per le
trazzere sassose a impigliar le gambe tra i grovigli di spine.
Le potrò succhiare il sangue quando si pungerà gli stinchi.
Forse sì, me l’ha promesso, e allora io la porterò dove ci so-no
le bozze di terreno con i cardi secchi, glieli farò risalire e
ridiscendere col fiato nei denti, la farò correre e correre su e
giù per i campi e per i greppi da rompersi le gambe. Ci fer-meremo
tra le vigne e le darò tutto quello che vorrà. Le
darò le campagne, tutte le farfalle che vi voleranno sopra, le
darò le montagne, il paesaggio fino al mare e, se vorrà, an-che
quello più in là, con i bastimenti e tutto. “Prenditi il cie-lo
e la terra,” le dirà “tutto è tuo. Vuoi queste rondini, vuoi
quell’acqua che luccica sui macigni di Cartagine? Vuoi farti
un vestito d’acqua? Vuoi fartelo di foglie? Vuoi fartelo di
cielo? Fattelo di quello che vuoi. Vedi quel che ti sta me-glio,
Giulietta, io ti amo”. È bellissima!
SALVATORE — L’ho copiata, l’ho copiata da quel libro che
tuo padre tiene nel cassetto, ed al posto del nome che c’era
scritto ci ho messo Giulietta.
GIULIETTA — Però l’hai copiata tu.
SALVATORE — Eh sì!
GIULIETTA — È questo che a me interessa. Non mi importa
niente di chi l’ha scritta; magari quello è un cretino.
Il Parroco si affaccia sulla porta a vetri.
PARROCO — (a Giulietta) Torna su da tua nonna, ché ti
aspetta. (A Salvatore) Ero lì dietro a sentire la lettura; cosa
fai, anche lo scrittore, tu?
SALVATORE — No, io copio da qui, vede? Ecco, questo libro
è sempre lì e io lo leggo quando ho un momento di tempo.
Don Andrea non lo finisce mai. Forse lo rilegge, da anni.
Contiene storie d’amore avvenute in Sicilia. Vede, qui, a
pagina...
PARROCO — Lo conosco bene... lascia stare... Guarda... met-tilo
al suo posto, perché a don Andrea non farà piacere di
trovarlo in mano tua. La sua possessività, la sua gelosia non
hanno limiti.
SALVATORE — Eccoli, eccoli, padre Parroco. Stanno arrivan-do,
don Andrea e don Luciano.
Salvatore mette via il libro.
DON ANDREA — Oh, padre Parroco, veniamo dal matrimo-nio
di Liborio Basilisco con la figlia di Orlando. Per fortuna
ha smesso di piovere.
DON LUCIANO — Oh, padre Parroco, le prove della banda
dobbiamo rimandarle all’altro lunedì perché con gli amici –
anche vossignoria – siamo invitati in casa degli sposi a Be-ciavilla.
PARROCO — Ma io non posso venire, figlioli. Tanto, per suo-nare
quattro ballabili, quattro suonate le potrete fare senza
maestro.
DON ANDREA — Ma agli sposi e anche al Parroco di Becia-villa
farebbe piacere che lei ci venisse. C’è pronto un rice-vimento
con dolci, biscotti, rosolio e gelati da far gola an-che...
PARROCO — No, no, io non posso. Va bene, proveremo la
Cavalleria rusticana l’altro lunedì. Ora vi saluto.
Si sente il campanello della nonna. Esce il Parroco.
DON ANDREA — Compare, vado da mia madre che sta chia-mando.
Vi saluto. Ci vediamo alla messa domani.
Esce don Andrea. Restano soli Salvatore e don Luciano.
SALVATORE — (preoccupato) Come è andata? Gli ha detto
niente?
DON LUCIANO — Ssst, silenzio, occorre almeno una settima-na
di tempo. Quell’invito a Beciavilla per lunedì l’ho fatto
fare io per prendere tempo. Ho un progetto che per portarlo
in porto ha bisogno di una settimana. Tutto andrà a posto
l’altro lunedì, alle prove della banda. Tu ti devi studiare con
la tromba il pezzo che poi ti dirò. Ti darò la musica scritta
quando andremo a Beciavilla. Ma te la devi preparare bene.
Ora io vado dal Parroco e mi metto d’accordo con lui. A lui
farò dirigere un altro pezzo di musica. La musica fa tutto, fi-glio
mio, te ne accorgerai. Raccomandati a Santa Cecilia.
(Uscendo) A Santa Cecilia, la Patrona della musica.
SALVATORE — A Santa Cecilia?
DON LUCIANO — (da lontano) A Santa Ceciliaaaaa...!
ATTO TERZO
Studio del Parroco, con porta d’ingresso e altra porta che im-mette
nella sala di musica (della banda musicali). Nello studio
sono strumenti a fiato, grancassa e tamburo. Sulla porta c’è
scritto: “Prove di banda, Direttore padre Scaffale”. All’aprirsi
del sipario il Parroco è con tre musicanti che hanno sotto il
braccio clarinetti e tromboni. (Nota bene: il regista può trova-re,
di volta in volta, i musicanti veri delle bande comunali dove
si rappresenta questa commedia). Il Parroco, con un foglio di
musica in mano, sta spiegando qualche cosa.
PARROCO — Ecco, adesso andate di là e studiatela; poi vi
raggiungo...
I tre vanno; ne arrivano altri alla spicciolata, salutano e si av-viano
alla sala di prova.
MUSICANTI — Allora, andiamo di là?
PARROCO — Sì, sì. Voi provate per conto vostro...
C’è aria di cospirazione fra il Parroco e i musicanti. Entra an-che
Salvatore con la sua tromba. Si sentono prove di strumenti
come prima di una esecuzione bandistica. Entra don Andrea,
con aria preoccupata.
PARROCO — Come mai non hai portato lo strumento?
DON ANDREA — Ma abbiamo l’incontro qua con l’amba-sciatore
tedesco e suo figlio. Se ne è dimenticato?
PARROCO — Oh, Madre Santissima, mi è saltato di mente. E
ora? Come facciamo?
DON ANDREA — Eh, mandi via tutti.
PARROCO — Posso farli aspettare. Tanto quest’incontro non
durerà tutto il pomeriggio. Faccia lei, padre, veda lei.
Il Parroco si affaccia alla porta dei musicanti.
PARROCO — Ragazzi, ragazzi, passate in chiesa, aspettatemi
un po’ là. Mi dispiace: mi ero dimenticato di un impegno
importante. Se volete rimanere là, non fate chiasso, per fa-vore.
(Richiude la porta. Si rivolge a don Andrea) Ma per-ché
sei così preoccupato? Sei tutto sudato. Dovresti essere
felice, oggi combini il matrimonio di tua figlia. Questa è
gente di alto rango. Tua figlia fa un grosso matrimonio e
guadagna un titolo nobiliare. Quel documento che ti ho da-to
non tirarlo fuori finché non te lo dico io. Ce l’hai lì?
DON ANDREA — Sissignore.
PARROCO — Dammelo qua. Vedi, qua ho scritto che discendi
dai duchi di Spagna Saltabarranco e che quel nome è stato
tradotto in italiano in Saltavalle nel 1782. Come vedi l’atte-stato
è tratto dagli archivi vescovili di Palermo. Bollato e
firmato dal notaio pontificio, Arcivescovo Dottor Anacleto
Rimmaudo. Con timbro in ceralacca. Hai capito? Su cera-lacca.
Se volessero, quei signori, far rilevare che sono dei
nobili, noi gli metteremmo davanti questo po’ po’ di perga-mena.
Lascia fare a me. (Si ode una strombettata di prova
di tromba). Silenzio, di là!
DON ANDREA — Ma qui non si tratta più di fare il matrimo-nio.
Qui sono saltate fuori cose grosse. Io a quei signori de-vo
dire di no.
PARROCO — E come, ritiri la parola? Che siciliano sei? Ma
lo capisci che è un disonore per tutti i siciliani che sono
qua? Già quegli stranieri non ci hanno in grande considera-zione.
Ci mancherebbe anche questa mala parte.
DON ANDREA — Certo che sono tra l’incudine e il martello,
ma io devo uscirne. Ne devo uscire a qualunque costo.
PARROCO — Ma perché, cosa è successo?
DON ANDREA — È venuta a trovarmi una signora, una vera
signora.
PARROCO — Chi era questa signora?
DON ANDREA — Una signora francese che non ha voluto
dirmi il nome. E, comunque, mi ha dato informazioni che
mi sono state confermate con tre lettere che ho trovato infi-late
sotto la porta del salone.
PARROCO — E allora? Le hai queste lettere?
DON ANDREA — Insomma, mi avvertono che il giovane te-nente
Crauti e tutta la sua famiglia sono degli squattrinati,
che lui è un cacciatore di dote e che ha un male spaventoso.
PARROCO — Che male?
Don Andrea sbanda e si asciuga la fronte.
PARROCO — Insomma, che male ha? Ha il malcaduco, il ci-
murro, la filossera? Che cos’ha?
DON ANDREA — Padre mio, padre di Dio...
PARROCO — Non esageriamo.
DON ANDREA — La sifilide ha!
PARROCO — Gesù, Maria! Siamo perduti. Ma come fa la
gente a sapere queste cose?
DON ANDREA — Non lo so, ma come farò io a dirgli: “Mia
figlia non gliela do perché ha la sifilide”?
PARROCO — No, no, così non si può. Bisogna trovare altre
scuse.
DON ANDREA — E quali?
PARROCO — È notorio che l’ambasciatore Von Crauti è un
giocatore.
DON ANDREA — So che lo è anche il figlio.
PARROCO — Anche il figlio è un giocatore? Ma allora è fatta.
Questa è una cosa pubblica, che tutti possono testimoniare.
Siamo a cavallo.
DON ANDREA — E che cosa gli dico: “Lei è un giocatore e
io per questo non le do mia figlia”? Quello potrà dire: “Be-ne,
smetto di giocare!” E io che gli rispondo?
PARROCO — Certo è un bell’impiccio. Devi proprio trovare
una via d’uscita.
DON ANDREA — Vossignoria la deve trovare. Con la sua au-torità,
con la sua presenza di uomo religioso, di Parroco
della comunità. Io non saprei da che parte cominciare. Per
di più sono un amico di famiglia. Il mio lavoro lo faccio
nell’alta società francese. Un mio voltafaccia senza ragione
– e solo perché ho ricevuto delle lettere anonime – mi squa-lifica
per sempre e mi fa allontanare da tutti.
PARROCO — E allora affronta la situazione.
DON ANDREA — Come?
PARROCO — Gli dài tua figlia e poi si vedrà. Cosa ti posso
dire, io?
DON ANDREA — Ma io, anche se tutto quello che mi hanno
detto e scritto non è vero, non mi sento più in animo di fare
sposare mia figlia con quel bellimbusto. Mai e poi mai!
Strombettata di prova di tromba.
DON ANDREA — Ma chi è che fa quelle strombettate? Non
sarà mica quel cretino di Salvatore? Dica di smettere sennò
lo prendo a pedate.
PARROCO — Ma lui cosa sa di te, che sei addolorato e furi-bondo?
Entrano l’ambasciatore e il figlio tenente.
AMBASCIATORE — Permesso?
PARROCO — Prego, venite, accomodatevi.
Strombazzata di trombone e colpetto di tamburo.
PARROCO — (affacciandosi alla sala di prova) Fate piano,
per favore, o andate anche voi tre in chiesa. (Ritornando)
Scusate, ma qui a fianco proviamo i concerti di banda. La
banda l’ho formata io, fra i compaesani. Sono il loro diret-tore.
AMBASCIATORE — Già, già, è scritto lì.
PARROCO — Avete già letto? Prego sediamoci, sediamoci.
DON ANDREA — Padre Parroco, io andrei via.
AMBASCIATORE e FIGLIO — E perché? E perché?
PARROCO — Sono intervenute delle difficoltà – degli “impe-dimenti”,
come li definisce la Chiesa – che ostacolano non
poco la decisione dell’amico don Andrea Saltavalle. A pro-posito,
io mi sono premurato di scavare fra i documenti no-tarili
dell’arcivescovado di Palermo ed ho trovato la discen-denza
della famiglia Saltavalle. La quale proviene diretta-mente
dai duchi di Spagna Saltabbaranco il cui nome è sta-to
tradotto in lingua italiana, nel 1782, in “Saltavalle”. Na-turalmente,
mi sono premurato di fare stilare un documento
e farlo firmare dall’Arcivescovo, notaio pontificio, Dottor
Anacleto Rimmaudo.
AMBASCIATORE — Ah sì? Ma tutto questo, semmai, può fa-cilitare
l’unione fra mio figlio e la duchessa Saltavalle, non
le pare?
PARROCO — Questo sì, ma io stesso ho consigliato il nostro
amico a ritirare la parola data per motivi che mi sono stati
comunicati in confessione e che naturalmente non posso ri-velare.
Certo che il nostro amico, da buon siciliano, mi dice-va
che sarebbe stata una vergogna non solo sua ma anche di
tutta la comunità siciliana perché – come lei ben saprà – per
noi la parola val più della vita stessa. Prendo su di me tutta
la responsabilità e le conseguenze di questo voltafaccia.
TENENTE — Dunque, lei ritirerebbe la parola?
DON ANDREA — La devo ritirare.
AMBASCIATORE — E cosa pretende, che usciamo di qui
senza una spiegazione? Crede che basti il discorsetto del
Parroco? A parte il nostro amor proprio ferito e i sentimenti
di mio figlio mandati in frantumi come un bicchiere che si
butta, la figura che faremo di fronte a quanti sanno che sia-mo
alla soglia di un fidanzamento e di un matrimonio –
quale sarebbe? C’è chi già prova la toilette per la festa, sa?
(Volgendosi a don Andrea) Ma che discorsi sono questi, si-gnor
duca?
DON ANDREA — Non mi chiami duca perché è una parola
che mi fa svenire. Io sono più addolorato di lei, ho il cuore
a pezzi, e sto dibattendomi tra l’incudine e il martello. Do-vrei
fare un colpo di testa contro la religione, contro la mia
onorabilità, contro la mia morale di uomo e di siciliano per
mantenere la parola. Non posso e non devo. Non posso sa-crificare
mia figlia alla mia parola di uomo e di siciliano.
Non posso. Accetterò tutta la vergogna che mi cadrà addos-so
ma non farò fare questo passo a mia figlia Giulietta. Sì,
tutti i vostri amici nobili francesi, che fino ad ora sono stati
anche amici miei, mi hanno invogliato a sposare mia figlia
con il tenente Crauti. Ma, dati i gravi impedimenti a mia
conoscenza, mi è venuto in mente un pezzo del Rigoletto.
(Canta) “Cortigiani vil razza dannata, a qual prezzo vende-ste
mia figlia”.
PARROCO — Calmati, calmati Andrea!
AMBASCIATORE — Avete detto gli impedimenti di cui siete
a conoscenza. Quali sono questi impedimenti?
PARROCO — Ma no, lui non sa niente. Io gli ho solo detto
che ci sono degli impedimenti.
AMBASCIATORE — Ebbene diteli, quali sono?
PARROCO — Sono stati detti in confessione. E d’altra parte
ritengo che don Andrea non abbia nessun obbligo di sposa-re
sua figlia con il tenente qui presente. C’è un obbligo?
C’è da parte vostra un diritto?
AMBASCIATORE — Allora chiediamo che cosa ne pensa la
interessata...
PARROCO — Chi?
AMBASCIATORE — La signorina, anzi ora la duchessina
Giulietta Saltavalle.
PARROCO — Una cosa simile si può fare nei vostri Paesi. Ma
lui non è ancora un suddito francese.
AMBASCIATORE — Virtualmente lo è: ha presentato doman-da
per essere naturalizzato francese. Secondo la legge, mio
figlio ha il diritto di conoscere il parere della maggiore inte-ressata
a questa faccenda.
DON ANDREA — Dunque io sarei già sottoposto alle leggi
francesi?
AMBASCIATORE — Mi dia tempo fino a domani e lei sarà
sottoposto alle leggi francesi. Ho sul tavolo tutti i documen-ti
da far firmare al governatore e sarà fatto. Certo ne avrà
tutti i privilegi.
DON ANDREA — Ma io non aspetto fino a domani, piuttosto
ammazzo mia figlia.
AMBASCIATORE — Io vi faccio arrestare!
PARROCO — Ma lui l’ha soltanto detto, non lo ha fatto.
AMBASCIATORE — Quest’uomo è pericoloso!
DON ANDREA — Pericoloso è vostro figlio malato di sifilide.
AMBASCIATORE — Che cosa?
TENENTE — Cosa avete detto?
AMBASCIATORE — È una calunnia infamante! Io vi denun-cerò
per questa calunnia!
PARROCO — Calma, signor ambasciatore, non le conviene: si
saprebbe nei salotti, nella guarnigione, nella popolazione.
Lei lo sa, questa città sembra grande ma è piccolissima, tut-to
si sa subito.
AMBASCIATORE — Ma si tratta di una infamia, di una ca-lunnia...
PARROCO — (canta) “La calunnia è un venticello / una auret-ta
assai gentile / che insensibile e sottile / lentamente dolce-mente
/ incomincia a sussurrar...”.
Si ode un clarinetto che accompagna il canto dalla sala di prova.
AMBASCIATORE — (al figlio) Ma qui sono tutti pazzi.
Il Parroco continua a cantare il pezzo di don Basilio.
AMBASCIATORE — Basta!
PARROCO — (smette) Ma non basta per mettere le cose in or-dine.
Come vede, ambasciatore, si sono sfasciate. D’altra
parte suo figlio non ha avuto alcun segno d’avere ricambiati
i suoi sentimenti dalla duchessina Giulietta. Quali diritti
può accampare, il tenente? Vuole sapere una cosa? E qui il
nostro amico Don Andrea mi deve permettere di dire la ve-rità,
sennò non ne usciamo più. La verità è che la signorina
non ha mai gradito i fiori che le ha mandato, per mezzo di
Don Andrea, il tenente Crauti. Ha sempre detto di buttarli
nella pattumiera che c’è nel cortile della casa. Là dietro c’è
anche quel colossale mazzo di fiori, grande come una car-rozza,
che non entrava, neanche spinto col piede, nella pat-tumiera.
Triste fine per tanti bei fiori...
AMBASCIATORE — E allora tutte le promesse – seppur devo
dire le velate promesse di Don Andrea – su cosa erano ba-sate?
PARROCO — Sulla speranza di poter convincere la figlia a sa-lire
di grado, ad entrare nell’alta società, ad ottenere di stu-diare
gratuitamente all’università di Parigi. Trasferirsi an-ch’egli
a Parigi e uscire finalmente dalla condizione di emi-grante.
TENENTE — E la faccenda della sifilide?
PARROCO — Quella, nel migliore dei casi, dovremmo farla
controllare da un medico italiano, e neppure qua a Tunisi,
ma in Sicilia. Però, vede, il migliore dei casi non esiste. La
cosa migliore è che tutto resti fra di noi, anche il rifiuto dei
fiori, ché, se devo essere sincero fino in fondo, la signorina
Giulietta ha premuto col suo piede quelli di stamattina den-tro
la pattumiera.
DON ANDREA — Vi prego di scusarmi, di perdonarmi. Non è
stato fortunato nessuno di noi. Volete che vi chiami mia fi-glia
per dirvi quali sono i suoi sentimenti?
AMBASCIATORE — Non occorre. Vi prego solo di farmi un
favore. Da domani in poi non venite a curare le nostre barbe
e i capelli della contessa Crauti. Buona sera! (Rivolgendosi
al figlio) Andiamo!
I due vanno; restano don Andrea e il Parroco. Arriva don Lu-ciano.
DON LUCIANO — Ho visto uscire arrabbiatissimi l’amba-sciatore
e il figlio, erano furibondi. Cosa è successo?
PARROCO — È andato a monte il matrimonio di Giulietta col
tenente.
DON LUCIANO — Sicuro?
PARROCO — Sicurissimo. Non se ne parla più.
DON LUCIANO — Ero venuto per chiedere informazioni de-licate
su una persona che voi conoscete. Ora ve lo dico: si
tratta di Salvatore, il garzone di mio compare Andrea.
DON ANDREA — Informazioni? E che genere di informazio-ni?
DON LUCIANO — C’è una famiglia per bene – timorata di
Dio, onesta, famiglia di siciliani che son qua da prima che
venissimo noi – questa famiglia ha una figlia e pare che, se-gretamente,
si stava preparando un fidanzamento con Sal-vatore.
Ma alla famiglia sono arrivate notizie spiacevoli. Io
ve le dico. A questa famiglia hanno detto che Salvatore è un
buono a nulla, che è un giocatore, un ubriacone e un fem-minaro
di prima categoria. L’hanno descritto come una spe-cie
di mascalzone con la faccia di angioletto.
DON ANDREA — Ma chi ha detto queste cose?
DON LUCIANO — Non mi hanno fatto il nome. Né credo che
la stessa famiglia lo rivelerà mai. Però quella brava gente,
sapendo della mia grande amicizia col principale di Salva-
tore, mi ha incaricato di accertarmi sia presso il mio com-pare
Andrea sia presso il nostro reverendo Parroco.
PARROCO — Io dico che per me è una perla d’uomo anche se
è ancora un ragazzo. Forse don Andrea conosce meglio i vi-zi
del suo garzone.
DON ANDREA — Intanto non è un garzone ma un aiutante.
Un valente aiutante! Un giovane onestissimo che fa onore a
tutta la comunità siciliana. Un vero siciliano di carattere e
di coscienza. Chi ha calunniato Salvatore è un vero mascal-zone.
Quello dovrebbe essere smascherato. Non si mette in
cattiva luce un galantuomo degno di ogni rispetto. Bisogna
smascherare questo vigliacco e fargli baciare il suolo dove
cammina quel povero Salvatore. Mi dispiace, mi addolora
terribilmente questa notizia. Vorrei dire io stesso a quella
famiglia chi è Salvatore. Potete dirglielo a mio nome, che la
ragazza che vuol sposarlo è la più fortunata del mondo. Ma
chi è questa ragazza? Chi è la famiglia? Fatemela conosce-re.
Padre Parroco, ditelo voi, se è possibile l’andiamo a co-noscere
e glielo diciamo tutti insieme: “Vostra figlia è la più
fortunata del mondo”. Ma siete certi che lei lo vuole?
DON LUCIANO — Lei è innamorata pazza. Non c’è bisogno
di andare fino a casa loro, ho detto di venire loro stessi qua
dal padre Parroco. E forse sono fuori dalla porta.
PARROCO — E allora fateli entrare, ditegli di venire avanti.
DON LUCIANO — Veramente la signorina si vergogna. Le ho
detto io stesso – tanto la sacrestia è come la chiesa – di
mettersi una veletta in testa.
DON ANDREA — E va bene, venga anche con la veletta.
Entrano in scena dei parenti, tre o quattro; accompagnano
Giulietta che ha uno scialle siciliano in testa, le cui frange le
coprono il viso.
PARROCO — Venite, venite nella casa di Dio. (Rivolgendosi a
Don Andrea) Ditele voi, dite voi qualche cosa.
DON ANDREA — Non vergognatevi di desiderare come spo-so
il mio aiutante Salvatore Romeo. Il vostro amore è per
un galantuomo, un maestro del mestiere, una delle migliori
persone che ho conosciuto. Cosa volete di più? Credo che
sarete felici.
PARROCO — Avete sentito? Tutto il resto sono chiacchiere e
calunnie. Io posso confermare, del mio parrocchiano, le
stesse lodi, le stesse informazioni. Ora potete andare.
Fanno per girarsi ed andare quando interviene Don Andrea.
DON ANDREA — Ora che vi abbiamo sollevata da ogni dub-bio,
cara compaesana, lasciate che vi vediamo. Anzi, chia-miamo
Salvatore che è di là. Chiamatelo chiamatelo.
Il Parrocco chiama.
PARROCO — Salvatore! Salvatore! Vieni qua. Ti vogliono i
tuoi futuri suoceri.
DON ANDREA — Vieni, vieni, figliolo. Sono felice per te.
Ora davanti a tutti chiamate la banda, chiamate i bandisti.
Venite tutti qua.
Arrivano i musicanti della banda, con gli strumenti in mano.
DON ANDREA — Coraggio, coraggio figliuola. Qua siamo
tutti felici per te. Fatti vedere, coraggio, guarda come tutti
sono felici per te.
Di colpo Giulietta butta via il velo e spaventa don Andrea.
DON ANDREA — (grida) Assassini! Assassini!
Sviene. Lo sdraiano sulla poltrona del Parroco.
PARROCO — Prendete l’acqua, quella dell’acquasantiera.
Gli spruzzano in viso l’acquasanta.
PARROCO — Suonate, suonate, ma non tanto forte.
SALVATORE — Gli suoniamo quella che gli piaceva?
DON LUCIANO — Cosa gli piaceva?
SALVATORE — La marcia, la marcia trionfale.
PARROCO — E che aspettate a suonargliela? Ma non sveglia-telo
di colpo.
La banda suona in crescendo la marcia trionfale del “Gugliel-mo
Tell” di Rossini. Mentre la banda suona, a tempo di musi-ca,
don Andrea dà segni di svegliarsi. Finalmente si sveglia.
Con la marcia trionfale si conclude la commedia