Il cacciatore d’anitre

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IL CACCIATORE D’ANITRE

Tragedia moderna in sei quadri

di UGO BETTI

PERSONAGGI

MARCO, il cacciatore d'ani­tre

AURELIO, suo amico

MICHIAL, ricco mercante

IGNAZIO, suo segretario

FAUSTA, nipote di Michial

ELENA, amante di Marco

IL REGGENTE

L'ALTO REVI­SORE

IL PRIMO GIUDI­CE

L'USCIERE

EVARISTO

TEMISTOCLE

FRANCE­SCO

L'AVVOCATO

UNA DONNA SPETTINATA

AN­TONIO, vecchio pescatore

UN UOMO DAI CAPELLI ROSSI

IL FABBRO

UN PASSANTE

Inoltre altri pas­santi, pescatori, testimoni, giu­dici, cittadini.

In una città sulle rive dell'Oceano Atlantico, ai nostrigiorni.

Commedia formattata da

QUADRO PRIMO

Una piazzetta ele­vata, a picco sulle scogliere e il mare, presso la villa del signor Michial, ricco mercante di pesce.

(Un gruppetto di gente sta confabu­lando, entra Marco).

Evaristo                             - Gran bisbiglio, in città, signor Marco. Avete udito? Del vecchio Michial? Quasi in punto di morte. Un uomo così ricco.

Marco                                - Ho sen­tito.

Evaristo                             - Eh, viviamo in un bu­co; per ogni nulla, fantasie, il finimon­do. Si parla molto del vostro amico, di Aurelio.

Marco                                - Si, infatti.

Evaristo                             - (accennando) Il vecchio l'ha chiamato. (Abbassando la voce) Vistosi al «finis », solo - tranne una nipote lontana, quella ragazza, quella Fausta - pare abbia avuto paura che si potesse disperdere ciò che gli era costato tanta fatica - e tante pessime azioni: il patrimonio. Essendo Aurelio un Michial, si suppone che il vecchio abbia idea di farsene un erede.

Marco                                - La città intera è composta di Michial, pur­troppo, me compreso, voi non escluso. Vecchi cognomi. Parentele sepolte.

Evaristo                             - Più e meno. Quella d'Aurelio, poi, la si ribadirebbe con un buon matrimonio: dicono quella Fausta. Eh, gli invidiosi già si danno ida fare, benché si tratti di un ottimo giovane, signore.

 Marco                               - Non sarete voi ad insegnarmelo: siamo vis­suti più che da fratelli. Nessuno « come Aurelio, fedele, onesto, sincero!

Evaristo                             - Tutti gli stanno intorno, in questi giorni. Voi pure siete qui ad aspettarlo?

Marco                                - Affatto, caro signore.

Evaristo                             - Speriamo, ad ogni modo, che non alzi superbia.

Marco                                - Non credo Aurelio uomo da voltare animo per voltare di vento.

Evaristo                             - Un bel colpo di vento, tuttavia! Provate a girarvi intorno: tutto di Michial, compreso il mare - parlo dei diritti di pesca, comprese le vostre anitre e le vallate, compreso il posticino dove voi tenete le scarpe. Un mercante di pesce! Vi potrebbe dire, quel mercante di pesce - o l'erede - fatevi in là, illustre signore.

Marco                                - Questo vuol dire solo che il vecchio Michial ha buone unghie. I diritti di pesca e di caccia appar­tennero sempre alla città; la pronuncia che ce li toglie, del resto, non è definitiva. Credo che non ne sappia nulla, il Reggente.»

Evaristo                             - Sperate, sperate nel Reggente. Sta un po' lontano.

Marco                                - Sarebbe divertente se un giorno lo si vedesse arrivare. Ci sono molte pianticelle da raddrizzare, qua.

Evaristo                             - Sì, sì. Sperateci.

Marco                                - Del resto tutto ciò non rende migliore una cattiva sentenza.

Evaristo                             - Conosciamo i vostri meriti, signor Marco. Non tutti nella vertenza dei diritti di pesca, purtroppo, han dimostrato la vostra bella fierezza. Con la vostra intelligenza... e le vostre alte aspirazioni, voi meritavate miglior sorte. Si sperava tanto da voi.

Marco                                - Voi mi compiangereste, per caso?

Evaristo                             - Dio me ne guardi.

Marco                                - Credo opportuno dirvi che stimo assai più gli starnuti di Vulcano, - è il nome del mio cane, si­gnore - che non le opinioni di questo ridente pae­sello con tutti i suoi facondi barbieri, i suoi battelli tarlati, i suoi tribunali...

Evaristo                             - Certo, voi non siete fatto per questi pic­coli luoghi.

Marco                                - ...le sue eredità, le sue ragazze da marito e i suoi diritti di pesca.

Evaristo                             - Ma io non intendevo offendervi, signore.

Marco                                - State tranquillo. Non ci riuscireste.

Evaristo                             - Mi rammaricavo soltanto nel vedervi così, sempre vestito da cacciatore, andare in giro fischiando al cane, voi, il nostro miglior giovane, di cui si parlava tanto, con tante idee e ambizioni, mentre i vostri coe­tanei ed amici, di tanto minor levatura, sono ormai tutti a posto, eh eh, modestamente, se vogliamo, chi al Tribunale, chi al Municipio; ed ora finalmente anche il vostro inseparabile Aurelio... Eccolo appunto, signore. Con permesso.

Aurelio                               - (esce dal cancello della villa di Michial).

Evaristo e gli altri              - (circondandolo) Buona sera, signor Aurelio. Godiamo nel vedervi d'ottima cera.Buone notizie? Scendete in città? Fate due passi?Vi accompagniamo.

Aurelio                               - Andiamo pure. Ho un po' fretta. (Da lon­tano, avviandosi, con un cenno) Arrivederci, Marco. (Esce con gli altri).

Marco                                - (che stava avvicinandosi, si ferma, un po' in­terdetto; accanto a lui è un passante, Ignazio, entrato da qualche tempo).

Ignazio                               - (seguendo il gruppo con lo sguardo) Si pestano i piedi a vicenda, per andargli a fianco; pendono dalle sue labbra, come se egli fosse una graziosa ragazza, e, per guardarlo, inciampano persino.

Marco                                - (soprapensiero) Può darsi che egli avesse davvero fretta.

Ignazio                               - Certo, ma già troppi lo ammirano, perché egli non si ammiri un poco.

Marco                                - Indossava il suo abito migliore, m'è parso.

Ignazio                               - Forse da ciò quell'aria... un po' condiscen­dente, se vogliamo.

Marco                                - Vogliate scusarmi, signore. Questo tema m'annoia.

Ignazio                               - Giusto. Capisco. Ma ho qualcosa da dirvi, e l'argomento stesso mi costringe... Ci siamo conosciuti nella vertenza dei pescatori. Oh, io non ero, non sono, che un dipendente. Sono l'uomo di Michial, Ignazio. Gli tengo i registri... e gli somiglio un poco, a quanto dicono. La sera è bella, voi vi trattenete qui al fresco? Forse attendete qualche persona, disturbo? Avrei tanto gradito sentire il vostro parere su Aurelio.

Marco                                - Il mio parere?

Ignazio                               - Sono certo della vostra discrezione: è nato qualche dubbio sulla capacità del vostro amico a soste­nere le responsabilità d'un grosso patrimonio. Egli si è mostrato un po' troppo lieto della sua fortuna; e perciò è parso che egli l'avesse troppo avidamente   - (desiderata e che, magari dissimulando, avesse troppo disprezzato l'u­miltà della situazione precedente. Giovane ammirevole, certo. La sua parola è giusta, i suoi princìpi rigorosi, mai impaziente, anzi sempre premuroso, attento. Non è certo colpa sua se una carnagione eccessivamente rosea fa più pensare alla cartapesta che alla salute. Voi pure siete un Michial, o mi sbaglio?

Marco                                - Sì, c'è una parentela. Un po' lontana.

 Ignazio                              - Quella d'Aurelio, infatti, è più stretta. Ma chi decide non è mica un registro o un notaio: è il signor Michial. Volevo dirvi appunto questo, signore.

                                           - (Un silenzio).

Marco                                - Non so se ho inteso. E' un pensiero vostro codesto?

Ignazio                               - Oh, signore, io non sono che un umile stru­mento, un dipendente. Non sarà un delitto, del resto, se. dopo aver servito tanti anni - ho cominciato presto, a servire - si porta un po' d'affetto alla casa, al patri­monio; e ci si adopera perché sia destinato a mani ca­paci ed amiche; e si pensa che la persona, a suo tempo, vorrà pur rammentarsi di chi gli ha dato un modesto consiglio.

Marco                                - Vi manda Michial? E' stato lui che ha pen­sato... a me?

Ignazio                               - Che un uomo facoltoso si sforzi di trovare un successore che tranquillizzi e soddisfi, mi pare natu­rale.

Marco                                - Temo, signore, che io non sia affatto il sog­getto che tranquillizzi e soddisfi. Troppo tardi, purtrop­po, per addomesticarmi. Credo che morirò povero. Si parla, fra l'altro, di matrimonio. I miei legami, al con­trario...

Ignazio                               - Lo sappiamo.

Marco                                - ...scandalizzano l'intera città, non è vero? Tanto più che imi guardo bene dal nasconderli. La per­sona appunto che attendo...

Ignazio                               - E' noto.

Marco                                - Sarà ugualmente noto il mio pensiero sui di­ritti di pesca. Io più di tutti ho combattuto Michial.

Ignazio                               - Sono qui proprio per questo: perché ricor­diamo d'aver avuto contro, fra tanti sciocchi, un uomo. Quanto al matrimonio: ritengo che a pensarci fosse sol­tanto il vostro amico. La volpe aveva appetito, ma l'uva non era stata custodita per le volpi.

Marco                                - E forse un po' d'appetito non mancava al custode.

Ignazio                               - Oh, signore. Io non sono che un dipendente. Sicché?

Marco                                - Il fatto è questo: che vorrei essere ucciso, piuttosto che dovere arrossire davanti a chiunque, ma soprattutto davanti...

Ignazio                               - ... al vostro amico.

Marco                                - Si tratta di rubargli qualche cosa.

Ignazio                               - Vi dirò allora, signore, che è stato proprio il vostro amico, finora, che ha cercato di alterare a suo favore - e a vostro discapito - una bilancia ancora incerta.,

Marco                                - Aurelio?

Ignazio                               - Non avrei motivo d'ingannarvi.

                                           - (Un silenzio).

Marco                                - Oh, peccato. Era per questo, dunque, che non osava parlarmi. Tanti anni insieme, confidenze, speranze. Ragazzi, nelle gare, era così felice che io vincessi; e se qualcuno gli usava un torto, subito correvo io, rosso d'ira. Soprattutto è ombroso, testardo. No, non vorrei mai che per opera mia dovesse subire uno scorno.

Ignazio                               - Al contrario, si tratta di risparmiarglielo, uno scorno, agendo insieme.

Marco                                - Insieme?

Ignazio                               - Egli ha appunto bisogno d'appoggiarsi, si può trovare il modo. (Con altra voce) Le situazioni sono delicate, difficili solo pei non abbienti, signori;. La ric­chezza: fa subito tutte le strade comode! Fin le mosche: non annoiano il ricco.

Marco                                - Star comodo. Quel che volevo era altro.

Ignazio                               - Perfettamente. Giuste ambizioni. Appunto: vedete là quei lumi che man mano s'accendono? Sono le case di Michial. Esser ricco vuol dire sentirsi intorno tutto quel ronzio di persone e di cose, esserne il perno, farlo andare o fermarlo con un dito, come si ferma una pendola; e veder ricambiato ogni vostro urlaccio con un inchino.

Marco                                - (quasi con leggerezza) Sapete che io da bam­bino dicevo sempre che volevo scrivere al Reggente? Sì, una lettera al Reggente. Mi burlavano di questo. Raddriz­zare i torti, umiliare i superbi: ecco quel che volevo. (Con altra voce) Intendo dire che ho sempre pensato, fin da ra­gazzo, questo: che io Marco Michial, benché non troppo ben vestito, avevo in me una piccola scintilla del fuoco di Dio, e questa scintilla, un giorno, avrebbe permesso al povero ragazzo di prendersi una bellissima rivincita. Ho sempre beffeggiato - forse odiato - i ricchi della città - voi pure li conoscerete - le loro ridicole mogli, i loro figli che dicono sciocchezze in inglese e si sforzano di camminare come gli americani, la loro morale, la loro pronuncia, la loro igiene, il loro Dio, e il meschino gruz­zolo che li fa così superbi e così atterriti al pensiero di perderlo. Io non credo che l'uomo consista in questo. Io non sono ancora vecchio, signore. Io non volevo restare in questa meschina città, tra gente che, in fondo, mi disprezza; e che io, purtroppo, non sono affatto certo di disprezzare, perché metto troppo puntiglio nel distin­guermi da essa. Non voglio sciupare in misere invidie, opere inutili, sciocche soddisfazioni, la misteriosa scin­tilla della mia vita. Pensavo di partire, un giorno o l'altro. Ci sarà ben qualcosa per cui valga la pena d'es­sere nel mondo. Qualche cosa di vero, di certo.

Ignazio                               - Ecco quel che tutti cerchiamo, dacché le grandi parole delusero il mondo: qualche cosa di vero, di certo. Ma il solo punto fermo e certo, quello che mette d'accordo tutte le teste, signore mio, sapete qual è? Che venti soldi fanno una lira. La ricchezza. Come va che tutti cercano lei, lei sola, tutti? E ciò che di con­creto, di reale viene spremuto da ogni vita d'uomo, come una gocciolina da un torchio, l'unica cosa che resta in quel dato angolo della terra, dopo che sopra di esso si è consumata una vita, che altro è, signore, se non quel meschino gruzzolo? Esso è formato proprio da tante goc­cioline indurite: la ricchezza: una grossa forza; magari chiusa in un piccolo cassetto. Una mina, lì, pronta. E noi, d'un tratto, a distanza di secoli, come dando fuoco a una miccia, possiamo farla rivivere. E farla diventare forza nostra. Si diventa giganti, signore. Più del vostro Reg­gente. Si può far molto; e se ci sono persone che ci umiliarono, non sarà difficile vederle impallidire.

Marco                                - (pensieroso) Ci sarebbero davvero cose bel­lissime da fare.

Ignazio                               - Bellissime. Sicuro: ciò che voi sospiravate, e la cui mancanza vi ha reso amari questi anni, è esat­tamente quel che ora vi sta davanti. E' molto raro che ilveloce passaggio d'un uomo nella luce s'incontri con quell'unica cosa di cui egli porta misteriosamente in sé il desiderio! Pensateci! (Un silenzio).

Marco                                - E' da voi che viene questo buon profumo?

Ignazio                               - (porgendogli un rametto) Tiglio: del giar­dino di Michial.

Marco                                - (fiutando)Quanto ho desiderato d'entrarvi, da ragazzo. Ero così povero. Andando a scuola passavo lungo le cancellate.

Ignazio                               - Pensateci.

Marco                                - Pure sento un timore.

Ignazio                               - (sorridendo) State tranquillo: i nostri conti siamo noi a farli tornare. Quel che potrà avvenire nel vostro animo dipenderà da voi solo, signore; e non già dal povero mercante di pesce... che vi attende. (Dando un'occhiata a una donna, entrata da qualche tempo, e mutando voce) Occorrerà soltanto, in principio, una certa prudenza; non più che una certa prudenza. (Accennando alla donna e allontanandosi) Credo che siate atteso. Buona sera. (Esce).

Marco                                - (soprapensiero, alla donna, che ha un bambino in braccio) Non ho nessuna intenzione di ficcarmi in questo imbroglio. Non che quell'uomo mi sia parso stu­pido, sai? E nemmeno è tutto sbagliato quel che dice; non mi dispiacerebbe far vedere a costoro chi sono. Rin­novare, ingrandire: soprattutto portare animo nuovo, concordia, giustizia.

Elena                                  - (d'un tratto, pallida) Marco, non mi abban­donerai, me e questa creatura?

Marco                                - Sciocca! Perché dovrei farlo?

Elena                                  - Marco, quel giorno, verrò qui con tuo figlio, ci butteremo giù di qui.

Marco                                - (scherzando) Di qui? Non è un po' ripido, qui? Sciocchina. Sarà difficile, la cosa non mi par chiara: ma se dovessi decidermi, tu, che mi hai dato la tua gioventù, e hai diviso con me tante umiliazioni e dolori, povera Elena, starai vicino a me, di fronte a tutti. Suonano le campane, è di buon augurio. Vuol dire che questa bocca, sempre imbronciata, riderà: che questo bambino avrà dei giocattoli mai visti; e che noi andremo ad abitare sulla collina.

Elena                                  - (diffidente, incantata) Sopra le mura? Verso il mare?

Marco .                              - Certo. Il miglior quartiere. Ti piacerebbe? Amore mio, come hai potuto pensare...? Del resto non so se mi deciderò; bisognerà rifletterci. (Si avvia con la donna verso la città).

Michial                               - (sorseggiando una tisana che Fausta ogni tanto gli porge dopo averla mescolata) Assai felice è stato il giorno di oggi, che mi ha permesso di cono­scere, dopo il nostro Aurelio, il nostro Marco; cioè di ritrovare i due parenti più stretti che io abbia al mondo.

Fine del primo quadro

(La scena si oscura. Le campane seguitano a suonare, prima assai vicine, poi fioche. Quando la luce si riac­cende, si vede una sala dell'abitazione del signor Michial. Intorno al signor Michial stanno Marco, Aurelio, Ignazio, Fausta).

QUADRO SECONDO

Michial                               - (sorseggiando una tisana che Fausta ogni tanto gli porge dopo averla mescolata) Assai felice è stato il giorno di oggi, che mi ha permesso di conoscere dopo il nostro Aurelio, il nostro Marco; cioè di ritrovare i due parenti più stretti che io abbia al mondo.Ora debbo lasciarvi, perché, essendo io piuttosto in là con gli anni, una delle mie medicine è di coricarmi presto; un'altra, eccola: le tisane della buona Fausta, ciascuna delle quali pare che debba prolungare la mia vita di due giorni, e siccome io ne bevo due ogni giorno... eh, eh, eh, eh. Cara Fausta, vedi come sono contenti nel sentirmi allegro e in salute? Ottimi gio­vani davvero, non certo inferiori alla pittura che me ne avevano fatta. Un infelice che dovesse scegliere fra i due si troverebbe in un bell'impiccio. Questo giovane...

Aurelio                               - Aurelio, signor Michial.

Michial                               - (sordo) Come ha detto?

Ignazio                               - Aurelio, signore.

Michial                               - Aurelio, bravo; Aurelio. La sua voce è tranquilla, i suoi occhi diritti; se ne indovina un animo sincero, scrupoloso, pieno di pensieri elevati e di or­dine. Egli - è noto - non dice mai bugie; un vero martire, fin troppo serio e severo.

Aurelio                               - Oh, signore, il mio merito è uno solo; che vorrei sinceramente essere come voi dite.

Michial                               - (a Fausta) Eh? Quanto è caro. Egli è anche... che cos'è egli? Scienziato.

Aurelio                               - Botanico, signor Michial.

Michial                               - Così giovane! Certo, vi è un pericolo solo, pei giovani: le compagnie cattive: gli amici scio­perati. Guai. Guai!

Aurelio                               - Il mio unico amico, signor Michial, è un uomo assai migliore di me. Eccolo (indica Marco).

Michial                               - (a Fausta) Eh? Che cari. Dice che questo è anche migliore.

Aurelio                               - Il miglior giovane del mondo, proprio così. Le cattive amicizie di cui lo si rimprovera, non sarei chi sono se ve lo nascondessi, sono, anzi, un'altra prova della sua troppa generosità, posso attestarlo.

Michial                               - (a Marco) Le cattive... Diavolo, diavolo. Cose trascorse, immagino...

Marco                                - Sì. Ora non più.

Aurelio                               - Certo. Se lo si vede ancora andar can­tando la notte con marinai e bontemponi, non è per colpa; per delicatezza: esita a scacciarli da sé, temendo di umiliarli.

Michial                               - Ancora? Veramente? Coi bontemponi?

Marco                                - Ciò è... anzi non è... completamente vero, signore.

Michial                               - (a Fausta) Dice che non è vero?

Marco                                - Dico che certamente... non sarebbe bello... mischiarsi troppo a gente... ordinaria.

Michial                               - Bravo giovane anch'esso. Marco?

Marco                                - (con un leggero inchino) Marco.

Ignazio                               - (ripetendo forte) Marco.

Michial                               - Bravo. Oh, questo ha più fuoco, benché arruffato, così avrei voluto essere io, povero me. Un nobile leone, uno sdegnoso angelo. Noi che siamo? Gentetta. Favorito dalla natura, penso che le migliori fanciulle della città arrossiranno nell'incontrarlo.

Aurelio                               - Proprio così, signore. La sua grande pre­stanza dimostrata in molte gare, la sua avvenenza, il suo spirito gli procurerebbero un grande favore presso le migliori fanciulle. Ed è perciò tanto più lodevole che egli, disprezzando le possibilità di alti parentadi,abbia generosamente preferito di seguire gli impulsi del cuore, con una...

Marco                                - Non è così, signore. (Tentando di sorridere) Ho preferito soltanto... di non preferir nulla.

Michial                               - Con una... Eh, eh. Con una...

Marco                                - Cose senza importanza, da giovanotto.

Michial                               - Pure botanico?

Aurelio                               - Oh, signore! Ben altre sono le sue aspira­zioni, e ben più lusinghiere le strade che gli sono aperte davanti! Non trovo affatto biasimevole che egli esiti tuttavia a sceglierne qualcuna. Va a caccia.

Michial                               - A caccia? Diavolo, diavolo. Esita, va a caccia. E che fece sin'ora?

Marco                                - Vita grama. Un po' di tutto.

Aurelio                               - Vero scrittore, penna potente, signore. Un Demostene! Non solo nelle recenti vertenze dei pesca­tori, ma mille volte egli si gettò nelle lotte, davvero da leone, scrisse al Reggente petizioni commoventi...

Michial                               - Vero? Al Reggente?

Marco                                - No, signore. Una volta. Ero un ragazzo.

Aurelio                               - (continuando) ... e quel che è più meri­torio, senza un interesse al mondo, perché egli fu sem­pre coi pitocchi, signore, i pezzenti, non so se sono chiaro, i così detti morti idi fame. Alcuni suoi articoli rimasero famosi. Ve n'è uno, mi pare - molto noto - che parla anche di voi. Cominciava: « Dicevano gli an­tichi ».

Michial                               - (lasciando cadere il fazzoletto) « Dicevano gli antichi». Voi? Debbo crederlo? «Dicevano gli an­tichi »! L'avete scritto voi ?

Ignazio                               - (raccogliendo il fazzoletto e mettendolo nella mano del vecchio) Signor Michial, ho paura che siamo piuttosto in ritardo.

Michial                               - Eh? Che cosa? «Dicevano gli antichi»!

Ignazio                               - Dicevo appunto che siamo in ritardo.

Michial                               - Quale ritardo, imbecille?

Ignazio                               - Sull'ora di coricarsi, signore.

Michial                               - (alzando il bastone e dandone un secco colpo sullo stinco di Ignazio) Egli si prende delle confi­denze, il furbo; egli mette bocca, capite? E non gli mancherebbe una voglietta di ringhiare, il vizioso pic­colo cane! Avvicinati, furfante!

Ignazio                               - (gli si avvicina).

Michial                               - (gli assesta un altro colpo, sull'altro stinco) Egli è d'una superbia infernale, non ostante le scarpe che io ho consumato su di lui, a furia di pedate, nell'educarlo. « Dicevano gli antichi »! Come si spiega ciò, giovanotto?

Marco                                - Vogliate ascoltarmi, signore. Tutto potrà accadere: che questo tavolo si metta a parlare o il mio amico a mentire, ciò che non si è mai dato; ma non accadrà mai, in questa vita, che io dia partita vinta a chi mi giuoca sleale. (Con altra voce) Voglio dire che se un tempo, purtroppo, scrissi, gridai e mi mescolai a sciocche questioni, forse fu solo veemenza di gioventù, gusto di gara. Ebbene, dichiaro solennemente che lo deploro.

Michial                               - Eh?

Ignazio                               - (forte) Lo deplora!

Michial                               - Buona idea, buona idea. Ma quei nefasti princìpi?

Marco                                - Averli conosciuti mi instillerà una più ferma volontà di combatterli.

Michial                               - Molto bene, ben detto. Ma quei pericolosi camerati?

Marco                                - Tutto ha la sua stagione. Da oggi li stac­cherò da me come vecchie edere.

Michial                               - Ottime cose. Ma quelle ormai inveterate abitudini, quel violento modo di esprimersi, quei canti, e quegli stivaloni, di cui m'è giunta la fama?

Marco                                - Uscirò da questa vecchia scorza, signore, come un platano a marzo.

Michial                               - Hai udito, cara Fausta? Ha promesso di non più ruggire, il leone. Fu persino troppo docile e domestico, chi potrebbe diffidare di lui? E' vero che la diffidenza sta appollaiata sulla spalla del ricco come una gazza sulla spalla di un calzolaio, ma io, povero me, ricco non sono, magari. Ed è una gran fortuna, perché ho idea che il ricco si senta, anziché uomo, mucca, eh eh, mucca da latte, con intorno alcuni fur­bacchioni i quali non studiano se non d'agguantargli i capezzoli, eh eh. Le sue tenerezze più care, i suoi vizi più dolorosi, i suoi più segreti sospiri e persino il sorso d'acqua di cui ha sete, altro non sono, per quelli, se non bellissime occasioni per stringergli il cappio, eh eh. Finche avviene che un giorno, malizioso ormai e av­velenato dall'altrui veleno e malizia, il cappio è lui, poveretto, che lo tira, e sono gli altri che se lo sentono al collo, ed essendosi mossi per imbrogliare, si trovano imbrogliati. (A Ignazio, con un benevolo sorriso) Hai capito, furfante? Povero Ignazio. Fa il grande, talvolta, perché ha letto dei libri, l'intelligentone. Io gli voglio un gran bene, benché spesso egli muoia dalla voglia di strozzarmi. Avvicinati, scioccone. Soprattutto è un teo­rico: astemio di vizi, gode nel solleticarli negli altri. E' un cospicuo ruffiano, in conclusione, un vero stuoino da piedi, lo si offende a non strofinarveli. Ti fa male lo stinco?

Ignazio                               - Che dite mai, signor Michial. Anzi, al contrario.

Michial                               - Non fa mai male la bastonata di un ricco. Che cosa sei tu?

Ignazio                               - Uno stuoino da piedi, signor Michial.

Michial                               - Buona notte, signori. (Esce sostenuto da Fausta e da Aurelio).

Marco                                - (dopo un silenzio) Che cosa ho fatto, dun­que? In cosi breve tempo ho rinnegato le mie opinioni, la mia giovinezza, e tutto quello che m'era caro. Mi pare di rialzarmi dal rigagnolo.

Ignazio                               - Preferivate darla vinta al vostro amico?

Marco                                - Ah il traditore, l'ingrato! Ipocrita e dai denti cariati. Giurerò il falso, pur di vedermelo ai piedi. Chi l'avrebbe creduto così doppio, sleale?

Ignazio                               - (facendo cenno di tacere, trae delle chiavi, le fa dondolare davanti a Marco; poi spalanca con esse delle porte, donde si vedono lunghissimi corridoi pieni di roba e scaffali; li illumina, accendendone le lampade; spalanca anche gli sportelli di alcuni armadi, anche essi traboccanti e scintillanti di roba) Eccone il motivo, signore. Io gli ho mostrato ieri, un boccone un po' ghiotto, e da quel momento l'acquolina non ha più la­sciato la sua bocca.

 Marco                               - Cos'è?

Ignazio                               - Il segreto di Michial. Egli dice che la mo­neta è solo una promessa, cioè vento, mentre la roba... (Accennando agli armadi) Tutto quello che serve: per coprirsi, per nutrirsi, per vivere. Un patrimonio immenso. Cose bellissime.

Marco                                - (indicando anche i corridoi) Pieno?

Ignazio                               - Colmo, signore. (Indicando) Di sopra, giù, tutto. La donnetta piagnucola che non si trova più stame per le sue calze. Dov'è mai andato? Sta qui; dorme e cresce: oggi costa un occhio, domani ne costerà due. Dopodomani, se vorrete mangiare un boccone, cambiarvi la camicia, buttare in mare una rete sdruscita, respirare, esistere, dovrete darmi - cioè dargli - altro che gli occhi! L'anima!

Marco                                - Ce n'è un discreto mucchio.

Ignazio                               - La ricchezza è guerra, signore. Di uno con­tro tutti. (Abbassando la voce) Temo che il vostro amico sia molto abile.

Marco                                - Non abbastanza per raggirarmi.

Ignazio                               - Sarebbe uno smacco per voi, uscire perdi­tore da questa gara. C'è chi scommette, in città. Sperano che vinca lui... perché sperano di potersi beffare del più superbo. (Porgendo broccati scintillanti) Toccate.

Marco                                - Si mostrava sicuro?

Ignazio                               - Il vostro amico? Diceva che avrebbe cam­biato lì, rifabbricato là. Lui sì, che palpava e fiutava!

Marco                                - Calcolerà sulla ragazza, suppongo.

Ignazio                               - Volevo appunto parlarvene. Egli è paziente; e le ragazze, frivole.

Marco                                - C'è qualche cosa da fare?

Ignazio                               - C'è una mano che spinge dolcemente un uscio, per aprirlo. Si tratterà di spingere quello stesso uscio dall'altra parte, per chiuderlo. La ragazza.

Marco                                - Cioè?

Ignazio                               - Oh, voi avete capito. Far sì che la sciocchina giri di qua i suoi pensieri.

Marco                                - Ma io...

Ignazio                               - I vostri legami. Appunto. Si tratta di la­cerare una ragnatela, non di tesserne un'altra. Distrarre la sciocchina, suscitarle non più di un'incertezza; niente di più... causa ì vostri legami. Quanto basta perché que­sti sportelli si chiudano per l'altro e si aprano per voi.

Marco                                - E per te? La ragazza?

Ignazio                               - Povero me. Un dipendente. Se almeno fossi bello come il signore.

Marco                                - E io dovrei...

Ignazio                               - Sciocchezze. Bisbigliarle qualche parola del tutto onesta e comune, ma tale che il cervello donnesco pensi lui a colorirla. Conosco la ragazza.

Marco                                - Ah! Se anche volessi la mia lingua s'imbroglierebbe.

Ignazio                               - E se parlassi io, per vostro conto, trovando il destro?

Marco                                - (dopo un silenzio) Strano. Forse io dovrei guardarmi da te. Come inventi tutto questo?

Ignazio                               - Non invento: indovino. Sono così delicati, i grandi signori, certi pensieri come oserebbero espri­merli? Ci vuole accanto a loro un... segretario, di razza ordinaria, che indovini e parli. (Mettendo un oggetto in mano a Marco) Volete una di queste? Prendetela.

Marco                                - Oh, bella. Però temo...

Ignazio                               - (ridendo) Non sono gemme, signore, ma pietruzze che vengono su con le reti. Tuttavia brillano, vero? Michial è così fatto - e perciò è ricco - . Pur di riempire sacchi, vi metterebbe foglie secche. (Entra Aurelio).

Marco                                - (avvedendosi che Aurelio gli tiene lo sguardo sulla mano, ha un moto per nascondere l'oggetto; ma subito lo mostra) Non è che un sasso.

Aurelio                               - (tranquillo) Certo. Ma perché tanta fretta di scusarti?

Ignazio                               - (s'avvia per uscire, esita) Le chiavi... posso lasciarle qui. (Le lascia su uno sgabello fra i due, quindi esce, inchinandosi all'uno e all'altro).

Marco                                - (pieno di collera) Scusarmi? (D'un tratto si mette a ridere) Aurelio, vecchione mio, mi sai dire che diavolo stiamo facendo in questa tana, e che maledetto scorpione ci ha morso? (Buttando via allegramente la pietruzza) All'inferno tutti gli intrighi. Aurelio, nulla al mondo vale la nostra tenerezza. Che pazzi siamo stati. Ah, mi mancava il respiro.

Aurelio                               - (inalterabile) Anche a me è dispiaciuto ve­derti, poco fa, così rosso, confuso, davanti a tutti.

Marco                                - Io rosso, confuso?

Aurelio                               - Ma avrei mancato a un dovere lasciandoti ingannare quel buon uomo.

Marco                                - Ingannare?

Aurelio                               - Quel che gli ho detto di te non era che la verità; e nemmeno tutta, lo sai.

Marco                                - Sei stato generoso.

Aurelio                               - E' così.

Marco                                - (vincendosi, brusco e affettuoso) Testa dura! Sempre lo stesso: orgoglioso. Via, una risata. Non ci deve essere ombra, fra noi due.

Aurelio                               - Non sono stato io quello dei due entrato qui con un raggiro per tagliare all'altro la strada.

Marco                                - Mi era stato detto al contrario... (Vincendosi) Ah, occorre proprio che ti chieda perdono? Sì, Aurelio, ho fatto male. Perdono.

Aurelio                               - Le tue parole lo chiedono, ma la tua voce no. Falliti gli altri modi, magari è col piegarti che tenti di salvare la tua superbia; e il profitto. Ti conosco.

Marco                                - Hai atteso molto per dirmi queste cose.

Aurelio                               - Le pensavo. (Un silenzio).

Marco                                - Aurelio. Fin da quando ho memoria ti vedo nella mia giornata, nella mia casa. Vi era un andito scuro, che ti impauriva, ricordi? Ti prendevo per mano, e ben­ché poco più grande di te, e benché mi battesse il cuore non meno di te, ero così contento di farti coraggio, che la paura mi passava.

Aurelio                               - Mi proteggevi.

Marco                                - Fui sempre felice di dividere con te quel poco che avevo. Avrei voluto avere di più per darti di più.

Aurelio                               - Mi avete spesso dato un posto alla vostra tavola, è vero.

Marco                                - Ma dunque ti riusciva tanto amaro, dovermi essere grato? Era una piccola ferita che ti infliggevo, ogni volta che ti venivo in aiuto?

Aurelio                               - Sono aiuti che mi ricordi spesso.

Marco                                - Tanto astio hai accumulato? Era un affrontocosì grave, per te, che la natura mi avesse messo un po' più alto, con un sangue più caldo?

Aurelio                               - Lo sappiamo, un leone. Ecco perché hai tanto sofferto vedendo che la nascita, la legge, e il buon senso di un vecchio che ci conosce bene, preferivano a te un uomo che ti è così inferiore; ecco perché ti ha scottato la pelle, or ora, dover arrossire davanti a tutti, e davanti a una donna. Un uomo come te doversene re­stare fuori dall'uscio, con la sua grandezza e i suoi sti­valoni! L'odore delle ricchezze, dei bei vestiti, della larga vita, ti rende smanioso, amico. Ma se davvero, come io credo, vi è un ordine nel mondo, codesta smania immo­rale non vincerà.

Marco                                - (guardandosi intorno pensieroso) L'odore delle ricchezze. La mia gioventù è stata povera. E forse veramente v'era, nascosto in me, un desiderio di quelle cose che rendono un po' più lieta la vita. Ma io so che il mio proposito, soprattutto, è di fare qualcosa di buono, di forte, di utile, per questa città e per quanti mi sono cari. Il mio pensiero era di aiutarti, Aurelio, di dividere con te questa fortuna e questo lavoro, di essere insieme.

Aurelio                               - (fingendo) Dividere? Hai detto... Non ti dispiacerebbe di privarti, che so, di quest'ala di casa, uno scacco di terra, poca cosa, ma dispiace sempre al pa­drone... non ti dispiacerebbe?

Marco                                - No, affatto. Se è soltanto questo che ti dà ombra, noi possiamo certamente accordarci.

Aurelio                               - Ah ah, il nostro tribuno! Com'è facile farlo diventare di zucchero! Tu correresti carponi sotto i ta­voli, amico mio, pur di raccattare qualche briciola. Va, non mi ero ingannato. Le tue noncuranze erano soltanto un modo di stare in punta di piedi per sembrare più alto, e se ostentavi di vestire come il più povero, era perché ti cuoceva di non poterti vestire come il più ricco. « Fare qualche cosa di buono e di forte »! S'è veduto finalmente che c'era sotto questo maestoso piedestallo! Avidità, invidia e vanagloria. Eccoti qui, sorpreso a ro­vistare tutto sudato e frenetico tra quelle stesse cose che hai finto di disprezzare per tanti anni. Questo, dovresti scrivere al Reggente! Ma se davvero non puoi vivere senza di esse, e poiché veramente da ragazzi tua madre mi ha ceduto qualche tuo vecchio vestito, è giusto che io me ne ricordi. Ti regalerò qualche cosa.

Marco                                - Il tempo della nostra vita non sarà abba­stanza lungo perché tu possa farmi dimenticare queste parole. Ti schiaccerò, vipera. Questa casa, queste ric­chezze, non saranno mai tue.

Aurelio                               - Allora datti d'attorno, amico; perché credo che sia tardi. Ho già in tasca quel che mi occorre. (Esce).

Marco                                - (come ubbidendo a una decisione subitanea) Fausta! Fausta!

Fausta                                - (entra, esitando).

Marco                                - E' necessario che mi ascoltiate.

Fausta                                - (come spaventata) Subito? Ora?

Marco i                              - Qualcuno già vi ha parlato? Aurelio?

Fausta                                - (a occhi bassi) Ignazio, sì. Mi ha detto... ciò che voi gli avete detto idi dirmi. (Cercando di ridere, supplichevole) Perdonatemi, ho quasi paura.

Marco                                - E di che?

Fausta                                - (vergognandosi e pure con improvviso impeto) Oh, di credervi, signor Marco. (Con altra voce) Perchéio non sono bella, lo so; e temo anche che mi manchi quella grazia che vale tanto per una donna. La mia edu­cazione è stata casalinga... (Supplichevole e quasi con rimprovero) Perché avete voluto che mi dicessero quelle cose?

Marco                                - (turbato) Perché era necessario.

Fausta                                - (d'un tratto rincorata, con un certo orgoglio) Certo, io so molte cose, per la casa, questo sì! Quando io ho stirato, è difficile che l'uomo più esigente abbia da impazientirsi. Sono economa; so ben destreggiarmi da­vanti a un fornello, e non è facile che una domestica mi imbrogli; e sono anche testarda: voglio dire che ho pen­siero a tutto, sicché... mi figuro che un uomo... se ci fossi io nella casa, non avrebbe pensieri, ne dispiaceri, questo sì; pulito e allegro come un bambino, quando la madre è buona. Come devo sembrarvi sciocca! Non mi riesce a parlare, signor Marco, per un motivo: da parecchi anni... quasi da piccolina, la sera, quando si cerca un bel pensiero per prender sonno, io pensavo sempre, ecco, che voi mi guardaste, mi voleste. Oh voi non mi cono­scevate nemmeno! Si sentiva tanto parlare di voi; ed anche di graziose signorine. Voi siete così intelligente, bello. Io invece... Per questo, signor Marco, bisognerebbe che non mi burlaste. (Abbassando gli occhi) Perché se proprio... se le vero... quel che diceva Ignazio... (ridendo ad occhi bassi) sarei anche capace di crederlo, sapete? E allora io non potrei più avere un altro pensiero, per tutta la vita.

Marco                                - (terreo) E' vero.

Fausta                                - Sarebbe orribile, se doveste ingannarmi.

Marco                                - (asciugandosi la fronte) Sarebbe atroce.

Fausta                                - Potrei... certo, non ora, anche darvi del tu?

Marco                                - Certamente, non ora. Ora occorre il segreto.

Fausta                                - E' proprio vero, dunque? Ora capisco perché stamane svegliandomi mi sono sentita d'un tratto assai assai felice. Che cosa avete signor Marco? Sembra che v'abbia invaso una improvvisa tristezza.

Marco                                - Scusate, voi avete nominato una madre, un allegro bambino. E io mi sono ricordato di mia madre e di me, ne ho provato una sciocca mestizia. La nostra vita non è mai come ce la [figuriamo nei primi anni. Im­maginava tante cose, il bambino che io ricordo! Non immaginava nulla, di questo.

Fausta                                - (con grande dolcezza) Capisco. So. L'eredità, questa gara, queste cattive parole... Voi siete pieno di di­spiacere nel trovarvi mescolato a tutto ciò.

Marco                                - Non voglio più saperne.

Fausta                                - (con un sospiro) Io l'avevo già pensato, che avrei potuto aiutarvi... esservi utile; non importa. (Con un pallido sorriso) Bisogna prendere la propria gioia come viene, anzi affrettarsi, altrimenti ella passa, e al­lora? So tante cose. So che a voi piace tanto il nostro vecchio giardino. Com'è caro, gradito, questo odore, lo sentite?

Marco                                - (con un sospiro, volgendosi alla finestra) Mi fa venire in mente tante cose.

Fausta                                - Il vostro cuore è buono, signor Marco, io lo so. Voglio che voi ne siate persuaso, e che v'addormen­tiate, questa notte, sereno, allegro. (Quasi fra sé, con grande tenerezza) Ho sognato, una volta, di tenere in braccio un bambino, che mi pareva... voi. Voi. Ma eglinon aveva le sue mani, non le aveva. Quanto lo vez­zeggiavo, quanto lo amavo, volevo che fosse il più felice,, e nemmeno s'accorgesse d'es6ere così. Che curioso sogno, (Ad occhi bassi) Certe volte penso, ecco, che voi non siate così forte e sicuro come sembra, signor Marco; e che vi occorra qualcuno... sì, che vi difenda, che vi pro­tegga.

Fine del secondo quadro

(La scena si oscura. Comincia, man mano più forte, un coro di voci maschili:

La bella nella sera

serena, camminava

pensando. Mormorava

l'onda, odorava l'erba;

e bisbigliava chete

voci l'abete.

***

Lungo il fiume soletto

se ne andava, soletta

e sospirando, lieta

d'essere giovinetta

e pensosa e leggera

nell'odorosa sera.

***

Sussurra fiume, odora

erba, di' tue segrete

parole, scuro abete,

a lei che passa; e tu

scherza e fra te sospira

o giovinetta: breve

è l'estate quassù [1]

Quando la luce si riaccende si vede il giardino del signor Michial. Sono passati alcuni giorni).

QUADRO TERZO

 (Il signor Michial, Fausta, Marco, Aurelio, Ignazio, inoltre servi che portano bibite e vino; tutti sono in ascolto idei coro che viene dall'interno del giardino).

Michial                               - (non appena il coro è cessato) Finanche questo giardino sembra che oggi stia prodigando per voi tutta la dote di profumo e di fiori assegnatagli dalla natura per l'intera stagione. Felice gioventù! Cara pri­mavera! Questo coro mi piacque, esso mi ha ricordato altri tempi. Sono modesti operai che han voluto dar prova in tale occasione della loro abilità musicale, non­ché del loro ossequio, sia all'autorità del principale nuovo, sia alle bottiglie del vecchio. I volponi hanno fiutato la notizia del fidanzamento, che doveva rimanere fra noi, non è vero?

Ignazio                               - Riservata.

Michial                               - Ecco. Ed ora il giardino è pieno dei loro evviva...

Ignazio                               - ... e il loro ventre delle vostre ciambelle.

Michial i                             - Non importa. Oggi festa. Non sarai certo tu a sospirare mio dilettissimo Aurelio...

Aurelio                               - L'invidia scava per gli altri la fossa, ma spesso è lei che dentro vi stramazza.

Michial                               - Oh guarda! Allegro.

                                                        

Ignazio                               - Egli giubila.

Michial                               - E non ha torto, perché se il bel Marco seppe imprigionare la nostra cara nipote col laccio, spe­riamo tenace, di un delicato sentimento, e se a noi piace di sperimentare i suoi talenti di futuro padrone, oh non per queste inezie sarà mai per scemare al virtuoso Aurelio il nostro favore. Non con un solo dente, romperemo la noce.

Ignazio                               - Ce ne vogliono due.

Michial                               - E l'uno contro l'altro, eh eh. E men che meno, poi, sarai tu, ad essere pensoso in questo giorno, fortunato Marco, altro dei nostri denti.

Ignazio                               - (velenoso) La sua allegria è tutta per di dentro.

Marco                                - Perdonatemi, signore...

Michial                               - O forse queste chiacchiere son troppo terra terra pel nostro sdegnoso angelo?

Marco                                - ... non sono abituato a vedermi oggetto di tante feste.

Fausta                                - E' stata colpa mia, signor Marco; non ho saputo essere abbastanza gelosa di un segreto che mi empiva di troppa contentezza. Certo, nemmeno io m'a­spettavo tanto chiasso, benché esso non nasca che da sincera cordialità. Pensavo appunto che non vi sarebbe spiaciuto vedervi accolto da tanta affezione e, tra poco, non dovrei dirlo...

Michial                               - Zitta là, ma sentite.

Fausta                                - ...anche da qualche altra cosa! Regali.

Michial                               - Ella è piena di gioia, se non parlasse scop-pierebbe. Bene, avanti i regali.

Fausta                                - Anche i più poveri, signor Marco, da più giorni si stillano, per portarvi qualche cosa di gradito, benché modesto. Tutti vi stimano e v'amano.

                                           - (Entrano alcuni pescatori e fittavoli i quali depongono su un tavolo i loro regali, cioè frutta, fiori, dolciumi, con-chiglie e rozze sculture di legno).

I Pescatori e i Fittavoli      - Siate felice, signore. La vostra vita sia altrettanto gentile e ricca quanto è dolce questa frutta. Il bel colore di queste conchiglie vi rallegrerà l'occhio negli inverni, signore. La mano fu grossolana, ma il pensiero era affettuoso.

Uno bei Pescatori              - (mettendo nelle mani di Marco un piccolo naviglio di legno) Io sono il più vecchio.

Marco                                - Che cosa mi regali?

II Pescatore                       - Una barca, signore. Guardatene il nome.

Marco                                - (leggendo) « La bella speranza ». Ah, è proprio lei. Di nessun'altra tra le nostre barche il mio povero padre era orgoglioso, come di questa. Mi cono­scevi, dunque?

Il Pescatore                        - Eravamo quasi amici, signore, come possono esserlo un rozzo pescatore e un fanciullo istruito. Mi chiamo Antonio.

Marco                                - E dimmi, Antonio; che ragazzo ero io?

Il Pescatore                        - Bello e sincero: amavate molto le barche e il mare! Vi piaceva di tirare anche voi insieme a noi le nostre grosse funi. Noi tutti dicevamo che sa­reste diventato un vero uomo e non ci siamo sbagliati.

Marco                                - Erano bei tempi. Mio padre e tutti i miei mai tradirono il mare, io solo dovetti.

Il Pescatore                        - E siccome questi altri, nei giorni scorsi, chiedevano, io gli ho detto: è un vero uomo. Vidarà una mano come allora. E' giusto, capisce. Farà crescere la pesca e il buon accordo: e tutta la città, quando passerà lui, dirà: ecco nostro padre. (Una pausa) Speriamo tanto, in te.

Marco                                - (dopo un silenzio) Sì, Antonio, farò questo. Nessun regalo mi sarà caro come il tuo. Vuoi darmi un bacio? (I due si baciano).

Michial                               - « Nessun regalo » ?

Ignazio                               - «Gli sarà caro come il suo».

Michial                               - Ha avuto fretta a dirlo. (Cara alcuni fogli, li guarda contro luce, li palpa, li fiuta) La carta è del carfaro, la filigrana è del Reggente, il timbro del signor conservatore del Catasto, il fetore del signor notaio. Aurelio, Marco, sentiamo: che cosa resta?

Marco                                - Resta il meglio, signore: quel che è vostro.

Michial                               - S'è già svegliato, il volpone. Ma la vigna o il campo, poniamo, che è mio e sta qui dentro, a me - o al mio bisnonno - chi ce l'avrà dato, il cartaro, il conservatore, il notaio o il Reggente? Aurelio, Marco, sentiamo.

Aurelio                               - Nessuno di costoro, signore.

Michial                               - La vista di questi fogli ha svegliato i suc­chi dell'intelligenza anche a lui. Bravo. E perché?

Marco                                - Perché il campo c'era prima di tutti i cartari e di tutti i notai...

Michial                               - Ohe, ohe!

Marco                                - (sorridendo e scuotendo il capo) ... e anche di tutti i Reggenti, signore.

Michial                               - Proprio cosi, fringuellino mio: chi ce l'ha dato il campo, cioè la roba, e in che modo, non c'è più nessuno che se lo ricordi. Si sa soltanto...

Marco                                - ... che è vostra.

Michial                               - Cioè mia. Ed è proprio per questo che il vecchio Michial...

Ignazio                               - ... ubbidisce soltanto alla sua testa.

Michial                               - Quando luì ha scritto qui Marco, oppure Aurelio, sentiamo un po', che succede?

Marco                                - Che la roba, signore, va con l'uno o con l'al­tro come un bravo cane al fischio.

Michial                               - Questo leone è un furbone. Eh, così fosse, perché il cane abbaia, mentre la roba se ne va magari col bugiardo, col ladro, è muta, è ingrata, non riconosce, non guarda nessuno. E che fa?

Aurelio                               - (sfiduciato) Corre, signore.

Michial                               - Corre? Merlo chi la fa correre. Corre! Guardate un po'.

Ignazio                               - Ci mancherebbe altro.

Michial                               - Non è il ricco che spende, bestia.

Ignazio                               - Perché, essendo ricco, può sempre comprar tutto, tutto è lì come suo; e tutto essendo suo, come può egli desiderarlo? Egli è bell'e contento, come se avesse comperato già, mentre, con lo stesso valsente, può figu­rarsi di poter comprare mille altre cose... senza com­prarle mai.

Michial                               - Ehi tu. Troppa allegria, troppo ardire. Eb­bene, caro Marco, che cos'è la ricchezza, a che serve, di­glielo tu. Marco, il cui nome, eh eh, il cui nome... (Agli altri) Bisognerà pur dirglielo, finalmente, e toglierlo dagli spasimi! (di nuovo a Marco) ...il cui nome è quello che sta qui scritto, birbone!

Tutti                                   - (applaudendo e alzando i bicchieri) Evviva! Evviva! Evviva Marco! Evviva il cacciatore!

Michial                               - Sta scritto, ma potrei subito cancellarlo,ohe! Dunque, diglielo tu, ora che hai fatto il colpo, a che serve la ricchezza, cos'è.

Marco                                - Signor Michial, spero che sia davvero come m'ha fatto intendere il vecchio Antonio: una cosa bellis­sima, quasi una calda grande casa verso la quale, essendo troppo vasta per uno solo, vanno fiduciosamente molti uomini e molte speranze; un più di forza, in noi, che, per non fare ingorgo, deve diventare lavoro, allegria, compagnia e concordia. Mio benefattore, ho capito perché ci sentiamo il cuore, talvolta, così volonteroso e in vena: egli ha tutto il sangue e non ne serba nulla, lo dona per poterselo riprendere, e con tanto maggior im­peto se ne vuota, tanto più fresco e festoso gli torna e lo fa battere. E così, oggi, questi pensieri, e l'avere in­torno tante belle cose, tanti affettuosi compagni, fanno battere ài mio... (s'interrompe).

Ignazio                               - (gli batte sulla spalla) Signore, v'è là una popolana che desidera dirvi una parola.

Elena                                  - (è entrata).

                                           - (S'è fatto un gran silenzio, tutti si sono voltati a guar­dare).

Marco                                - (impallidendo, si è alzato, e si è avvicinato ad Elena, le parla sottovoce) Ti spiegherò. E' una fin­zione. Ti amo. Vuoi dunque rovinarmi, e rendermi la favola di tutti? Non hai fiducia in me? Va via. Va via.

Elena                                  - (esce).

Michial                               - (rompendo il silenzio) Caro Marco, spe­riamo che non vi siano cattive notizie.

Marco                                - Nulla, signore. Una mia vicina di casa, che m'è stata mandata per certe inezie.

Ignazio                               - (assai allegro, ripetendo forte all'orecchio di Michial) Una vicina di casa!

Aurelio                               - (c. s.) Per certe inezie!

Michial                               - Bene, benissimo. Inezie. (Agli altri) E al­lora avanti, voialtri: festa, baldoria, brio! Che fate lì? V'è caduta la lingua? Cos'è quest'ombra?

Aurelio                               - Si direbbe una nuvola che fosse passata sul sole.

Michial                               - E se è passata, bottiglie! ma non troppe. Ciambelle! E che fa il coro?

Ignazio                               - Animo, un po' di fuoco, è questo il modo?

Aurelio                               - Proprio questo « il momento d'essere al­legri.

Ignazio                               - Evviva il cacciatore!

Tutti                                   - Evviva Michial! Evviva i fidanzati! (Il vocio è al colmo, il coro ha ricominciato: Sotto il vecchio tiglio accanto al fiume Non parlai con la bocca mia Ma con quella d'una potenza più grande, Con quella dolcissima di Maria. Alzati, o anima dall'abisso Esci di sotto alla pietra o mio Aiutatore, Esci di sotto al muschio, o mio Seguace, Vieni ad appoggiarmi, a darmi forza (1). Ma appena il coro ha ripreso, ecco qualche testa si volta verso il cancello. Elena vi è tornata, sta ferma sulla soglia. Man mano tutti, anche i cantori, si voltano verso di lei, il vocìo a poco a poco scema, cessa, poi anche il coro s'interrompe. Tutti sono immobili e in silenzio).

Elena                                  - (s'inoltra lentamente nel mezzo).

 

Michial                               - Che vuole dunque questa ostinata ragazza? E in codesto fagotto, che ci reca?

Elena                                  - (scopre un piccolo bambino e indica Marco) E' nostro figlio.

Marco                                - (si alza lentamente) Un'odiosa macchinazione è stata ordita, signore. Sperando di colpirmi a morte, qualcuno ha aizzato questa donna perché venisse e di­cesse cose non vere.

Elena ,                                - (a Fausta, con la stessa voce) E' nostro figlio.

Marco                                - La conosco appena, signori. Si spera di car­pirmi danaro, è evidente.

Elena                                  - (con la stessa voce, a Fausta) Egli vuole ab­bandonarmi e sposarvi per arricchire.

Marco                                - Basta. Menzogna. Cacciatela! La donna che vi parla... ascoltatemi! la si conosce bene nel quar­tiere del porto! Sì, lo dichiaro: ella divertì molti...

Elena                                  - Mio Dio, aiutatemi!

Marco                                - (sconvolto) Via! Chi ha permesso che en­trasse? Allontanatela!

Elena                                  - Marco, e che dirai a tuo figlio? (Il bambino tende le braccia al padre: un silenzio).

Marco                                - (gridando) Non è vero! Via! Via!

Elena                                  - (bacia appassionatamente il bambino, poi fugge stringendolo al seno). (Un silenzio).

Marco                                - (asciugandosi il sudore) Se vi è qualcuno, fra questi signori, che crede vero quanto fu detto or ora, se si dà fede, piuttosto che a me, a questa donna, tra­scinata qui da un malvagio, fatta strumento d'un odio spietato, buttata contro di me con la sua piccola crea­tura in braccio... esigo che si parli, che si alzino quegli occhi, che mi si accusi... (D'un tratto, con altra voce) Ah, non m'importa niente di voi. Sono solo; e non vorrei essere qui.

Fausta                                - Forse non starebbe a me parlare, ma vor­rei essere proprio io a dirvi, signor Marco, che voi non siete solo, qui. Vi sono persone che credono in voi e crederanno sempre, sempre. Perché vi conoscono, sanno che voi siete tanto migliore e più alto di tutto quello che la vita vi ha messo intorno e che vi fa sof­frire e v'offende. Oh, non vi ha mai veramente amato, quella donna, se ha potuto tentare di ferirvi così cru­delmente! Ne sono certa fino in fondo al cuore.

Marco                                - (che non l’ascolta, d'un tratto s'alza, corre al cancello, chiamando) Elena, aspettami. Elena! Elena! (Esce correndo).

Fine del terzo quadro

 (La scena si oscura. Si sente la voce di Marco, fra un rumore di vento, chiamare: «Elena. Elena». Al riaccendersi della luce si vede il luogo del primo qua­dro, battuto dal vento).

QUADRO QUARTO

Marco                                - (entrando, a un viandante) Scusate, buon uomo, avete visto per caso la ragazza lassù della ca­setta del poggio, Elena, la conoscerete di certo. Sono due giorni, nessuno mi sa dire nulla, dov'è, se è par­tita, per dove. Veniva sempre qua, col suo bambino. Veniva sempre a guardare il mare giù di lì.

Il Viandante                      - Non sono di queste parti, signore.Forse quel vecchio che è là da un pezzo seduto, potrà saperne più di me. (Esce).

Marco                                - (all'uomo seduto) Scusate, signore. Siete qui da molto?

Michial                               - (imbacuccato, voltandosi) Non da poco, ti aspetto, caro Marco. Ho rischiato un malanno, con questo ventaccio. (Tosse) Ma non avrei mai rinunciato, a farti questa sorpresa. Qui t'aspettavo. Qui dovevi ve­nire, come la farfalla al lume! Lo sapevo. Qui, su quest'orlo, a guardar giù!

Marco                                - (gridando, per vincere il rumore del vento) Sapete nulla di Elena?

Michial                               - (indicando il precipizio) Fatti coraggio, guarda pure; non c'è, dove credevi. Non s'è buttata dove ti aveva promesso. Si sarà buttata, col suo fagottino, da qualche altro dirupo, benché questo le stesse più alla mano. Non c'è, laggiù. Forse sarà partita, è una ragazza piacente. Tranquillizzati, non la incontrerai mai più. Amen.

Marco                                - Dio non v'ascolti. L'ho rinnegata e accu­sata ingiustamente.

Michial                               - (sempre gridando) Che giovane faceto. La ragazza che hai sempre amato è un'altra.

Marco                                - E chi sarebbe?

Michial                               - Il suo nome è arricchire, riuscire.

Marco                                - Mi schernirete dopo. Ora aiutatemi.

Michial                               - Sono qui appunto per questo. Ho una cosa importante da svelarti.

Marco                                - Ditemi.

Michial                               - Ecco: che tu sei un verme.

Marco                                - Sono un infame, lo so.

Michial                               - No, non lo sai affatto. Io per capirlo ci ho impiegato la vita.

Marco                                - La vita? Vi conosco da ieri, così non fosse stato.

Michial                               - Io invece t'ho incontrato molto prima di ieri, benché con altre facce. Quando vicino a noialtri, mercantucci, raccattatori d'immondizie, passate voi, aquile bianche, arcangeli esiliati, sai che ci pare, a noialtri? Che il Signore Iddio e nostra madre si ver­gognino di noi. Mi hai fatto arrossire più di una volta, furbacchione. E' una gran soddisfazione, per me, dimo­strare a Nostro Signore che tu sei un verme. Il fatto è che non ho mai visto un uomo così venale, basso, e soprattutto tradite-re fino alla midolla idei cuore.

Marco                                - (sempre cercando di vincere il vento) Vi giuro che le mie intenzioni erano diverse. Mi furono contorte da non so che ingranaggio.

Michial ,                             - (mentre il vento prende forza) E io ti giuro invece che la tua conformazione è quella di un verme, destinato pei secoli a strisciare sulla polvere e a mangiarne. Arricchire, riuscire, ecco quel che ti nutre.

Marco                                - Dimostrerò con quanto mi resta di vita che io non sono quel che credete.

Michial                               - Cancellare e riscrivere. Non si distrugge, in eterno, la gocciolina dell'acqua, e vuoi che si di­strugga l'azione dell'uomo, una volta formata? Mia or­gogliosa aquila, i barbieri della città sì faranno sulla porta, quando tu passerai.

Marco                                - Cambierò strada, signore.

Michial                               - Eh eh, riuscirvi, signore. Stringiamo una monetina, nascendo, quella e non più, in eterno. Tu haisciupato la tua. Hai avuto fretta: hai tolto il piede de­stro dal piolo idi sotto, prima d'aver messo il sinistro sul piolo di sopra, eh eh. Hai fatto come quello che sentendo odor d'arrosto s'affrettò a buttar via la sardella e restò digiuno, eh eh. Imprudente, vendesti troppo pre­sto gli stivaloni e il resto, eh eh. Sei in una trappola, mio bianco delfino; scrivigli questo, al Reggente, eh eh. I ragazzi ti rincorreranno scagliandoti torsoli e gri­dandoti: Erede! Oh erede!

Marco                                - Io vi prego, signor Michial, non umiliate troppo un uomo che non vi ha fatto nulla di male.

Michial                               - Mio leone, perché dunque non t'inginoc-chi a leccarmi questi polverosi stivali? Ti vedo, den­tro, i pensieri come pesciolini in un cristallo.

Marco                                - Non vogliate calpestare e sciupare una vita.

Michial                               - In quell'angolo della tua testa pensi che essendo i vecchi assai pazzi e mutevoli, la furberia e le suppliche potrebbero forse salvarti tutto: l'orgoglio e il gruzzolo. (Ripetendo, per vincere il vento) L'orgoglio e il gruzzolo! Ma in quell'altro angolino...

Marco                                - Non siate inumano e imprudente. Non spin­gete un uomo verso l'abisso.

Michial                               - In quell'altro angolino tu pensi: e se io gli dessi una piccola spinta, al vecchiaccio, prima che egli vada in giro a ciarlare? C'è un buon salto, lì dietro: doveva andarci la ragazza, ci andrà il vecchio; e più nessuno saprebbe, tranne lo stesso verme, che c'è un verme nel mondo, vestito da uomo, oh, un bel verme, un verme ricco, un verme che ha ereditato. Tre passi. Il vento mangerebbe l'urlo, no? Direbbero che gli è mancato un piede. Eccolo sull'orlo, il vecchio gufo, col suo cappottone, eh eh; un vero equilibrista, in barba alla podagra. Oilà. Oilà. Mio leone, bolli di rabbia come un tino d'ottobre; se tu non fossi vile come sei, sarei fritto. E' un bollore che mi fa bene, invece, ah, è un aroma, mi prolunga la vita. Vivrò ancora cinque anni, dieci; e perché no venti; o trenta? Godo un'eccellente salute, mi sento un re, un papa, un toro. Accidenti! (Gli manca un piede, fa per afferrarsi all'erba dell'orlo, precipita) Aiuto! (Più fioco) Aiuto. (Ormai coperto dal vento) Aiuto. (Silenzio).

Ignazio                               - (sopravvenendo in fretta) Dite che è sci­volato. Chiamate aiuto. (Gridando) Aiuto!

Marco                                - Ignazio, è veramente scivolato. Io ho sol­tanto... pensato.

Ignazio                               - Nessuno ha visto, ricomponetevi. (Gri­dando) Aiuto!

Un Uomo                           - (passando di corsa) E' giù, sulla scogliera.

Voci                                   - (da diverse parti, nel vento) Aiuto! Aiuto!

Marco                                - E' veramente scivolato, vi dico. Non vorrete immaginare per caso che io... (D'un tratto, urlando) Aiuto! Aiuto!

Un Uomo                           - (passando di corsa) Lo raccolgono. (A Marco) Amico, se fossi in te comincerei a correre. (Esce).

Ignazio                               - Smuovete lì un po' di terra sull'orlo. Dite che fu una frana, una disgrazia.

Marco                                - (si china a smuovere la terra).

Un Uomo                           - (entrando) E' morto. (A Marco) Che fate lì?

Un altro Uomo                  - (sopraggiungendo) No, è vivo. Che succede?

II primo Uomo                  - (al sopraggiunto indicando Marco) Guardategli le mani.

L'altro Uomo                     - (guardandogliele quasi a forza) Sporche di terra...

Marco                                - Mi sospettate a torto, signori: è stata una disgrazia.

Ignazio                               - Proprio così. Ero presente. Non ero distante. Una frana.

Uno dei due Uomini          - (a Marco) Una frana? Lo di­rete al gendarme.

L'altro Uomo                     - Sorvegliatelo, che non faccia lavo­rare le gambe. (Si è formata una piccola folla. Isolato, davanti ad essa, Marco).

Voci                                   - (man mano più alte, mentre gesti man mano più decisi indicano Marco) Lui. Solo lui aveva profitto a spacciarlo. V'era discordia fra loro. C'è chi li ha uditi altercare. Altercare? Li han sentiti azzuf­farsi. Le mani! Basterebbero le mani. Nere diterra! Tremano! Cerca di nasconderle, ora, guar­date! La faccia! La faccia, guardategli! Porta la colpa stampata! Non ha più goccia di sangue!

Uomo vestito da cacciatore   - (avanzando a un trat­to verso Marco, con l'indice teso) Fui tuo compagno a caccia, ti ricordi? Che ti dicevo, signor mai contento?

Marco                                - (angosciosamente) E' stata una disgrazia, Francesco.

Una Donna spettinata        - (mettendogli l'indice quasi sul volto) Te le rammenti le figlie dei pescatori d'arin­ghe? Più erano gentili e meglio le perdevi, te le ram­menti ?

Una voce                           - E' stato lui.

Un'altra voce                     - E' stato visto.

Francesco                           - Nessuna caccia ti bastava. Non credevi nella tua anima.

La Donna spettinata          - Credeva solo a quello che si tocca, il cacciatore.

Francesco                           - Te ne ricordi quant'eri superbo con noi? Fingevi d'esserci amico, e ci sdegnavi.

Marco                                - Una frana, signori. La terra!

Una voce                           - E' stato lui!

Un Uomo dai capelli rossi      - Con questi occhi, l'ho visto. L'aveva preso di qui: l'ha colpito così, con questa mano, no questa. Poi lo rovesciò giù dicendogli: «Michial, arrivederci all'inferno! ».

Fausta                                - (facendosi largo, affannosa) Bugiardo! Non è vero! Io sono proprio la nipote di Michial, Fausta. Mi trovavo a passare. E' innocente, lo giuro.

L'Uomo dai capelli rossi    - Gli era caduto il cap­pello! E' ancora sporco.

Marco                                - (smarrito, quasi fra sé) Io? Il cappello... la mano...

L'Uomo dai capelli rossi    - L'ha ucciso!

Fausta                                - Il cacciatore è innocente, che io perda la luce eterna!

L'Uomo dai capelli rossi    - L'avete bell'e perduta, si­gnora nipote.

Voci                                   - L'ha ucciso. E' stato lui.

Un Uomo                           - (sopraggiungendo) Ecco il vecchio. Lo portano.

Voci                                   - E' morto. E' vivo.

Un altro Uomo                  - L'ho visto! E' vivo e più vispo di me!

 Altre voci                          - Largo. Largo.

                                           - (Tutti si voltano. Entra un gruppo di uomini por­tando la barella).

Aurelio                               - (entrando) Fermatevi.

                                           - (/ portatori depongono a terra la barella, la gente fa crocchio intorno).

Aurelio                               - (curvandosi) Signor Michial, come state? (Silenzio). Potete dirci chi è stato, a gettarvi di qui? (Si­lenzio). Indicarlo almeno col dito, potreste? (Silenzio).

Evaristo                             - E il testamento, l'avete fatto?

Molti altri                           - (assiepandosi, tumultuosamente) Le vallate! La pesca! I diritti di caccia! Tornano nostri, è vero? Tornano a noi! Tornano alla città! (Silenzio. Tutto il crocchio, che era chinato sulla ba­rella, si risolleva lentamente).

Aurelio                               - (facendo cenno agli uomini di riprendere il peso) Andiamo pure, amici. Penserà la giustizia.

Marco                                - (cercando di trattenerlo) Aurelio...

Aurelio                               - (sciogliendosi, senza guardarlo, implacabile) La giustizia, se è vero che è essa, la giustizia, a di­stinguerci dalle fiere.il portatori e gli uomini si allontanano).

Marco                                - (cercando di trattenere un certo Temistocle) Come potete credere... signore...

Temistocle                         - (ultimo, prima di uscire) Sarete nelle prigioni prima di sera, signor grand'uomo. Era tempo.

                                           - (La folla è uscita. Il luogo è tornato pressoché deserto).

Uno Sconosciuto               - (traendo cautamente Marco in di­sparte) Sono un uomo di legge. Mi adopero di ac­correre là dove accadono tristi avvenimenti.

Marco                                - (pacato) Sono innocente, signore.

L'Avvocato                        - (sempre in segreto) La mia lunga espe­rienza mi insegna che ove...

Marco                                - Signore, sono innocente.

L'Avvocato                        - ... ove una procura dell'infelice o altro scritto, attribuissero a voi il possesso dell'asse ereditario...

Ignazio                               - E' il nostro caso, avvocato.

L'Avvocato                        - La causa è buona. Poiché il possesso, benché precario, è beato. Nostre le polveri, si scateni pure la guerra, corrano uscieri, voli carta bollata...

Ignazio                               - Resisteremo come Orazio al ponte.

Marco                                - (gridando) Sono innocente!

L'Avvocato                        - Appunto. Cedere anche d'un'unghia nel civile? Vorrebbe dire confessarsi reo in criminale. L'unico punto serio è il possesso.

Ignazio                               - E l'ideale sarebbe, per evitare l'inventario e i suggelli... (fa Tatto di scrivere).

L'Avvocato                        - Ci venivo: un buon testamento.

Ignazio                               - Una busta qualsiasi, ritrovata per caso in un vecchio cassettone e portata...

L'Avvocato                        - ... al Tribunale. Poi al Consiglio d'Ap­pello. Poi alla Corte suprema...

Ignazio                               - E così via. Ma che importa, quando il pos­sesso è nostro?

                                           - (Fausta riappare nel fondo senza osare di accostarsi).

Temistocle                         - (rientrando in furia, a Marco) Ha reso l'anima.

Marco                                - Ha parlato?

Temistocle                         - Sì.

Marco                                - Che ha detto?

Temistocle                         - Guardò il dottore, disse: « Accidenti » e morì. Ma io m'ero affrettato per un altro motivo.Mio cognato ha un battello, verniciato da un mese. Per una ragionevole cifra, potrebbe trafugarvi, voi e il gruzzolo, stasera stessa.

Marco                                - (pacato) Cari amici, spiegatemi. (Indicando la sottoposta città) Perché non uno ha un dubbio, anzi, tutti sono certi che io...

Ignazio                               - Perché vi stimano. Essi avrebbero assai desiderato di saper fare quel che voi avete fatto; sicché l'eredità, rimasta a voi, la stimano un pochino rubata ad essi, e faranno di tutto perché vi sia strappata, fino al momento in cui, vedendola vostra senza scampo, dopo avervi coperto di contumelie, vi copriranno d'o­nori. Tutto perché vi stimano. Vi stimano un furfante.

Marco                                - Diciamo un verme, signori. Lo strano della cosa è che non so più io stesso se hanno ragione o se sbagliano. Ma voi che dicevate? Che possiedo?

Ignazio                               - Mobili, immobili e liquidi.

Marco                                - I magazzini?

Ignazio                               - E' di là che costoro attingono di che vivere.

Marco                                - (indicando) Laggiù, i battelli? La casa?

Ignazio                               - Vi dormirete un buon sonno, stanotte, e domani aprirete la finestra sui tigli.

Marco                                - Posso entrarvi anche subito, ora?

Ignazio                               - Il tempo di far la strada.

Marco                                - Le chiavi.

Ignazio                               - (indicando Fausta che guarda timidamente dal fondo) Le avrà forse alla cintola, là, la ragazza, Fausta.

Marco                                - Bene. So come fare. (Avviandosi verso la ragazza) So come fare.

Ignazio                               - (d'un tratto comprendendo e cercando di fer­marlo) No, questo no... signore...

Marco                                - Levati.

Ignazio                               - E' contro i nostri patti...

Marco                                - (scansandolo con violenza) Mi avranno come mi credono.

Fine del quarto quadro

(La scena si oscura mentre il fischio del vento prende forza. Quando la luce si riaccende, appare, deserto e quasi buio, il gabinetto dell'Alto Revisore nel Palazzo di Giustizia della città. Nel fondo, tra pesanti tende, una grande vetrata lascia vedere l'aula del Tribunale molto affollata, con tutte le lampade accese. Sono passati vari mesi).

QUADRO QUINTO

(Oltre la vetrata, nell'aula, si vedono i giudici, già in piedi, nell'atto di ritirarsi; davanti ad essi Marco, Au­relio, Fausta, l'usciere, testimoni, curiosi).

Primo Giudice                   - Prima che il Tribunale si ritiri a decidere, c'è qualcuno che abbia ancora qualche cosa da dire?

Fausta                                - (di tra il pubblico, affannosamente) Ho vi­sto io stessa il vecchio scrivere il testamento, lo vidi anche cadere, buoni giudici. (Indicando Marco) Il cac­ciatore è innocente, non v'è respiro in lui che non sia altezza e bontà.

Aurelio                               - E chiedetele, allora se ella non viva con lui in peccato mortale nella casa di Michial, ora molto mutata!

 Fausta                               - (affannosa, chinando il capo) Ma il caccia­tore è innocente.

Aurelio                               - Chiedetele se la vergogna e gli urlacci del popolo non costringono lei, già delicato fiore di quella casa, a uscirne solo di notte, come una pallida ladra!

Fausta                                - Ma il cacciatore è innocente, lo giuro!

Aurelio                               - Delle molte creature ch'egli ha distrutto, nessuna più di questa è da compiangere. Giudicatelo.

Altri                                   - (gridando) Condannate l'uccisore, il falsario! Rendeteci quel che egli ha usurpato! Ridate pace alla città.

Primo Giudice                   - (fra un improvviso silenzio, avvian­dosi) Speriamo d'aver appreso quanto occorre per una giusta sentenza (Si vedono i giudici sparire entro un piccolo uscio).

Voci                                   - Giustizia. Giustizia. Giustizia.

Marco                                - (arruffato, torvo, scosta la tenda, entra dall'aula nel gabinetto).

Ignazio                               - (seguendolo con Fausta) Scommetterei, signore. Vincerete tutte le cause. C'è molto da sperare. A meno che...

Fausta                                - Marco...

Ignazio                               - (in segreto) A meno che non vi sia corru­zione di giudici. Corruzione, signore. Fidatevi sempre di Ignazio...

Marco                                - (scostandolo con odio) Vattene, serpe. Via. Via tutti. All'inferno.

Fausta e

Ignazio                               - (indietreggiano, escono).

L'Usciere                           - (accorso dall'uscio opposto, a Marco) Che volete, signore? Non si può entrare, qui. (Chi cercate?

Marco                                - Debbo parlare all'Alto Revisore.

Un Vecchietto                   - (alzandosi lentamente e inopinata­mente dietro un grande scrittoio carico di codici) Sono io.

L'Usciere                           - (esce con un inchino, lasciando ricadere la tenda, e togliendo la vista dell'aula. Marco e l'Alto Revisore sono presso un tavolo illuminato).

L'Alto Revisore                 - (che sembra molto oppresso e tos­sicoloso) Che desiderate dall'Alto Revisore?

Marco                                - (ansando) Sta per decidersi, tra pochi istanti, là dentro, se il mio passaggio sulla terra debba consi­derarsi una vita d'uomo, o non piuttosto un tetro stu­pido errore.

L'Alto Revisore                 - E' l'interessato, signore, che sce­glie fra queste due strade. I miei giudici vengono assai dopo.

Marco                                - (ansando) Ascoltatemi! Sono perseguitato, da mesi, come una fiera. Non y'è più nulla per me, nemmeno il sonno!

L'Alto Revisore                 - Non avete tuttavia la ricchezza? E' una forza quasi divina.

Marco                                - Essa, proprio essa, eccellenza, svegliò la cupidigia di questa torma dimostri e del traditore che li guida! Per sbranarmela di dosso come carne, la mia ricchezza, la mia roba, mi hanno accusato d'uccisione, di falso, di usurpazione...

L'Alto Revisore                 - (indicando i codici) Non v'è que­stione, signore, che non sia già risolta in quei libri. Dei vecchi personaggi ora morti, dopo avere acquistato, come me, molta esperienza, li hanno scritti per questo.

Marco                                - A orecchie vive, bisogna ch'io parli!

L'Alto Revisore                 - (ambiguo) Il Reggente?

Marco                                - Il Reggente... non bada a noi. Solo un pazzo può sperare nel Reggente! No, no. Voi solo...

L'Alto Revisore                 - Io solo? Non lo nego. Io potrei.

Marco                                - Si sta scrivendo la sentenza, là dentro...

L'Alto Revisore                 - (a voce bassa) E che vorreste da me?

Marco                                - (d'un tratto, esitando, smarrito) Vorrei... Signore mio, che cosa debbo volere? (Alzando Vindice alle bilance di marmo scolpite sull'architrave) Giustizia!

L'Alto Revisore                 - (quasi beffardo, allontanandosi) E che altro si accingono a darvi i miei giudici? Giu­stizia. Credere in essa vuol dire credere nell'eterno. Non avete che da attendere un attimo.

Marco                                - (fermandolo con un grido) Non mi lasciate! Aiutatemi! Ascoltatemi! Qualunque cosa! Eccellenza, sono un uomo disperato! (Un silenzio).

L'Alto Revisore                 - (riavvicinandosi, compassionevole, e con un riso ambiguo) Povero signore, povero signore. Proprio così: l'unica cosa, in fondo, è aver compassione, comprendersi l'un l'altro. Sì, vi è un momento in cui gli uomini si accostano, si guardano. Niente più li di­stingue: giudici e giudicati non sono forse tutti uomini?

Marco                                - (ansando) Certo, certo, eccellenza.

L'Alto Revisore                 - (abbassando la voce) Uomini. E così, qualche volta - dite voi - perché mai i poveretti, lasciate le superbie, le ubbie, ubbidendo a ragioni più umili, più vere, perché mai non alzerebbero la loro mano fino a quella crudele... - (indica le bilance) indif­ferenza, dico quelle ghiacce bilance della giustizia, per mettere nel peso, mica un'oncia di falso, mai più, ma un tantino d'umano, non è vero?, un volersi bene, un aiutarsi l'un l'altro, essere un poco... compiacenti... ar­rendevoli? (Ambiguo, come in segreto) Sì, signore: an­che l'Alto Revisore: sarà anche lui un uomo: che ha bisogno e comprende chi ha bisogno. Immaginate che sia malato: un po' d'asma, il cuore. Egli ha bisogno, sì; di tante cose; di altri climi, ad esempio. Vorrebbe cu­rarsi e vivere ancora un po' di tempo: non è naturale, anzi giusto, signor Marco? Ma... egli è povero... E voi siete ricco.

Marco                                - (con angoscia, passandosi la mano sugli occhi) Mio Dio. Mi pareva di non aver chiesto altro che giustizia.

L'Alto Revisore                 - (quasi accarezzandolo) Voi la chiamate spesso, come un bambino che parla alto al buio.

Marco                                - Ma voi chi siete?

L'Alto Revisore                 - L'Alto Revisore.

Marco                                - Forse le mie parole... involontariamente... come se io volessi... perché sono ricco - ottenere. comprare...

L'Alto Revisore                 - Non le vostre parole. Ascoltavo i vostri pensieri.

Marco                                - I miei pensieri?

L'Alto Revisore                 - Sono quelli che sempre nascono dove l'autorità e la ricchezza s'incontrano. Così, dove si toccano l'acqua e la terra, non può a meno di nascere un po' di limo, che fa quelle belle erbe. (Un silenzio).

Marco                                - (con indignazione voluta) Da quel velenoso limo, sta nascendo, signore, la sentenza che mi sovrasta: è chiarissimo. E dunque se la malizia di alcuni furfanti s'è imbattuta con la debolezza di alcuni giudici, la partemia dovrà sempre essere quella dell'agnello? Buono e sciocco: lo sono stato troppo. (Ammiccando, ansando, vile) D'altronde... non sarà certo pel nostro... piccolo patto e per il piccolo aiuto che... ci scambieremo, che resterà turbata la grande, l'eterna giustizia.

L'Alto Revisore                 - (con improvvisa collera e tossendo) La grande giustizia! La grande giustizia! Non posso sen­tire queste ipocrisie. Tutti così, questi conigli. Il loro gioco sarebbe d'arraffare i più ghiotti bocconi e combi­narne d'ogni sorta: ma, ohibò, senza rinunciare, per que­sto, ad ammiccare verso l'altra riva, senza mischiarsi alle mele guaste, vero? Siete un cospicuo impostore, signor Marco. (D'un tratto, con una specie di solenne tristezza) Gli uomini che hanno il regno delle cose, si sono dati ad esse, né più si volsero indietro. Essi hanno raggiunto entro idi sé una regione di grande chiarezza, dove si è calmi, signore, né più si parla della grande giustizia... (abbassando la voce) perché si, sa che nessun giudice, alla fine, ci sveglierà per rimproverarci d'avere sbagliato.

Marco                                - (con voce tremante) Anche voi, dunque? Anche voi credete questo?

L'Alto Revisore                 - Giudico e vivo da troppo tempo, si­gnore. Quegli uomini strinsero finalmente quel che è e si tocca, la ricchezza, la potenza; ma a tale scopo ave­vano avuto coraggio e scelto da molto tempo, in segreto; e spento in sé la luce di quei bei prati che gli stolti si fingono sperando di riposarvi un giorno. Dunque oc­corre avere questo coraggio e decidersi!

Marco                                - (riluttante, spaventato) Quel che si tocca, di­cono che duri un breve tempo.

L'Alto Revisore                 - Appunto ciò dimostra che il resto è un sogno. Credete nel Paradiso?

Marco                                - Da ragazzo, signore. Qualche volta, sognando, lo vedevo.

L'Alto Revisore                 - Ma ora?

Marco                                - Ho altro da pensare, ho l'azienda.

L'Alto Revisore                 - Ma pure?

Marco                                - Molte alate parole, signore, hanno un cattivo momento. Questi mercanti non vogliono che realtà pre­cise.

L'Alto Revisore                 - E tuttavia di notte, tardando il sonno?

Marco                                - Ogni cosa, di notte, al buio, rivolgendola a lungo nel pensiero, sembra che si distrugga. Però, se riac­cendiamo, troviamo che la roba, la roba che vogliono levarmi, è là, a posto. Il Paradiso, no.

L'Alto Revisore                 - E tuttavia non v'avviene mai di pensare a qualcuno che amaste, che non è più?

Marco                                - (abbassando la voce) Vi sono stati due occhi, il cui sguardo, talvolta, torna a fissarmi. Una sciocchezza, signore. Si tratta di una donna qualsiasi, una certa Elena: che un giorno mi guardò; con quello sguardo, e che poi, da quel giorno, non vidi più, né vedrò mai più in questa vita.

L'Alto Revisore                 - In questa vita. Ma, per rivederla, non vorreste che, dopo, vi fosse un'altra vita?

Marco                                - (timidamente, vergognoso) Vorrei solo... spie­garle, ecco, che in fondo si trattò di uno sbaglio, un'ap­parenza: raccontarle che, dopo, ebbi molta pena e ri­morso; e che dunque io non sono... quel che ella certa­mente pensava, -mentre mi guardava così: un essere de­stinato a strisciare nella polvere e a mangiarne. Vorrei...magari fra cento, mille anni, signore, vorrei spiegare questo... se non a lei, a quella donna, che so io, al vecchio Michial, non so bene, a qualcuno...

L'Alto Revisore                 - E se doveste rinunciare, invece, a questa fioca puerile speranza? Eccovi chiarita la cosa, o di qua o di là. Per comperare le cose, bisogna vendere il Paradiso. Occorre scegliere. E presto. Prima della sen­tenza...

Marco                                - (angosciato, e quasi vergognandosi) E' una puerile ubbia, lo so. E tuttavia certe volte, di notte, mi diverto persino a immaginare le parole precise che io dirò, per far capire e spiegare che quello sguardo fu troppo, troppo severo; quella condanna non fu giusta, signore; è questo che mi fa dispetto, angoscia, dolore. Mi fa troppa tristezza pensare, benché forse sia vero, che io debba tornare a confondermi col nulla, portando in me, inutilmente, quelle parole; senza avere detto, gridato, a qualcuno che io non ero, non sono...

L'Alto Revisore                 - E allora dite addio alle ricchezze che voi palpate in segreto amorosamente, addio a quei bei tigli odorosi, a quella luminosa casa sul mare, addio a quella voce orgogliosa, a quell'accorrere di corpi umani ubbidienti. Stanno per pronunciare la sentenza, signore. Potrebbero ordinarvi di riconsegnare le chiavi.

Marco                                - Le chiavi! Darla vinta a queste iene, vederle entrare grufolando là dentro?

L'Alto Revisore                 - E allora presto, figlio, vieni di qua, e lascia i sogni. 0 le cose o i sogni.

Marco                                - I sogni! Signore mio, come può dunque un uomo spegnere in sé persino... quelle deboli speranze, quegli ultimi miraggi, che l'uomo ha tanto cari, benché in segreto, e di cui si ricorda nel momento della morte? Giustificarsi, parlare...

L'Alto Revisore                 - (ridendo) E allora, figlio, vattene di là. Un'altra testa, quella di Aurelio, farà sul tuo guan­ciale pensieri più saggi.

Marco                                - Ma io... (s'interrompe).

Voci                                   - (da oltre la tenda) Evviva. Evviva. Giustizia.

Marco                                - (balza verso la tenda).

L'Usciere                           - (sgusciato fuori da quella, gli sta di fronte).

Marco                                - E' la sentenza?

L'Usciere                           - (facendo cenno di tacere) Essa è già nota, signore. Origliavo alla porta dei giudici.

Marco                                - Vogliate dirmi, signore...

L'Usciere                           - «Signore?». Questi sono i momenti in cui un uomo da nulla, un semplice usciere, viene trattato come un uomo da molto, non è vero? Peccato. Fra duesecondi tornerò da nulla, o mi

Marco                                - Sicché?

L'Usciere                           - Illustre signore! (Imitando con la mano) Dovrete aprire la mano e lasciare quel che stringete.

                                           - (Altri visi già si sono affacciati dalla vetrata, alle spalle dell'usciere).

Aurelio                               - (senza guardare Marco, implacabile) Si do­veva piuttosto schiantare l'universo sotto i fulmini, ma non poteva durare così mostruosa ingiustizia.

Evaristo                             - V'è andata male, signor grand'uomo.

Temistocle                         - Dirai addio a quella bella casa! Queimagazzini pieni

L'Uomo dai capelli bossi   - Addio al battello!

Temistocle                         - Addio al bel giardino odoroso!

L’Usciere                           - (infuriato, abbassa violentemente la tenda,poi esce. La vetrata e ì visi oltre essa spariscono. Un silenzio).

Marco                                - (tornando disperato all'Alto Revisore) Ri­corro! Faccio appello! Per carità, signore! Una mano altrui che troncasse un rametto dalle mie siepi di carpini! Vorrei mi strappassero questo dito, un occhio, piuttosto! Voi non sapete quel che mi costa, la cosa; pensieri senza requie, furori, agonie! Staccarmi da tutto: ma sarebbe mostruoso!

L'Alto Revisore                 - (beffardo, ridendo) Dunque sii chiaro con te stesso, e scegli.

Marco                                - Staccarmi! Non ho altro sulla terra, signore; e che ne so del Cielo? Che mi deve importare di vivi e di morti? Tutti gli uomini mi odiano; ed io li odio. Ma specialmente quelli che mi respirano accanto, e so che mi tradiscono. Io indovino i loro animi e tremo!

L'Alto Revisore                 - (quasi con violenza) Dunque decidi.

Marco                                - Cupidigia selvaggia, odio, pensieri atroci: ecco quel che v'è in essi... ed in me stesso, come in uno specchio, signore.

L'Alto Revisore                 - Devo andarmene, è tardi.

Marco                                - (trattenendolo) Non ho altro che questa frusta per tenerli giù: la ricchezza. Tutto mi ha abbandonato. Ma lei no. Così fedele, ubbidiente. Vera!

L'Alto Revisore                 - Sicché?

Marco                                - Le notti, per vederla, scendo nei magazzini, accendo, mi metto a cantare. L'ho tanto desiderata, ora è mia; come potrò lasciarla? E' essa, essa la mia cara; mia moglie. Anche di più. (Abbassando la voce) Come se quelle cose, le avessi dentro. O io dentro di esse. Le­gati. Se anche volessi, non potrei più separarmi. Signore, sì: vi darò tutto il danaro che Volete. Ma voi fatemi vincere.

L'Alto Revisore                 - Io l'ho capito subito, appena sei entrato, che nel più profondo di te vi era questo. Sì, tu avevi deciso fin da principio. Credo che vincerai.

Marco                                - Fatemi vincere, vi darò qualunque cosa, si­gnor revisore. Fatemi vincere.

Fine del quinto quadro

 (La scena si oscura. Si sente la voce di Marco bisbi­gliare più volte « Fammi vincere. Fammi vincere ». Quan­do la luce si riaccende si vede la casa di Michial in stato d'abbandono. Essa è ormai deserta e chiusa da molti anni).

QUADRO SESTO

(La porta esterna si apre a fatica. Entrano, portando un lume, l’usciere, Marco, Ignazio, e poco dopo Fausta).

L’Usciere                           - Dire che avete vinto è poco, signore. Ac­cidenti, avete dato l'anima al demonio! Ne avete scorti­cate, delle cause, in tutti questi anni! S'erano mossi, i furbi, per prendervi qualcosa, e voi a loro avete preso tutto e qualcosa di più. La sentenza vuole che entro oggi vengano i vostri avversari a consegnarvi e pagarvi ogni cosa, spese, indennizzi, interessi, oggetti, carte e non so più davvero che altro, dato che ormai in questa città nessuno ha più dì suo...

Ignazio                               - ... nemmeno la saliva dentro la bocca.

L'Usciere                           - (scostandosi una ragnatela dal viso) E'vostro tutto; e un bel po' di ragnatele per giunta. I suggelli li ho tolti; la casa, ecco le chiavi. Quanto al resto... spetterà a voi sbrigarvela, coi vostri debitori...

Ignazio                               - «.tra poco. Li aspettiamo qui.

L'Usciere                           - Buona sera. Fa un po' freddo, qui dentro. (Esce).

                                           - (Fausta va e viene silenziosamente).

Marco                                - (come assorto) Ho vinto. Questa è la mia casa. Ora verranno qui i miei nemici, a inginocchiarsi. Poi comincerà quel tempo sereno, felice, che ho tanto sospirato. Ora sono veramente ricco, non è vero, Ignazio? Accendi altri lumi. (Toccando intorno) Ora questa roba è proprio mia. Ah!

Ignazio                               - Che c'è?

Marco                                - (pulendosi nervosamente le mani) Polvere. Ho vissuto questi anni molto affannato; mi sento il cuore un po' stanco. (Patisce uno specchio, vi si guarda).

Fausta                                - (timidamente) Non vorreste riposare un poco?

Marco                                - (fra se) Sono mutato, infatti. Non importa. Ho vinto. (Voltando gli occhi a una finestra) Questo co­lore di cielo mi dice che la buona stagione non è lon­tana. Ci sono cose bellissime, nel mondo.

Fausta                                - (con dolcezza) Volete scendere a rivedere il giardino? Vi piacevano tanto, quei tigli.

Ignazio                               - Mi aspettavo che foste più allegro, signore. E' arrivato il gran giorno!

Marco                                - (con improvvisa collera) Levati, tu. Via. Sempre addosso. (Con spavento ed ira ad uno scono­sciuto che è apparso) E tu, chi sei?

Lo Sconosciuto                  - Signore, il fabbro. Pei nuovi chia­vistelli, le serrature a segreto, non vi sovviene? Sto guardando.

Marco                                - Mi farai un buon lavoro? Qualcosa di sicuro?

Il Fabbro                            - Poveri ladri! Vi troverete dentro una cassaforte, signore.

Marco                                - (facendo al fabbro un cenno di saluto) Sei un angelo.

Il Fabbro                            - (s'interna nella casa esaminando le porte).

Marco                                - Ma io chiamerò anche un secondo angelo, che non sappia del primo. Essere in compagnia, ad avere qualcosa, e sia pure un segreto, non mi piace. (Con im­provviso grido e sospetto) Le chiavi. Ignazio! Le chiavi!

Ignazio                               - (indicandole dove le ha lasciate l’usciere) Le avete davanti, padrone.

Marco                                - (arraffandole e scostando Ignazio con violenza)Lasciami, tu. Vattene. Via.

Ignazio                               - (pacato e pure con qualche cosa dì minaccioso)E' la seconda volta che me lo dite, padrone. Voi siete arrivato; ma non per questo mi staccherete da voi come un tocco di mota da una scarpa.

Marco                                - (ugualmente pacato) Mi odi molto, non è vero, Ignazio? Mi affonderesti volentieri uno spillo nel cuore. Ti amava, Fausta; e naturalmente ti mise nel mio letto. Agognava questa ricchezza: e la mise nelle mie mani. (Gettando fra le gambe di Ignazio lo scalpello la­sciato dal fabbro) Non fa mai male la carezza del ricco.

Ignazio                               - Guardate che ho trovato, padrone. Per fe­steggiare la giornata di oggi e la nostra vittoria. (Mostra una bottiglia, si accinge ad aprirla cantando) :

Sotto il vecchio tiglio accanto al fiume

Non parlai con la voce mia

Ma con quella di una potenza più grande

Con quella dolcissima di Maria.

Alzati, o anima, dall'abisso

Esci di sotto la pietra, o mio Aiutatore,

Esci di sotto al muschio, o mio Seguace,

Vieni ad appoggiarmi, a darmi forza.

Marco                                - (gridando) Fabbro! Quell'uomo! Dove sei?

Il Fabbro                            - (riapparendo) Signore.

Marco                                - Bevi con noi. Un po' d'allegria anche per te. E' un gran giorno.

Il Fabbro                            - (accosta alle labbra un bicchiere, lo depone) Grazie, signore. (Raccogliendo i suoi arnesi) Ho fretta.

Marco                                - (quasi supplichevole) Cosi presto? Non ci lasciare, amico. Aspetta un po'. Non ti piace il vino?

Il Fabbro                            - (quasi fuggendo) Ho lavoro in bottega, signore. Mi si fa tardi. (Esce).

Marco                                - (assaggiando e subito deponendo il bicchiere) Che amaro vino, infatti. S'è fatto aceto. (D'uri tratto dà una manata al bicchiere, che si rompe a terra; si mette a frugare in giro, poi a gridare) Qua non ci fu vigilanza. Qua si fu negligenti. La mia roba, il mio sangue, guar­date qua che ne han fatto! (Frugando negli stipi, e spez­zando con furore oggetti consunti e guasti) Si è lasciato che topi, ecco, schifosi topi, rosicchiassero tutto! Sono stato ingannato! Ecco qua, tarli. Polvere. Muffa. Tutto guastato, tutto morto! Vi erano intorno a me dei volti amati: io stesso rinunciai ad essi! La mia vita fu per­duta... (All'improvviso si interrompe, si vince, la sua voce torna pacata) No. Ho vinto. Fra poco non sarò più solo, ma anzi ci sarà qua molta gente.

Ignazio                               - Siete stato un grand'uomo, padrone mio, un demonio.

Marco                                - Che cosa ordina la sentenza?

Ignazio                               - Che oggi venga Aurelio e ci paghi; e con lui gli altri. (Indicando) Saranno già qui fuori.

Marco                                - Occorrerà dunque... Fausta! disporre un po', presto! pulire, togliere questa orribile pol­vere...

Ignazio                               - (impassibile) E perché, padrone?

Marco                                - Perché essi mi invidino e si disperino. Perché io possa mostrare questo, vantarmi, ingiuriarli, vederli inginocchiati... e poi...

Ignazio                               - E poi?

Marco                                - (con altra voce) E poi parlare con essi, Igna­zio. Sono solo da molto tempo.

Ignazio                               - Parlare?

Marco                                - (quasi timidamente) Se nessuno è qui, come posso, che so, farla vedere, la mia ricchezza, rallegrarmi di essa? Mi stringe il cuore, goderla in questo deserto. Sempre noi due. (Con un che di supplichevole) Vorrei... Sì, dopo tanto... far capire, spiegarmi. Parlare un po'. (Un silenzio).

Ignazio                               - Peccato che sia tardi, signore. Coloro ai quali vorreste parlare, vengono a pagarvi. E non avendo essi più nulla, che vi daranno? I denti, gli occhi; e l'odio. E io, seduto accanto, segnerò a libro. I loro bam­bini succhiano insieme il latte e l'odio per noi.

Marco                                - Che hai fatto, Ignazio! Dove mi hai portato!

Ignazio                               - Facile, scaricarsi d'un tal peso dicendo: è colpa di Ignazio. Scannate lui.

Marco                                - Tu. I tuoi consigli, i tuoi pensieri, tu.

Ignazio                               - E dove li leggevo io, quei consigli e quei pensieri se ero così certo di riuscirvi gradito bisbigliandoveli all'orecchio?

Marco                                - No, non è vero. Quel che volevo era altro...

Ignazio                               - Troppo tardi, signore, per dir questo e la­sciarmi solo, nell'imbroglio. (Indicando) Vi attendono.

Marco                                - E se invece venisse e giudicasse...

Ignazio                               - Il Reggente, signore? Lo chiamerete?

Marco                                - Si.

Ignazio                               - Perché non dirmi che già l'avete chiamato? Lo so. Non avete fatto altro che chiamarlo, nella vostra vita. E' triste che vi ostiniate, su questo solo punto, a far ridere di voi. (Quasi minaccioso) Il Reggente! Sappiatelo, finalmente: che ogni uomo deve pareggiarli da solo, i suoi conti, da solo, signore. Troppo comodo, quando non tornano, in ultimo, chiamare aiuto. Il Reggente non udrà mai la vostra voce; né voi la sua. Il Reggente! E io, si­gnore? E questo stuoino da piedi, il miserabile Ignazio, avrà preso calci tutta la vita - e serbato memoria di tante cose     - al solo scopo di lasciarsi gettare ai lupi in vece vostra? Io sbranato e voi salvo? Io rinnegato, scacciato, e per di più accusato dei vostri delitti, inse­guito dal furore di tutto un popolo, e voi riconciliato, ricco, quieto, onorato? Abbiamo lavorato insieme, si­gnore; il guadagno a voi e il precipizio a me? Non sono io il vostro Aiutatore, il vostro Seguace, dico il vostro domestico, e, prima di voi, domestico di altri da che respiro? Chi mi ha coltivato come un orticello, a chi serviva questa cicuta? Vi attendono. Oh, non vi scioglie­rete da me.

Marco                                - Credi d'aver carpito tanti segreti da diven­tarmi padrone?

Ignazio                               - (livido) Credo soltanto che vi occorra pru­denza, signore.

Marco                                - (andando verso di lui) Ti frusterò, servo audace!

Ignazio                               - (cambiando d'un tratto, e umiliandosi) Servo devoto, signore. Perché siamo giunti a un punto là dove, sì, è da mostrare, voi la vostra statura, io la mia devo­zione. (Indicando la porta) Vedrete or ora i lupi che v'inseguirono fino a oggi e fin qui. La vita umana è breve, per il loro odio. E dovrà un uomo della vostra tempra, a questo punto, tremare? E' proprio ora, si­gnore, che occorre stare uniti. Diceva ieri Aurelio che se dovesse compiersi questa mostruosa ingiustizia biso­gnerebbe credere che nulla sia sopra noi, se non il caos. Ma disse che non si sarebbe compiuta. Guardategli le mani, padrone. Penso persino che egli voglia uccidervi. (Un lungo silenzio).

Marco                                - Dove sono questi furfanti? Su. Chiamali.

Ignazio                               - (aprendo la porta) Stavano qua da un pezzo, ma stavano in silenzio.

                                           - (Entrano, stretti in un gruppo silenzioso, i debitori di Marco).

Marco                                - Che mi portano, per pagarmi?

Ignazio                               - ( - (togliendo di mano ai debitori le loro carte e scorrendole) Cose altrettanto misere quanto invece è grosso il loro debito, signore. Ma pare che siano le ul­time ad essi rimaste, le più vicine alla loro pelle.

Marco                                - (afferrando le carte, dandovi un'occhiata e gettandole a Ignazio) Vediamo. Ah, ah, perché dovranno levare qualche pugno di lana sporca dal letto dei loro bastardi, credono già d'avermi trafitto le viscere. Su, malandrini: avanti coi lamenti, forza ai pianti.

Ignazio                               - Hanno lasciato la lingua nello stesso cas­setto dove han lasciato la boria; e il veleno!

Marco                                - Ladri! Ingannare, non impietosire, mi vo­gliono! « Che potrai più volere, domani, pensano essi, se ti mettiamo in mano tutto, anche i cenci e i bottoni delle brache? Noi nudi; e tu, coi tuoi registri, gabbato ». Non è così?

Ignazio                               - E loro zitti! Che diabolico rancore, che ostinato orgoglio!

Marco                                - Già, zitti. Cercano anche di non guardarmi, capisci?

Ignazio                               - Guardano il muro. Temo che parlerete in­vano, signore.

Marco                                - Lupi! Mostri implacabili! Come se io, vo­lendo, non potessi piegarvi, spezzarvi: e volere da voi, se mi piace, visto il nessun valore di queste car­tacce (butta in viso ai debitori le carte che ha in mano) proprio quel che vorreste negarmi! (Un silenzio) Il vostro sguardo. (Con altra voce) Lo sguardo, che si scambiano le creature dotate di volto e di anima! La voce, almeno, la voce con cui l'uomo chiama l'uomo! Ecco che voglio da voi. Dite qualche cosa! Guardatemi! Ubbiditemi! Sono o no vostro creditore?

Ignazio                               - Muti e sordi, signore; come se voi, lì, non ci foste.

Marco                                - (scrollando uno) Ci sono, invece, guarda: sono ricco. Tutta questa roba era vostra!

Ignazio                               - Vi odiano, padrone. Parlerete invano.

Marco                                - (ridendo ed offrendo danaro ad uno) Ve­diamo. Denaro. A te.

Il Debitore                         - (non si muove).

Marco                                - (con un grido) Vi leverò i campi, il respiro! Tu. T'ho conosciuto, un giorno, vecchio Antonio. Mi ri­cordo: la tua barca... tuo figlio...

Ignazio                               - Guerra. Guerra di uno contro tutti, signore.

Marco                                - (supplichevole, ad Antonio) Sono uno come te, Antonio: un uomo soggetto a sbagliare... Avrò sba­gliato. Guardami! Sentimi, dunque... (Colpendo Antonio con uno schiaffo) Serpe! Assassino! (Si interrompe) Ec­coli, finalmente, due occhi che mi guardano.

Aurelio                               - (s'è fatto avanti in silenzio).

Marco                                - Lo vedi, Aurelio, che tu sei qui, con le gi­nocchia a terra, e il mondo non è stato arso dai fulmini? E' proprio vero, dunque, che un nero caos sta sopra di noi? Perché sei così pallido? Che porti, per pagarmi?

Aurelio                               - (avvicinandosi in silenzio, e sempre guar­dando Marco ha estratto delle carte e le svolge lenta­mente; esse contengono qualche cosa).

Fausta                                - (sorgendo alle spalle di Marco) Marco, ti vuole uccidere!

Aurelio                               - (fa per aggredire Marco).

Ignazio, Fausta e un Servo     - (si frappongono).

Ignazio                               - (che ha disarmato Aurelio del coltello, provan­done la punta su un polpastrello) Pungeva.

Marco                                - (si copre il volto; poi guarda Aurelio; d'un tratto, lentamente, si avvicina a lui, poi lo abbraccia) Che mani fredde, che terribile sudore. Aurelio, fratello mio, che spaventosa febbre, che delirio ci aveva preso? Mi si aprono gli occhi. Nessuna cosa più ci dividerà, le nostre questioni sono finite. (A Ignazio) Vattene, tu.

Ignazio                               - Che cosa dite, padrone?

Marco                                - Vattene, da questa casa, demonio.

Ignazio                               - Dunque è così, mi buttate via?

Marco                                - Sì. Finalmente avrai ciò che meriti.

Ignazio                               - Padrone! Troppi conti, fra noi!

Marco                                - (gridando) Quali conti, falsario!

Ignazio                               - Non siate così ingiusto, padrone. Ho in mano un'arma.

Marco                                - E che ne farai, servo vile?

Ignazio                               - (colpendolo e fuggendo) Questo. Non ti scioglierai da me.

Marco                                - (barcolla, cade, invano sostenuto da Fausta).

Aurelio                               - (fuggendo con lutti gli altri) Fuggite! Fug­gite da questa casa! (Escono).

Marco                                - (a terra, sorretto da Fausta) Potrò... spiegare, scolparmi ?

Fausta                                - Certamente, Marco.

Marco                                - E... chi sei tu?

Fausta                                - Sono la tua Elena. Quella che hai amato.

Marco                                - Mia povera Fausta. Avrei voluto dirti molte parole, ma non ne ho avuto il tempo.

Fausta                                - Ma io sapevo già tutte le cose che tu non hai detto; e sono stata ugualmente felice! Avrei solo voluto essere meno debole nel difenderti; poiché tu eri troppo nobile e delicato pel mondo. Sento un vocìo. Sì, caro; è il Reggente, il Reggente che tu avevi chiamato.

Marco                                - Oh, digli che non ho potuto far nulla, di tante cose che volevo. Avrei voluto spiegargli, fargli ca­pire... che forse vi era, in tutto questo, un errore. (Muore).

                                           - (S'avvicinano passi e un vocìo; poi si odono colpi bat­tuti alla porta).

Fausta                                - (come a un bambino, ma senza più guardare il corpo) Oh, sì, gli dirò che non v'era in te sospiro che non fosse altezza e bontà, che avresti voluto con­cordia, affetto: che soffristi molto. E lui mi dirà che il tuo conto è in pari e che puoi essere tranquillo.

                                           - (La porta si apre, appare il Reggente, solo, sulla soglia).

Fausta                                - (al Reggente) Non vi udrà. Ma io già gli dissi ciò che potevo.

FINE


[1] Adattamento ida un canto «popolare