Il caso Dorian Gray
di
Giuseppe Manfridi
Primo movimento
Io vengo fuori dalle parole di un romanzo che racconta di un quadro. ‘Ut pictura poesis’. L’arte che si voltola in se stessa. Troppo contorto? Nel caso, non sono io ad esserlo, ma la mia natura. Qualcuno obietterà che la mia natura mi identifica. Sbagliatissimo. L’essere un personaggio nulla dice del tipo di personaggio che sono. Cosa, questa, che tocca fare a me. Mi chiamo Henry Wotton. Chi mi incontra si rivolge a me come a Lord Henry Wotton. Sono Lord non meno di quanto io sia Henry Wotton. Al limite, mi battezza più il titolo che il nome. Sono diffusamente giovane. Comunque, mai anziano per tutta la durata della vicenda. Il romanzo, giunto all’ultima pagina, mi licenzia appena oltre i quaranta. Al primo capitolo, invece, mi introduce poco più che ventenne. Starete pensando: quale dunque l’Henry Wotton che vi sta parlando adesso? Il giovanotto o l’uomo già maturo? Ma, carissimi, questo ‘adesso’ è un parametro solo vostro, di voi che mentre lo pensate già siete invecchiati di qualche istante. Voi, però! Io no. Per me non c’è nessun ‘adesso’. Sono come l’immagine fissa del quadro che fa da protagonsita al racconto dove abito. E pure tutta questa prolusione di cos’altro parla se non della beltà vulnerata dagli anni e del privilegio che tocca, invece, all’opera d’arte le cui forme, notoriamente, mai conoscono l’aggravio della decadenza?... - C’è chi mi definisce un idolatra del superfluo. Come potrebbe essere altrimenti? Ne vivo. L’indispensabile mi è ignoto, e una forma ben tornita è la più acuta espressione intellettuale che mi sia dato conoscere. Di qui i meriti che ho presunto spesso di ravvisare nell’arte del mio caro amico Basil Hallward. Pittore sommo e uomo sciocco. Una miscela superlativa da cui attendersi capolavori mondati dall’infezione di qualsivoglia idea. Poiché il genio, si sa, più prescinde dall’intelligenza e meglio è. L’intelligenza argomenta, chiacchiera, riflette, consiglia, argina. Il genio erompe, esemplifica, determina, è. Per vero dire, il valore di Basil è sempre stato più figlio di un mio convincimento privato che una realtà conclamata. Oh, Londra l’ammirava, questo sì, ma non si poteva certo dire che egli ce l’avesse ai piedi. La sua opera maxima era ancora di là da venire. O perlomeno, questo era quello che si credeva in giro. E finalmente siamo al nodo, poiché in quel lasso di tempo durante il quale la stima collettiva ancora si asteneva dal partorire un’autentica gloria, io mi beavo d’essere testimone di un’altra gestazione pressoché segreta. Da qualche tempo, infatti, Basil aveva cominciato a parlarmi di un particolarissimo modello le cui fattezze erano state capaci di spingerlo verso azzardi stilistici sino allora mai sperimentati. Tal quale il volto di Antinoo, diceva, ispirò la scultura greca. In più, un certo tremito nella sua voce m’aveva rivelato che quel mettermi a parte era, in buona sostanza, un confidarsi al massimo grado di intimità, e che di sicuro il mio buon amico ben si guardava dal parlare ad altri sia del modello, sia del turbamento che gli veniva dall’averlo quotidianamente in posa, vis à vis, nel suo studio. Con me era diverso. Basil era consapevole di quanto io fossi il giusto vaso per accogliere il senso delle eccitazioni da cui si sentiva scosso. Eccitazioni, invero, castissime in ragione di una sua naturale inclinazione all’austerità trascendentale, se capite che intendo. Basil Hallward era, ed è, artista di quelli che per palpare la materia debbono prima renderla rarefatta sino all’estremo. Vanificarla, per masticarla. Allora sì... allora possono. Se capite che intendo. - Una mattina, senza preavvisarlo, mi presento nel suo studio per dare un’occhiata di persona al lavoro ‘in fieri’ di cui tanto mi andava favoleggiando. Il quadro, all’epoca, era ancora allo stato di vagito. Eppure, quel germinale sboccio di linee m’apparve di per sé sufficiente a lasciare stupefatti. E non per la perizia pur sopraffina del disegno, che altro non era se non la coda di cometa trainata dal più luminescente degli astri. Ossia: il volto e lo sguardo reali a cui l’arte del ritrattista andava attingendo. Altrimenti detta: il modello stesso in carne e ossa. In sintesi: Dorian Gray. Voilà.Così si chiamava il fatidico nume intervenuto con olimpica impertinenza nella traiettoria pittorica di Basil dirottandone il tragitto verso territori inesplorati. Alle strette! Pretesi di conoscerlo al più presto questo Dorian Gray... anzi, più che presto: ora, subito!... Ne ero infoiato! La smania mi divorava, ma il mio placido amico impose una tale quantità di ostacoli all’esaudimento di una tanto logica pretesa da farmi supporre che avesse in animo di boicottarmi. “Non c’è verso, gli dico, tornerò qui ogni giorno e, a meno che tu non intenda costringermi a bivaccare sul marciapiede dinnanzi alla tua porta, prima o poi dovrai capitolare e presentarmelo per forza”. Quel che avvenne, ma ce ne volle del tempo. Evidentemente, Basil, spaventato dall’inevitabile conflagrazione che sarebbe avvenuta all’istante del mio incontro con Dorian, aveva costretto il ragazzo a orari di posa inverecondi. Spesso, come scoprii, notturni. Altre volte, addirittura aurorali. Sulle prime pensai a una ridicola gelosia di basso conio, umorale, indecorosa, ma successivamente dovetti ricredermi. La sua, invero, era distillatissima gelosia d’artista. Ne ebbi la controprova il pomeriggio in cui mi recai da lui per il semplice piacere di salutarlo e basta. Le troppe disillusioni già patite in precedenza mi avevano costretto a mortificare ogni aspettativa, sicché quel giorno mi presentai all’atelier sereno come non mai e senza altro scopo, ripeto, che non fosse quello di una visita disinteressata. Sorpresa. Il quadro, issato sul cavalletto al centro dello studio, era praticamante terminato. Il mio amico mi informa che un’ora di posa gli sarà più che sufficiente per le pennellate risolutive e che, testuale... “Se mi farai il pacere di fermarti, potrai assistere in diretta all’epilogo di questa formidabile avventura estetica in cui ho versato tutte le energie della mia anima!”. “Cioè a dire?” balbetto... “Cioè a dire che aspetto Dorian da un istante all’altro”. Fisso la tela. Di una bellezza snervante. Di una meticolosità morbosa. L’apoteosi dell’appariscenza. “Dio non voglia, pensai, che Basil sia stato troppo ardito nel creare e che quel che vedo non corrisponda esattamente - ma esattamente, perdio! - a quel che è!” E quel che vedevo era un discorso muto sul sovrannaturale incarnato nel quotidiano. Sull’oscenità del divino compromesso con le forme di un corpo terreno. Quel che vedevo era un aforisma sul piacere della creatura perfetta appagata dal suo sapersi al mondo per rimanerne intatta. Quel che vedevo era ciò che, voltandomi, vidi pure venirmi incontro dalla soglia dischiusa dell’officina. Dorian Gray! Vivo calco dell’immagine infissa nel cretto della tela. - Dirò poco delle stupidaggini intercorse nell’occasione di quel nostro primo incontro. Anzi, non dirò proprio un bel nulla. Io, senz’altro, detti il peggio di me. Ricordo vagamente un breve colloquio tra noi che si svolse in giardino quando Basil concesse a Dorian qualche minuto di pausa. Sicuramente, debordai. Non ne dubito: mi conosco. Breviter, quel giorno decretò la nascita dell’indiscusso capolavoro di Basil Hallward e, al contempo, quella della mia duratura amicizia con un giovane angelo che tale restò per tutto il tempo della nostra frequentazione. Coincidente, peraltro, con i restanti anni di vita che il destino aveva prescritto per lui. Ma non voglio infingermi in una matassa di parole. Quel che ho detto è davvero quel che è stato, e tutta la città fu testimone del prodigio. Cosa sono questi sguardi stralunati?... Come se non sapeste a cosa mi riferisco. Ma, ovviamente, all’impermutabile fisionomia di Dorian, a quella sua perenne giovinezza mai depressa dall’offuscarsi della carnagione o dall’affiorare delle rughe. A quel turgore impetuoso rappresentato per chiunque dal fugace, fugacissimo virare di un alba nella maturità del giorno e che per lui, invece, significò il sigillo indeclinabile di un’avvenenza insistentemente nutrita dalle fragranze dell’adolescenza. E non crediate che abbia usato le bellurie del linguaggio per gonfiare gli eventi documentati dal reale! Ogni angolo della città, dal più infimo al più esclusivo, potrebbe riferirvi di questo sortilegio, dal momento che Dorian, per quindicianni e oltre, ha abitato con la sua bellezza ovunque, e dalla sua bellezza la città intera è stata contaminata. I più malevoli parlano di infezione. Mi batterò allo stremo perché costoro siano ridotti in ceppi, vivaddio: in ceppi!... Ma raccontavo del nostro incontro all’atelier. E’ sconcertante pensare come, da allora, io quel dipinto non l’abbia più rivisto sino al giorno in cui fui costretto alla più dolorosa delle rivelazioni. Oltretutto, a quanto mi risulta, esso scomparve agli occhi di chiunque, non solo ai miei. Con l’eccezione, va da sé, del suo legittimo proprietario. Vale a dire, di Dorian, a cui quell’anima compassionevole del mio amico volle donare il ritratto senza nulla pretendere in cambio. Nella circostanza, mi sorprese moltissimo che Basil potesse a cuor leggero scansare da sé un’opera che rappresentava il vertice assoluto del suo vigore creativo!... Ricordo oltretutto che, sempre a partire da quel pomeriggio, iniziò per lui una fase di progressivo allontanamento da ogni cerchia sociale; fase che egli sublimò in quella sua misteriosa e repentina scomparsa circa la quale sono state fatte tutte le illazioni possibili. Anche le più tragiche, a cui, se posso dire la mia, non ho mai dato né darò il minimo credito. Per qualche tempo, in verità, l’apprendistato mondano del nostro fulgido fanciullo ci vide entrambi affiancati, me e Basil, nell’accudirlo dappresso. E qui mi feci convinto senza residuo di dubbio alcuno che, una volta ultimato il suo capolavoro, il buon pittore non avesse particolari pretese di prelazione su Dorian, al punto da provare per lui un affetto edulcorato sino all’anemia, del tutto provvido e sincero. Certo è che Basil, frequentato a prescindere dalla sua arte, era davvero poca cosa e, non fosse stato per alcune circostanze che riguardavano il nostro comune pupillo, l’avrei perso di vista già da parecchio e volentieri. Ottima persona e tutto quel che volete, ma di un tedio, Gesù mio, abissale. Ammetto che, forse, sarà stato il dover spartire con lui la compagnia di Dorian a rendemelo particolarmente insopportabile. Sta di fatto che già ero riuscito ad allentare i lacci di quella combriccola a tre alquanto claudicante che il ragazzo trova la maniera di riunirci per una vicenda del tutto imprevista. Viene a dirci di essersi, udite udite, innamorato. Dapprima la prendo per una boutade, ma la radiosità del suo sguardo nel dichiararlo non ammette perplessità veruna. Si tratta di tale Sybil Vane, un’attricetta di cui lo sciagurato attacca a decantarci le virtù sceniche e il modo impareggiabile in cui l’avrebbe vista interpretare il ruolo di Giulietta, come dire: tra i più frusti mai sortiti da penna di poeta. Ascolto stordito da un capogiro che ha nome repulsa. Al contrario di Basil, che sembra davvero incuriosito dall’orribile novità. Accettiamo di andare col nostro satiretto a teatro la sera stessa per partecipare di tanta delizia. Quello è fuori di sé dall’entusiasmo. Ad apertura di sipario io il mio amico dobbiamo, malgré nous, consentire che la fanciulla, finché tace, ha argomenti a sufficienza per lasciare sgomento un giovincello di poche esperienze. Io stesso, se la memoria non mi inganna, mi sono abbandonato a un paio di complimenti non del tutto insinceri. La questione muta segno all’improvviso non appena il fluire degli eventi scenici spinge la donzella al centro dell’azione per prendere la parola a nome della piccola Capuleti. Beh... la negazione totale di ogni virtù espressiva. Voce ingolata, tono fesso, ritmo da filastrocca. Dorian posso vederlo impallidire pure nella penombra del palco. Basil, da par suo, arrossice. Io mi astengo sovrano da qualsiasi reazione minimamente percepibile. Al primo intervallo propongo clemenza e suggerisco di lasciare la sala. Dei due, l’uno mi segue, l’altro resta. “Voglio parlarle!” proclama Dorian con sguardo spiritato... “Voglio parlarle! Pretendo spiegazioni!”. Poveretto. Avrebbe voluto sprofondare per la vergogna. Per strada, io e Basil commentiamo la cosa con indulgenza circospetta. Nessuno che dica quello che pensa sul serio. E la notte passa. Coi giornali del mattino, poi, vengo informato della catastrofe. Quella stupidotta è stata ritrovata morta secca nel suo camerino. Il notista parla di un flacone contenente acido prussico o biacca di piombo che avrebbe ingollato per sbaglio. Pare che per i teatranti siano sostanze di uso corrente. Mi affretto a scrivere una lettera che faccio immediatamente recapitare a Dorian. Prevedo l’inevitabile inchiesta e il rischio che lo coinvolga. Ci manca solo che il suo nome venga accostato sia pure vagamente a una tipa del genere!... Sarebbe la catastrofe per una reputazione ben avviata ma ancora tutta da farsi. Fossimo a Parigi, capirete... ne avrebbe decretato la fortuna, ma a Londra, soprattutto in fase di début, certi scandali significano un monumento imperituro al pregiudizio. Mi attendo una risposta nel giro di poche ore... niente. Quand’è il primo pomeriggio mi decido ad andare io da lui temendo di trovarlo Dio sa in che stato. Mi sorprendo nel constatare che è un po’ smunto sì, ma tutt’altro che angosciato. Lo vedo in veste da camera intento a sigillare una lettera. “Per Sybil”, mi sussurra vedendomi comparire sulla soglia. Sveltamente rifletto: “O si tratta di un patetico omaggio al cenotafio della pulzella, o è uscito di senno.” Quando poi aggiunge: “Ho deciso di sposarla.”, capisco. Non sa nulla. In effetti, vedo che la mia busta è fra altre carte sullo scrittoio, ancora intonsa. La prendo alla larga; cerco di fargli capire come il matrimonio non mi sembri la scelta più idonea per lui. Tantomeno se la sposa si chiama Sybil Vane. Lui insiste. Mi spiega di averla trattata con una certa durezza dopo lo spettacolo ma che adesso tutto gli si è fatto chiaro e che quella donna lo merita eccome. Resto sulle mie posizioni e le rincaro. Gli illustro le mille miserie di una vita coniugale. Poi, passando dal generale al particolare, provo a spiegargli che Sybil non è idonea per lui in quanto non lo è più per nessuno. Mi guarda con occhi vuoti. Alché, gli cito alla benemeglio Baldassarre, il servo che annuncia a Romeo la morte di Giulietta: “Se mi domandate come ella stia, vi dirò: ‘Benissimo’, poiché con gli angeli che se la tengono in cielo.” - Realizza. Esplode in una disperazione in cui i sensi di colpa la fanno da padroni. Lo aggiorno sui fatti di cronaca. Lui si rimprovera quel che le avrebbe detto la sera prima e arriva a darsi dell’assassino. Gli domando se in teatro avesse per caso reso nota la sua identità. Non mi sente. Debbo ripetere la domanda un paio di volte frangendo il flutto delle sue lacrime. No... la piccina conosceva di lui soltanto il nome, non il patronimico; in più, dinanzi a tutti lo chiamava ‘il mio Principe Azzurro’ e basta. Un vezzo che, così stando le cose, metteva il mio protégé al riparo da qualsiasi coinvolgimento. Mi tranquillizzo. Aspetto che lo stesso accada a Dorian. Non ci vuol molto. Quando mi appare più rinfrancato lo esorto a raggiungermi quella sera stessa all’Opera. Prometto di tenergli il posto accanto a mia sorella: la cara Gwendalin, che era ancora ben lungi dal prendere il velo. Lui rabbrividisce di sdegno. All’Opera! In quelle condizioni! Vicino a un’altra donna!... Confidando nel ‘non si sa mai’ gli bisbiglio all’orecchio un numero di posto. M’accorgo che strizza gli occhi per memorizzarlo a dovere. Ore dopo, sulle prime note dell’ouverture, la porta si schiude e fa il suo ingresso nel palco. La cosa non mi sorprende affatto. A sorprendermi, semmai, è un senso di totale amenità che promana dall’interezza della sua persona. Un simile eccesso di restauro interiore non avrei mai osato sperarlo. So che mi si dà del cinico, ma v’assicuro: rabbrividii. Chi mai avrebbe immaginato che Dorian sarebbe stato capace, in brevissimo tempo, di metter da parte la tragedia con tanta nonchalance? Tra me e me mi domandai se io stesso avrei mai saputo riuscirci. Niente da dire: al fondo di sé lo spirito del giovane si dimostrava forgiato nel granito e per nulla svelato da un aspetto esteriore che lo avvolgeva con l’implapabile delicatezza di un vapore d’ambrosia. Bastava guardarlo! Le guance avevano ripreso colore, il ciglio s’era fatto asciutto, e i gesti erano tornati netti, precisi. Non subietti ad alcuna emozione. Ebbene, sì... questo, signori, il Dorian Gray in lutto per una sposa bambina strappata al mondo dalle sevizie delle sue accuse! Brucio di ammirazione per lui. Tanto oggi quanto allora. Ma procediamo!... Il giorno appresso, con mio grande disappunto, incrocio Basil che, sgomento, mi fa: “Sento dire che iersera Dorian stava a teatro con te. Ovviamente se lo saranno inventato. Con quello che gli è sucesso!” Gnè gnè gnè... Il solito Hallward di quando non ha il pennello tra le mani!... Mi duole che tra gli ultimi ricordi di un Maestro tanto insigne, io debba ritenere proprio questo che me lo raffigura all’apice della sua petulanza. E sia, poco importa. Nei mesi seguenti di Sybil Vane si dissolse sinanche l’ombra. Contemporaneamente, Dorian cominciò a imperversare in ogni salotto di qualche significato, e non sempre con me vicino. Aveva preso il volo, ormai. E che volo! Laddove era presente, si anelava a parlare con lui, laddove era assente, non si faceva che parlare di lui. Ma non sempre, va detto, per tesserne le lodi. D’altronde, quale fabbrica di dicerie possa essere l’invidia non sta a me ricordarvelo. Infastidiva, su tutto, l’inscalfibile purezza di un’età che, conti alla mano, doveva essersi lasciata alle spalle già da tempo. Mi torna in mente, a tal proposito, uno scambio di battute tra me e un chicchessia di qualche lignaggio incontrato a un dejeuner. Costui mi dice: “Non crederò mai e poi mai, come dicono tanti, che mister Gray abbia stretto un patto col diavolo.” “Buon per voi. - replico io - La superstizione è l’ignoranza che fa la caricatura alla sapienza.” “No, - incalza quello - credo ben di più: che abbia stretto un patto con se stesso.” “Nel senso?”, gli domando. “Che il diavolo sia lui in persona”. Capito?... Che il diavolo sia lui in persona. Questo per dire in quale clima di puro medioevo siano nate tante fole circa le presunte dissolutezze di Dorian. Capitolo, comunque, su cui non intendo soffermarmi. Come pure trasvolo sulla scomparsa di Basil che non ritengo meriti troppi commenti. Certo è che, da una sera alla mattina, atteso a Parigi per una mostra, il brav’uomo si è eclissato senza lasciare un nonnulla che dicesse le ragioni di questa decisione, a mio avviso sacrosanta. Non un biglietto, un due righe, niente. Come già ho accennato, io mi schiero tra quelli che non lo credono affatto suicida. Me lo vedo, piuttosto, decrepito in qualche rovente missione tropicale a sfogare dinanzi a una platea di selvaggi il calvinismo che l’ha sempre martoriato. La verità è che la sua parabola creativa era terminata col ritratto a Dorian, sicché, consapevole di non aver più nulla da chiedere alla propria Musa, ci ha fatto la grazia di evitarci la malinconica immagine dell’artista infecondo ricoverando in qualche paraggio ai margini del globo. Posso solo aggiungere che discutendone proprio con Dorian notai nei suoi modi lo stesso sovrumano distacco della sera all’Opera. Come se per lui Basil non avesse mai significato nulla. In quella circostanza, peraltro, colsi l’occasione per domandargli che fine avesse fatto il quadro. Mi rispose riferendomi di un incidente avvenuto durante il trasporto della tela da un locale all’altro della casa, e, quindi, di un restauro fallimentare... “Vederlo così sconciato - mi confidò - mi è insopportabile. Tanto che preferisco non tenermelo più d’attorno.” - Sic transit gloria mundi... via Basil, via la sua opera. Pressoché all’unisono. Com’è vero! Le coincidenze altro non sono se non le rime del reale. - Circa una settimana dopo, senza alcun motivo, mi viene voglia di mandare a Dorian un libro che, leggendolo, mi aveva fatto pensare a lui. Praticamente, un romanzo senza intreccio con un solo personaggio: quello di un giovane parigino che aveva trascorso la vita cercando di realizzare nei propri giorni tutte le passioni e i costumi dei secoli passati. Cito la cosa dacché, in seguito, questa stravaganza sembra abbia avuto sul caro giovane un’influenza enorme. Addirittura, di gran lunga superiore alle mie aspettative. Dirò di più: sinanche superiore alle mie intenzioni. Quelle pagine, infatti, mi avevano evocato Dorian in modo subdolo: non per quello che egli era in realtà, ma per quello che egli era potenzialmente. Insomma... ne fu travolto. Si immedesimò a tal punto nel protagonista da interpretarne la vicenda come un diario personale concepito dalla preveggenza di qualcun’altro e, per anni, iniziò a farsi inafferrabile. Le voci che giungevano sul suo conto raccontavano di abitudini inclini alla più estrema sconvenienza. Parole più acconce sarebbero: lussuria, vizio, peccato. Quelle stesse voci che, con altri accenti, propagandavano la leggenda del suo aspetto esteriore determinato a non dismettere d’un soffio la freschezza di sempre. Orbene, quasi ci siamo, ma, prima di giungere all’explicit d’addio che tanto raccapriccio ha suscitato ovunque, voglio ricordare il curioso episodio di quando, durante una battuta di caccia, uno sconosciuto venne impallinato nella sua tenuta per mano di un ospite malaccorto. La reazione di Dorian a quella sciagura fu tra le più singolari. Anche a rischio di essere frainteso, vorrei dire: euforica. Lo ricordo precipitarsi nella stalla dove era stato disteso il cadavere, scoprirne il volto e illuminarsi come mai, nel corso di tanti anni, avevo avuto modo di notare in lui. Il sorriso che gli vidi lampeggiare sul labbro mi gelò il sangue. E considerate che la vittima gli era assolutamente estranea. A questo aggiungete il suo ripetere isterico e immotivato: “Vivrò! Vivrò!” - Parole non solo incongrue, ma, come ben sapete, anche bugiarde. Non ho altro da aggiungere. Il mio resumé vi è consegnato per intero. No?... Non siete d’accordo?... Cos’è? C’è bisogno che rievochi pure la notte in cui il cocchiere di casa Gray, udito uno strano urlo proveniente dalla soffitta, penetrò per un lucernario facendo l’orribile scoperta?... Ah, evitatemelo, vi supplico!... Qui sta il foglio dove ho appuntato di mio pugno le ultime righe del resoconto. Leggetevele da voi, affinché sia la Letteratura stessa a informarvi dei suoi misteri lasciando il mondo del verosimile intatto da questo genere di obbrobri.
Secondo movimento
Sono confuso. Fra due giorni dovrei presenziare al vernissage di una mia esposizione all’estero - la prima che mi venga dedicata a Parigi, ne comprenderete l’importanza! - e invece eccomi ancora qui, chiamato alla sbarra perché contribuisca a far luce su talune vicende di cui tanto si chiacchiera. Lo so, dove mi trovo non è un tribunale, né voi dei giudici, e non siamo in un processo. La parola ‘sbarra’ non si confarrebbe. Ma, se ho ben capito, mi si chiede una specie di... deposizione, giusto?... Non ne so il motivo e poco m’importa, ma poiché quello che più detesto è di essere frainteso, d’accordo... non parto, non mi sottraggo. Quanto alle vicende chiacchierate, c’è da dirlo?... Le solite storie attorno a Dorian Gray. Santo cielo, possibile che non esistano più altri argomenti di conversazione?... Tutto ciò che ha che fare con Dorian è braccato con una furia di cui non ricordo precedenti, e si va a caccia di chiunque sia reputato suo intimo senza la minima premura di apparire invadenti, indiscreti, fastidiosi. Ora, disdetta vuole che, tra i suoi più intimi, si suppone che io appartenga al novero degli eletti, cosicché mi si inchioda con l’obbligo di ricordare quel quel che gli debbo e quel che mi deve. Presto detto: lui a me un buon ritratto, io a lui l’occasione di aver avuto un buon modello. Tutto qui. I conti fra noi due li considero pari, e nemmeno intendo prendermi alcun merito per quanto concerne i suoi trionfi mondani. Dio mi scampi dal vantarmi di essere stato il suo mèntore. Per questo fareste meglio a chiedere udienza altrove. Presso Lord Henry Wotton, ad esempio. Lui sì che ve ne potrebbe dire!... Tipo cinico, ma loquace. E molto al corrente, se capite che intendo. Purtroppo per voi, io, invece, sarò un pessimo relatore. E tanto per esser chiari: se non voglio meriti è perché non voglio responsabilità. Pur con tutto l’affetto per Dorian, non me la sento affatto di spergiurare sulle sue più recenti linee di condotta, per cui: se ne faccia carico in toto. Ma dicevamo?... Ah, sì!... Che dal sottoscritto tanta luce fareste meglio a non aspettarvela. Ne rimarreste delusi. Mi spiace ma non sono a conoscenza di alcun segreto. Né su Dorian, né su altri. Oh, beh... in verità, dovrei fare eccezione per un singolarissimo dettaglio, quello sì, che però, ecco... non so se... forse poi vedremo... diciamo che, nel caso, ve ne accennerò a tempo e a luogo. Oh, insomma, ma in che pasticcio mi sto ficcando?... Più straparlo e meno dico. E’ la mia maledetta misantropia, come ripete Henry. Forse esagera, ma in fondo è vero. E’ quella che mi frena dall’essere comunicativo. D’altra parte, esibirmi in pubblico non è mestiere mio. D’abitudine, sono persona che poco indulge alla conversazione e i salotti non sono certo i campi di battaglia dove io sappia offrire il meglio di me. Dunque!... L’avrete capito: dipingo, e la mia firma si è conquistata da diversi anni una discreta quotazione. Per inciso: la mia firma è Basil Hallward. Eccomi. Presente. Basil Hallward. Per paradosso: quegli stessi salotti in cui la mia presenza può passare del tutto inosservata, si fanno un vanto dell’avere alle pareti opere così firmate: Basil Hallward. Non è presunzione, ma è quel che è. D’altronde, anche per questo non mi do meriti particolari. So come vanno interpretate certe eventualità. E’ il soffio favorevole del mercato. Le fortune di oggi non fanno che annunciarmi il declino di domani. Io sono così. Realista. Già, ma non è di me che debbo riferirvi. Sostiene Henry, sempre lui: “Mai conosciuta forma di immodestia più alta della tua modestia, Basil!”. - Eppure, una certa presentazione è indispensabile, vi pare?... Va bene non darmi troppi meriti, ma se dobbiamo discutere di quell’incredibile ragazzo da un punto di vista squisitamente... pittorico, allora è diverso e quel poco che ho spartito con lui merita, forse, che venga risaputo. L’ho conosciuto alcuni anni orsono durante una delle mie rare sortite nel secolo, direbbe un religioso. Bene... tra una selva di zoppìe e di gote cascanti, volto l’occhio attorno, e lo vedo. Mi mozza il fiato. Come per qualcosa cercato da tempo immemore e che mi apparisse davanti proprio al momento in cui ogni speranza di successo fosse ormai svanita. Bastino a definirlo i termini usati tempo dopo da Henry scorgendone il ritratto che gli avevo dedicato. Alla lettera: un giovane Adone che sembra fatto d’avorio e di petali di rosa. Bene!... La padrona di casa si accorse al volo del nostro reciproco adocchiarci e si affrettò premurosa a fare le presentazioni. Curioso. C’era da credere che avessi interessato lui non meno di quanto lui avesse folgorato me. Ma anche su questo voglio sgombrare il campo da qualsiasi equivoco. Per me Dorian rappresentò, dall’istante in cui mi si rivelò, l’ideale di un nuovo esemplare umano. Il modello primario di una bellezza etica, ancorché fisica. il mio Antinoo... la mia scintilla di Prometeo!... Ah, se solo qualcuno di voi fosse pittore, o scultore, mi capirebbe benissimo. In poche parole: lui era nato per essere ritratto. Da me. E il ritrarlo mi elevò a un livello di pittura che non avevo mai conosciuto prima. Furono giorni di febbre intensissima quelli in cui nacque il quadro. Dorian si dimostrò, invero, un modello estremamente indocile. Ho dovuto essere molto duro per costringerlo a starsene fermo sullo sgabello. Una vera lotta. Di notte, da solo, me ne rammaricavo sino alle lacrime, ma mai una volta che il giorno appresso gli abbia chiesto di perdonarmi. Anzi... più lui ricominciava ad agitarsi, più io a trattarlo male. Ci sono stati momenti in cui tra noi è intercorso dell’autentico odio, ma qualcosa ci costringeva a insistere. Per me, era l’opera nascitura. Per Dorian, non saprei dirlo. La vanità?... No, non credo. Per quella, uno specchio sarebbe stato sufficiente ad appagargliela. A ogni modo... solo l’ultima seduta la ricordo meno faticosa delle altre. Ma forse per le particolari circostanze in cui si svolse. Tanto per cominciare, fu il giorno in cui presentai Dorian Gray al mio amico Henry, che da tempo smaniava per fare la sua conoscenza. Sapevo che avrebbe attratto il giovane a sé in maniera definitiva, ma non m’importava. Il quadro che avevo dinanzi, già quasi compiuto, mi bastava a testimoniare l’adempimento del mio desiderio. Vale a dire: l’aver messo l’imprimatur su una forma che nessun altro artista, prima del sottoscritto, poteva vantarsi di aver mai tradotto in materia creata. Infine, do l’ultimo tocco di pennello. Mi tiro un passo indietro, e osservo. Consummatum est. Null’altro è più da aggiungere. La reazione di Dorian nello scoprire il risultato delle mie fatiche fu quasi di istintiva ripugnanza. A respingerlo, forse, un eccesso di avvenenza che non osava riconoscersi. O la sensazione che quell’immagine mancasse di qualcosa, e come se tanta bellezza fosse solo nebbia per occultare questa assenza d’altro. Ma di che?... Io stesso azzardai: “Certo. Qui non vi è che il succo della giovinezza che stai vivendo. A mancare sono tutte le tue età future.” - Ecco, allora, che in Dorian la repulsa si mutò quasi in ribellione: “Lo odio! Lo odio!”, si mise a esclamare con una veemenza sin quasi teatrale, sostenendo l’assurdità per cui il ritratto, fatto di sostanza inerte come il grasso dei colori e i fili della canapa, potesse scamparla al decadimento della vecchiaia, mentre lui invece no. Lo ossessionava il solo pensiero che ogni ora, ogni minuto avvenire avrebbero segnato progressive e crudeli dissomiglianze tra la fissità dell’opera e le mutevoli fisionomie reali del suo modello. Ossia, le sue. Lo ricordo strepitare come fosse adesso: “Questo non è un quadro, è una maledetta clessidra!”. Vi garantisco che l’angelico Dorian Gray, quando vuole, sa apparire pazzo come pochi. Comunque, alla fine si convince a prenderlo con sé e la sera stessa se lo fa trasportare a casa. Da parte mia... unica clausola della donazione, che potessi riaverlo nel caso mi fosse stato proposto di esporlo. I giorni successivi alla separazione dalla mia creatura furono strani... dolenti. Innanzitutto, patii un crollo delle forze e uno spegnersi totale dell’immaginazione. Poi, notai con sollievo che la compagnia di Dorian non mi era affatto necessaria come avevo temuto. Tutt’altro. Spesso, anzi, provavo disagio a stare con lui. Forse perché mi ero abituato a una intimità che non era più possibile. A noi, infatti, si era aggiunto in pianta stabile Henry dando un tono completamente nuovo al nostro frequentarci. Si avviò, così, tra me e Dorian, una serie di abitudini più intese a maturare un lento distacco che a rinsaldare un rapporto. Abitudini che, di volta in volta, toglievano emozione già solo all’idea di passare del tempo insieme. E pensare che l’emozione allo stato puro era stata all’origine della nostra amicizia! Ma, in fondo, quel che stava accadendo lo volevo anch’io. Dorian mi aveva costretto a una condizione per me inabituale di pressione eccessiva, e, tutto sommato, il sodalizio che andava maturando con Henry era decisamente fatto molto più a sua misura. Ben presto i nostri incontri finirono così con l’affidarsi quasi del tutto alla casualità. Ci si vedeva soprattutto nei salotti, dove io mi affacciavo sempre più di rado, mentre lui ed Henry, in quei contesti, rappresentavano una conditio sine qua non perché una serata potesse giudicarsi perfettamente riuscita. Fui perciò molto sorpreso quando Dorian confidò a entrambi di essersi innamorato. Confesso: ne fui pure commosso. La fanciulla che lo aveva conquistato era una giovane attrice, orfana di padre, a sua volta figlia di attrice e con un fratello che era in procinto di lasciare madre e sorella per andarsene in giro per il mondo. Credo, marinaio. Le relazione, insomma, si prospettava piena di insidie anche sotto il profilo della convenienza sociale. Sicché, ansioso di un nostro parere, Dorian ci trascinò a teatro per farcela ammirare. La verità? Non posso dire di esserne rimasto particolarmente turbato. Graziosissima, certo, ma niente di più. Quanto a virtù sceniche, zero. La cosa, comunque, è marginale. Importante, invece, è stata la reazione di Dorian alla delusione che vedeva dipinta sui nostri volti: una rabbia incontenibile contro la sua adorata. Noi preferiamo non rimestargli il coltello nella piaga e defiliamo via. Il giorno dopo, fulmine a ciel sereno... la tragedia. Leggo che la fanciulla è deceduta per aver ingerito una sostanza tossica. Vorrei correre immediatamente da lui, ma mi trattengo reputando più opportuno non interferire così a caldo nel suo dolore che immagino rovente. Lascio passare un altro giorno; inizio a considerare l’idea di andare a fargli visita quando vengo preso alla sprovvista da qualcuno che mi racconta di averlo visto lo sera prima all’Opera insieme a Lord Wotton e alla di lui sorella. Non posso crederci e glielo dico. Il mio informatore non sente ragioni. “Vuoi che non riconosca Dorian Gray?”, mi fa. Io hai voglia a ripetere: “No, credimi!... E’ impossibile!” - Quello insiste: “Credimi tu: era lui”. Come non bastasse, ci tiene a farmi sapere che era in splendida forma e che aveva l’aria di godersela un mondo. Mi precipito a casa sua. Quanto alla splendida forma debbo ammettere che la cosa corrisponde al vero. Gli chiedo ragione di quanto accaduto e ne ottengo un’ulteriore conferma. Tento di portare il discorso su quella sciagurata che giace morta da nemmeno quarantotto ore, e lui mi risponde decantandomi il garbo e le maniere di Lady Gwendalin Wotton con cui di recente avrebbe avuto l’onore di condividere un palco all’Opera. E io so che quel ‘di recente’ sta a significare: giusto ieri. Non so che replicare. Per la prima volta sono indotto a gettare un colpo d’occhio su un lato di Dorian che se sino al giorno avanti mi era completamente oscuro, e che, rivelandosi all’improvviso, mi restava comunque imperscutabile. Come un segreto che mi fosse stato tenuto segreto: ora sapevo che c’era ma non per questo sapevo che fosse. Scosso dallo sconcerto, ho una gran voglia di pensare ad altro. Cerco di convincermi che, in fondo, non ho alcun diritto di imputargli d’aver spacciato un misero capriccio per una grande passione. Tuttavia, è l’insieme dei fatti che mi suona strano. Qui non si tratta di una storiella finita e basta, di un banale tracollo dei sentimenti, ma di una giovane vita troncata da una morte imprevista, e se addirittura me ne sentivo coinvolto io che quella ragazzetta l’avevo vista appena qualche minuto nelle luci della scena, possibile che lui potesse ostentare nei suoi riguardi tanta indifferenza?... Noto che il mio quadro non è più alla parete. Anche per cambiare discorso e rifiatare, domando che fine abbia fatto. La risposta è vaga. Ritengo che possa essergli venuto a noia alla stregua della povera fanciulla. “Anche di questo - penso - che colpa posso fargli? Sono stato io che ho insistito sino alla nausea perché lo prendesse, lui nemmeno voleva”. Affronto la questione in modo diretto. Non pretendo di riaverlo, ma almeno di rivederlo sì. Si rifiuta nel modo più assoluto. “Ma come? - protesto - E se volessi esporlo?...”, e lui: “Non pensarci nemmeno!” “Scherzi! - gli faccio io - Altroché se ci penso! Ti ricordo che questo è il solo diritto che mi sono tenuto, e siccome il direttore di un salon parigino pare intenda dedicare una mostra alla mia ritrattistica, non penserai che io rinunci a portarvi quello che considero l’unico vero capolavoro uscito dalle mie mani!”. Avvampa. Evidentemente, il solo pensiero che il suo ritratto possa essere mostrato in pubblico lo sconvolge. Pretendo spiegazioni: “E’ così brutto?” - Nel tempo stesso in cui glielo domando mi rendo conto di essermi lasciato scappare una stupidaggine. E’ certo ben altro che tormenta Dorian. Ma cosa?... Allora ripenso alla tela e a quanta sofferenza avesse procurato anche a me nel dipingerla, e considero che, forse, è destino di un pittore e del suo modello finire vincolati da un legame ben più profondo di quando non si creda. E che è presunzione dell’artista quella di ritenersi l’unico ventre generatore. Non lo dico per generosità: è quel che ho appreso. Dove mai avrei potuto attingere la percezione di una nuova bellezza se la fortuna non avesse messo sulla mia strada l’incarnazione stessa di quella bellezza? Tanto che, incontrandola, il mio animo si è dimostrato capace di intenderla senza, però, che sino ad allora fosse stato capace di immaginarla. E questo è un fatto. Così mi son convinto che la protesta di Dorian meritasse tutto il mio rispetto. L’ho confortato, perciò, con la promessa che non avrei mai preteso di forza il riconoscimento di quel diritto, e che, anzi, ero disposto a rinunciarvi. Non potevo fargli regalo più grande. Mi ha abbracciato ripetendomi ‘grazie’ all’infinito. Tutto sembrava sistemato e ci siamo congedati in perfetta concordia. Per mesi non è più capitato che ci si rivedesse. Sino a pochi giorni fa. - No, che dico!... Sino a oggi, sino a stasera. Ma sì, certo... sino a stasera. Io, signori... io, in effetti, vi ho raccontato del nostro penultimo... solo del nostro penultimo incontro. Il penultimo prima di andarlo a cercare per salutarlo, visto che... visto che cosa?... Ma sì... visto che stavo per partire... che avevo già spedito i miei bagagli e non volevo lasciare Londra per oltre sei mesi senza averlo rivisto almeno una volta. Sei mesi?... Quando per almeno dieci non ci siamo neppure cercati. Il che, però, non vuol dire che io non abbia avute sue notizie. Terribili, peraltro. Il mio Antinoo, il mio nume ispiratore... ne sento parlare da chiunque come di un flagello, di una cancrena, di... di... di... oh... avessi tela e tavolozza, non cercherei altre parole per darvi un’idea di tutte queste infamie ma ne trarrei un’allegoria infernale che comprendereste al volo. Si dice di lui che sia il vizio incarnato, e che già tanti giovani siano stati sedotti da una lebbra dello spirito chiamata col suo nome. Dorian Gray. I più fortunati avrebbero dissipato solo l’onore, altri persino la vita. Ovvio: calunnie infami. Ma mi domando: possibile che siano tutte prive del minimo fondamento?... Ho bisogno di capire, di sapere, e decido di raggiungerlo. Arrivo. Non c’è. Il cameriere mi invita ad aspettarlo. D’accordo, accetto. In quale suburra, penso, sarà andato a ficcarsi?... Passano più di due ore. Non è più sera, è notte. Notte fonda. Disimpegno il personale che ha una gran voglia di andarsene a letto. Dico che rinuncio e me ne vado. Appena fuori, e me lo vedo venire incontro. Tutto chiuso nella sua pelliccia come in uno scafandro; mi rasenta senza neanche notarmi. Lo chiamo. Ha un soprassalto. Gli dico che ho il treno tra poche ore. Mi fissa stupito. Capisco che non sa nulla... “Parigi!... Ricordi il Direttore di quel Salon?... La mostra si fa”. Se ne congratula, ma la sue espressione è distratta. Mi invita a rientrare con lui. Lo seguo. La luce del camino me lo rivela in condizioni eccellenti. E questo sarebbe l’uomo di cui dicono le cose più turpi?... Fosse vero anche solo un decimo di quegli orribili pettegolezzi, ma i segni dovrebbero essere più che evidenti!... “Perché mi scruti così, Basil?... Che c’è?... Qualcosa che non va?”... Tremo. Il suo tono è volgare, minaccioso, e non esprime per niente la stessa serenità del suo aspetto. Al contrario. Quel tono sì che lo si direbbe imparentato con quanto si va raccontando in giro. Gliene parlo. Mi addolora non vederlo reagire. Come se non facessi altro che riferirgli cose note. Pretendo che le smentisca. Non lo fa. E’ come se fossimo a una resa dei conti. E questo, dunque... sarebbe avvenuto... ma quando?... Oggi stesso!... Poche ore fa!... Non capisco... mi sembrano cose così remote!... E sì. Ho gli stessi abiti di quando mi sono preparato per il viaggio. Forse un mancamento che mi ha fatto perdere la cognizione del tempo!... E questa curiosa richiesta di riesumare tutto, sino in fondo. Ma da chi è che mi viene?... Da voi?... Non importa, non importa. Va fatto, e si fa. - Abbiamo litigato. Credo molto. Gli faccio dei nomi. Tutta gente che è stata messa alla berlina per causa sua, tra cui la sorella del suo più caro amico. Anche lei. Inutile! Mica mi ascolta. Impossibile far colare una sola goccia di consapevolezza nella roccaforte della sua anima. Gli dico quel che penso della vita che conduce. Di quanto essa sia immeritevole di quello che egli è. “E chi chi sarei? - mi urla - Tu sai dirmelo?” “Io sì. E certo più di tanti altri.” “Allora spiegamelo! Sono curioso, ti ascolto”, e mi rimanda un’espressione di sfida carica di disprezzo. Gli ricordo i giorni passati insieme nel mio atelier. Mi implora di non essere patetico. Arrivo persino ad accusare Henry per la sua influenza nefasta, e a rimproverare me per non averla saputa prevedere. Torno sul quadro. Mi accanisco con la convinzione che è tempo di capire come mai sia stato così decisivo per entrambi. Pretendo che me lo mostri: “Se l’hai distrutto, dimmelo, e non te ne parlerò mai più. Altrimenti, voglio vederlo” “E perché?” “Perché c’è il meglio di me lì dentro. E forse anche di te.”- Replica con un’espressione straziata, come di chi sia giunto al limite, poi cedendo mi dice quasi con un filo di voce: “Il meglio di me!... Ne sei sicuro, amico mio? - e ridacchia strano, un po’ da matto... - Ma sì... forse te lo meriti. Forse è giusto che tu ti renda conto di quello che hai fatto”, lo guardo senza aprire bocca... che sta dicendo?... A che si riferisce?... “Seguimi, Basil... a questo punto non vedo l’ora che tu lo scopra da solo in cosa consista il meglio di me e in che modo quel dannato dipinto se lo sia succhiato sno alle midolla.” “Allora esiste ancora?!... Corre voce che sia stato deturpato da un restauro” “Deturpato, sì!... Deturpato è la parola giusta. Vieni, vieni!....”, impugna un candelabro e mi fa strada. Saliamo alcune rampe di scale. La porta della soffitta è serrata con un catenaccio che pretende molto giri di chiave per farci entrare. Che tesoro potrà starci lì dentro, penso, da richiedere tanta protezione?... Ciarpame!... Quello che vedo, una volta dentro, è solo ciarpame, mondezza e polvere. Lui procede tenendo le candele ben alte. Eccolo... riconosco il telaio poggiato a una parete. Solo quello, poiché la superficie è coperta da un drappo violastro sudicio e tarlato. “Il tuo capolavoro... Maestro!”, si diverte a sbeffeggiarmi, è evidente, e non ne capisco il motivo. Insiste: “Sù, manda qualcuno che te lo spedisca a Parigi!”, non ho il coraggio di muovere un passo. “Allora?... Volevi tanto rivederlo!... Avanti impara a conoscerlo. E impara a conoscere chi sono io!” - Pochi minuti fa!... Tutto questi è successo solo pochi minuti fa!... Risento la sua voce non come evocata dalla memoria, ma come l’eco di un suono reale, di parole appena pronunciate. Avanzo... tendo la mano, impugno la stoffa, la scosto... o forse non io, ma lui... sì, lui: la fa cadere, e quel che vedo è spaventoso. Ah, dove il mio Antinoo?... Dove i miei colori?... Dove i miei sfumati sulle carni in boccio?... Tutto devastato da un’alterazione immonda. L’avorio e le rose... dissipati... sfatti... rovinati in chiazze orride, giallastre... la pelle rifinita, slabbrata nella sdrucitura delle rughe... le labbra torte in una piegha oscena... “Eccolo il meglio di me! - mi grida lui alle spalle - Ecco la tua creatura! Ecco quello che sono!” - mi volto. E’ lì. Giovane e bellissimo. D’avorio e di rose, arso dalla luce del candelabro. Lo imploro di non guardarmi a quel modo. Poi... poi sono confuso. Davvero troppo confuso. Crollo a sedere su una seggiola che sta lì a un passo da me. Fisso il niente. Ho la sensazione che Dorian si stia avvicinando. Ne percepisco i passi ma rimango immobile. Con lui in silenzio... e io immobile. E’ come se in quel silenzio l’avessi perso per sempre. - Basta. Non ho altro da giungere. La mia storia termina qui, dove termina la sua per me. Chiedete a Lord Henry Wotton che vi parli di Dorian Gray. Io quel che ricordavo l’ho detto. Quel che però non so, è se corrisponda davvero a tutto quello che so.
Terzo movimento
Non ho mai voluto quel quadro. Basil mi ha quasi obbligato a prendermelo. Potevo dirgli di no? Sembrava così scortese rifiutare che mi è toccato portarmelo a casa. Una storia che non avrebbe dovuto nemmeno avere inizio. Posare mi stancava, e d’essere ritratto non ne avevo alcuna voglia. Mi sono domandato tante volte perché abbia accettato. Forse per lui. Appena conosciuto mi interessava, e sarebbe stata una maniera, pensavo, per frequentarlo. Che delusione tremenda! Apriva bocca solo per dare ordini... “Fermo con quella mano! Non chiudere gli occhi! Non muovere la bocca!” - Ammetto che farmi guardare in un certo modo mi piacesse. Come può guardarti un pittore che voglia tradurti in opera d’arte. Con sguardi che ti scompongono e ricompongono. Sguardi osceni. Un’emozione, comunque, dal fiato corto. Ogni volta che si presentava il giorno di dover andare all’atelier mi sentivo come uno scolaretto da trascinare in classe con le catene. Certo è che quel quadro non lo volevo. E tanto più quando lo vidi terminato. Di una bellezza talmente ovvia!... Era la mia, punto per punto... senza un briciolo di immaginazione. Solitamente ci si fa ritrarre per essere lusingati da un’avvenenza aggiuntiva... da una perfezione che non possediamo ma che il nostro aspetto tiene celata in maniera potenziale e che l’artista sa scovare. Oppure, perché il volto esprima la bellezza di un mondo interiore altrimenti impercepibile. Nel caso del lavoro fatto da Basil, invece, dove il guadagno? Dove il senso?... Ero stato duplicato, e con ciò?... Chi era quell’altro me stesso imprigionato nella tela?... Forse un nemico. Qualcuno che si era cibato di me per venire al mondo. - Ancora ho nelle orecchie, a opera compiuta, le espressioni giubilanti di Henry. Parlava di capolavoro e insisteva per stimolarmi nell’orgoglio. Come se io fossi stato l’ispiratore di una nuova dimensione estetica. Basil, invece, aveva l’aria estenuata di una puerpera. Ridicolo. Faceva mostra di umiltà, ma dentro, ci scommetto, gongolava come un pavone. Io, intanto, avevo quasi paura. Avvertivo un che di minaccioso nell’intera vicenda, ma m’affrettai a chiudere la questione consentendo a prendere il quadro. Irritatissimo, ma lo feci. Dapprincipio riservai alla tela un posto d’onore nel salotto. Così almeno, mi dissi, il giorno che Basil verrà a trovarmi crederà che ci tengo. Non solo! Lo feci anche per abituarmi a quel mio doppio che avrebbe mantenuto intatta la maschera della giovinezza pur quando io mi fossi fatto decrepito e cascante. E, al pensiero, la mia irritazione si faceva vieppiù rovente. “Ti odierò! - pensai - Ti ho odiato da subito e non smetterò mai di odiarti. Ma quest’odio voglio affinarlo in una regola. Addestrarmi a te, questo voglio... a te e a quel che provo per te. E renderti innocuo sino al punto che, guardandoti, tu possa apparirimi vuoto, fatto di niente... solo un ammasso confuso di colori senza più colore.” - Così ho cominciato a odiare il quadro con una passione del tutto nuova, e non ci volle molto perché quell’odio si traducesse in una sfida continua, assillante, che consisteva nello scrutare lo scorrere dei giorni sul mio viso mentre il dipinto avrebbe insistito a ribadire la sua tracotante immunità dai segni del tempo. Insomma, una sfida che sarei stato costretto a perdere quotidianamente. E quanto ho implorato che non fosse così!... Che toccasse a quello invece che a me!... Allora ho imprecato, bestemmiato, maledetto. Nessuno che mi abbia sentito farlo. Solo la mia anima lo sa. Basil non si è mai reso conto del suo misfatto. Tantomeno Henry, che delle cose sa cogliere solo la lucentezza messa a fare da epidermide all’apparenza. Per questo, in fondo, sapevamo andare tanto d’accordo. Con Basil, uguale. Se riusciva ad essere leggero, cosa rara ma poteva accadere, starci insieme era una delizia assoluta. Soprattutto a quadro finito. Tra l’altro, mi sorpresi nel notare quanto fosse poco propenso a parlarne. Sono arrivato al punto da sospettare che il suo regalarmelo fosse stata una maniera per liberarsene. Cos’è? Ne aveva paura anche lui?... E perché?... O forse sapeva qualcosa che non aveva voluto dirmi?... E così arriviamo alla vicenda Sybil Vane. Quella fanciulla io l’ho amata sul serio. Amata moltissimo. E per pochissimo. Ma le due cose possono anche andare di pari passo. Recitava, e, se voleva, sapeva farlo magnificamente. Ora, sarà un gran torto il fatto che questo suo saper recitare abbia avuto una parte considerevole nel mio innamorarmi di lei?... Non vedo perché. Sybil poteva essere per me l’arpa attraverso cui penetrare i misteri della poesia. Adoravo le permutazioni incessanti della sua anima che la facevano essere, di volta in volta, Porzia, Rosalinda, Cordelia e Giulietta, e mai se stessa. La sua bellezza era un dato secondario, o perlomeno intrinseco a questa sensazione di sopraffino godimento intellettuale. Ognuno di noi, se ama, ama per un motivo e non per un altro; purnondimeno, quale che sia l’occasione che ci fa innamorare, il nostro amore può essere comunque devastante, comunque estremo. E dunque, io amavo Sybil Vane perché attrice, e, in particolare, perché sapeva essere l’attrice che era. A patto, però, che lo volesse. Qui sta il punto. Scoprire che questo desiderio non fosse suo quanto mio fu causa della sventura. - Sybil mi ha umiliato davanti ai miei amici che mai avrebbero creduto a certe dichiarazioni d’amore se non fidando ciecamente in quanto gli raccontavo. Cioè a dire, nell’enormità del suo talento. E invece... come quella sciagurata ha aperto bocca m’ha fatto toccare il culmine della vergogna. Eppure io sapevo di cosa fosse capace! C’è da sorprendersi se dopo, a scempio consumato, io l’abbia aggredita chiedendole ragione di un simile dispetto?... E lei, per tutta risposta... un sorriso da qui a qui e un’aria beata da rivoltare lo stomaco. Pretendo che si spieghi. La mia collera non sgualcisce di un’unghia la gioia dissennata che la invade. Mi dice che l’avrebbe fatto per dimostrare a se stessa quanto il teatro non le fosse più necessario, e che trucchi e costumi potevano pure marcire nelle cassapanche, che l’importante, ormai, era poter convolare tra le mie braccia come la più devota delle mogli. Mi faccio di pietra. Con grande senso della misura le annuncio che, ipso facto, la mia passione nei suoi confronti può considerarsi svaporata, annichilita. Sbianca. Non può crederci. Glielo ripeto sino a convincerla: “Con la tua idiozia hai ucciso il mio amore. Non mi vedrai mai più!”, e me ne vado. Ricovero a casa che già sta albeggiando. Stremato, mi siedo alla scrivania del salotto. L’occhio mi casca sul quadro, che, per una sorta di strana precauzione, tengo in parte nascosto dietro un paravento per non rischiare di vederlo a meno che non voglia. Una cautela che stavolta fallisce. La mia posizione alla scrivania è tale da mostrarmelo in pieno. Noto qualcosa su cui m’impongo di non soffermarmi. Una ruga. Una ruga che non so di avere e che non ricordavo Basil avesse dipinto. Dopo qualche minuto mi decido a controllare in uno specchio. Il mio viso, in effetti, ne è indenne. Ma non voglio saperne. Penso a Sybil. Mi rammarico della mia durezza. Mi rimprovero per quel che le ho detto. Come se avvertissi di averla condannata. Decido di scriverle per ribadirle la mia promessa matrimoniale. Sto giusto terminando la lettera quando vengo raggiunto da Henry. Mi dice che la ragazza è morta. Nientemeno?!... Sì, morta. Pensava che lo sapessi. Casco dalle nuvole. Ostento un vago tracollo. Lui mi soccorre nel tentativo di frenare lacrime che non arrivano. Vorrei esprimere un dolore che, per quanto mi scavi dentro, fatico a far emergere. Al massimo, mi sento vellicare da un fastidio che mi giustifica in via definitiva per le cattiverie che le avevo vomitato addosso. Mandar giù della biacca per il trucco... che gesto svenevole, frivolo, volgare! Da pessimo teatro. Proprio come quello che, la sera avanti, non si era peritata di evitarci. Oltretutto, che vi fossero buoni motivi a sostegno del mio stato d’animo fu lo stesso Henry a farmelo capire invitandomi per quella sera stessa all’Opera. Con una punta di malizia ci tiene a sottolineare che sarà presente anche sua sorella. Donna discretamente anonima... scialba, vulnerabile, di quelle che le tocchi e gli lasci un livido, e che proprio perciò è gradevole trascinare in qualche giochetto alquanto fuori dalle norme. Tant’è, la cosa mi ravviva. Non dico un sì immediato solo per un delizioso ossequio all’ipocrisia sociale che il mio amico percepisce al volo. Non dubito, comunque, che mai per un istante abbia dubitato della mia determinazione ad esserci. La sua capacità di intuire le pieghe del mio spirito è virtù che mi ha sempre stupefatto. E se ne va. Di nuovo solo, sguardo e pensieri mi ricascano sul quadro. Ma nel frattempo ho mutato posizione alla seggiola quel tanto che basta a negarmene una visuale piena. Potrei approfittarne per lasciar cadere la cosa e non pensarci più. L’avessi fatto!... Invece no. Mi alzo, scosto il separé e mi soffermo ad analizzare l’immagine ben bene. La ruga che avevo notato in pecedenza non me l’ero inventata affatto: c’è; e, se possibile, ancora più marcata di prima. Recupero ancora lo specchio. Mi carezzo coi polpastrelli laddove dovrei esserne segnato anch’io... più o meno qui... a metà della fronte, e non tocco né vedo altro se non una pelle rosea e liscia che rincuora. Allora, sollevo la mano a sfiorare il ritratto per sincerarmi che non si tratti di un cedimento causato dall’essiccazione delle vernici. Macché. Quella ruga è davvero pittata. Come, peraltro, due solchi che fiancheggiano gli angoli della bocca alludendo a un principio di smorfia malvagia che, francamente, non mi riconosco. Né lo specchio la rivela. Torno alla scrivania. Sono sconvolto. Provo a ragionare, a darmi dei perché. La logica mi è di pessimo aiuto. Rifuggo nell’incredibile e d’incanto la soluzione mi si profila chiarissima. Che le mie reiterate implorazioni siano state esaudite?... Certo, per forza. Che la mia sfida al dipinto abbia avuto buon esito?... Certo, per forza! Ripenso a quando mi figuravo quel quadro irridermi proclamando: “Guardami e patisci! Tu non sarai più così! Non sarai più così! Non sarai più così!...”, ora potrei essere io a farmi beffe di lui lanciandogli contro gli stessi anatemi. Cosa conviene che faccia? Esserne spaventato o gioirne?... Decido di non pormi il problema, mi preparo per la sera ed esco. - La mattina appresso ricevo la visita di Basil. Lui sì che non sa capacitarsi di trovarmi tutt’altro che schiacciato dalla sofferenza. Mi riprovera il mio ottimo stato di salute come la più irredimibile delle colpe. Ha il cuore in palpiti. Non riesce a credere che, pur essendo stato informato della povera Sybil, io abbia potuto andarmene tranquillamente all’Opera. Il buffo è che, con una parte laterale della coscienza, riesco quasi a comprendere il perché del suo sconcerto. Parlo di quella parte della coscienza incapace di dar credito a se stessa. Quella, insomma, di cui avvertiamo i rimproveri ma intrisi di una petulanza che li svuota di ogni senso. Con Basil mi accadeva lo stesso. Sapevo che aveva ragione, ma la sua ragione mi pareva patetica. Molto più rimarchevole, a confronto, il torto del mio disamore. Molto più solenne, e, in qualche modo, assai più bello. Per non dire che l’essere bello era, ed è, la sua virtù primaria. Poiché il bello, aggiungo, non ha nessun obbligo di dover essere anche giusto, e men che meno buono. E se lo è, lo è per caso. E, a volte, con fastidio. Astruso?... Ne ragionerò invecchiando. Dunque, mai, se questo supplizio, a quanto sembra, m’è negato. E da chi? Da quel quadro che marcisce al posto mio. Attenzione!... Non dico solo invecchia, ma marcisce. Invecchiare è di chiunque, marcire no. E’ cosa in cui l’anima è implicata, e la mia lo era. L’avevo gettata al fondo d’ogni sentina ove fosse possibile esporla al degrado dell’esperienza, ed essa mi rendeva grazie spurgando lontano da me il veleno del suo disfarsi. Ma con ordine, con ordine!... Sempre che sia possibile raccontare con ordine il disordine, e qui si tratta di evocarne la quintessenza, che è lo stesso che dire: la quintessenza della mia vita. Ah, poterla mostrare come un paesaggio, la mia vita! O intonarla come una melodia! Ne verrebbe un inno a quel disordine che è mescolanza di infiniti ordini e vilipendio di ciascuno. Sicché: un capolavoro, che non in un quadro ma in un libro ha trovato semenzaio al suo sviluppo. Un dono di Henry. Fu lì che sperimentai il primo vero incontro con me stesso e che cavai il pane di tutte le mie fantasie da realizzare nella più assoluta sbrigliatezza dei sensi. Tal quale l’eroe di quel romanzo di cui intesi divenire l’epigono reale. L’opera, difatti, raccontava di una fame inesausta e implacabile. Fame di cose e di corpi. L’autore non avrebbe mai potuto immaginarsi che un giorno le sue pagine si sarebbero imbattute in un lettore capace di voracità identiche a quelle del giovane dissennato che egli si era prefisso di rappresentare. L’homo novus prodotto da un parto della fantasia ne germinava adesso uno vivo e vero, di carne e sangue, sguinzagliato sulla scena del mondo. Ero io quello. Io che ho fatto, avuto e vissuto tutto e di tutto. Io che ho masticato infiniti corpi e rimesso il mio tra infinite fauci. E niente, mai, che, a vedermi, potesse far intendere la vita che vivevo. La corruzione non aveva luogo sul mio volto, ma era dirottata altrove: lì, dietro quel separé, sull’imagine dipinta che, in breve, si mutò in un memento impossibile da tenermi affianco. Specchio sbalestrato e fuori sesto, eppure pronto a denunciare la turpitudine di cui mi stavo cibando. Non potevo correre il rischio che qualcuno, scorgendolo, penetrasse il senso del sortilegio e intuisse la devastazione che, trasposta sulla tela, era impossibile vedermi addosso. Così decisi di separarmene e, nottetempo, coperta quell’infamia con un panno che impedisse ai trasportatori di sorprendersi dinanzi all’immonda rappresentazione che vi era raffigurata, l’ho fatta rinchiudere in soffitta, dove mi ripromisi di tenerla relegata ab aeternum con l’intento di esiliarla tanto dallo sguardo quanto dal ricordo. Imputridisca pure, ma a mia insaputa!... Quel che avvenne. Da allora sono passati anni, e, a giudicare dal mio aspetto, impunemente. Almeno per me. Viceveversa, non direbbero lo stesso tutti coloro che hanno popolato le mie imprese e che ne sono stati, direbbe Basil, macinati. Travolti. Disastrati. La sciocca Gwendalin, ad esempio. Non per nulla suo fratello ci teneva che la conoscessi: l’amava poco. Comprensibile. Lui non ha mai dato troppo peso a quegli affetti obbligatori che sono frutto di parentele da cui spesso non deriva la minima affinità interiore, e perciò pensò bene di rimettermela tra le mani quando era a un passo dal maritarsi. Così fu che la petite pauvre, disonorata, si giocò, in un sol colpo, talamo, amor proprio e voglia di vivere, ma, inadatta agli impeti teatrali di una Sybil Vane, pare abbia preferito la clausura al suicidio. Vicenda di non secondaria importanza, poiché fu l’esito della sua sorte che mi indusse all’imperdonabile debolezza di riallacciare i rapporti col mio diabolico alter ego recluso sù in soffitta. - Le cose andarono così. Dopo aver svergognato quella buona donna, ebbra d’amore, che una sera ho costretta a farsi brutalizzare in pubblico, cominciai a sentirmi rodere dalla curiosità di sapere semmai la pessima azione che avevo commesso fosse leggibile in qualche ulteriore mutamento sopravvenuto nel dipinto. Incapace di resistere, eccomi, perciò, far scattare i lucchetti, avventurarmi tra le ragnatele, scostare il panno, sollevare la lampada e ritrovarmi faccia a faccia con una carie orripilante che marchiava le fattezze di un vecchio in cui avrei dovuto riconoscere, sissignori, chi?... Me stesso. Capii all’istante che la mia curiosità l’avrei pagata a caro prezzo, e che quel ritratto, ormai, sarebbe diventato parte imprescindibile di ogni mio pensiero. Mi tornò in mente la sfida di un tempo e me ne feci portavoce per una seconda volta: “D’accordo!... - ringhiai - Accetto il tuo insulto, e accettarlo sarà la moneta con cui pagare la vita che vivo!” - Fui di parola in tutti i sensi prendendo l’abitudine di salire in soffitta giorno dopo giorno per impormi quella penitenza a compenso del fatto che, giorno dopo giorno, le mie abiturdini si andavano facendo sempre più smodate. - Una sera, rientrando prima del solito, vedo Basil uscire da casa mia. M’indispettisco. Vorrei svicolare ma è troppo tardi. Mi stringo nella pelliccia e tiro dritto nella speranza che l’oscurità gli impedisca di riconoscermi. Speranza vana. Mi chiama. Faccio finta di sorpendermi. Mi racconta, blà blà, di una sua mostra a Parigi e che per sei mesi si trasferirà in Francia. Bene, me ne compiaccio. Poi, con aria grave mi spiega che ha bisogno di parlarmi. “Successo qualcosa?” “Nulla in particolare”... ha circa una mezz’ora prima di dover essere alla stazione - i bagagli, mi spiega, li ha già spediti - e insiste perché gli dedichi qualche minuto. Così rientriamo. La servitù dorme, nessuno ci vede. “E dunque? - gli faccio - Ti ascolto”. Gli avessi indicato un pulpito dicendogli: “Accomodati!” sarebbe stata la stessa identica cosa. E’ preso da una smania inarginabile di riferirmi tutto quello che si dice su di me. Implora perché mi difenda, perché confuti, neghi. Non ci penso nemmeno. Ricordo che a un certo punto viene fuori anche il nome di Gwendalin a rimorchio di un appello che ne comprende infiniti altri... tutta una lista di maschi e femmine che io avrei contribuito in varia misura a rovinare. Poi qualcosa mi si muove dentro: un principio di disgusto che è disgusto per il suo disgusto. Per il disgusto che Basil ha di me. Un disgusto che non ha il diritto di provare. L’ha dipinto lui quel quadro, per la miseria!.... E’ lui il fautore del patto che mi consente di essere chi sono senza dover mostrare ciò che divento. E glielo grido in faccia. Non mi capisce, e quando lo sento straparlare di qualcosa che avrebbe a che fare col meglio di me, gli propongo di guardarlo dritto in faccia una volta per tutte quel meglio di me.... “Vuoi?... Vuoi?...” Niente! Il digraziato ancora non capisce. Prendo un candelabro e gli dico di seguirmi. Lo porto in soffitta. Salendo, incespica tre volte come Cristo verso il Golgota. La cosa si intona al personaggio e mi fa ridere. Ricordo il rosicchiare dei topi e un odore di muffa che mi pare di sentire per la prima volta. Su un tavolo, nell’ombra, riconosco i resti di una squallida colazione consumata lassù, standomene seduto di fronte al mio dèmone. Faccio scivolare il panno e impongo a Basil la luce delle torce perché veda bene la miseria in cui si è tradotta la sua opera. Farfuglia qualcosa di incomprensibile. Parla di tossici minerali... di probabili reazioni chimiche. Poi s’azzittisce. Io pure. Crolla a sedere e non fa più nulla. Un buffone!... Ha deciso della mia vita e non è che un buffone. Penso ai bagagli già partiti, ai sei mesi in Francia, al fatto che nessuno ci ha visto rientrare, e mi pare così semplice, così banale, che non farlo sarebbe da sciocchi. Prendo il coltello dal piatto della colazione. Raggiungo Basil alle spalle e gli sego l’arteria del collo. E’ un amen. Lo lascio lì e me ne vado a dormire. Il giorno dopo, il pensiero del cadavere in soffitta non è il primo che mi passi per la testa appena sveglio. A metà mattinata do ventiquattrore di licenza al personale e mando il cocchiere a recapitare un biglietto a un antico discepolo di piacevolezze notturne facendogli sapere che ho urgenza di vederlo. Costui accorre nel giro di pochissimo, e non tanto per solerzia professionale in quanto medico, ma poiché mi teme. Gli spiego la situazione e lo prego di far scomparire quel corpo che se ne sta sgozzato qualche metro sopra di noi. Sulle prime trasecola, ma infine è costretto a credermi. Prova a rifiutarsi, gli ricordo alcune cose che lo riguardano e non può che consentire. Gli metto a disposizione gli strumenti necessari. Passa diverse ore sù in soffitta. Quando ne riscende m’assicura che non c’è più traccia di nulla. E’ frastornato da una sorta di malessere spirituale di cui non m’impiccio. Rimando a un suo eccesso di fragilità l’essersi tolto la vita appena un mese appresso. Non mi si chiacchieri di responsabilità! Quel che gli ho dato non è certo meno di quel che gli ho preso. Comunque, né il pittore né il medico, con le loro dipartite, rappresentarono interruzioni effettive nei ritmi consacrati della mia esistenza. - E passano, così, altri anni finché, nel via vai di un postribolo, qualcuno m’aggredisce prendendomi per il bavero e schiacciandomi contro un muro. Blatera cose assurde. M’accusa per il fatto che una puttana mi avrebbe testè chiamato ‘il mio Principe Azzurro’, cioè come la sua adorata sorellina chiamava il tipo per cui si sarebbe avvelenata. Diavolo, uno squarcio tra le nubi: mi trovo davanti a James Vane, il fratello di Sybil, quello che se n’era andato per mare all’altro capo del mondo. E mi sta strangolando, perdio! Annaspo... col poco fiato che ho lo imploro di ragionare... mi dica almeno da quant’è che è morta sua sorella... “Da quandicianni!”, mi fa... “E io, secondo te, che età avrei?” - Tanto basta per accendergli un lume di intelligenza. Allenta la presa, si scosta, mi squadra, e balbetta... “Ventidue, ventitré”... - Tossisco, mi massaggio il collo, e con la voce ridotta a un rantolo gli domando se ce la vede sua sorella che si ammazza per un bambino di sette anni. Il demente fa: “Oh-oh!”, e si prosterna in mille scuse e insiste per accompagnarmi al più vicino ospedale. Neanche lo ascolto e filo via di gran carriera. Prima di svoltare l’angolo vedo con la coda dell’occhio la puttana di prima che gli si accosta e m’accorgo che i due si mettono a chiacchierare. Quella sa tutto di me. Per di più, mi odia a morte. Si ricorda di Sybil e mi chiama ‘Mio Principe Azzurro’ a bella posta, con intenzione. Ma ecco che il bastardo spalanca gli occhi e aguzza le orecchie! Meglio sparire. Già, ma fino a dove e per quanto?... Il mio indirizzo in città lo sanno tutti, così decido per un soggiorno nella mia casa di campagna. - Com’è possibile, mi domando, temere la morte essendo esentati dalla paura di invecchiare? - Mi circondo di persone. Più che posso. Ne chiamo a raccolta di ogni risma. Amici e sconosciuti. Questa sorta di mantello umano sopisce per un poco il mio terrore che rinfocola improvviso un pomeriggio di pioggia quando un lampo scudiscia l’orizzonte accendendo come una visione il ceffo di qualcuno dietro il vetro della serra. E’ lui. Domando attorno. Chi? Dove? Come? - Nessuno che l’abbia visto, ma io sì. Io sì!... Precipito in un pozzo dove non giungono suoni che non siano quelli che mi chiamano dalle viscere dell’incubo. - Quando, giorni dopo, si scatena un gran trambusto per un incidente di caccia in cui avrebbe perso la vita un battitore, io non so come fingere una partecipazione che non sento affatto. Tuttavia, recito la mia parte al meglio e, a Dio piacendo, ne vengo ripagato. Si scopre che la vittima non era uno di casa. Ne colgo una descrizione sommaria e non oso credere a quello che immagino. Inforco un cavallo e volo alla stalla dove è stata composta la salma. Mi viene incontro Henry... lo caccio via e vado al letto di paglia coperto dal sudario che sollevo con un strappo violento. Quel che vedo mi fa urlare: “Vivrò!... Vivrò!” - Chi mi voleva morto, se ne sta lì stecchito. Un trionfo sugli orditi del fato che matura in me una poderosa sensazione di potenza. Dorian Gray non solo non invecchia, ma neanche può morire. Ne debbo approfittare. E’ tempo di far piazza pulita col solo nemico che ancora mi rimanga. Torno a Londra. A casa. Per le scale. Tra le muffe. Nella soffitta. Lì! Davanti al quadro. Tutto è rimasto come la notte in cui salii con Basil. Anche le stoviglie sul tavolo, e anche il coltello. Ripulito mille volte e scintillante come forgiato di fresco. Impugno il panno e lo tiro via con la stessa determinazione usata per scoprire il volto di James Vane. Ovviamente, il ritratto non ha cessato per un istante di raccontare la mia storia. Quel grugno mostruoso appare sempre più infognato nella propria melma. “Non sei più me! - gli urlo - Non sei più me! Io ho finito di espiare, e tu hai finito di servirmi!”... sollevo il coltello e colpisco... una volta, due volte, tre... e poi... quali altre cose?... Quali altri gesti?... Dovrei essere ancora al mondo... quella tela al cimitero, e io pur sempre al mondo!... Ma ho parlato di quando? Di ieri o di adesso?... E chi è che ha raccontato?... Il modello o l’opera?... - Questa mano è liscia... chiara... perfettamente tornita... quest’altra, invece... un cencio di grinze su grinze, e ossa ritorte come zeppi!... - Quel foglio cos’è?... Una lettera di Henry?... Dalla scrittura si direbbe... “S’udì un grido e un tonfo. Il grido fu così dolorosamente tremendo che i servi spaventati si svegliarono e uscirono dalle camere. Entrati, videro appeso al muro uno splendido ritratto del loro padrone, quale l’avevano visto l’ultima volta in tutta la magnificenza della sua bellezza e gioventù. Per terra giaceva un uomo, morto, con un coltello piantato nel cuore. Aveva i capelli bianchi, il viso rattrappito e ripugnante. Soltanto esaminando gli anelli riuscirono a riconoscerlo.” - Anelli?... Già... dove sono?... Chi me li ha tolti?...