Il conte Caramella

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IL CONTE CARAMELLA

Carlo Goldoni

Dramma Comico per Musica da rappresentarsi nel Teatro posto in Contrada di S. Samuele

l’Autunno dell’Anno .

PERSONAGGI

SERI

La CONTESSA OLIMPIA moglie del conte Caramella.

La Signora Catterina Zipoli.Il MARCHESE RIPOLI di lei amante. Il Sig. Salvador Conforti.

BUFFI

GHITTA serva rustica della Contessa.

La Sig. Serafina Penni.CECCO contadino di lei amante.

Il Sig. Giovanni Leonardi.

BRUNORO contadino e tamburino di truppe suburbane.

Il Sig. Bartolomeo Carubini.

MEZZI CARATTERI

DORINA giardiniera della Contessa.

La Sig. Marta Davia.

Il CONTE CARAMELLA creduto morto, in abito di pellegrino.

Il Sig. Francesco Delicati.


MUTAZIONI DI SCENE

ATTO PRIMO

Cortile chiuso con porta in prospetto per dove entrano i vendemmiatori ed una porta rustica laterale.

Camera con nascondiglio.

ATTO SECONDO

Gabinetto. Camera sopradetta con nascondiglio.

ATTO TERZO

Giardino. Sala terrena corrispondente al cortile.

Le suddette Scene sono di vaga architettura del signor Francesco Zanchi.

Il Vestiario è del signor Natal Canciani.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Cortile chiuso con porta in prospetto per dove entrano i vendemmiatori.

Cecco, capo de’ Contadini vendemmiatori, Dorina e Ghitta con cestelli d’uva vendemmiata.


CORO

DOR. e GHI.

TUTTI

DOR.

GHI.

DOR. GHI.

CEC.

DOR. CEC.

GHI.


Bel godere il dolce frutto Delle rustiche fatiche; Bel veder le piaggie apriche D’uve sparse rosseggiar.

Son per noi più saporiti Di quest’uve i dolci umori, Poiché sparsi abbiam sudori Le lor viti a coltivar.

Viva Bacco, amico Nume, Ch’è piacer di tutto il mondo. Il terren per lui fecondo Fa noi tutti giubilar. (partono i Contadini vendemmiatori)

Per oggi abbiam finito Di vendemmiar; domani Ci alzeremo dal letto un po’ più presto, E andremo uniti a vendemmiare il resto. Andiamo a ritirarci, Ché, quando vien la sera, Incomincio a tremar come una foglia. Di che avete timor?

Non lo sapete? In casa, nel cortile e nel giardino, Quando il ciel si fa oscuro, Il diavolo si sente col tamburo. Sì, l’ho sentito anch’io. Venuto è il diavolino In questa casa a far il tamburino. (Affé, se l’han bevuta). (da sé) Ho paura che sia L’anima del padron. Il poverino Son quattro mesi che morì alla guerra; E perché ci vuol bene, Dopo ch’è morto a ritrovar ci viene. Eh, non è già il padrone; So io cos’è.



CEC.

Dimmelo, Ghitta mia.

GHI.

Senti. Oimè, mi vien freddo.

L’altra sera ho veduto

Un grande, grande, nero, nero, porco:

Cecco mio, Cecco mio, quell’era l’orco.

CEC.

Ed io ho veduto un’oca

Col collo lungo lungo, che arrivava

Del palazzo al secondo appartamento.

Oh Ghitta, che spavento!

Quell’era certamente la Beffana:

Ghitta mia, Ghitta mia, che cosa strana!

DOR.

(Io rido, e me la godo). Ed il tamburo

L’avete voi sentito?

GHI.

Ahi, che mi pare

Averlo nell’orecchie.

CEC.

Quando il sento,

Senza gridar o far alcun schiamazzo,

Caccio la testa sotto il materazzo.

DOR.

Badate ch’ei non venga

A ritrovarvi a letto.

GHI.

Oh diavol maledetto!

Io non vuò dormir sola.

CEC.

Né men io.

GHI.

Si potria, Cecco mio...

CEC.

Si potria, Ghitta mia...

GHI.

Sollecitare...

CEC.

Il nostro matrimonio.

DOR.

Senti, senti... (s’ode il tamburo)

GHI.

Ecco l’orco. (parte)

CEC.

Ecco il demonio. (parte)

SCENA SECONDA

Dorina, poi Brunoro

DOR.

Povera semplicina!

Per timor dello spirto, fugge via

Con un uomo di carne in compagnia.

Ma ho piacer che si creda

Lo spirito esser vero.

Che bizzarra invenzion! che bel pensiero!

Presto escite, Brunoro. (s’accosta al nascondiglio)

BRUN.

Eccomi, o mio tesoro. (esce col tamburo)

DOR.

Riponete il tamburo.

BRUN.

Posso libero uscir?

DOR.

Siete sicuro.

BRUN.

E ben, che c’è di nuovo?

DOR.

La padrona


Continua a non volere

Ascoltare il Marchese. Egli procura

Tener tutti lontan da questa casa

Col pretesto dei spirti, e restar solo.

Ma costante nel duolo,

La vedova, fedele al suo marito,

Vuol piuttosto morir dall’appetito.
BRUN.                  Io stanco son, Dorina,

Di stare in quella trappola

Come un topo serrato.
DOR.                                                         Rammentate

Che cento doppie a noi

Ha promesse il Marchese: a me cinquanta

Per ammollir il cuore

Della padrona mia, barbaro e duro;

Cinquanta a voi per battere il tamburo.
BRUN.                  Quanto più volentieri

Colà dentro starei, Dorina mia,

Se tu meco venissi in compagnia.
DOR.                     Oh, io non ci verrei.

BRUN.                                                  Per qual ragione?

DOR.                     Oh che caro minchione!

Umido è il nascondiglio.
BRUN.                  Credimi ch’egli è asciutto.

DOR.                                                                Sarà dunque

Asciutto diventato

Dopo che vi sei tu, arso e spiantato.
BRUN.                  Mi burli e mi disprezzi?

DOR.                     Eh, che questi son vezzi,

Son grazie, son finezze.
BRUN.                                                         Mi vuoi bene?

DOR.                     Sì, sì, non annoiarmi:

T’amo, ti voglio ben, ma non seccarmi.
BRUN.                  Sarai mia sposa?

DOR.                                                Sì, non te l’ho detto?

BRUN.                  Ma io sento nel petto

Crescermi le punture.
DOR.                     Basta così, non voglio seccature.

BRUN.                  Via, spicciamola dunque;

Facciamo il matrimonio.

Mi spaventa là dentro il rio demonio.

Sempre solo star là dentro, Oh che pena! oh che tormento! S’io t’avessi in compagnia, Vorrei stare in allegria, Mi potresti consolar.

Sento gente: presto, presto, Mi nascondo pronto e lesto; Tornerò poi questa sera


Quei bei lumi a vagheggiar. (entra nel nascondiglio)

SCENA TERZA Dorina, poi la Contessa

DOR.                     Sì, sì, ti sposerò,

Se di meglio di te non troverò.

Per esserti fedele,

Dovrei lasciar di migliorar lo stato?

La mia mamma così non m’ha insegnato. (Viene la Contessa)

Oimè! Ah, siete voi? Deh compatite,

Tutto mi fa tremar. Sempre a me pare

Di veder il tamburo.
CONT.                                                  Anch’io pavento

Allor quando lo sento, e non so come

Introdotto si sia

Questo spirto folletto in casa mia.
DOR.                     Eh, non è già folletto.

CONT.                                                       E che sarà?

DOR.                     L’anima del padron ch’è morto in guerra.

CONT.                   Ma io della sua morte

Non ho certa novella.
DOR.                     Non lo credete? Oh bella!

L’hanno scritto gli Avvisi.
CONT.                                                            I gazzettieri

Scrivono poche volte i fatti veri.
DOR.                     E poi, secondo me,

Da dubitar non c’è. Qui in questa casa

Spiriti non abbiam sentiti mai

Se non dopo l’avviso di sua morte.

Egli era un guerrier forte,

Amante di tamburi e di trombette;

Onde adesso ch’egli è spirito puro,

Vi viene a salutar con il tamburo.
CONT.                   Ma che vuole da me?

DOR.                                                       Non l’intendete?

Con quel tarapatà dice così:

«Sposati, sposati, sposati sì».
CONT.                   Taci, Dorina, tu mi tenti invano:

Son fedele al consorte,

E se della sua morte

Sicurezza maggiore io non ricevo,

Della destra e del cor dispor non devo.

Non mi parlar d’amore, Non provocarmi a sdegno. Sai del mio cor l’impegno;


Taci, mi tenti invan. Non fia che nuovo ardore Nascermi senta in seno, Se i primi affetti appieno Estinti non saran. (parte)

SCENA QUARTA Dorina, poi il Marchese

DOR.                     Serbar la fede ai morti?

Oibò, non s’usa più. Poche son quelle Che amino, quando è vivo, il lor consorte: Figuratevi poi dopo la morte.

MAR.                    E ben, cara Dorina,

Che novella mi date?

DOR.                     Signor, non dubitate;

Si va la mia padrona a poco a poco Disponendo a sentire il vostro foco. (Lusingarlo convien).

MAR.                                                      Oh me felice,

Se ella pure si accende!

DOR.                                                           È di già accesa;

Ma acciò duri la fiamma, e non si spegna Vi vuol, signor Marchese, della legna.

MAR.                    Tu vedi ch’io non cesso

Coi sguardi e coi sospiri, Colle dolci parole, attento e scaltro, Esca porgere al foco.

DOR.                                                      Eh, vi vuol altro!

Affé, rider mi fate Voi altri che pensate Coi pianti, con i vezzi e coi sospiri Una donna obbligar. Per mantenere Di femmina nel cor vivi gli affetti, Vi voglion, padron mio, dei regaletti.

Che vi credete, bei parigini, Far cogl’inchini, col sospirar? Se voi ci dite: «Servo obbligato»; E noi col cuore: «Oh che sguaiato!» Voi soggiungete: «V’amo, v’adoro, Bella, mia stella, languisco e moro»; E noi ridiamo, e vi diciamo: «Signor arsura, per far figura, Altro vi vuole che sospirar». (parte)


SCENA QUINTA

Il Marchese solo.

Cieli, che non darei

Per il cuor di colei che m’innamora?

Spargerei dalle vene il sangue ancora.

Con i spirti atterrita,

Regalata, servita,

Un dì s’arrenderà. Spero, e frattanto

Il mio lieto sperar trattiene il pianto.

Speranza è il più bel dono D’un cuor innamorato. È sempre il ben sperato D’ogni altro ben maggior.

Chi vive in dure pene, Sperando si diletta; Chi gode, ognor aspetta Destino assai miglior. (parte)

SCENA SESTA

Il Conte Caramella in abito da pellegrino con barba finta

Ecco le mie campagne, ecco il palazzo

In cui passar solea

In tempo della pace i giorni miei:

Dove, per un tantin di gelosia,

Sempre ho tenuta la consorte mia.

Or che son fra nemici

Prigioniero di guerra, ecco mentito

E la barba e il vestito.

Eccomi in queste spoglie

A spiar gli andamenti della moglie.

Esce alcun dalla sala:

Vedrò se lo conosco. (si ritira)

SCENA SETTIMA

Cecco e detto.

CEC.                                                      Ma a quest’ora

Solo andar non mi piace. Il sol tramonta;


Se la notte mi prende e si fa oscura,

Temo d’ispiritar dalla paura.

Eh, quella mia padrona

È senza carità. Vuol la insalata,

E vuol ch’io la raccolga: tremo tutto.

Per risparmiar la strada e la fatica,

Le porterò del fieno e dell’ortica.

CAR.

Questo è Cecco; far prova

Voglio se mi conosce. Galantuomo.

CEC.

Aiuto!

CAR.

Non temete.

CEC.

Aiuto! Oh me meschino!

CAR.

Che avete?

CEC.

(Ecco lo spirto tamburino).

CAR.

Udite una parola.

CEC.

Anima del padron, da me t’invola.

CAR.

(Anima del padron?) Che? è forse morto

Il conte Caramella?

CEC.

Ahi, mi tremano in corpo le budella.

CAR.

Presto, venite qui.

CEC.

Aiuto! Signor sì.

CAR.

Da me non fuggirete.

CEC.

Co... co... cosa volete?

CAR.

Il conte Caramella cosa fa?

CEC.

Dicono che sia morto in verità.

CAR.

Morto?

CEC.

Morto sicuro,

E lo spirto di lui suona il tamburo.

CAR.

Che fa la moglie sua?

CEC.

La vedovina...

Vorrebbe, poverina...

Per causa del tarapatà, patà...

La sposasse qualcun per carità.

CAR.

Come! come! che dici?

CEC.

In là con quel bastone,

Caro signor barbone.

CAR.

È forse innamorata?

CEC.

Vi dirò:

Certo signor Marchese

Le va girando intorno.

CAR.

(A tempo son venuto).

Narrami del Marchese.

CEC.

Aiuto, aiuto!

CAR.

Fermati, dove vai? (si ode il tamburo, e lo trattiene)

CEC.

Non posso più.

CAR.

Ma che diavolo hai tu?

CEC.

Non avete sentito? siete sordo?

CAR.

Il tamburo?

CEC.

Il tamburo.

CAR.

E ben! che cosa importa?


CEC.                      Sapete chi lo suona?

CAR.                     Sarà qualche villan di questa terra.

CEC.                      L’anima del padron ch’è morto in guerra.

CAR.                     Eh, sei pazzo.

CEC.                                            Son pazzo?

Qui si sente suonar e non si vede;

Onde la verità fa testimonio

Che, se non è il padron, sarà il demonio.
CAR.                     Che spirti? che demoni?

Il vino del padron avrai bevuto.

Tu sarai ubriaco.
CEC.                                               Aiuto, aiuto! (si sente il tamburo)

Per carità, lasciatemi,

Non posso più parlar;

In verità, credetemi,

Mi sento spiritar.

Il tamburino è là

Che fa tarapatà.

Il cor per lo spavento,

Allora che lo sento,

Mi fa plà, plà, plà, plà. Oimè, ch’ei salta fuori,

Oimè, ch’ei viene qua.

Tenetemi, salvatemi,

Reggetemi, celatemi,

Oimè, per carità. (parte)

SCENA OTTAVA

Il Conte Caramella

Oh cosa sento? In casa

Spiriti col tamburo? Eh, non son io

Sciocco da creder ciò. Penso piuttosto

Che nasconder si possa

Uno spirto là dentro in carne ed ossa.

Ma oimè, per qual ragion? Per far che sia

Oppressa dal timor la moglie mia;

E poscia col terrore

Guadagnar la sua grazia ed il suo core.

Oh geloso pensier che mi tormenta!

Che fo? Mi svelo? No, ch’è troppo presto.

Vado altrove, o qui resto?

Che far non so: mi sento

Dall’ira suggerir mille pensieri,

Tutti vari fra lor, ma tutti fieri.


Mi dice il cor sdegnato: «Svena la moglie infida»; Sento l’onor che grida: «Trafiggi il tuo rival». Son nave combattuta Di qua, di là, dall’onde; Si perde, si confonde Fra scogli il mio pensier.

Alcun consiglieria Ch’io me n’andassi via Senza curar le doglie D’infida e trista moglie. Ma son un onorato Marito, e buon soldato. Sì, sì, la vuò veder. (parte)

SCENA NONA

Camera con nascondiglio.

Dorina con lume, poi Brunoro

DOR.

Or ch’è l’ora avanzata,

Vuò parlar con Brunoro. Ecco la stanza

In cui del nascondiglio

L’altra parte risponde. Egli dovrebbe,

Secondo il concertato,

Essere a questa parte rimpiattato.

Chiuder voglio la porta, indi chiamarlo.

Ehi, Brunoro, Brunoro. (piano, vicino al nascondiglio)

Escite; ho da parlarvi.

BRUN.

Eccomi pronto e lesto ad ascoltarvi.

DOR.

Vuole il signor Marchese

Che ancor più dell’usato in questa notte

Il tamburo suonate,

E che alla porta andate

Della padrona, a dir queste parole:

Moglie mia, moglie mia... (s’ode picchiare all’uscio)

BRUN.

Zitto, vien gente.

DOR.

Oimè! chi sarà mai? Presto, celatevi.

BRUN.

Dal buco della chiave

Mi possono vedere.

DOR.

È vero, è vero.

Ammorzerò la lume. (spegne il lume)

BRUN.

Oh bel pensiero! (si picchia più forte)

DOR.

Vedrò che diavol sia. (apre l’uscio)


SCENA DECIMA Ghitta e detti.

DOR.

Oh che disgrazia!

Il vento della porta

Mi ha spento il lume.

GHI.

Oimè! son mezza morta.

DOR.

Ghitta mia, siete voi?

GHI.

Lume, per carità.

DOR.

Che cosa v’è accaduto?

GHI.

Il demonio ho veduto

Con una barba lunga, lunga, lunga...

Con in mano un bastone, e mi volea...

Oimè, non posso più.

DOR.

Via, nascondetevi. (piano a Brunoro)

BRUN.

Non trovo il nascondiglio. (piano a Dorina, cercando il nascondiglio)

GHI.

So che voi siete qui, son qui venuta...

Ma in questa stanza oscura

Io mi sento morir dalla paura.

DOR.

Andate per il lume.

GHI.

Oh, questo no.

Senza di voi di qui non partirò.

DOR.

Dunque vi vado io.

GHI.

Ma fate presto.

DOR.

Se non vi rimpiattate,

Al certo nascerà qualche scompiglio. (piano a Brunoro, e parte)

BRUN.

Maledetto! non trovo il nascondiglio.

SCENA UNDICESIMA

Ghitta, Brunoro, poi il Conte Caramella

GHI.

Non so muovere un passo;

Sto ferma come un sasso.

Se si move una mosca o soffia il vento,

Io principio a tremar dallo spavento.

BRUN.

Alfin l’ho ritrovato.

Anche questo periglio è superato. (entra nel nascondiglio, e chiude)

GHI.

Ahi, parmi aver inteso

A serrare una porta.

CAR.

In questo quarto,

Ch’essere non solea molto abitato,

Io starò rimpiattato.

GHI.

Parmi di sentir gente.

Mi trema il cor.

CAR.

Ma qui v’è qualcheduno.


Chi va là? chi va là?

GHI.

Misericordia!

(Si sente il tamburo)

CAR.

Come! un altro tamburo?

GHI.

Ah che ci sono!

CAR.

Ferma, ladro, assassino. (afferrando Ghitta)

GHI.

Ah signor tamburino,

Abbiate compassione.

CAR.

Una donna? Sei tu, che va suonando?

GHI.

M’avete presa in fallo:

Io non suono, signor, ma tremo e ballo.

CAR.

Chi ha suonato il tamburo?

GHI.

A me il chiedete?

Voi del tamburo il suonator non siete?

CAR.

No, quello non son io. Ma tu chi sei?

GHI.

Io la Ghitta mi chiamo.

CAR.

La Ghitta? Appunto io bramo

Teco parlar. (Questa è di cor sincero:

Da lei la verità saper io spero).

Vien qui, dammi la mano.

GHI.

Oh signor no.

CAR.

(Allettarla convien). Cara, sappiate

Ch’io vi voglio gran bene.

GHI.

Oh! cosa dite?

CAR.

Son venuto per voi.

GHI.

Per me?

CAR.

Senz’altro.

Discacciate il timor, state sicura.

GHI.

M’è passata un tantino la paura.

Ma chi siete?

CAR.

Domani

A voi mi scoprirò.

GHI.

Discopritevi adesso.

CAR.

Adesso no;

Ma avvertite a non dire a chi che sia

D’aver meco parlato.

GHI.

Oh non temete,

Io dirò a tutti che non so chi siete.

CAR.

Ma non avete a dir d’aver parlato.

GHI.

Parlato, signor sì:

Ma non dirò con chi.

CAR.

Non lo direte,

Perché non lo sapete.

GHI.

Ci s’intende.

CAR.

E se voi lo sapeste,

A tutti lo direste.

GHI.

Non v’è dubbio.

CAR.

Eppure questa volta

Non dovete di ciò formar parola.

GHI.

Pazienza! Mi verrà tanto di gola.


Cecco lo può saper?

CAR.                                                       Cotesto Cecco

È forse vostro amante?

GHI.                                                          Egli è mio sposo.

CAR.                     Sarà di voi geloso.

GHI.                                                      Cosa dite?

CAR.                     Ch’egli avrà gelosia.

GHI.                      Questa roba non so che cosa sia.

CAR.                     Pregate il ciel di non saperlo mai.

GHI.                      Finora non provai,

Amando, alcun tormento; e se dovessi Per amare provar tantin di pena, Benché donna non son, se m’intendete, Colà lo manderei dove sapete.

M’ha detto la mia mamma Che Amor è un bel bambino; Se viene, il poverino, Lo voglio accarezzar. Ma se mi farà male, Se mi vorrà graffiar, Dirò: «Va via, briccone, Ch’io non ti voglio amar».

Io son tanto bonina, Io non mi fo gridar; Ma sono tenerina, Son presta a lagrimar. (parte)

SCENA DODICESIMA Il Conte Caramella, poi Dorina

CAR.

Ehi, fermate, sentite. Eh! se n’è andata,

E non passa mezz’ora

Che a tutti avrà narrato

All’oscuro con uno aver parlato.

Io qui non istò bene; sento gente,

E gente senza lume.

DOR.

Ehi, Brunoro,

Siete qui?

CAR.

Sono qui. (altera la voce)

DOR.

Non siete ancor nel nascondiglio entrato?

CAR.

Ancora no. (Qualche briccon celato). (da sé)

DOR.

Eccolo qui. L’ho ritrovato io pure.

Accostatevi a me. (presso la porta del nascondiglio)

CAR.

Son qui da voi.

DOR.

Ecco il lume, ecco il lume. Presto, presto.

Questa porta non s’apre.


(tenta aprire il nascondiglio, e non gli riesce)

CAR.

(In ogni guisa

Mi conviene fuggir). (si ritira verso un’altra porta)

DOR.

Oh che veleno!

Venite ad aiutarmi:

Non posso aprir. (come sopra)

CAR.

(Qui sotto vuò celarmi).

(si nasconde sotto una portiera)

SCENA TREDICESIMA

Cecco col lume, e detti.

CEC.

Ghitta, Ghitta, sei qui?

(Il Conte col bordone dalla portiera getta in terra la candela a Cecco)

Oimè! son morto.

DOR.

Via, via, sparito è il lume.

Ehi, dite, dove siete?

CEC.

Chi mi chiama?

DOR.

Io non la posso aprir.

CEC.

Come?

DOR.

La voce...

Non mi pare... Chi siete?

CEC.

Son un morto che parla e che cammina.

DOR.

Ah, che non è Brunoro! Oh me meschina!

SCENA QUATTORDICESIMA

Ghitta col lume, e detti.

GHI.

Voglio veder col lume

Questo signor chi sia.

CEC.

Ah vieni, Ghitta mia:

Vieni, non posso più.

GHI.

Oh diavolo, sei tu?

DOR.

Tu sei? Oh cosa vedo!

CEC.

Son io, ma d’esser vivo ancor non credo.

GHI.

Ho parlato con te?

DOR.

Con te ho parlato?

CEC.

Di mano il candelier m’hanno gettato.

Andiamo via di qua.

DOR.

Non so che dire.

GHI.

Mi sento un’altra volta intimorire.

CEC.

In questa camera

Ci sono diavoli,


DOR. GHI.

CEC.

GHI.

DOR.

CEC.

DOR.

GHI.

DOR.

GHI.

CEC.

CAR.

DOR.

GHI.

CEC.

CAR.

DOR. CAR.

DOR.

CEC. GHI.

DOR. CAR. CEC. GHI. a quattro


}

}

}

}


Andiamo subito Fuori di qua. Io resto attonita,

Rimango stupida,

a due

Non la so intendere:

Che mai sarà? Andiamo subito,

Per carità. Quel che parlavami

Dove sarà? (cercando per la scena) Brunoro timido

Forse sen va? (cercando per la scena) Che cosa cercano

Di qua, di là?

Aiuto! (suona il tamburo) Che sento? Oimè, che spavento! (L’amico è celato, Ma come non so). (da sé)

Io voglio, se posso,

a due

Nascondermi qua. (vogliono alzar la portiera)

Fermatevi, olà! (esce dalla portiera)

Chi siete? Che fate?

Lo spirito, oimè!

Un diavolo egli è.

Indegno, arrogante,

Io son negromante.

Sarete un birbante.

Con un mio scongiuro

Sfondar quel tamburo,

Fraschetta, saprò. (a Dorina)

Oh, questo poi no. (suona il tamburo)

Un diavol di qua,

Un altro di là: a due

Aiuto, pietà.

Andate, fuggite. (al Conte)

Fermate, sentite. (a Cecco e Ghitta)

Un diavol di qua,

a due

Un altro di là.

Che imbroglio!

Che scoglio!

Che scena!

Che pena!

Ansante,

Tremante,

Ciascuno sen va.



ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Gabinetto.

La Contessa ed il Marchese

CONT.

Orsù, basta così. Da queste soglie

Partite omai. L’ora al partir v’invita:

E se restar bramate

Oltre al dovere, io parto, e voi restate.

MAR.

Deh non siate sì cruda.

CONT.

E voi non siate

Meco importuno.

MAR.

Io soffrirò ogni pena

Se di qualche speranza

Lusingar mi volete.

CONT.

Sperar nell’amor mio voi non potete.

MAR.

Che! odioso vi son?

CONT.

No, ma se vive

Lo sposo mio, serbo a lui solo il core.

MAR.

Inutile è l’amore,

Inutile è la fede ad un estinto.

CONT.

S’egli in guerra fu vinto,

Può tra nemici ancor trovar salvezza:

Io della morte sua non ho certezza.

MAR.

Ma non udiste voi

Lo spirto del consorte

Che vi rende sicura di sua morte?

CONT.

Quando ciò fosse vero,

Ei mi diria che, dopo morto ancora,

Una sposa fedel lo sposo adora.

SCENA SECONDA

Brunoro di dentro tocca il tamburo, e detti.

CONT.

Oimè! (siede tremando)

MAR.

Non paventate:

Son io con voi, lo spettro non mirate.

(ripara in modo che non veda Brunoro)

BRUN.

Sposa, sposa, io ti comando


Dar la mano al Marchesino; Egli merta, poverino, La tua fede ed il tuo amor. (canta in tuono tetro, accompagnandosi col tamburo, indi parte)

MAR.                     Contessa, avete inteso?

Il Conte parlò chiaro:

Il nostro matrimonio a lui fia caro.
CONT.                   Ma se mi trema il cor!

MAR.                                                         Viver volete

Sempre mesta così? Deh serenatevi,

Deh tosto allontanatevi

Da questo albergo tristo e doloroso;

Deh venite a gioir con uno sposo.
CONT.                   Ah Marchese, non so...

Che risolvo? che fo?
MAR.                                                      (Già va cedendo).

Mia cara, io sol pretendo

Rendervi lieta; se la destra mia,

Se l’amor mio vi piace,

Le larve spariran, vivrete in pace.
CONT.                   Ah non so dir se amore,

Necessità o timore,

A credere mi spinga;

E una nuova speranza or mi lusinga.
MAR.                     Oh care note, oh care,

Che mi rendono lieto.
CONT.                                                       Avrei bisogno

Di riposar.
MAR.                                      E riposar vorrete

Sola così? Con una larva intorno

Non temete star sola? Ah, se vi piace

La mia fede gradir, da voi, mia bella,

   non mi staccherò.

CONT.                                                  Troppo gentile,

Troppo, Marchese mio. Dorina meco

Farò venir. Itene pure; a tanto

Non v’avanzate ancor.
MAR.                                                         Per obbedirvi

Tosto men vo. Sol di piacervi, o cara,

   mio core desia.

(Tra il timore e l’amor domani è mia). (da sé)

V’accenderà nel seno

Amore un più bel foco:

Vedrete a poco a poco

La face scintillar. La fedeltà s’apprezza

Quant’è più salda e forte,

Ma poi, dopo la morte,


La fé non suol durar. (parte)

SCENA TERZA La Contessa, poi Dorina

CONT.                   Ah, ch’io d’errar pavento, e non ho core

D’abbandonarmi a nuovi affetti in preda; Par ch’estinto il consorte ancor non creda.

DOR.                     Signora, un pellegrino

Insolente, sfacciato, Vuole a forza passar.

CONT.                                                     Da dove viene?

DOR.                     Nol so, ma è tanto brutto

Che i vermini mi ha mosso,

E mi ha fatto tremar dalla paura,

Perché son delicata di natura.

CONT.                   Non lo voglio ascoltare.

DOR.                                                            Eccolo, eccolo.

Oimè, con quella barba ei sembra l’orco; Badate ben non si trasformi in porco.

CONT.                   Chiudi, chiudi la stanza.

DOR.                     Se posso, gliela ficco. (vuol chiudere l’uscio)

SCENA QUARTA Il Conte Caramella e dette.

CAR.                                                         Olà, fermate, (s’oppone a Dorina)

O vi faccio restar dure incantate.
CONT.                   Olà, dite, chi siete?

Da me che pretendete?
CAR.                                                          Ad avvisarvi

Vengo, per vostro ben, che non crediate

Al Marchese impostor; che non è vero

Che preda sia di morte

Il Conte e capitan vostro consorte.
DOR.                     Cosa sapete voi? Purtroppo è vero

Che il povero padrone se n’è andato;

Così pure anche voi foste crepato.
CAR.                     Madama, io mi esibisco,

Chiunque sia questo spirto,

Di qui presto scacciarlo

E all’inferno di trotto rimandarlo.
DOR.                     Il mio caro barbetta,

Andate voi, che il diavolo vi aspetta.


CAR.                     Se dar piacere al diavolo vi preme,

Andiamo tosto a ritrovarlo assieme.

CONT.                   Badate a me. Chi siete

Che i casi miei sapete?

CAR.                     Un negromante io sono

Che indovinar sicuro Sa il presente, il passato ed il futuro.

DOR.                     Egli è di quella razza

Che gabba il mondo astrolicando in piazza.

CAR.                     Orsù, perché crediate

Ch’esser possa il futuro a me svelato, Qualche cosa dirovvi del passato.

Pria d’essere sposata Il Conte capitano Vi prese per la mano

Una mattina. Fuggiste modestina, Vi vergognaste un poco, Ma vi ridusse in loco

Solitario. Diceste: «Temerario, Andate via di qui»; Movendo in dir così

La bocca al riso. Ed ei con un sorriso, Amante pronto e scaltro...

CONT.                   Basta così, non voglio sentir altro.

DOR.                     (Come è venuta rossa!) (da sé)

CONT.                   (Io non so come ei possa

Queste cose sapere per minuto). (da sé)
DOR.                     (Questo brutto barbone è molto astuto). (da sé)

CAR.                     E ben, vi contentate

Che contro questo spirto

Usi il poter sovrano?
DOR.                     Non gli badate, ch’egli è un ciarlatano.

CAR.                     Io sono un ciarlatano? Sfacciatella,

Io ti farò cambiar sensi e favella.

Rammenta quella borsa, Che tu dal Conte avesti Allora che facesti

La mezzana. E cosa non è strana, Se tu procuri adesso Di fare ancor lo stesso

Col Marchese. Il tutto mi è palese, E so che un regaletto...


DOR.                     Basta così... (Che tu sia maledetto!) (da sé)

CONT.                   Amico, se sia vero

Che abbiate la virtù che voi vantate,

Lo spirito svelate

Che mi turba, m’inquieta e mi circonda;

Fate ch’egli risponda ai detti vostri,

Ed il vero per voi chiaro si mostri.

Ombra incerta che intorno t’aggiri, Non turbarmi la quiete, il riposo: Se sei quella del dolce mio sposo, Torna in pace gli Elisi a goder.

Abbastanza coi caldi sospiri Ho compianta l’ingrata tua morte: Rassegnarsi convien alla sorte, E de’ Numi all’eterno voler. (parte)

SCENA QUINTA

Il Conte Caramella e Dorina

DOR.

(Costui mi fa tremar). (da sé)

CAR.

(Finger conviene

Finché giunga a svelar la trama tutta). (da sé)

DOR.

(S’egli mi scopre, me la veggo brutta). (da sé)

CAR.

Ma voi, spiritosissima ragazza,

Non avete timor di questi spirti

Che inquietano la casa?

DOR.

Eh sì, signore,

Ho un poco di timore,

Ma fingo intrepidezza e bizzarria

Per tener la padrona in allegria.

CAR.

Ditemi il ver, di già nessun ci sente:

Questo spirto celato

Sarebbe qualche vostro innamorato?

DOR.

Oh signor, cosa dite?

Io non ho innamorati:

Anzi, per dirvi tutti i fatti miei,

Volentieri all’amore un po’ farei.

(Per scoprir chi egli sia,

Voglio tutta adoprar l’industria mia). (da sé)

CAR.

Ditemi, il vostro genio a cosa inclina?

DOR.

A un uomo di dottrina,

A un uomo di sapere, e se potessi

Un astrologo aver, felice me!

CAR.

(Oh ti conosco!)

DOR.

Affé,


Se un astrologo avessi in poter mio,

Vorrei imparare a strolicare anch’io.
CAR.                     Tutto quello ch’io so,

Bella, v’insegnerò, se non vi spiace

Quest’austero sembiante e questa barba.
DOR.                     Anzi molto mi alletta

Quella cara barbetta, e se volete

Qualche cosa insegnarmi,

Voi sarete padron di comandarmi.
CAR.                     Venite qui, carina.

DOR.                                                  Oh, è troppo presto.

CAR.                     Non fate la ritrosa.

DOR.                     Insegnatemi prima qualche cosa.

CAR.                     Tutto v’insegnerò quel che bramate.

DOR.                     Ma io, perché il sappiate,

Quando faccio un contratto,

Voglio la ricompensa innanzi tratto.
CAR.                     Dunque venite qui, vi vuò insegnare

La gente a prima vista a strologare.

Se vedete una donna

Ch’abbia un bell’occhio nero,

Dite che ha il cuor fedele.
DOR.                                                              È vero, è vero.

CAR.                     Piccola faccia è segno

Di peregrino ingegno.
DOR.                                                         Bravo, bravo.

CAR.                     Purpureo labbro e candido sembiante

È di bella onestà segno chiarissimo.
DOR.                     Bravo, vi torno a dir, bravo, bravissimo.

Aspettate un momento. (si ritira in disparte, e tira fuori di tasca un picciol

specchio)
CAR.                                                         (A poco a poco

M’impegno d’acquistarla.

Tutto, tutto saprò col lusingarla). (da sé)
DOR.                     (Ner’occhio, rosso labbro e bianco viso...)

(guardandosi nello specchio, credendo di non esser veduta dal Conte)

Presto, ditemi su qualch’altra cosa.
CAR.                     Chi ha la fronte rugosa,

Ha in cuor la tirannia.
DOR.                     (Io non ho rughe sulla fronte mia). (da sé, guardandosi come sopra)

CAR.                     Femmina troppo grassa

Presto presto vien passa.
DOR.                                                              (Oh, non v’è dubbio

Ch’io venga passa in fretta:

Son, per grazia del cielo, un po’ magretta).

Via, dite su.
CAR.                                         Per ora

Basta così.
DOR.                                      M’avete

Le regole a insegnare


Per poter francamente astrologare.
CAR.                     Tutto v’insegnerò, tutto, mia cara,

Se non sarete nell’amarmi avara.
DOR.                     Io sarò generosa,

Grata, fida, amorosa:

Tutta sarò per voi. Ah, ch’io già sento

Che di questo mio cor voi fate strazio.

(Le parole di già non pagan dazio). (da sé)

CAR.

Voi amarmi promettete,

Ma in virtù dell’arte mia

Ho paura che non sia

Senza dubbio il vostro amor.

DOR.

Ah, se astrologo voi siete,

Del mio sen vedrete il fondo;

Ah, del mio non v’è nel mondo

Più sincero e fido cor.

CAR.

Mi amerete?

DOR.

Ve lo giuro.

Siete mio?

CAR.

Ve n’assicuro.

a due

Che diletto! gioia mia!

(Se lo crede, oh che pazzia!)

Oh che gran semplicità! (ognuno da sé)

Oh che bella fedeltà!

CAR.

Tanto amor, deh, non fia vano.

DOR.

Ecco in pegno a voi la mano.

CAR.

Cara man, che mi ristora.

DOR.

Cara man, che m’innamora.

a due

Giuro sempre d’adorarti.

(Di burlarti) con cuor fido.

(Me la godo, e me ne rido).

Tutta vostra è la mia fé.

(Chi mi crede, è pazzo affé). (partono)

SCENA SESTA

Camera con nascondiglio.

Ghitta e Cecco

GHI.                      Cecco mio, vuò narrarti una novella.

Sappi che nella stanza In cui poc’anzi ci trovammo uniti, Con un uomo parlai più di mezz’ora.

CEC.                      E chi era costui?

GHI.                                                 Non lo conosco.


CEC.

Eh, lo conoscerai.

GHI.

No, te lo giuro,

Perché parlato abbiam sempre all’oscuro.

CEC.

Come? all’oscuro con un uom parlare?

GHI.

E ben, che male c’è?

Non ho al buio parlato anche con te?

CEC.

Ma io sono il tuo sposo.

GHI.

E non potrebbe

Esserlo anche quell’altro?

CEC.

Oh, questa è bella!

Quanti sposi vorresti?

GHI.

Che so io!

Non s’appaga d’un solo il genio mio.

CEC.

Ma sai tu che sia sposo?

GHI.

Oh che domande!

Certo, lo so. Lo sposo è un giovinetto

Che va per suo diletto

Amoreggiando le fanciulle intorno;

E se ne può cambiar più d’uno il giorno.

CEC.

Eh t’inganni; codesto

È amante, e non è sposo.

GHI.

Ma lo sposo

Non deve essere amante?

CEC.

Sì, senza dubbio alcuno.

GHI.

Dunque sposo ed amante egli è tutt’uno.

CEC.

Sarà come tu vuoi. Ma dimmi, o Ghitta,

Che ti disse quell’uom così all’oscuro?

GHI.

Mi volea tanto bene.

CEC.

Tu il lasciasti parlare?

GHI.

Oh, io non so la gente disgustare.

CEC.

Dunque, se ti venisse

A pregare qualcun, cuor non avresti

Di dirgli: signor no?

GHI.

Oh, io la gente disgustar non so.

CEC.

Ghitta, quand’è così, ti do il buon giorno:

Tu non fai più per me.

GHI.

Per qual ragione?

CEC.

Perché troppo dell’uomo hai compassione.

GHI.

Se crudele mi vuoi, crudel sarò.

Giuro non parlerò mai più d’amore;

Ma tu non mi privar del tuo bel core.

CEC.

Via, se così farai,

Il mio ben tu sarai. Dammi la mano.

GHI.

Vanne da me lontano.

CEC.

Mi discacci?

Quest’è la prova del tuo amor fedele?

GHI.

Per piacerti, son io teco crudele.

CEC.

Con gli altri esser dei cruda,

Ma non però con me.

GHI.

Oh questa è bella affé!


Perché fare dovrei tal differenza?

Questa, Cecco, sarebbe un’insolenza.
CEC.                      Ma io sono il tuo sposo.

GHI.                      E quello ancor della notte passata

Credo che su due piè m’abbia sposata.
CEC.                      Sposata? E cosa ha detto? E come fu?

GHI.                      Ha detto anch’egli quel che hai detto tu.

CEC.                      Ghitta mia, ti saluto.

GHI.                                                      E dove vai?

CEC.                      Ti lascio e vado via,

Ch’io non ti voglio amare in compagnia.
GHI.                      Ma io, perché ho paura a restar sola,

Voglio più d’un amante.

Così quando uno parte, l’altro resta;

E una buona ragion mi sembra questa.

Bella cosa, il provo, il so, È l’aver più d’un amante Che m’aiuti a vendemmiar, Ad arar ed a cantar:

«Va là bizzarro, va là morello, Va là chiarello, va là, viò». E poi la festa alla villana Far la gagliarda, far la furlana, Con questo e quello, con chi mi vuò.

Tocchela, suonela, la chitarrina: Da contadina ballare saprò. (parte)

SCENA SETTIMA Cecco, poi Dorina

CEC.

Costei non fa per me. Le voglio bene,

Ma il matrimonio è certa mercanzia

Che farla non conviene in compagnia.

Ella di più non sa;

E con semplicità potria burlarmi,

Potria senza malizia rovinarmi.

DOR.

Vuò Brunoro avvisar... (Ma qui costui...)

CEC.

(Se Dorina volesse, ora con lei

Quasi m’attaccherei).

DOR.

(Sarebbe bene

Che Cecco m’assistesse,

Quando ingannarmi il ciarlatan credesse).

CEC.

(Parla fra sé, e mi guarda).

DOR.

(Poco costa

Gettar via due parole).

CEC.

(Di Dorina sarò, s’ella mi vuole).


DOR.

Cecco, che fate qui?

CEC.

Sono arrabbiato,

E mi son dalla Ghitta licenziato.

DOR.

Ditemi, come fu?

CEC.

L’ho licenziata, e non la voglio più.

DOR.

E volete star senza?

CEC.

Converrà aver pazienza

Finché un’altra ne trovo.

DOR.

(Lusingar anche questo ora mi provo).

Certo voi siete degno

D’una miglior fortuna.

CEC.

Oh, se ne trovo una

Che sia come dich’io,

La voglio far padrona del cuor mio.

DOR.

Ma come la bramate?

CEC.

Per esempio,

Che fosse fatta come siete voi:

Che avesse quella fronte e quegli occhietti,

Quei cari bei labbretti,

Che fosse, come siete voi, graziosa,

Che fosse di giudizio e spiritosa.

DOR.

Ma io tale non sono

Da farvi innamorar.

CEC.

Eh... basta... È tanto

Che mi piacete... Ma la Ghitta ingrata...

Basta, come dicea, l’ho licenziata.

DOR.

Se siete in libertà, ne parleremo.

CEC.

Sì, sì, ci aggiusteremo.

Tutto v’accorderò, con un sol patto

Che siate tutta mia,

Perché in amor non voglio compagnia.

DOR.

Eh, vi s’intende. Io son, quand’ho un amante,

All’amore d’un sol fida e costante.

CEC.

Oh brava! oh benedetta!

Via, non perdiamo tempo.

DOR.

Io voglio prima

Che, se da ver mi amate,

La Ghitta in mia presenza licenziate.

CEC.

Vado in questo momento,

E la conduco qui. Vedrete, o cara,

Se ho per voi dell’affetto.

DOR.

Andate, ch’io v’aspetto.

CEC.

Oh quanto mi consolo!

Bella cosa in amor è l’esser solo!

In quel felice giorno

Che un uomo si marita,

Ha cento amici intorno;

Ciascun a sé l’invita:

Chi l’accarezza qua,


Chi lo saluta là.

Sposino, vi son schiavo.

Che bella moglie! bravo!

Ma io risponder voglio,

A chi seccar mi viene,

Se fui solo all’onor, solo alle pene. (parte)

SCENA OTTAVA Dorina, poi Brunoro

DOR.                     Oh, se sposato avessi

Tutti quei che ho burlato a’ giorni miei,

Un reggimento di mariti avrei.

Nol fo per interesse,

Ma per aver amici all’occasione

Che possano tener la mia ragione.

Or che non v’è nessuno,

Vuò parlar con Brunoro. (batte al nascondiglio)

Escite, escite;

Ehi, Brunoro, sentite,

V’ho da parlar.
BRUN.                  Eccomi; e quando mai

Finirà quest’imbroglio?
DOR.                                                         Io non vorrei

Che finisse per voi presto anche troppo.
BRUN.                  Perché?

DOR.                                    Perché pretende

Un che non so s’io dica

Ciarlatan, negromante, o farabuto,

Lo spirito scacciar per ver creduto.
BRUN.                  S’ei crede ch’io sia spirto,

È un ciarlone a drittura,

Ed io il farò morir dalla paura.
DOR.                     Basta, badate a voi.

BRUN.                                                  Se proverà

Volermi discoprir, si pentirà.
DOR.                     Ora siete avvisato.

BRUN.                  E starò preparato,

Con il tamburo in mano,

A prendermi piacer del ciarlatano.

Venga, venga il negromante, Non lo temo, non lo curo: Colle mazze del tamburo Io l’incanto disfarò.

Si vedrà ch’è un ignorante, Come son tutti i suoi pari,


Che si buscan i denari

Da chi fede a lor prestò. (Torna nel nascondiglio)

SCENA NONA

Dorina, poi il conte Caramella

DOR.

Qualunque sia l’evento,

Io per ciò non pavento;

Tutti mi sono amici,

E le menzogne mie riescon felici.

CAR.

Dorina, è questo il loco

Ove sentir si suole

Più che altrove il tamburo?

DOR.

Appunto è questo.

CAR.

E voi qui sola siete?

E timor non avete?

DOR.

Io non pavento

Perché di voi mi fido,

E nel vostro saper spero e confido.

CAR.

Voi sperate a ragione, e stupirete

Quando il poter dell’arte mia vedrete.

DOR.

(Quanto è pazzo costui!)

CAR.

(Quant’è balorda!)

DOR.

Ma poi non vi scordate

Del fedele amor mio.

CAR.

Tutto vostro son io. Già ve l’ho detto.

(Pazza che sei!)

DOR.

(Barbone maledetto!)

SCENA DECIMA

Cecco, Ghitta e detti.

CEC.

Vieni, Ghitta, vien qui.

GHI.

Vengo... Ma oimè!

Quel diavolo chi è?

CAR.

Non mi conosci?

Son quello che all’oscuro

Ha parlato con te.

GHI.

Voi siete quello?

Vi credevo alla voce assai più bello.

Cecco, no, non lo voglio.

Vada al suo diavolino:

Io mi voglio sposar col mio Cecchino.

CEC.

Ma io non voglio te.


GHI.

Per qual ragione?

CEC.

Il perché tu lo sai;

Di già ti licenziai,

E adesso ti rinnovo la licenza

Di questi testimoni alla presenza.

GHI.

Cane, ladro, assassino,

Traditor, malandrino.

CAR.

Perché la poverella licenziate? (a Cecco)

DOR.

Eh lasciatelo far, non gli badate. (al Conte)

GHI.

Ma lasciarmi non puoi; sai che il padrone

Ebbe da te parola di sposarmi.

CEC.

Eh, s’egli è morto, non potrà obbligarmi.

CAR.

Lo spirito del Conte

Forse sarà rinchiuso in questa casa

Per obbligarvi a mantener la fede.

DOR.

(Ch’è un pazzo, un menzogner, chiaro si vede).

GHI.

Cecco, senti che dice?

Vuole il padrone che tua sposa io sia,

O il diavolo verrà a portarti via.

CEC.

Eh, che costui non sa cosa si dica,

E il diavol non farà questa fatica.

CAR.

Olà, cauti parlate

Dei spirti e del demonio.

Se il vostro matrimonio

Dal Conte si vorrà,

Ora con un incanto si saprà.

GHI.

Non mi fate paura.

CEC.

Io principio a tremar.

DOR.

(Qualche freddura).

CAR.

Per virtù della magia,

Per virtù dell’arte mia,

Comparisci, spirto errante,

A svelar la verità.

GHI.

} a tre          Non verrà, non verrà.

CEC.

DOR.

CAR.

Aspettate, ch’ei verrà.

Per virtù del re Plutone,

Vieni, o spirto del padrone,

E palesa col sembiante

Tua costante volontà.

a tre

Non verrà, non verrà.

CAR.

Aspettate, ch’ei verrà.

Vuò nascondermi in un canto,

E formare un nuovo incanto

Cui resister non potrà.

a tre

Non verrà, non verrà.

CAR.

Aspettate, ch’ei verrà. (si cela dietro una portiera)

GHI.

S’egli vien, sarai mio sposo?


CEC.

Non temer, s’ei vien, ti sposo.

DOR.

Siete pazzi a prestar fede;

Uno spirto non si vede.

Il padron non si vedrà.

a tre

Il vecchione è un impostore;

Tutti tre ci gabberà.

CAR.

Presto, a chi dico, (sotto la portiera)

Spirito amico,

Fatti vedere,

Fatti sentire.

Eccomi qua,

Eccomi qua.

(Caccia fuori il capo dalla portiera, senza la finta barba)

DOR.

Ahi, cosa vedo?

GHI.

Quest’è il padrone. } adue          Dett’hailbarbone

La verità.

CAR.

Ghitta e Cecchino

S’hanno a sposare:

Chi vuol mancare,

La pagherà.

GHI.

Ahi, Cecco mio.

DOR.

Tremo ancor io.

CEC.

Dammi la mano,

Per carità. (a Ghitta)

GHI.

Ecco la mano,

Eccola qua.

DOR.

Con queste nozze } atre            Ilbuonpadrone

GHI.

CEC.

Si placherà.

CAR.

Il Ciel vi doni

Pace e concordia

E sanità. (si ritira)

a tre

Grazie di tanta

Vostra bontà.

DOR.

Io mi confondo,

Non so che dire.

GHI.

L’abbiam veduto, } adue          Abbiamscoperta

La verità.

CAR.

E ben, che dite? (esce colla barba)

Si crederà?

a tre

Abbiam scoperta

La verità.

CAR.

Ora allo spirito

Grazie rendete,

Ed apprendete

Come si fa.

TUTTI

È morto lo padrone,


E m’ha strappato il cor. Oimè, che gran tormento! Oimè, che gran dolor! Il cielo gli conceda Potersi riposar. Oimè, che gran tormento! Che duro lacrimar! Ma s’egli è morto, stia: Lasciam di sospirar; E stiamo in allegria, E andiamoci a spassar.


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Giardino.

La Contessa ed il Marchese

CONT.                   Voi dite ch’egli è morto, e v’è chi dice

Che vive il mio consorte.
MAR.                                                           E chi è costui

Che si vanta saperlo?
CONT.                                                     È un indovino

A cui non sono oscure

Le vicende future.
MAR.                                                  Un impostore,

Senz’altro, egli sarà.
CONT.                   Eppur la verità m’ha indovinato

Per il tempo passato. Egli s’impegna

Di scacciar questo spirto,

Ch’esser crede infernale.
MAR.                    Infernale lo spirto? oh che animale!

Venga, venga alla prova,

Egli se n’avvedrà.

SCENA SECONDA

Il conte Caramella e detti.

CAR.                     Son pronto; eccomi qua.

Di larve non pavento.

     m’impegno balzar da questo mondo
L’audace spirto al baratro profondo.

MAR.                    Ah, ah, rider mi fai.

CAR.                                                     Voi ne ridete?

    poter mio vedrete.
MAR.                    Ah, ah, che caro pazzo!

CAR.                     Fate or di me strapazzo, ma fra poco

Io pur saprò di voi prendermi gioco.
MAR.                    Olà, così si parla? Io non ti rompo,

Temerario, le braccia,

Perché qui sei della Contessa in faccia.

Ma se ardirai cotanto,

Ignorante, impostore,

Proverai tu il mio sdegno e il mio furore.


Cessa di provocarmi,

Trema dell’ira mia,

Va colla tua follia

Gli stolti ad ingannar. È vana l’impostura;

Qui niun ti presta fede;

All’arte tua non crede,

Non crede al tuo parlar. (parte)

SCENA TERZA La contessa ed il conte Caramella

CONT.

Io che creder non so...

CAR.

Dite, madama,

Sareste voi contenta

Se vedeste lo sposo?

CONT.

Contentissima.

CAR.

Gli siete voi fedele?

CONT.

Fedelissima.

CAR.

Se fosse vivo e sano

Avereste piacer?

CONT.

Pensate voi,

S’io l’amo, s’io l’adoro.

CAR.

(Una moglie fedele è un gran tesoro!) (da sé)

CONT.

Ma deh, quel che sapete

Ditemi, per pietà.

CAR.

Non andrà molto

Che contenta sarete:

Oggi lo sposo vostro vederete.

CONT.

Vivo?

CAR.

Forte e robusto.

CONT.

E quello spirto

Dunque che cosa fia?

CAR.

Quello spirto, vel giuro, anderà via.

CONT.

Ma come? Io vuò saperlo.

CAR.

A suo tempo vi basti di vederlo.

Sì, verrà il vostro sposo,

Per voi tutt’amoroso;

Verrà lieto e contento in questo dì,

E alla sposa fedel dirà così:

«Vieni, o cara, a queste braccia

Il tuo bene a consolar».

Così il Conte a voi dirà.

«Per pietà la bella mano,

Idol mio, non mi negar».


Così il Conte a voi farà. «Vieni, o cara...» il Conte parla, «Al mio seno...» parla il Conte. «Non fuggire, per pietà»: Così il Conte a voi dirà. (parte)

SCENA QUARTA

La Contessa sola.

Eppur la di lui voce

Mi desta dentro il petto

Un incognito affetto, e mi consola;

E ogni tristo pensier dal cor m’invola.

Parmi già di veder l’amato sposo,

Di stringerlo al mio seno.

Ah fosse vero almeno!

Pietosissimi Dei,

Esaudite clementi i voti miei.

Lo sposo vi chiedo, Lo sposo che adoro, Cui serbo il tesoro Di mia fedeltà.

In vita lo credo, Il core mel dice: Di me più felice Alcun non si dà. (parte)

SCENA QUINTA Dorina, poi Cecco

DOR.                     Io non so che mi dir: più che ci penso,

L’intendo men; veduto ho con quest’occhi

Il volto del padrone.

Certamente barbetta è uno stregone.
CEC.                      Dorina, che facciamo?

Volete che ad amarci seguitiamo?
DOR.                     Non avete sentito?

Dovete della Ghitta esser marito.
CEC.                      Ella è meco sdegnata.

Infedel mi ha chiamato,

E tre volte da sé m’ha discacciato.
DOR.                     Io non sarei lontana dall’amarvi:

Ma prima esaminarvi


Un pochino vorrei,

Per non perder invano i giorni miei.

CEC.

Eccomi qui: osservate,

Vedete, esaminate,

E concludete poi

Se vi pare ch’io sia degno di voi.

DOR.

Voglio prima saper che core avete.

CEC.

Il cuor? sarà di carne.

DOR.

Ma che carne?

D’agnello o di caprone?

CEC.

È tanto tenerino,

Che mi par d’agnellino.

DOR.

Eh non mi fido,

Il vostro core non è mai sicuro:

Facilmente divien barbaro e duro.

CEC.

Fidatevi di me.

DOR.

No, no, non voglio

Ingannata restar. Andate pure

La Ghitta a ritrovar.

CEC.

Ma non mi vuole.

DOR.

Non vi vuole? carino,

Io non servo a nessun per comodino.

CEC.

Voi mi piacete assai.

DOR.

S’io piaccio a te,

Non so che farti, tu non piaci a me.

CEC.

Dunque...

DOR.

Dunque, a buon viaggio.

CEC.

Perché non mi volete?

DOR.

Perché, vi torno a dir, non mi piacete.

A me non piacciono

Gli uomini semplici;

Voglio che sappiano

Il male e il ben;

Che siano deboli

Fin certo termine,

Ma s’inaspriscano

Quando convien. (parte)

SCENA SESTA

Cecco, poi Ghitta

CEC.

Oh Cecco disgraziato!

Presto presto anche questa mi ha piantato.

Ma la Ghitta sen viene.

Io non so cosa faccia;

Non ho coraggio di mirarla in faccia.


GHI.

(Ecco qui quel briccone

Che mi ha licenziata).

CEC.

(Ella in viso mi pare ancor sdegnata).

GHI.

(Non lo voglio veder). (vuol partire)

CEC.

(Meglio è lasciarla.

Non vuò più ricercarla). (vuol partire)

GHI.

(E pur mi piace). (si ferma)

CEC.

(E pur d’abbandonarla mi dispiace). (si ferma)

GHI.

(Egli è tanto carino!)

CEC.

(Ha tanto il bel visino!) (si guardano sott’occhio)

GHI.

(Ma se più non mi vuole, anderò via). (vuol partire)

CEC.

(Ma non posso soffrir la gelosia). (vuol partire)

GHI.

(Il piè fa un passo avanti,

E il cuor due passi indietro). (torna indietro)

CEC.

(Andar non posso,

E mi convien restare a mio dispetto). (si ferma)

GHI.

(Che grazioso bocchin!)

CEC.

(Che bell’occhietto!)

(Si guardano sott’occhio)

GHI.

(Ah pazienza!)

CEC.

(Sospira?)

GHI.

(Attento mi rimira).

CEC.

(Quasi, quasi...)

GHI.

(Se non fosse vergogna...)

CEC.

(La vorrei salutar).

GHI.

(Parlar vorrei).

CEC.

Schiavo, padrona mia.

GHI.

Serva di lei.

CEC.

Dove si va?

GHI.

Vo a spasso.

CEC.

Così sola soletta?

GHI.

È meglio sola

Che male accompagnata.

CEC.

Il proverbio non falla. (Ella è sdegnata).

GHI.

(Ingrato!)

CEC.

(Se potessi,

Ancor l’aggiusterei).

GHI.

(Se mi volesse, ancor lo piglierei).

CEC.

Signora, se non sdegna

Avermi in compagnia...

GHI.

Oh, non son degna.

CEC.

Alfin v’ho sempre amata.

GHI.

Che bell’amor! m’avete licenziata.

CEC.

Io... l’ho fatto per scherzo...

GHI.

Oh, non vi credo.

CEC.

Credimi, Ghitta mia...

GHI.

Via, disgraziato.

CEC.

Ti vuò tutto il mio ben.

GHI.

Tu sei un ingrato.

CEC.

Non mi far lacrimar.


GHI.

Per te, briccone,

Ho tanto pianto.

CEC.

E per te ho pianto anch’io.

GHI.

Non ti credo.

CEC.

Lo giuro.

GHI.

Tenera io son, ma tu sei di cuor duro.

CEC.

Non è ver, non son crudele;

Tenerino è questo cuor.

GHI.

Se tu avessi il cuor fedele,

Non saresti un traditor.

CEC.

Tu sei quella - Ghitta bella,

Che mi fa provare amor.

a due

Mio tesoro, - ahi ch’io moro,

Se non hai di me pietà.

GHI.

Sei fedele?

CEC.

Sei crudele?

GHI.

Quell’occhietto - dice sì.

CEC.

Quel labbretto - dice no.

GHI.

Vuoi amarmi? - Dice sì.

CEC.

Sei sdegnata? - Dice no.

GHI.

Vuoi lasciarmi? - Dice no.

CEC.

Sei placata? - Dice sì.

a due

Quel risetto mi consola;

E una dolce tua parola

Rasserena il mio dolore,

Fa il mio core giubilar. (partono)

SCENA SETTIMA

Sala terrena corrispondente al cortile ove trovasi il nascondiglio.

Dorina e Brunoro con il tamburo.

DOR.                     Celatevi là dentro.

Vuole il signor Marchese

Smentir del ciarlatano l’impostura,

E che il fate morir dalla paura.
BRUN.                  Sì, ma ditegli poi

Che mi liberi ormai da un tale imbroglio;

Che da diavolo far io più non voglio. (parte)

SCENA OTTAVA Dorina, poi il Conte Caramella, in fine Brunoro


avventa contro

DOR.

Io dubito per altro

Che la cosa abbia a andar tutta al contrario.

Basta, comunque sia questa faccenda,

L’esito attenderò,

E se mal vi sarà, me n’anderò.

CAR.

Eccomi accinto all’opra.

Or farò che si scopra

Questo spirto malnato e impertinente.

DOR.

Ed io sarò presente

Alla vostra bravura.

CAR.

Non abbiate timor.

DOR.

Non ho paura.

CAR.

Spirito, che rinchiuso

T’aggiri in questa stanza,

Alla presenza mia tosto t’avanza. (S’ode il suono del tamburo)

DOR.

Eccolo, avete inteso?

Ei risponde a drittura.

CAR.

Non abbiate timor.

DOR.

Non ho paura.

CAR.

Spirito errante,

A me dinante

Vieni, se puoi.

BRUN.

Da me che vuoi? (sulla porta)

CAR.

Eccolo, oimè!

DOR.

Che avete?

CAR.

Oh, che brutta figura!

DOR.

Non abbiate timor.

CAR.

Non ho paura. (finge timore)

BRUN.

(Toccando il tamburo, s’avanza con passo grave)

CAR.

Oh, che spirito grave! Oh, che andatura!

DOR.

Non abbiate timor.

CAR.

Non ho paura.

Dimmi, chi sei?

BRUN.

Spirto del Conte.

CAR.

Dimmi, che vuoi?

BRUN.

Vuò che tu vada

Fuori di qua.

CAR.

Pria questa spada

Ti ucciderà.

(caccia una spada fuori di sotto l’abito da pellegrino, e si a

Brunoro)

BRUN.

Aiuto, pietà!

DOR.

Oimè! che cosa vedo?

Scoperta è l’impostura.

CAR.

Non abbiate timor.


DOR.

Non ho paura.

CAR.

Presto, parla, chi sei?

BRUN.

Son un che cento doppie

Guadagnai per suonar questo tamburo;

Ma, signore, vi giuro in verità,

Dorina ne guadagna la metà.

DOR.

Non è ver, non so nulla.

CAR.

Oh, che buona fanciulla!

SCENA ULTIMA

La Contessa, il Marchese, poi Ghitta, Cecco e detti.

CONT.

Olà, che cosa è questa?

MAR.

Colla spada alla mano!

CAR.

Ecco lo spirto

Scoperto, svergognato,

Che mi chiede pietade inginocchiato.

MAR.

Ma tu sei, temerario,

Qualche indegno sicario.

CONT.

Ov’è il consorte

Che promettesti a me salvo da morte? (al Conte)

MAR.

A un impostor credete?

CAR.

Il consorte vedrete.

È vivo, è sano, è bello.

Lo volete veder? Ecco, io son quello. (si leva la finta barba)

MAR.

(Che vedo!)

CONT.

Ah Conte mio,

Qual gioia, qual contento!

MAR.

(Ah perdute speranze!)

DOR. BRUN.

} a due                                 Oh, che spavento!

CAR.

Parla, che fai tu qui? Tutto l’inganno,

Tutto a me fa palese. (a Brunoro)

BRUN.

Difendetemi voi, signor Marchese.

MAR.

Conte, è ver, lo confesso:

Morto ognun vi credea. Della Contessa

Io fui perduto amante:

Ella, fida e costante al sposo estinto,

Mi sprezzò, non mi volle,

Ed io, per acquistarla,

Mi provai colle larve a spaventarla.

CAR.

Quest’azion non è degna

Di onesto cavalier.

MAR.

Pentito io sono,

E del commesso error chiedo perdono.

CAR.

A chi chiede perdon, non so negarlo.

BRUN.

Anch’io dunque, signor, potrò sperarlo.


} }


a due

a due

} adue } adue

CAR.

MAR.

BRUN.

DOR.

MAR.

BRUN.

DOR.

CAR. CONT.

GHI. CEC.

CAR. CONT. GHI. CEC.


Vattene, scellerato.

Il piacer di trovare

Una sposa fedele a questo segno,

Tutta mi fa depor l’ira e lo sdegno.

Parto pien di rossore, e vi protesto

Che la mia debolezza ora detesto

Parto pien di vergogna, e m’addolora,

Perché le cento doppie ho perso ancora.

Ed io lieta n’andrò,

Se il perdono da voi ottenerò.

Sposi felici, Godete in pace La bella face Del caro amor. (parte) Sposi beati, Se fidi siete, Ognor avrete Contento il cor. Sposini cari, Or rinnovate Le fiamme grate Del primo ardor. Che bel piacere! Che bel diletto! Mi nasce in petto Gioia maggior. Viva il padrone

Ch’è ritornato,

Ed ha scacciato

Tutto il timor! (escono cantando) Noi siam due cori

Fidi, amorosi. E fatti sposi

Noi siamo ancor.


TUTTI

Che bel contento! Che dì giocondo! Non si dà al mondo Piacer maggior.

Fine del Dramma.