Il diavolo bianco

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IL DIAVOLO BIANCO

Commedia in cinque atti

diJOHN WEBSTER

PERSONAGGI

MONTICELSO, cardinale, poi papa

FRANCESCO DE MEDICI, duca di Firenze

BRACCIANO duca diBracciano, marito di Isabella

GIOVANNI, suo figlio

IL CONTE LODOVICO

CAMILLO, marito di Vittoria

FLAMINIO, fratello di Vittoria, al seguito di F. De Medici

MARCELLO, fratello di Vittoria, al seguito di F. De Medici

ORTENSIO, al seguito di Bracciano

ANTONELLI

                                                  GASPARO               al seguito del Duca di Firenze

IL DOTTOR GIULIO

MAGO

L’AVVOCATO

IL CARDINALE D’ARAGONA

JAQUES

CRISTOFORO

ISABELLA, sorella di Francesco de Medici, moglie di Bracciano

VITTORIA COROMBONA, sposa in prime nozze di Camillo, poi di Bracciano

CORNELIA, madre di Vittoria


Commedia formattata da

ATTO PRIMO

SCENA I.

Roma. Una strada.

Entrano il Conte Lodovico, Antonelli e Gasparo.

Lodovico                - Bandito!

Antonelli                       - Mi ha molto rattristato udire la sentenza.

Lodovico                - Ah! ah! ODemocrito, ìtuoi dèi che governano il mondo intero! ricompènsa e punizione di corte. La Fortuna è davvero uria sgualdrina: se da qualche cosa, la distribuisce in piccole parti, per poter portar via tutto in un sol colpo. Ecco che cos'è aver nemici i grandi: Dio li rimeriti! La lupa non par veramente lupa che quando è affamata.

Gasparo                         - Quelli che chiamate nemici son uomini di condi­zione, principesca.

Lodovico                      - Oh, io prego per loro: la violenta folgore è ado­rata da quelli che riduce in pezzi.

Antonelli                       - Orsù, mio signore, siete condannato giustamente: guardate solo, un po' indietro la vostra vita passata; in tre anni, avete rovinata la più nobile contea.

Gasparo                         - I vostri seguaci vi hanno trangugiato come balsamo di mummia, e, disgustati di una così innaturale e orribile medi­cina, vi vomitano nel rigagnolo.

Antonelli                       - Avete barcollato attraversando tutti i dannati gradi dell'ubriachezza; un cittadino che è signore di due bei manieri vi chiamava padrone solo per il vostro caviale.

Gasparo                         - Quei nobili che erano invitati alle vostre prodighe feste (dove appena la fenice poteva sfuggire alle vostre gole), ridon della vostra miseria; come presentissero in voi una vana meteora, che, estratta[1] dalla terra, si sarebbe presto perduta nell'aria.

Antonelli                       - Scherzan su voi, e dicono che foste generato in un terremoto; avete fatto rovine di così belle signorie.

Lodovico                      - Molto bene. Questo pozzo va con due secchie: e debbo aspettare che si vuotino tutte e due.

Gasparo                         - Peggio ancora; avete commessi certi delitti, qui in Roma, sanguinosi e pieni d'orrore.

Lodovico                - Ahimè, eran morsicature di pulce. Perché non si son presi la mia testa, allora?

Gasparo                         - Oh, mio signore, a volte la legge indulge, pensa sia bene non affogare sempre i peccati violenti nel sangue: questa moderata punizione può, al tempo stesso, por fine ai vostri de­litti e, coll'esempio, migliorare questi cattivi tempi.

Lodovico                      - Già; ma, allora, mi stupisco che certi grandi, uomini sfuggano al bando: c'è Paolo Giordano Orsini, il duca, di ' Bracciano, che ora vive in Roma, e con serrate arti di mezzano cerca di prostituire l'onore di Vittoria Corombona; Vittoria, quella che, con un bacio al Duca, avrebbe potuto ottenere il mio perdono.

Antonelli                - Siate uomo, interamente. Vediamo che gli alberi non danno frutti tanto graditi dove primamente nacquero come, dove son trapiantati adesso; i profumi, più son pestati, più esalano il loro piacevole odore; e così l'afflizione rivela appieno: la virtù: se vera, o contraffatta.

Lodovico                - Lasciate i vostri artificiosi conforti: farò dèi ricamiall'italiana nelle loro budella, se mai ritorno.

Gasparo                  - Oh, signore!

Lodovico                - Sono paziente. Ho veduto certuni, pronti per essere giustiziali, dar sorrisi e danaro e diventar familiari coti tristo boia; così faccio io; li ringrazio, e li terrei per nobilmente!'' pietosi se mi spacciassero presto.

Antonelli                       - Addio: troveremo un tempo, non ne dubito, per far revocare il vostro bando.

Lodovico                      - Vi son per sempre: obbligato: questa è la carità del mondo; vi prego, profittatene. I grandi vendono così le pecore, perché siedo fatte a pezzi, ma prima le hanno tosate alla pelle, e han venduto il loro vello. (Escono.

SCENA II.

In casa di Camillo

Trombe. Entrano Bracciano, Camillo, Flaminio, Vittoria Corombona e Seguito.

Bracciano                      - Il miglior riposo a voi!

Vittoria Corombona - A voi, mio signor Duca, i migliori omaggi; ancora fiaccole! accompagnate il Duca.

(Escono Camillo e Vittoria Corombona)

Bracciano                      - Flaminio....

Flaminio                 - Mio signore?

Bracciano                - Del tutto perduto, Flaminio.

Flaminio                        - Seguite i vostri'nobili desideri, io son pronto come il lampo al vostro servizio. Oh, mio signore, la bella Vittoria, la mia felice sorella (sottovoce) vi darà udienza fra poco. Si­gnori, rimandate la carrozza; e piace al Duca che spegniate tutte le vostre torce, e ve ne andiate. (Esce il Seguito.

Bracciano                - Siamo tanto felici?

Flaminio                        - Può essere altrimenti? Non osservaste stanotte, mio onorato signore, che da qualunque mai parte andaste essa vi seguiva con gli occhi? Ho già parlato con la sua cameriera, anche la mora; ed essa è straordinariamente orgogliosa di ser­vire a un così grande ardore. .

Bracciano                      - Siamo felici oltre la speranza, perché oltre il merito.

Flaminio                        - Oltre il merito — ora possiam parlare liberamente oltre il merito! Che cosa vi fa dubitare? il suo riserbo? Questa non è che la superficie del desiderio, che han le più tra le donne: eppure, perché dovrebbero le dame arrossire nel sentir nominare quello che non temono toccare? Oh, sono ac­corte: sanno che il nostro desiderio è accresciuto dalla difficoltà del godimento; mentre la sazietà è una passione languida, stanca, torpida. Se, a corte, lo sportello della dispensa fosse continuamente aperto, non vi sarebbe una folla tanto avida, né un così impetuoso sollecitar le bevande.

Bracciano                      - Oh, ma il suo geloso marito....

Flaminio                 - Vada a farsi impiccare! un doratore, che ha il cer­vello mangiato dall'argento vivo, non ha il fegato più freddo; nei grandi tornei non son volati via più pennacchi che lui non abbia perduto capelli, da quello che confessa il suo medico; un giocatore irlandese, che gioca fino a rimanersene nudo e poi scommetterebbe tutto dalla cintola in giù affidandosi al caso[2],non è più ardito; cosi incapace di piacere a una donna che, à mo' di giustacuore olandese, tutto il suo dorso si ritira nelle brache[3]. Rifugiatevi in questo stanzino, mio buon signore: ora bisogna pensare a qualche espediente per dividere mio cognato dalla sua bella compagna di letto.

Bracciano                      - Oh, se non venisse?

Flaminio                 - Non voglio vedere vostra signoria innamorata cosi pazzamente. Anch'io ho amato una signora, e l'ho perseguitata con una gran quantità di giovanili proteste: e tre o quattro galanti che l'avevan goduta sarebbero stati di tutto cuore cori? tenti di esser liberati di lei. E come per una voliera estiva in un giardino; gli uccelli che son fuori, disperano d'entrarvi, egli uccelli che sono dentro disperano, e si consumano, per paura di non uscirne mai. Su, su, mio signore! (Esce Bracciano) Ecco, viene. Costui, dai suoi vestiti, qualcuno lo giudicherebbe un politico; ma mettete alla prova il suo spirito, e troverete; che è soltanto un somaro con la gualdrappa.

Ritorna Camillo

Oh, fratello! Come? in viaggio verso il letto della vostra gentil moglie?

Camillo                   - Vi assicuro, fratello, no; il mio viaggio è più al nord, verso assai più freddo clima: non ricordo, lo protesto, l'ultima volta che mi son coricato con lei.

Flaminio                 - Strano che abbiate perduto il conto.

Camillo                         - Non ci corichiamo mai insieme, che prima di mat­tina non ci sia uno screzio fra noi.

Flaminio                        - Sarebbe stato il dover vostro di chiudere quello screzio….

Camillo                   - Vero, ma le ripugna vedermici.

Flaminio                 - Come, signore, di che si tratta?

Camillo                         - Il Duca vostro padrone viene a visitarmi, e lo rin­grazio; e m'accorgo in qual modo, come un appassionato gioca­tore di bocce, con molto ardore inclini dalla parte verso la quale vorrebbe corresse la sua palla.

Flaminio                        - Spero che non pensiate....

Camillo                         - Che i nobili giocan falso? In fede mia, la sua guan­cia ha. là più eccellente pendenza; vorrebbe bene mettersi a paro con mia moglie[4].

Flaminio                 - Volete essere un somaro, malgrado il vostro Aristotile? o un becco, contrariamente alle vostre effemeridi, che vi mostrano sotto quale sorridente pianeta foste messo in fasce là prima volta?

Camillo                         - Poh, poh, signore, non parlatemi di pianeti né di effemeridi: un uomo può esser fatto becco di pieno giorno, quando gli occhi delle stelle sono chiusi.

Flaminio                        - Signore, Dici sia con voi; vi affido al vostro mise­ricordioso guanciale, imbottito di trucioli di corna.

Camillo                         - Fratello....

Flaminio                        - Che Dio mi rifiuti, se ora vi posso dar consiglio: la vostra sola linea di condotta sarebbe di tener vostra moglie sotto chiave.

Camillo                         - Sarebbe molto bene.

Flaminio                 - Proibirle di veder feste.

Camillo                         - Eccellente.

Flaminio                 - Non lasciarla andare in chiesa, ma tenerla un cane al guinzaglio, ai vostri talloni.

Camillo                   - Sarebbe per il suo onore.

Flaminio                 - E cosi sareste certo, in quindici giorni, malgrado la sua castità e la sua innocenza, di esser fatto becco, cosa che è ancora sospesa: questo è il mio consiglio, e per esso non domando onorario.

Camillo                   - Andiamo, voi non sapete dove la mia berretta da notte mi fa male.

Flaminio                        - Portatela all'antica; lasciate venir fuori le vostre grosse orecchie, sarà più comoda. No, sarò crudele: toglieteli a vostra moglie i suoi divertimenti: le donne sono più volentieri e più gloriosamente caste, quando son meno limitate nella loro libertà. Pare vogliate essere un bei vagheggino, capriccioso, minuzioso nella gelosia; che vogliate misurare l'altezza delle vostre corna con una pertica, prima che siano cresciute. Questi recinti da furbo per miseri montoni[5] fan ribellare la carne più che tutti gli elettuari eccitanti venduti dai medici dall'ultimo giubileo in qua.

Camillo                         - Questo non mi guarisce.

Flaminio                        - Pare che siate geloso: vi mostrerò l'errore con un esempio familiare. Ho veduto un paio d'occhiali fabbricati con tale arte ottica, che, se mettete sul tavolo una moneta di dodici danari, vi parrà che ve ne siano venti: ora, se voi portaste, un paio di questi occhiali, e vedeste vostra moglie legarsi una scarpa, immaginereste che venti mani stessero tirandole su le sottane e questo vi farebbe andare in una terribile furia, Senza ragione.

Camillo                         - Qui l'errore, signore, non è nella vista. 

Flaminio                 - Vero; ma quelli che hanno la gialla itterizia credono che tutti gli oggetti che guardano siano gialli. La gelosia è peggiore: i suoi accessi presentano a un uomo, come altret­tante bolle in un bacile d'acqua, venti facce bisbetiche diverse; molte volte fa della sua ombra colui che lo fa becco. Ecco, viene.

Ritorna

Vittoria Corombona     

Che ragione avete di esser geloso di questa creatura? che asino ignorante o briccone adulatore potrebbe esser considerato chi scrivesse sonetti per i suoi occhi, o chiamasse la sua fronte la neve dell'Ida o avorio di Corinto, o paragonasse i suoi capelli al becco del merlo, quando son più simili alle penne del merlo! Questo è tutto: siate saggio, io vi farò diventare amici; e an­drete a letto insieme. Perdinci, ma state attento, non glielo dovete domandare; tenetevi a questo assolutamente: passeggiate da solo; non vorrei vi si vedesse. (Camillo si ritira) Sorella, il mio signore vi aspetta nella sala dei banchetti. Vostro marito è estremamente scontento.

Vittoria Corombona      - Non ho fatto nulla per dispiacergli: a cena, ho trinciato per lui.

Flaminio                 - Non c'era bisogno che lo trinciaste, in fede mia; dicono che è già cappone. Ora bisogna io finga di litigare con voi. Deve un gentiluomo di buon lignaggio come

Camillo                         - uno schiavo pidocchioso, che vent'anni or sono andava con gli ul­timi fra i servi dell'equipaggio del Duca, fra spiedi e leccarde....

Camillo                         - Ora incomincia a solleticarla.

Flaminio                 - Un letterato eccellente, uno che ha la testa ripiena di cervella di vitello, e senz'ombra di salvia, venire da voi trascinandosi sulle natiche per aver alloggio una notte? Lui che ha alle natiche un prurito, che come il fuoco nella fornace del vetro non s'è spento da sette anni: non è costui un cortese gentiluomo? Quando è vestito di raso bianco, lo si prende­rebbe, con quel muso nero, non per altro che per un verme. Siete un bello specchietto[6]ne convengo, ben collocato; ma coperto con una pietra falsa, quel diamante contraffatto.

Camillo                         - Le farà conoscere quello che valgo.

Flaminio                 - Venite, il mio signore vi aspetta; andrai a letto col mio signore... .

Camillo                         - Ora ci viene.

Flaminio                 - Col gusto sapiente col quale un vinaio sta per de­gustare il vino nuovo. (A Camillo) Sto aprendo la vostra faccenda con vigore.

Camillo                         - Un virtuoso fratello, sull'onor mio!

Flaminio                 - Ti darà un anello con una pietra filosofale.

Camillo                         - In verità, sto studiando alchimia.

Flaminio                 - Ti coricherai in un letto gonfio di piume di tor­tora; verrai meno in mezzo alla biancheria profumata, come quello che fu soffocato tra le rose. La tua felicità sarà tanto perfetta che, come gli uomini quando sono per mare credono la terra e gii alberi e le navi vadano nella loro direzione, ti parrà che il ciclo e la terra facciano la tua traversata. Gli devi andare incontro: è cosa fissata con chiodi di diamante1 all'inevitabile necessità.

Vittoria Corombona      - Come ci sbarazzeremo di costui?

Flaminio                        - Gli metterò tafani nella coda: lo farò partire tra poco come un razzo. (A Camillo) La ho quasi fatta decidere, sento che ci viene: ma, se potessi consigliarvi, adesso, per stanotte non mi coricherei con lei; contrarierei, la sua .'di­sposizione per renderla più sottomessa.

Camillo                         - Vi pare, vi pare?

Flaminio                        - Questo mostrerà in voi una supremazia di giudizio.

Camillo                         - Vero, e una mente che differisce dall'opinione della folla perché quae negala, grata.

Flaminio                 - Giusto: voi siete la calamità e l'attirerete a voi, pur rimanendo a distanza.

Camillo                         - Ragione filosofica.

Flaminio                 - Andatele vicino con aria da gentiluomo, e ditele che dormirete con lei alla fine del viaggio.

Camillo                         - (avanzandosi). Vittoria, non mi so indurre, o, come direbbe un uomo, incitare....

Vittoria Corombona      - A far che cosa, signore?

Camillo                         - A dormire con voi stanotte. Il baco da. seta usa digiunare ogni tre giorni, e il giorno seguente fila meglio. Domani notte sono per voi..  ' :

Vittoria Corombona      - Filerete: un bel filo, siatene sicuro.

Flaminio                 - Ma, sentite, temo che scivoliate nella sua camera, verso mezzanotte.

Camillo                         - Credete? ebbene, fratello, perché non crediate che vi inganni, prendete la chiave, chiudetemi in camera, e dite che sarete sicuro di me.

Flaminio                 - In fede mia, lo farò: sarò il vostro carceriere, per una volta. Ma non avete per caso una porta nascosta?

Camillo                   - Che le venga la peste, come è vero che son cri­stiano. Mi direte domani con quanta rabbia prenderà il mio scortese congedo.

Flaminio                 - Lo farò.

Camillo                         - Non hai notato lo scherzo del baco da seta? Buona notte: in fede mia, mi servirò spesso di questa burla.

Flaminio                 - Sì, sì, sì. (Esce Camillo e Flaminio chiude la porta dietro a lui) E così adesso siete al sicuro. Ah, ah, ah! tu ti intrappoli nel tuo stesso lavoro, come un baco da seta. Venite, sorella; l'oscurità nasconde. il vostro rossore. Le donne son come cagne dispettose: il decoro le tien legate tutto il giorno, ma vengono sciolte a mezzanotte; allora fanno molto bene, o molto male. Mio signore… mio signore!

Ritorna Bracciano.

Zanche porta fuori un tappeto, lo stende, e pone su di esso due ricchi cuscini.

Bracciano                      - Credetemi, vorrei che il (tempo si fermasse, e che mai finisse questo incontro, quest'ora: ma ogni gioia presto si consuma.

Entra Cornelia, nascosta, e sta in ascolto.

Permettete che nel vostro seno, felice signora, io versi, invece d'eloquenza, i miei voti; non mi scacciate, signora; per­ché, se mi abbandonate, son perduto in eterno.

Vittoria Corombona      - Signore, per carità, desidero che il vo­stro cuore stia bene. .

Bracciano                      - Siete un dolce medico.

Vittoria Corombona      - Certo, signore, l'odiosa crudeltà nelle donne è come molti funerali per i medici; toglie loro ogni credito.

Bracciano                      - Eccellente creatura! Chiamiamo buone le crudeli che nome daremo a voi che siete tanto misericordiosa? 

Zanche                          - Guardate, ora si abbracciano.

Flaminio                        - Felicissima unione.

Cornelia                        - La paura mi invade. Oh mio cuore! Mio figlio mezzano! ora trovo che la nostra casa sprofonda in rovina. I terremoti lasciano, dopo la loro tirannia, ferro, piombo, o pietra; ma, sventura e rovina, la violenta lussuria non lascia nulla!

Bracciano                      - Che valore ha questo gioiello?

Vittoria Corombona      - È l'ornamento d'una piccola fortuna.

Bracciano                      - In verità, lo voglio avere: no, cambierò soltanto!! il mio gioiello col vostro.

Flaminio                        - Benissimo! Il gioiello di lui per il gioiello di lei ben azzeccato, Duca.

Bracciano                      - No, ch'io ve lo veda portare.

Vittoria Corombona      - Qui, signore?

Bracciano                      - No, più in basso, dovete portare il mio gioiello più in basso.

Flaminio                 - Ancora meglio; deve portare il suo gioiello più in basso.

Vittoria Corombona - Per passare il tempo, racconterò a vostra grazia un sogno che ho fatto stanotte.

Bracciano                      - Molto volentieri.

Vittoria Corombona      - Un pazzo e vano sogno. Mi pareva di camminare a mezzanotte in un cimitero, dove un bell'albero di tasso allargava nella terra la sua ampia radice. Sotto quel tasso mentre sedevo triste appoggiata a una tomba rigata di bastoni! in croce, vennero furtivamente la vostra Duchessa e mio maritò:! uno di essi portava una zappa, l'altro una vanga rugginosa;'ei con ruvide parole cominciarono ad accusarmi a proposito di quel tasso.

Bracciano                      - Di quell'albero?

Vittoria Corombona      - Di quel tasso innocente: mi dissero che il mio intento era di sradicare quel tasso vigoroso, e piantare al suo posto un pruno secco; e'per questo giuravano di seppellirmi viva. Subito mio marito cominciò a scavare con la zappa, e la vo­stra crudele Duchessa con la sua vanga, come una Furia, buttava via la terra e spargeva ossami. Signore, come mi pareva di tre­mare! Eppure, malgrado tutto il terrore, non potevo pregare.

Flaminio                 - No; il diavolo era nel vostro sogno.

Vittoria Corombona      - Quando, a salvarmi, si levò, mi parve, una raffica, che fece cadere'un ramo massiccio da quella forte pianta; ed entrambi furono colpiti à morte da quel sacro tasso, in quella vile fossa a fior di terra che avevano meritata.

Flaminio                        - Demone eccellente gli ha insegnato; con un so­gno, a sbarazzarsi della sua Duchessa e di suo marito.

Bracciano                      - Interpreterò amabilmente questo vostro sogno. Voi siete fra le braccia di uno che vi proteggerà da tutti i furori di un marito geloso; dall'odio meschino della nostra fredda Duchessa. Vi métterò al di sopra della legge e al di sopra della maldicenza; darò ai vostri pensieri la scoperta e il godimento della gioia; e le cure del governo non mi divideranno da voi che quanto occorrerà per mantenervi ih alto: sarete per me, a un tempo, ducato, salute, moglie, figli, amici, e tutto.

Cornelia                        - (venendo avanti) .Guai ai cuori leggeri, precorrono sempre la nostra rovina!

Flaminio                        - Qual Furia ti ha suscitato? Via, via!

Esce Zanche

Cornelia                  - Che cosa fate qui, mio signore, nel cuore della notte? Fino ad ora, qui non è mai caduta la muffa su un fiore.

Flaminio                        - Vi prego, volete andarvene a letto, allora, per non esserne guasta?

Cornelia                  - Oh, perché in questo bel giardino non sono state dapprima piantate tutte le velenose ' erbe di Tessaglia; perché non ne è stato fatto il vivaio dei sortilegi, piuttosto che il se­polcro dell'onore di voi due!

Vittoria Corombona      - Cara madre, ascoltatemi.

Cornelia                  - Oh, tu fai curvare: la mia fronte verso la terra, prima che per natura! Ecco la maledizione dei figli! Nella vita, di frequente ci fanno lagrimare; e nella fredda tomba ci lasciano in pallidi terrori. 

Bracciano                - Andiamo, andiamo, non vi voglio ascoltare.

Vittoria Corombona      - Caro mio signore....

Cornelia                  - Dov'è ora la tua Duchessa, adultero Duca? Tu non sognavi certo che stanotte è venuta a Roma.  

Flaminio                 - Come! venuta a Roma!

Vittoria Corombona      - La Duchessa!

Bracciano                      - Meglio avrebbe fatto....

Cornelia                        - Le vite dei principi dovrebbero esser come le meridiane, la regolarità dei cui esempio è tanto forte che fanno andare il tempo, secondo esse, bene o male.

Flaminio                        - Bene; avete finito?

Cornelia                        - Sventurato Camillo!

Vittoria Corombona      - Giuro, se un casto rifiuto, se qualsiasi cosa che non fosse il sangue avesse potuto calmare le sue lunghe preghiere....

Cornelia                  - Mi unirò con te pel più triste voto per la quale madre si sia mai inginocchiata: se tu così disonori il letto di tuo marito, sia la tua vita breve come le lagrime alle esequie dei grandi...

Bracciano                      - Ohibò, ohibò, questa donna è pazza.

Cornelia                        - Il tuo atto sia come quello di Giuda: il tradimento in un bacio. Possa tu essere odiata durante il suo breve respiro e compianta come sciagurata dopo la sua morte!

Vittoria Corombona - Oh, maledizione su di me!

Esce.

Flaminio                        - Siete fuor di senno, mio signore? Ve la ricondurrò.

Bracciano                      - No, andrò a letto: mandatemi subito il dottor Giulio. Donna senza carità! la tua lingua temeraria ha fatto levare una tempesta terribile e di malaugurio: sarai tu la causa di ogni male che verrà.

Esce

Flaminio                 - Ora, voi che ci tenete tanto al vostro onore, è questo notturno un tempo adatto per mandare a casa un duca senza neppure unuomo? Mi piacerebbe sapere dove è nascosta la massa di ricchezze che avete accumulate per il mio mantenimento, perche io possa portar la mia barba oltre il livello delle staffe del mio signore[7]

Cornelia                        - Come! perché siamo poveri dobbiamo essere in­fami?

Flaminio                        - Vi prego, che mezzi avete per tenermi lontano dalla galera o dalla forca? Mio padre ha mostrato di essere un per­fetto gentiluomo: ha vendute tutte le sue terre e, da uomo fortunato, è morto prima che il danaro fosse speso. Voi mi avete fatto educare a Padova, ne convengo, dove, lo confesso, per mancanza di mezzi (l'università mi sia testimone) mi son contentato di rammendare le calze del mio maestro per almeno sette anni, i quali, cospirando con la mia barba, m'hanno fatto diventar baccelliere; e poi, al servizio di questo Duca. Ho visi­ tata la corte, dalla quale son tornato più cortese, più lascivo assai, ma non più ricco d'un vestito. E dovrò, con una strada tanto aperta e libera per migliorar, condizione, conservare il vostro latte sulla mia pallida fronte? No, armerò questo mio volto e lo farò .forte con vino, generoso contro la vergogna e il rossore.

Cornelia                  - Oh, potessi non avertimai portato!

Flaminio                        - Così vorrei anch'io fosse; vorrei che la più volgare cortigiana di Roma fosse stata mia madre, piuttosto che te. La Natura è molto pietosa con le. sgualdrine, se da a esse pochi figli, eppure, a quei figli, una quantità di padri: sono sicuri di non trovarsi in bisogno. Va', va' a lamentarti da sua emi­nenza il Cardinale; eppure può anche essere che egli giustifichi il mio atto. Licurgo si maravigliava assai che gli uomini prov­vedessero buoni stalloni alle loro giumente, eppure soffrissero che le loro belle mogli fossero sterili.

Cornelia                        - Miseria delle, miserie!. 

Esce.

Flaminio                        - La Duchessa è venuta a Corte! Questo non mi piace. Siamo impegnati a fare il male, e dobbiamo continuare: come i fiumi per trovare l'Oceano scorrono per tortuosi meandri tra rive a forza dedotte; o come vediamo, per innalzarsi alla cima di un monte, la via salire non dritta, ma imitando il sottile ri­piegarsi di una serpe invernale; così, chi conosce la politica e il suo vero aspetto troverà le sue vie tortuose e indirette.  

Esce.

ATTO SECONDO

SCENA I.

Roma. Nel Palazzo di Francesco.

Entrano Francesco De Medici, il Cardinale Monticelso,

Marcello, Isabella, il giovane Giovanni col piccolo Jaques, il moro.

Francesco de Medici       - Non avete veduto vostro marito da quando siete arrivata?

Isabella                   - Non ancora, signore,

Francesco de Medici     - Certo egli è maravigliosamente cortese: se io avessi una colombaia come quella di

Camillo                         - ci metterei il fuoco, non fosse che per distruggere le puzzole che la perseguitano. Mio grazioso nipote!

Giovanni                       - Signor zio, mi avete promesso un cavallo e un'armatura.

Francesco de Medici     - Certo, mio grazioso nipote. Marcello, cura che si provveda.

Marcello                        - Mio signore, è qui il Duca.

Francesco de Medici     - Sorella, andate! non dovete ancoraesser veduta.

Isabella                          - Vi supplico, sollecitatelo con dolcezza; non fate che si la vostra lingua aspra accresca la nostra discordia. Tutti i torti verso di me, son presto perdonati; e non dubito che, come gli uomini, per provare il prezioso corno dell'unicorno[8] fanno della sua polvere un cerchio di protezione, e in esso mettono un ragno, così queste braccia saranno un incanto per il suo veleno, lo costringeranno a obbedirete lo manterranno puro dallo smarrimento vizioso.

Francesco de Medici     - Auguro possa essere. Andate, lasciate la stanza.  

Escono Isabella, Giovanni e Jaques.

Entrano Bracciano e Flaminio.

Siete il benvenuto; volete sedere? Vi prego, mio si­gnore, siate voi il mio oratore, il mio cuore è troppo gonfio; vi seconderò tra poco.  

Monticelso                    - Prima di cominciare, lasciate che preghi vostra grazia di trattenere la collera che può esser provocata dal mio libero parlare.

Bracciano                      - Silenzioso comein chiesa: potete continuare.

Monticelso                    - È una maraviglia per i vostri nobili amici che, essendo per così dire entrato nel mondo con uno scettro incon­testato nella' vostra abile mano, e ai doni della natura avendo ben applicate alte doti di sapere, abbiate, nel hot dell'età, trascurato il vostro temuto trono per le molli piume di un letto insa­ziato. Oh, mio signore, il beone, dopo. tutte le sue generose bevute, è secco, e, poi, sobrio: così, alla fine, quando vi sve-glierete da questo sogno di lascivia, seguirà il pentimento, come l'aculeo che è nella coda della vipera. Sciagurati i principi quando la fortuna fa avvizzire solo un piccolo fiore delle loro grevi corone, e rapisce pur una sola perla dai loro scettri. Ma, ahimè, quando perdono la fama in un volontario naufragio, tutti i titoli principeschi, periscono col loro nome!

Bracciano                      - Avete detto, mio signore.

Monticelso                    - Abbastanza per farvi provare quanto io sia lon­tano dal lusingare la vostra grandezza.

Bracciano                      - Ora voi, che siete il suo secondo, che cosa dite? Non andate intorno girando come i giovani falchi: la vostra preda vola propiziale per voi.

Francesco de Medici     - Non temete: vi risponderò nei vostri termini di falconeria. Vi son aquile che dovrebbero mirare il sole e di rado si levan alte, ma stanno al loro agio vizioso, poiché possono cogliere la preda degli uccelli da cortile. Conoscete Vittoria....

Bracciano                - Sì.

Francesco de Medici     - Vi cambiate la camicia là, quando tornate dalla pallacorda.

Bracciano                - Può essere.

Francesco de Medici     -Suo marito è signore d'una povera for­tuna; pure essa porta broccato.

Bracciano                - Ebbene? Vorrete insistere su questo, mio signor cardinale, come parte della sua confessione alla prossima asso­luzione, e sapere che vento lo porta?

Francesco de Medici     -È la vostra sgualdrina.

Bracciano                - Scortese signore, v'è della cicuta nel tuo fiato, ed è nera calunnia. Fosse una mia bagascia, tutti i tuoi tonanti cannoni e i tuoi Svizzeri mercenari, le tue galere e i tuoi alleati! giurati, non la potrebbero scacciare.

Francesco de Medici     - Non parliamo tonando. Hai una moglie, nostra sorella. Così io avessi date entrambe le sue bianche mani alla morte, legate e serrate nel suo ultimo funebre; lenzuolo, quando ne concessi a te una soltanto!

Bracciano                - Avresti dato un'anima a Dio, allora.

Francesco de Medici     -Vero: il tuo padre spirituale, con tutte le sue assoluzioni, non farà mai altrettanto per te.

Bracciano                - Sputa il tuo veleno.

Francesco de Medici     -Non ne avrò bisogno; la lussuria porta , la sua frusta tagliente alla cintura. Sta' in guardia, perché, là nostra ira prepara le sue folgori.

Bracciano                - Folgori! in fede mia, non sono che petardi.

Francesco de Medici     -Finiremo questa cosa con i cannoni.

Bracciano                - Non ne avrai che ferro nelle tue ferite e polvere da sparo nelle tue narici.

Francesco de Medici     - Meglio questo, che mutare profumi,, con empiastri[9].

Bracciano                - Pietà su di te! Sarebbe bello mostraste ai vostri schiavi o ai condannati questa sfida della vostra fronte corrugata; e io ti affronterò anche in un folto dei tuoi uomini migliori.

Monticelso              - Miei signori,- non andrete più in là con le parole senza metter loro un limite più cortese.

Francesco de Medici     - Volentieri.

Bracciano                - Avete proclamato un trionfo, che aizzate cosi un leone[10]?

Monticelso              - Mio signore!

Bracciano                - Son domato, son domato, signore.

Francesco de Medici     - Mandiamo dal Duca per conferire con lui su una leva contro i pirati; monsignore il Duca è in casa. Veniamo in persona, e ancora monsignore il Duca è occu­pato. Ma temiamo, quando il Tevere a ogni passante in cerca di preda mostra stormi di anitre selvatiche[11]; allora, mio si­gnore, al tempo della muda[12], voglio dire, saremo ben sicuri di trovarvi, e di parlare veramente con voi.

Bracciano                - Ah!. 

Francesco de Medici     - Una fanfaluca, le mie parole son vane...; ma per finire il sonetto con una ragion naturale, quando i cervi diventano malinconici[13], conoscerete la stagione.

Monticelso              - Non più, mio signore: ecco un campione che metterà fine alla contesa tra voi due.

Ritorna Giovanni

Vostro figlio, il principe Giovanni.  Vedete, miei signori, quali speranze riponete in lui: questo è un cofanetto per tutte e due le vostre corone, e do­vrebbe esser tenuto altrettanto caro. Ora è in grado di capire; perciò sappiate che è via più dritta e più facile educare alla virtù le persone di sangue principesco con gli esempi che coi precetti. Se con gli esempi, chi dovrà sforzarsi di imitare se non suo padre? Siate il suo modello, allora; lasciategli un patrimonio di virtù che possa durare se la fortuna lacerasse le sue vele e schiantasse il suo albero.

Bracciano                      - La vostra mano, ragazzo: stai diventando soldato?

Giovanni                       - Datemi una picca.

Francesco de Medici     - Come, usate la picca cosìgiovane, mio bel nipote?

Giovanni                       - Supponete ch'io sia una delle rane d'Omero[14], mio signore, e che lanci cosi il mio giunco. Vi prego, signore, ditemi, non potrebbe un fanciullo discreto esser capo di un esercito?

Francesco de Medici     - Sì, nipote, un principe giovane è discreto, potrebbe.

Giovanni                 - Cosi, dite? In verità, ho sentito che s'addice a un generale non mettere spesso in pericolo la sua persona purché quando è a cavallo faccia tanto rumore quanto un tamburino danese — oh, è bellissimo! — non ha bisogno di combattere; mi pare che anche il suo cavallo potrebbe guidare un esercito al suo posto. Se ho vita, andrò alla carica contro il nemico francese alla testa stessa delle mie truppe, primo tra tutti.

Francesco de Medici     - Come, come!

Giovanni                       - E non comanderò ai miei soldati di andare avanti, e io dietro, ma comanderò loro di seguirmi.

Bracciano                      - Precoce pavoncella! Vola col guscio ancor sulla testa.

Francesco de Medici     - Grazioso nipote!

Giovanni                       - Ilprimo anno che andrò alla guerra, zio, libererò tutti  i prigionieri che prendo, senza riscatto.

Francesco de Medici     - Ah, senza riscatto! E allora, come compenserete i vostri soldati, che avran fatti quei prigionieriper voi?

Giovanni                       - Così, mio signore; li sposerò con tutte le vedove ricche che vi saranno in quell'anno. .

Francesco de Medici     - Ma, allora, l'anno seguente non avrete uomini che vengano con voi in guerra.

Giovanni                 - E allora, farò venir le donne alla guerra, e allora gli uomini le seguiranno.

Monticelso                    - Spiritoso principe!

Francesco de Medici     - Vedete, le buone abitudini fanno uomo un ragazzo, mentre un'abitudine cattiva fa dell'uomo una bestia. Andiamo, siamo amici, voi e, io.

Bracciano                      - Con gran piacere;'come ossa che, fotte in due e ben racconciate, si saldano più forti.

Francesco de Medici     - Chiamate qui

Camillo                         - (Esce Marcello) Avete sentita la voce, che il conte Lodovico s'è fatto pirata?

Bracciano                      - Sì.

Francesco de Medici     - Ora stiamo preparando navi per im­padronirci di lui. Ecco la vostra Duchessa .Adesso vi lasciamo, e non ci aspettiamo da voi che un'accoglienza cortese.

Bracciano                      - Mi avete ammaliato. 

Escono Francesco De Me­dici, Monticelso e Giovanni; Flaminio si ritira.

Ritorna Isabella

In buona salute, vedo.

Isabella                          - E meglio che in salute, nel vedere che il mio signore sta bene.  

Bracciano                      - Sì. Mi domando qual turbine amoroso vi abbia fatta correre a Roma.

Isabella                          - La devozione, mio signore.

Bracciano                      - La devozione! L'anima vostra ha il peso di qual­che grave peccato?

Isabella                          - È gravata da troppi; e mi pare, più spesso facciamo i conti, più tranquilli saranno i nostri sonni.

Bracciano                      - Rimanete nella vostra stanza.

Isabella                   - No, signore mio caro, non voglio siate in collera: la mia assenza da voi, che è ora di due mesi, non merita un bacio?

Bracciano                      - Non son uso a baciare. Se questo scaccerà la vostra gelosia, giurerò.

Isabella                          - Oh mio amato signore, non vengo a biasimarvi. La mia gelosia! Non ho ancora imparato che cosa voglia dire in italiano. Siete tanto il benvenuto tra queste braccia impazienti quanto io a voi, vergine.

Bracciano                      - Oh, il vostro fiato! Quei dolci, e le continue medicine.... Che peste!

Isabella                          - Per queste due labbra, avete spesso sdegnata la cassia o la naturale dolcezza della violetta di primavera: non sono ancor molto appassite. Mio signore, vorrei essere allegra. Questi vostri cipigli stanno bene sotto l'elmo; ma per me, in cosi tranquillo incontro, mi pare siano troppo, troppo ruvidamente! corrugati.

Bracciano                      - Che ipocrisia! Complottate contro di me? avete: imparata l'astuzia dell'impudente viltà, per andarvi a lagnare con i vostri parenti?

Isabella                          - Mai, mio caro signore.

Bracciano                      - Debbo essere perseguitato? o non è una vostra astuzia per trovare qui in Roma un amoroso galante, che supplisca quando siamo lontani?

Isabella                   - Vi prego, signore, spezzatemi il cuore; e, quando sarò morta, tornate alla vostra antica pietà, se non all'amore.

Bracciano                      - Perché vostro fratello è il corpulento Duca, vale a dire, il gran Duca, perdinci, fra poco non potrò buttar cin­quecento corone su un colpo di racchetta a pallacorda, senza che se ne prenda nota! Lo disprezzo come un polacco pelato[15] tutto il suo riverito spirito sta nel suo guardaroba; è uomo. discreto quando è adorno delle sue vesti di gala. Vostro fra­tello, il Granduca, perché ha delle galere e di tanto in tanto spoglia una navicella turca (che tutte le Furie dell'inferno prendan l'anima sua!, ha voluto questa nostra unione. Sia maledetto il prete che cantò la messa di nozze e sia maledetta anche la mia progenie!

Isabella                          - Oh, troppo, troppo lontano è andata la vostra ma­ledizione!

Bracciano                      - Bacerò la vostra mano; questa è l'ultima cerimonia del mio amore. D'ora in poi non dormirò più con te; giuro su questo, su questo anello nuziale, che non dormirò più con te: e questo divorzio sarà tanto fedelmente osservato come se il giudice lo avesse pronunciato. Addio: i nostri sonni sono divisi.

Isabella                          - Lo vieti la dolce unione di tutte le anime benedette! Gli stessi santi del cielo aggrotteranno le sopracciglia a questo.

Bracciano                - Il tuo amore non faccia di te una miscredente. Questo mio voto, sull'anima mia, non sarà mai sciolto dal pen­timento; anche se tuo fratello infurierà più di un'orrenda tem­pesta o di un combattimento sul mare, il mio voto è fissato.

Isabella                          - Oh mio sudario! Ben presto avrò bisogno di te. Signore mio caro, fatemi udire ancora una volta quello che non vorrei udire: Mai?

Bracciano                      - Mai.

Isabella                          - Oh mio crudele signore! possano i vostri peccati trovar mercé, come io, sul mio doloroso letto vedovato, pre­gherò per voi; se non perché volgiate gli occhi sulla vostra mi­sera moglie e sul figlio che da tante speranze, perché li alziate in tempo al cielo!

Bracciano                - Basta: va', va' a lagnarti dal Granduca.

Isabella                          - No, signore mio caro; sarete subito testimone dell'opera mia per metter pace tra voi. Mostrerò d'essere io stessa l'autrice del vostro maledetto voto; io ho qualche ragione per farlo, voi non ne avete nessuna. Nascondete, ve ne scongiuro, per il bene dei vostri due ducati, di aver preparato i mezzi di una simile separazione. Ricada la colpa sulla mia supposta ge­losia; e pensate con qual cuore, triste e infranto, farò questa parte, tra poco.

Entrano Francesco De Medici, Monticelso, Flaminio, Marcello.

Bracciano                      - Bene, fate a piacer vostro. Mio onorato fratello!

Francesco de Medici     - Sorella! Questo non è bene, mio si­gnore. Come, sorella! Essa non merita quest'accoglienza.

Bracciano                      - Accoglienza, dite! È lei che m'ha fatta una fiera accoglienza.

Francesco de Medici     - Siete pazza? Su, asciugate le vostre lagrime. E un modo adatto per migliorare una cosa da nulla ingiuriare e piangere? Tornate alla riconciliazione, o, per il cielo, non interverrò più tra voi.

Isabella                          - Signore, non lo dovrete; no, neppure se Vittoria, a questa condizione, diventasse onesta.

Francesco de Medici     - Vostro marito ha alzato la voce, da quando ce ne siamo andati?

Isabella                          - No, per la mia vita; Io giuro su quello che non desidero perdere. È tutta questa funebre pompa delle rovine della mia antica bellezza preparata per il trionfo di una Sgualdrina?

Francesco de Medici     - Mi sentite? Guardate le altre donne, con quanta pazienza soffrono questi leggeri torti, con quanta giustizia si studiano di rimeritarli: scegliete il loro modo.

Isabella                          - Oh, se fossi uomo, o avessi il potere di eseguire i progetti che ho concepiti! Frusterei qualcuno con degli scor­pioni.

Francesco de Medici     - Come! divenuta una Furia! 

Isabella                          - Per cavar gli occhi a quella sgualdrina; per farla giacere venti mesi, morente; per tagliarle il naso e le labbra; per strapparle i suoi denti guasti; per conservare la sua carne come una mummia, trofeo della mia giusta collera! L'inferno, a paragone della mia sofferenza, non è che acqua di neve! Vi prego, signore; fratello, avvicinatevi, e voi, mio signor Cardinale; signore, lasciate che vi chieda un solo bacio: d'ora poi, non dormirò più con voi, lo giuro su questo, questo anello nuziale.

Francesco de Medici     - Come, non dormir più con lui! 

Isabella                          - E questo divorzio sarà tanto fedelmente mantenuto come se l'avessero udito mille orecchi in un tribunale affollato e mille mani di avvocati avessero suggellata la separazione

Bracciano                - Non dormir più con me!

Isabella                          - La mia eccessiva tenerezza di un tempo non ti facci miscredente: questo mio voto non sarà mai, sull'anima mia; non sarà mai sciolto dal pentimento; manet alta mente repostum[16]

Francesco de Medici     - Per la mia nascita, siete una donna folle, pazza e gelosa. 

Bracciano                - Vedete che non l'ho voluto io.

Francesco de Medici     - Era questo il vostro cerchio di puro corno di unicorno che dicevate avrebbe ammaliato, il vostro si­gnore? Ora, corna su di te,-perché la gelosia le merita! Man­tenete il vostro voto, e tenetevi nella vostra stanza.

Isabella                   - No, signore, andrò subito a Padova; non rimarrò un minuto.

Monticelso              - Oh buona signora!

Bracciano                      - Sarà meglio lasciarla seguire il suo capriccio; una mezza giornata di viaggio farà sbollire la sua ira, e allora ri­tornerà di galoppo.

Francesco de Medici     - Vederla venire dal mio signore il Car­dinale per una dispensa del suo voto inconsiderato, farà nascere gran risa.  

Isabella                          - Crudeltà, fa' il tuo ufficio; povero cuore, spezzati: i dolori che uccidono sono quelli che non osano parlare.

Esce.

Entra Camillo

Marcello                        - Ecco Camillo mio signore.

Francesco de Medici     - Dov'è là commissione?

Marcello                        - È qui.

Francesco de Medici     - Datemi il suggello.

Francesco De Medici, Monticelso, Camillo e Marcello si ritirano in fondo alla scena.

Flaminio                        - Mio signore, avete notato il loro sussurrare? Com­porrò una medicina, traendola da quelle due teste, più forte dell'aglio, più mortale dell'antimonio; le cantaridi[17], che si ve­dono appena attaccarsi alla carne quando lavorano fino al cuore, non lo farebbero più in silenzio, né con più invisibile astuzia.

Bracciano                      - Veniamo all'assassinio. 

Flaminio                 -  Lo mandano a Napoli, ma io lo manderò a Candia[18]. Ecco un altro bel campione.

Entra il Dottore

Bracciano                      - Oh, il dottore!

Flaminio                        - Un povero diavolo di ciarlatano, mio signore; unoche avrebbe dovuto esser frustato per la sua lussuria, se non avesse confessato d'esser già stato giudicato, non si fosse fatto fare un sequestro, e così non avesse messa la frusta fuori discussione. : ;(/

Dottore                   - E son stato frodato, mio signore, da un gaglioffo più matricolato di me, e mi hanno fatto pagare tutto il fittizio il sequestro[19]

Flaminio                        - È capace di lanciare nelle budella di un uomo, i pillole che faranno più fori di quanti non ne abbiano una cornetta o una lampreda[20]; di avvelenare un bacio; e si sa che una volta fu il suo capolavoro, poiché in Manda non nascono veleni, preparò un vapore mortale nella scorreggia di uno spagnolo, che avrebbe dovuto avvelenare tutta Dublino.

Bracciano                      - Oh, fuoco di Sant'Antonio!

Dottore                         - Il vostro segretario è allegro, mio signore.

Flaminio                        - Oh tu, maledetto avversario della natura! Guardate, ha l'occhio insanguinato, come l'ago col quale il chirurgo cuce una ferita. Lascia che ti abbracci, rospo, e ti ami, o abominevole, ripugnante gargarismo, che strapperà polmoni, occhi, cuore e legato a pezzettini!

Bracciano                      - Basta. Mi debbo servir di te, onesto dottore. Dovete andare a Padova e, intanto, usare un po' della vostra abilità per noi.

Dottore                         - Lo farò.

Bracciano                      - Ma, e Camillo?

Flaminio                        - Morrà stanotte per un tanto astuto ritrovato che la Mi genie supporrà sia stato ucciso dalla sua stessa trappola. Ma in ai quanto alla morte della vostra Duchessa...,

Dottore                         - Me ne occuperò io.

Bracciano                      - I piccoli misfatti trovano sicurezza nei più grandi.

Flaminio                        - Ricordatevi questo, schiavo; quando i bricconi ar­rivano a farsi strada, si elevano come innalzano le forche nei Paesi Bassi: montando l'uno sulle spalle dell'altro.

Escono Bracciano., Flaminio e Dottore.

Monticelso                    - Ecco un emblema, nipote, vi prego, esaminatelo: fu lanciato dentro la vostra finestra.

Camillo                   - Dalla mia finestra! Ve un cervo, mio signore, che ha mutate le corna; e, per averle perdute, la povera bestia piange. Il motto: Inopem me copia fecit[21].

Monticelso                    - Vale a dire, l'abbondanza di corna lo ha fatto povero di corna.

Camillo                         - Che vorrà dir questo?

Monticelso              - Vi dirò: si racconta che siate becco.

Camillo                         - Cosi si racconta? Preferirei che una voce come que­sta, monsignore, rimanesse in casa.

Francesco de Medici     - Avete figli?

Camillo                   - No, mio signore.

Francesco de Medici     - Tanto più felice. Vi racconterò una storia.

Camillo                   - Ve ne prego, mio signore.

Francesco de Medici       - Una vecchia storia. Una volta Febo, il dio della luce, o colui che chiamiamo il sole, volle assoluta­mente sposarsi. GÌ dei diedero il loro consenso, e Mercurio fu mandato a proclamarlo a tutto l'universo. Ma qual pietoso grido si levò subito fra i fabbri, i fabbricanti di feltro, i birrai e i cuochi, i mietitori e le donne che fanno il burro, fra i pescivendoli e mille d'altri mestieri che sono infastiditi dal suo calore eccessivo! era lamentevole. Vennero, tutti sudati, da Giove, per far proibire il bando nuziale. Un cuoco grande e grasso fu fatto parlar per essi, e supplicò Giove di far castrare Febo; perché, se adesso che non c'era che un sole tanti uomini erano a rischio di morte per il suo violento calore, che cosa avrebbero fatto se si fosse sposato, e ne avesse .generati altri, e quei figli avessero fatto fuochi d'artificio come il loro padre? Così dico io; soltanto, applicherò le parole a vostra moglie: la sua progenie, se la provvidenza non la vietasse, farebbe pentire insieme la natura, il tempo, e l'uomo.

Monticelso                    - Sentite, nipote; andate, cambiate aria, per pu­dore; vedete se la vostra assenza farà inaridire la vostra cornu­copia. Marcello è scelto insieme a voi, commissario per liberare le nostre coste d'Italia dai pirati.

Marcello                 - Ne son molto onorato.

Camillo                   - Ma, signore, prima che io torni, le corna del cervo: possono esser spuntate, più grandi di quelle cadute.

Monticelso                    - Non temete: sarò io la vostra guardia forestale.

Camillo                   - Dovrete far la guardia di notte; allora v'è il mag­gior pericolo.

Francesco De Medici       -Addio, buon Marcello: tutte le migliori fortune che possa desiderare un soldato vi accompagnino a bordo!

Camillo                   -  Non farei meglio, adesso che son diventato soldato, prima di lasciare mia moglie, a vendere tutto quello che ha, e poi congedarmi da lei?

Monticelso                    - Mi aspetto del buono da voi, la vostra partenza è così allegra.

Camillo                   - Allegra, mio signore! proprio l'umore di un capi­tano; ho deciso di ubriacarmi, stanotte.

Escono Camillo e Marcello;

Francesco de Medici       - Sì, fu ben disposto: ora vedremo come la sua assenza desiderata darà corso violento alla passione del duca di Sfacciano.

Monticelso              - Certo, era per questo; altrimenti, per quale spre­gevole proposito l'avremmo scelto come capitano di mare?: e, inoltre, il conte Lodovico, che correva voce fosse pirata, è adesso a Padova.

Francesco de Medici       - Davvero?

Monticelso              - E’ certissimo. Ho lettere da lui, che supplicano di agire presto per richiamarlo dall'esilio. Vuoi rivolgersi, per, avere una pensione, a nostra sorella la Duchessa.

Francesco de Medici       - Oh, va bene: non sentiremo più la sua assenza, fra sei giorni. Mi piacerebbe che il duca Bracciano andasse incontro a uno scandalo manifesto; poiché non v'è nulla, in una cosi maledetta passione, per salvare il suo nome, se non il senso profondo di un'eterna vergogna.

Monticelso                    - Si può obiettare, che è disonorevole per me gio­care così con un mio parente; ma rispondo che per la mia vendetta metterei in gioco la vita di un fratello che, oltrag­giato, non osa vendicarsi da sé.

Francesco de Medici     - Andiamo, teniamo d'occhio questa sgualdrina.

Monticelso                    - Maledetta la grandezza! Certo, non la lascerà?

Francesco de Medici     - Non è gran male. Come il vischio sugli olmi secchi, consumati  dalle intemperie, lasciatelo attaccarsi a lei, ed entrambi imputridiscano insieme.

Escono.

SCENA II.

Roma. In casa di Camillo. Entra Bracciano con un Mago.

Bracciano                      - Ora, signore, reclamo la vostra promessa: è la morta ora di mezzanotte, il tempo prefisso per mostrarmi, con l'arte vostra, come il deciso assassinio di Camillo e della nostra aborrita Duchessa sarà messo in atto.

Mago                      - Con la vostra generosità mi avete guadagnato a un'opera che non pratico spesso. Vi sono alcuni che con sottili artifici aspirano al nome, che volentieri vorrei perdere, di negro­mante; e alcuni che han l'abitudine di far giochi con le carte, e paiono compiere magie, quando in verità imbrogliano; altri che evocano gli spiriti loro alleati intorno a mulini a vento, e mettono a rischio il collo per fare una satira; e ve ne sono che tengono un cavallo codimozzo per fargli mostrare giochi di prestigio e far credere che sia uno spirito. Oltre a questi, v'è tale un intero reame di facitori d'almanacchi, di astrologhi, com­pari, in verità, che vivon solo di espedienti, poiché non fanno che mentire intorno a beni rubati e vorrebbero far credere alla gente che il diavolo vada e venga col parlare latino, mac­cheronico. Vi prego, sedete: mettetevi questa berretta da notte, signore, è magata; e ora vi mostrerò, con la mia arte onni­possente, in qual modo si spezza il cuore della vostra Du­chessa.

PANTOMIMA

Entrano,, sospettosi, Giulio e Cristoforo: tirano la cortina che è davanti al ritratto di Bracciano; si mettono occhiali di vetro, che copron loro gli occhi e il naso, e bruciano profumi davanti ed ritratto, e bagnano le labbra del ritrailo. Fatto questo, spegnendo il fuoco e togliendosi gli occhiali se ne vanno ridendo.

Unirà Isabella in  camicia da notte, come se stesse per coricarsi., seguita da fiaccole; e al suo seguito sono il Conte Lodovico, Giovanni, Guidantonio e altri. S'inginocchia come per pregare, poi tira la cortina che è davanti al ritrailo, s'inchina da­vanti ad esso e lo bacia tre volle; vieti meno, non permette che essi le si avvicinino; muore; dolore espresso da Giovanni e dal Conte Lodovico; è portata via solennemente.

Bracciano                      - Benissimo! allora, è morta.

Mago                             - È avvelenata dalla pittura affumicata. Era suo costume, ogni notte, prima di andare a letto, di andar a visitare il vostro ritratto e di appagare i suoi occhi e le sue labbra con l'immagine senz'anima. Il dottor Giulio, avendo osservato questo, l'ha in­fetta con un olio e altre cose velenose, che subito han soffocato il suo spirito,

Bracciano                - Mi è sembrato di aver visto il conte Lodovico:

Mago                             - Era lui: e, per l'arte mia, ho scoperto che era appas­sionatamente innamorato della vostra Duchessa. Ora, voltatevi da un'altra parie, e vedete la fine assai più raffinata di Camillo. Producete più forte musica da questo suolo incantato, per dare, come s'addice a quest'atto, un tragico suono!

SECONDA PANTOMIMA

Entrano Flaminio, Marcello, Camillo con quattro altri, ve­stiti da capitani; fanno dei brindisi, e danzano. Portano nella stanza un cavallo da volteggio. Con sussurri, Marcello e altri due son falli uscire dalla stanza, mentre Flaminio e Camillo sì mettono in maniche di camicia, come per saltare; fanno cerimo­nie per vedere chi debba cominciare; mentre Camillo sta per fare il volteggio, Flaminio lo prende per il collo, e con l'aiuto degli altri, glielo torce; pare guardi sé è rotto; e pone Camillo piegato in due., per così dire, sotto il cavallo; finge di chiamare aiuto. Marcello entra, si lamenta; manda a cercare il Cardi­nale e il Duca, che s'avanzano con uomini armati; si stupiscono della cosa; ordinano che il corpo sia portalo a casa; arrestano Flaminio, Marcello e gli altri, e vanno, pare, ad arrestare Vittoria.

Bracciano                - Fu fatto abilmente; eppure non gusto del tutto ogni particolare.

Mago                             - Oh, era ben chiaro: li avete veduti entrare, pieni delle profonde bevute fatte brindando alla loro felice traversata; e, per secondar l'umore, Flaminio chiama, per avere un cavallo da volteggio e continuare il divertimento. Il virtuoso Marcello è furbescamente mandato via dalla stanza con uno strattagemma. Mentre i vostri occhi han veduto il resto, e possono informarvi di come tutto fu macchinato,

Bracciano                      - Pare che Marcello e Flaminio siano entrambi im­prigionati.

Mago                             - Li avete visti con le guardie; e ora son venuti col proposito di arrestare la vostra amante, la bella Vittoria. Ora siamo sotto il suo tetto; sarebbe bene ce ne andassimo all'istante per una postierla segreta.

Bracciano                - Nobile amico, voi mi legate a voi per sempre:  questo[22] resterà come il fermo sigillo unito alla mia mano; e assicurerà una ricompensa.

Mago                             - Signore, vi ringrazio. (Esce Bracciano) Fiori e erbacce spuntano insieme quando il sole è caldo, e i grandi uomini fanno gran bene oppure gran male.

Esce.

ATTO TERZO

SCENA I.

Roma. L'anticamera di un Tribunale.

Entrano Francesco De Medici e Monticelso, il loro Cancelliere e il loro Scrivano.

Francesco de Medici     - Avete agito discretamente con otte­nere la presenza di tutti i gravi ambasciatori residenti, per udire il processo di Vittoria.

Monticelso                    - Non era male; perché, signore, sapete che non abbiamo che: indizi, per accusarla della morte di suo marito. Perciò, le loro approvazioni alle prove della sua nera lussuria la faranno infame in tutti i regni nostri vicini. Mi chiedo se Bracciano sarà qui.

Francesco de Medici       -  Ohibò. Sarebbe troppo palpabile impudenza.

Escono.

Entrano Flaminio e Marcello fra le guardie  e un avvocato;

Avvocato                      -  Come, siete qui a settimana? Ora proverò se anche il tuo spirito è prigioniero. Mi pare che tua sorella non dovrebbe essere giudicata che da vecchi puttanieri.

Flaminio                 - O da becchi; perché il becco è il più terribile castigatore della lussuria. I puttanieri andrebbero bene; per­ché nessuno è giudice alla giostra, se non quelli che son vec­chi giostranti.

Avvocato                      -  Monsignore il Duca e lei son stati molto in privato.

Flaminio                 - Siete un ottuso somaro; ho paura che siano stati mollo pubblici.

Avvocato                      - Se può provarsi che si siano soltanto baciati..,.

Flaminio                        -  E allora?

Flaminio                        -  Il mio signore il Cardinale li sniderà.

Flaminio                        - Spero che un cardinale non si metta a uccellare[23].

Avvocato                      - Perché, seminar baci (nota quello che dico), se­minar baci è raccogliere lussuria; e, ne sono sicuro, una donna che tollera d'esser baciata, è a metà vinta.

Flaminio                        - Vero, la sua parte più alta, secondo questa regola; se vincerete anche la sua parte più bassa, sapete che cosa ne segue.

Avvocato                      - Silenzio! gli ambasciatori sono scesi.

Flaminio                        - (a parte) Rivesto questa finta apparenza di allegria per ingannare il sospetto.

Marcello                        - O mia sventurata sorella! Vorrei che la punta del mio pugnale le avesse trapassato il cuore, la prima volta che ha veduto Bracciano. Voi, si dice, foste il suo strumento, e il suo uomo di paglia per disonorare mia sorella.

 Flaminio                       - Sono in certo modo la via per far salire lei e me.

Marcello                        - Per far precipitare, piuttosto.

Flaminio                        - Uhm! sei un soldato, segui il Granduca, abbeveri, le sue vittorie, come le streghe fanno con gli spiriti, che le servono, proprio con il tuo sangue generoso. Che cosà hai ottenuto se non ricchezza da capitano, una povera manciata che porti nel palmo della mano come gli uomini portan l'acqua? Mentre cerchi di tenerla stretta, la povera ricompensa ti fugge, di tra le dita.

Marcello                        - Signore!

Flaminio                        - Hai appena reddito abbastanza per comprarti un giustacuore di scamoscio[24].

Marcello                        - Fratello!

Flaminio                        - Ascoltami! E così, quando ci siamo vuotati in gran battaglie, per la loro ambizione e i loro vani umori, che ricom­pensa troveremo? Ma come di rado troviamo il vischio sacro alla medicina, o la quercia da costruzione senza che abbian vicina una mandragora; cosi, nella nostra ricerca di guadagno, ahimè, la minore delle loro violente avversioni mira un mem­bro, ma colpisce il cuore! Questa è lamentevole dottrina.

Marcello                        -  Andiamo, andiamo

Flaminio                        - Quando l'età ti farà diventar bianco come un biancospino in fiore....

Marcello                        - Vi interrompo: per amor della virtù, portate un onesto cuore e passate sopra ogni considerazione prudente; poi­ché,, quanto più vanno avanti, più corrompono. Fossi vostro padre, come sono vostro fratello, non avrei ambizione di la­sciarvi un miglior patrimonio.

Flaminio                        - Ci penserò. I signori ambasciatori.

Qui passano sulla scena gli Ambasciatori residenti,separatamente.

Avvocato                      - Oh, il mio ardito francese! Lo conoscete? è un mirabile giostratore.

Flaminio                        - L'ho veduto all'ultimo torneo; pareva un candeliere di peltro, fatto a mo' d'uomo armato, con una lancia da gio­strare in mano, poco più grande di una candela da dodici la libbra.

Avvocato                      - Oh, ma è un eccellente cavaliere.

Flaminio                        - Imperfetto, con le sue arie altere: dorme a cavallo come un pollivendolo.

Avvocato                      - Guardate, ecco il mio spagnolo!

Flaminio                 - Porta la faccia nel suo collare, come ho veduto un servo con un nastro di crespo sul cappello portare i bic­chieri, mostruosamente rigido, per paura di romperli: pare una zampa di merlo, prima salata, e poi abbrustolita alla can­dela.

Escono.

SCENA II

Un Tribunale, Il Processo Di Vittoria Corombona

Entrano Francesco De Medici, Monticelso,  i  sei Ambasciatori residenti, Bracciano, Vittoria Corombona, Flaminio,Marcello l'Avvocato e una Guardia.

Monticelso                    - Astenetevi, mio signore, qui non v'è posto assegnato a voi: quest'affare è lasciato al nostro esame da Sua Santità.

Bracciano                      - Fossa prosperare con voi!

Stende sotto di sé mia ricca veste,

Francesco de Medici     - Una sedia qui, per sua signoria!

Bracciano                      - Trattenete la vostra cortesia: un ospite non invi­tato dovrebbe viaggiare come le donne olandesi vanno in chiesa, portando con sé i loro scanni.

Monticelso                    - Come vi piace, signore. Venite al tavolo, ma­donna. Ora, signore, cominciate la vostra requisitoria.

Avvocato                      - Domine judex, converte oculos in hanc peslem midìermn corri/p/issimam.

Vittoria Corombona      - Chi è?

Francesco de Medici     - Un avvocato che perora contro di voi.

Vittoria Corombona - Vi prego, mio signore, fatelo parlare il suo linguaggio usuale; altrimenti, non risponderò.

Francesco de Medici       - Ma come, voi capite il latino.

Vittoria Corombona      - Sì, signore; ma in mezzo' a quest'udi­torio che viene a sentire la mia causa, metà o più possono ignorarlo.

Monticelso                    - Proseguite, signore.

Vittoria Corombona - Ve ne prego, non voglio che la mia accusa sia nascosta fra le nubi di una lingua inconsueta: tutta quest'assemblea deve sentire di che cosa mi accusate.

Francesco de Medici     - Signore, non occorre che persistiate: vi prego, cambiate lingua.

Monticelso                    - Oh, per amor di Dio! Madonna, la vostra fama ne sarà così ancor più propalata. . .

Avvocato                      -  Bene, come volete!!

Vittoria Corombona      - Sono al bersaglio, signore: vi darò la mira e vi dirò quanto vicino tirate.

Avvocato                      -  Letterarissimi giudici, piaccia alle vostre signorie tollerare che il vostro giudizio guardi questa dissoluta e diversi volente donna; che ha perpetrato una così nera catena di mali che estirparne la memoria vuoi dire metter fine alla sua vita, e a quella dei suoi disegni.... 

Vittoria Corombona      - Che cos'è tutto questo?

Avvocato                      -  Statevi zitta: i peccati esorbitanti debbono scop­piare in esulcerazioni.

Vittoria Corombona      - Sicuramente, miei signori, quest'avvo­cato ha trangugiato ricette di speziale, o proclami; e ora le dure e indigeribili parole gli vengono a gola, come le pietre che diamo ai falconi per medicina. Ma come, si passa dal latino al gallese.

Avvocato                      -  Miei signori, questa dorma non conosce né i tropi né le figure, e non è versata nella derivazione accademica dell'elocuzione grammaticale...

Francesco de Medici     - Signore, sarà bene risparmiare la vostra fatica, e la vostra profonda eloquenza sarà degnamente applau­dita fra coloro che vi capiscono.

Avvocato                -  Mio buon signore....

Francesco de Medici     - Signore, mettete le vostre carte nella vostra borsa di fustagno — domando scusa, signore, è bu­cherarne — e accettate il mio omaggio per la vostra sapiente verbosità.  '

Avvocato                      - Ringrazio assai dottoralmente vostra signoria; potrò servirmene altrove.   

Monticelso                    - Sarò più chiaro con voi, e dipingerò le vostre pazzie con rosso e bianco più naturale di quello che è sulle vostre guance.

Vittoria Corombona      - Oh, vi sbagliate: fate salire su questa guancia un sangue tanto nobile quanto potè essere quello di vostra madre.

Monticelso              - Vi debbo risparmiare, fino a quando le prove non gridino: «sgualdrina» a quel che diceste. Osservate questa creatura, miei nobili signori, è una donna che possiede uno spirito prodigioso.  

Vittoria Corombona - Mio onorando signore, non si addice a un reverendo cardinale far cosi l'avvocato.

Monticelso                    - Oh, il vostro mestiere ammaestra la vostra lingua. Vedete, miei signori, che bel frutto ella pare; eppure, come quei pomi che i viaggiatori raccontano crescere dove furono Sodoma e Gomorra, basterà io la tocchi, e subito la vedrete cadere in fuliggine e in cenere. :

Vittoria Corombona      - Le vostre droghe avvelenate dovrebbero farlo.

Monticelso                    - Sono sicuro che se vi fosse un secondo paradiso da perdere, questo demone sarebbe il tentatore.

Vittoria Corombona      - Oh, povera carità! di rado ti si trova vestita di porpora.

Monticelso                    - Chi non sa come, sera dopo sera, quando le sue porte erano stipate di carrozze, e le sue stanze sorpassavan le, stelle con molte sorta di luci; quando imitava una corte principesca in musiche, banchetti, e molto dissoluti eccessi, questa sgualdrina, in verità, era santa?

Vittoria Corombona      - Ah! sgualdrina! che cos'è?

Monticelso                    - Dovrò spiegare a voi che cos'è una sgualdrina?! bene, lo farò; vi darò la loro perfetta descrizione. Sono, prima' di tutto, dolci che corrompono chi li mangia; alle narici dell'uomo, profumi avvelenati: sono alchimia ingannatrice; naufragi col tempo più calmo. Che cosa sono le sgualdrine! Freddi' inverni russi, che appaiono tanto sterili come se la natura avesse; dimenticata la primavera; sono il vero, material fuoco d'inferno:?  peggiori di quei tributi che pagano nei Paesi Bassi, balzelli,: sul cibo, sulle bevande, sulle vesti, sul sonno, sì, persino sulla perdizione dell'uomo, sul suo peccato. Sono quelle fragili prove; della legge che fanno confiscare tutto il patrimonio di un disgraziato per una sillaba dimenticata. Che cosa sono le Sgualdrine! Son quelle campane lusingatrici che hanno un solo suonò;! alle nozze come ai funerali. Le ricche sgualdrine sono forzieri; riempiti con le estorsioni, e vuotati da maledetti eccessi. Sono peggiori, peggiori dei cadaveri che son domandati alle forche e sui quali lavorano i chirurghi, per mostrare all'uomo in che cosa è imperfetto. Che cos'è una sgualdrina! È come la colpevole moneta falsa che, chiunque l'abbia coniata, porta disgrazia a tutti quelli che la ricevono.:

Vittoria Corombona      - Questa descrizione mi sfugge.

Monticelso                    - Voi, madonna! Prendete a tutte le bestie e a tutti i minerali il loro veleno mortale....

Vittoria Corombona      - Bene, e poi?

Monticelso                    - Ti dirò: trovo in te una bottega di speziale, con un campione d'ognuno di essi.

Ambasciatore Francese- Ha mal vissuto.

Ambasciatore Inglese   - È vero; ma il Cardinale è troppo aspro. '  ''

Monticelso                    - Sapete quello che è una sgualdrina. Dopo il demone adulterio, viene il demone delitto.

Francesco de Medici     - Il vostro sventurato sposo è morto.

Vittoria Corombona - Oh, è uno sposo felice: non deve più nulla alla natura.

Francesco de Medici     - E per un cavallo di volteggio.

Monticelso              - Un abile inganno; è saltato nella tomba.

Francesco de Medici     - Che prodigio è stato, che da due metri d'altezza un uomo agile si sia rotto il collo!

Monticelso                    - Sui giunchi!

Francesco de Medici     - E quel che è più, perdette sull'istante l'uso della parola, ogni moto vitale, come un uomo che fosse rimasto nel sudario tre giorni. Ora, notate ogni particolare.

Monticelso                    - E considerate questa creatura, che era sua moglie. Non viene come una vedova; viene armata di disprezzo e d'impudenza: è un abito da lutto, questo?

Vittoria Corombona      - Se avessi preveduta la sua morte, come voi insinuate, avrei ordinato il lutto.

Monticelso              - Oh, siete astuta.

Vittoria Corombona - Fate vergogna al vostro spirito e al vostro giudizio chiamandomi così. Come! la mia giusta di­fesa è chiamata impudenza da chi è il mio giudice? Allora, lasciate che mi appelli da questo Tribunale cristiano, al tartaro sel­vaggio.

Monticelso                    - Vedete, miei signori, calunnia il nostro procedere.

Vittoria Corombona      - Così umilmente, cosi in basso, ai degnissimi e molto rispettati ambasciatori residenti, mostro il mio pudore e la mia femminilità; ma son così impigliata in un'accusa maledetta, che la mia difesa, per forza, come Perseo deve impersonare la virtù maschile. Ai fatti. Se mi trovate colpevole, separale la testa dal corpo, e ci lasceremo buoni amici.: Io disdegno di dover la vita a suppliche fatte a voi o a chic­chessia, signore.

Ambasciatore Inglese   - È d'animo coraggioso.

Monticelso                    - Bene, bene, questi gioielli falsi fanno spesso so­spettare dei veri.

Vittoria Corombona      - Vi ingannate: perché, sappiatelo, tutte le vostre teste strettamente congiunte che colpiscono questa mia' miniera di diamante, mostreranno di non essere che martelli' di vetro, si romperanno. Queste non sono che finte ombre dei miei delitti: spaventate gli infanti, mio signore, coi diavoli dipinti; ho passato il tempo di questi inutili tremori. In quanto ai nomi che mi date, di sgualdrina e assassina, vengono da voi; come se un uomo sputasse contro vento, la bruttura gli ritorna sul viso.

Monticelso              - Vi prego, signora, di soddisfare una mia domanda: chi alloggiò sotto il vostro tetto in quella notte fatale, quando vostro marito si ruppe il collo?

Bracciano                      - Questa domanda mi costringe a rompere il silenzio: io ero là.

Monticelso                    - E perché?

Bracciano                      - Come! ero venuto a confortarla e a prendere misuro per assestare il suo patrimonio, perché ho sentito che marito era in debito con voi, mio signore.

Monticelso              - Lo era….

Bracciano                      - E si temeva assai che voi non la frodaste.

Monticelso              - Chi vi diede diritto di controllo?

Bracciano                      - Come? la mia carità, la mia carità, che dovrebbe scorrere da ogni generoso e: nobile spirito agli orfani e alle vedove.

Monticelso                    - La vostra lussuria.

Bracciano                      - I cani paurosi abbaiano più forte; gaglioffo d'un prete, parlerò con voi più tardi. Mi sentite? La spada che for­mate di tanto nobile tempra, avrà per fodero le vostre budella. Vi sono molti di quelli col tuo abito che somigliano ai comuni servi di posta.  . . ''

Monticelso                    - Ah!

Bracciano                - I servi di posta mercenari: le vostre[25]lettere portano la verità, ma è la vostra guisa riempirvi la bocca di grossolane e impudenti menzogne.

Si avvia alla porta.

Servo                             - Mio signore, la vostra veste.

Bracciano                - Menti, era il mio scanno; dallo al tuo padrone, che reclamerà il resto dei mobili di casa; perché Bracciano non fu mai tanto meschino da' portar .via uno scanno dalla casa altrui: lascia che ne faccia un panneggio per il suo letto, o una mezza copertura: per la sua reverendissima mula. Monticelso, neino me impune lacessit.:

Esce Bracciano.

Monticelso              - Il vostro campione se n'è andato.

Vittoria Corombona - II lupo può predar meglio.

Francesco de Medici       - Mio signore, vi son grandi sospetti per il delitto, ma non v'è prova sicura di chi l'abbia commesso. Per parte mia, non credo abbia un animo tanto nero da com­piere un atto tanto sanguinoso. Se l'avesse, come nei paesi freddi i contadini piantano le viti e le concimano con tiepido sangue, così un'estate la si vedrebbe portare un insipido frutto, e prima del ritorno della primavera appassirebbe, rami e radici. Lasciate stare il fatto di sangue; solo venite all'incontinenza.

Vittoria Corombona      - Sento veleno,: sotto le vostre pillole dorate.

Monticelso              - Ora che il Duca se n'è andato, produrrò una lettera dove complottavate per trovarvi, voi e lui, nel padi­glione estivo di uno speziale, giù presso il fiume Tevere  eccola, mici signori — dove, dopo un bagno lascivo e il calore di un voluttuoso banchetto — vi prego, leggetela — ho vergogna a dire il resto.

Vittoria Corombona      - Ammettiamo che fossi tentata; la ten­tazione alla lussuria non prova l'atto: Casta est quarti tremo rogavìt1, Avete letto il suo ardente amore per me, ma vi manca la mia gelida risposta.

Monticelso              - Gelida in tempo di canicola! strano! V

Vittoria Corombona      - Mi condannate perché il Duca mi amava? Così, potete accusare un bel fiume cristallino, perché qualche pazzo malinconico vi si è annegato.

Monticelso                    - Veramente annegato, in verità.

Vittoria Corombona      - Sommate le mie colpe, vi piego, e troverete che la bellezza, e gaie vesti, un cuore allegro e un buon appetito a una festa sono tutti, tutti i poveri delitti di cui mi? potete accusare. In fede mia, mio signore, potreste andare a cacciar le mosche con la pistola; sarebbe diporto più nobile,

Monticelso              - Molto bene.

Vittoria Corombona      - Macontinuate nel vostro disegno; pare che prima mi abbiate resa mendica, e adesso vorreste essere la mia rovina. Ho case, gioielli, e un povero resto di cruzados[26]; potesse questo rendervi caritatevole!

Monticelso                    - Se il diavolo prese mai belle forme, ecco il suo ritratto.

Vittoria Corombona      - Una virtù vi rimane, non mi lusingate.

Francesco de Medici     - Chi ha portata questa lettera?

Vittoria Corombona - Non sono obbligata a dirvelo.

Monticelso              - Monsignore il Duca vi mandò mille ducati il dodici d'agosto.

Vittoria Corombona      - Era per tener vostro nipote libero dallaprigione; ne ho pagato l'interesse.

Monticelso                    - Credo fosse piuttosto l'interesse della sua lussuria.

Vittoria Corombona      - Chi dice così, se non voi? Se siete il mio accusatore, vi prego, cessate d'essere il mio giudice  uscite da quel seggio; date le vostre prove contro di me, e lasciate che questi siano gli arbitri. Mio signor Cardinale, se le .vostre orecchie pronte alle informazioni delle spie giun­gessero fino ai miei pensieri, se aveste un'onesta lingua, non avrei timore nel sentirveli proclamar tutti.

Monticelso                    - Continuate, continuate. Dopo il vostro banchetto bello e vanaglorioso, vi darò io una pera che vi strozzi.

Vittoria Corombona      - Innestata da voi?

Monticelso                    - Nasceste in Venezia, del lignaggio onorevole dei Vitelli; fu fato di mio nipote — posso ben chiamar cattiva l'ora — sposarvi: vi comprò da vostro padre.

Vittoria Corombona      - Ah!

Monticelso                    - Là, spese in sei mesi dodicimila ducati, e (a quanto so) non ricevette un giulio come vostra dote: fu un pagare pesante, per mercanzia si leggera. Non ho che tirata la cortina; ora, il vostro ritratto: veniste di laggiù notissima sgualdrina, e cosi siete rimasta.

Vittoria Corombona      - Mio signore..

Monticelso                    - No, ascoltatemi; avrete tempo per chiacchierare. Il mio signore Braccano.;. Ahimè, non faccio che ripetere quello che è di tutti — discorsi di Rialto — e messo in bal­lata, e sarebbe recitato sul teatro, se il vizio molte volte non trovasse amici così strepitosi che i predicatori son ridotti per in­canto al silenzio. Voi signori, Flaminio e Marcello, la corte non ha nulla, ora, di cui accusarvi; soltanto, dovete avere dei mallevadori, se vi si richiamasse.

Francesco de Medici     - Io rispondo per Marcello.

Flaminio                 - E monsignore il Duca per me.

Monticelso                    - Quanto a voi, Vittoria, il vostro pubblico fallo, unito alle presenti circostanze, vi toglie tutti i frutti della nobile misericordia. Avete fatta una prova così corrotta della vostra vita come della vostra bellezza, e siete stata chiamata fato non meno funesto ai principi delle stelle comete. Udite la vostra sentenza; sarete rinchiusa in una Casa di Convertite, e chi v'ha tenuto mano....

Flaminio                 - (a parte). Chi, io?

Monticelso                    - La Mora.

Flaminio                        - (a parte). Son salvo di nuovo..

Vittoria Corombona      - Una Casa di Convertite! che cos'è?

Monticelso              - Una casa di sgualdrine penitenti.

Vittoria Corombona - L'hanno costruita i nobili di Roma per le loro mogli, che mi ci mandano ad alloggiare?

Francesco de Medici       - Dovete avere pazienza.

Vittoria Corombona      - Debbo prima aver vendetta. Vorrei,ben sapere se avete la vostra salvazione per lettere patenti per agire così.

Monticelso              - Vada via! Portatela via di qui.

Vittoria Corombona      - Violazione! violazione!

Monticelso                    - Come!

Vittoria Corombona      - Si, avete violata la giustizia; l'avete forzata a fare il piacer vostro.

Monticelso              - Ohibò, è pazza!

Vittoria Corombona      - Morite con quelle pillole che dovrebbero  darvi salute nella vostra maledetta bocca o, mentre siete, nel  vostro seggio, la vostra saliva vi soffochi.

Monticelso              - È diventata una Furia.: ...

Vittoria Corombona      - Che l'ultimo giorno del giudizio possa trovarti e lasciarti demone com'eri! Che qualcuno, insaziato di sangue, mi insegni a parlare maledicendo; poiché non potete togliermi la vita per i miei atti, toglietemela per le parole. .Ohi povera vendetta della donna, che non vive se non nella sua lingua! Non voglio piangere; no, disdegno chiamare in suo aiuto una sola povera lacrima per blandire la vostra ingiustizia. Portatemi via di qui, a quella casa di.... qual è il vostro"eufemistico nome?

Monticelso                    - Di convertite.

Vittoria Corombona - Non sarà una Casa di Convèrtite; il mio animo la farà più onesta per me del palazzo del papa, e più tranquilla della tua anima, pur se sei un cardinale. Sappi questo, e il tuo dispetto ne aumenti un poco: è nella tenebra che i diamanti spandono la loro luce più ricca.

Escono Vittoria Corombona, l'Avvocato e le Guardie.

Rientra Bracciano.

Bracciano                      - Ora voi e io siamo amici, signore, e ci stringe­remo la mano su una tomba amica. Un luogo propizio, poiché è l'emblema della dolce pace, per riconciliare il nostro odio.

Francesco de Medici     - Che cosà accade, signore?

Bracciano                - Non voglio togliere altro sangue dalla vostra annata guancia; né avete già perduto troppo: addio. 

Esce.

Francesco de Medici     - Come suonano strane queste parole! come interpretarle?

Flaminio                        - (a parte). Bene; questa è una prefazione alla rive­lazione della morte della Duchessa: conduce bene la tosa. Poi­ ché non posso ora simulare un lacrimoso dolore per la morte della mia signora, fingerò un umor di follia per l'onta di mia sorella; e questo terrà lontane le inutili domande. La lingua del tradimento porta con sé un vile tremore: parlerò a tutti, non ascolterò nessuno, e per un certo tempo voglio apparire un abile pazzo.

Esce.

Entrano Giovanni, il Conte Lodovico e il Seguito.

Francesco de Medici     - Come, come, mio nobile nipote! come mai in nero?

Giovanni                       - Sì, zio, mi hanno insegnato a imitarvi nelle virtù, e voi mi dovete imitare nel colore delle vesti. La mia dolce madre è....

Francesco de Medici     - Come! dov'è?

Giovanni                       - È là; no, laggiù. In verità, signore, non ve lo posso dire, o vi farei piangere.

Francesco de Medici       - È morta?

Giovanni                 - Non biasimatemi, ora; io non ve l'ho detto.

Lodovico                - E morta, mio signore.

Francesco de Medici     - Morta!

Monticelso              - Dama benedetta, sei ora al di sopra delle tue pene! Vogliono le eccellenze vostre ritirarsi un poco?

Escono gli Ambasciatori.

Giovanni                       - Che cosa fanno i morti, zio? mangiano, ascoltan musica, vanno a caccia e si divertono come noi che viviamo?

Francesco de Medici    - No, nipotino; dormono.

Giovanni                       - Signore, signore, fossi morto! Sono sei notti che non ho dormito. Quando si svegliano?

Francesco de Medici    - Quando piacerà a Dio.

Giovanni                 - Buon Dio, falla dormire per sempre! Perché io l'ho veduta vegliare per cento notti, quando tutto il guanciale sul quale posava la testa era umido e salato dalle sue lacrime. Mi debbo lamentare con voi, signore; vi dirò come l'hanno trattata, ora che è morta. L'hanno crudelmente avvolta nel, piombo, e non mi hanno permesso di abbracciarla.

Francesco de Medici    - Tu l'amavi.

Giovanni                       - L'ho spesso sentita dire che mi aveva dato il suo seno, e da questo pare mi amasse teneramente, poi che di rado i principi lo fanno.

Francesco de Medici     - Oh, sei tutto quanto rimane della mia1 povera sorella! Portatelo via, per amor di Dio!

Escono Giovanni e uno del Seguito.

Monticelso                    - Ebbene, mio signore?

Francesco de Medici     - Credetemi, non sono più che la sua tomba; e conserverò la sua memoria benedetta più a lungo di mille epitaffi.   

Escono Francesco De Medici e Monticelso.

SCENA III.

L'anticamera.

Ritorna Flaminio, come impazzito.

Flaminio                        - Sopportiamo ì colpi come le incudini o il duro acciaio, fin che Io stesso dolore fa che non sentiamo più dolore. . Chi riparerà i mici torti, ora? è questo il premio dei miei ser­vigi? Meglio sarchiar l'aglio; viaggiar per la Francia e farmi da stalliere; portare fodere di pelle di pecora o scarpe che puzzan di lucido; essere inscritto nella lista dei quarantamila- merdaioli di Polonia.

Entra l'Ambasciatore di Savoia.

Fossi marcito nella casa d'un cerusico a Venezia, costruita sulla peste oltre che sulle palafitte, prima di mettermi al servizio di Braccano!

L'Ambasciatore dì Savoia      -Dovete cercar conforto.

Flaminio                        - Le vostre parole di conforto son come miele; hanno buon sapore nella vostra bocca che è sana, ma nella mia che è ferita vanno giù come se ci fosse il pungiglione dell'ape. Oh, hanno elaborati i loro progetti abilmente, perché non paresse l'avessero fatto per cattiveria. In questo l'uomo abile imita il diavolo, come il diavolo imita il cannone; dovunque venga a fare il male, viene voltandovi il didietro.

Entra l'Ambasciatore Francese.

L'Ambasciatore Francese - Le prove sono evidenti.

Flaminio                 - Prove! era corruzione. Oh oro, qual dio sei tu! e oh uomo, che diavolo sei a lasciarti tentare da quel minerale ma­ledetto! Guardatelo bene, quell'avvocato diversivolente: le ca­naglie diventano spie come le larve diventan mosche; potete pigliare i ghiozzi con le une come con le altre. Un cardinale! Vorrei mi potesse sentire: non c'è nulla di cosi sacro che il danaro non lo corrompa e putrefaccia, come la Carne sotto all'equatore.

Entra l'Ambasciatore Inglese.

Siete fortunati in Inghilterra, mio signore: qui ven­dono la giustizia con quei pesi coi quali schiaccian gli uomini a morte. Oh l'orribile ricompensa!

L'Ambasciatore Inglese   - Ohibò, ohibò, Flaminio!

Escono gli Ambasciatori.

Flaminio                        - Le campane non suonano mai bene, fin che non suonano a distesa; e io spero che quel cardinale non possa mai aver la grazia di pregar bene fin che non giunga al patibolo. Se adesso li mettessero al supplizio della ruota, per conoscere la congiura.... ma questi nobili son salvi dalla ruota, per privilegio; e ben possono esserlo, perché un nonnulla ne ridurrebbe certuni in pezzi, prima che comparissero al processo. La reli­gione, oh com'è mescolata con la politica! Il primo fatto di sangue del mondo accadde per la religione[27]. Vorrei essere un giudeo!

Marcello                        - Oh, ce ne sono anche troppi.

Flaminio                        - Vi sbagliate: non ci sono né abbastanza giudei né abbastanza preti, né abbastanza gentiluomini.

Marcello                        - Come?

Flaminio                        - Lo proverò; se ci fossero abbastanza giudei, tanti cristiani non diventerebbero usurai; se abbastanza preti, uno.; non avrebbe sei prebende; e se abbastanza gentiluomini, tanti funghi primaticci, i migliori dei quali sono usciti da un leta­maio, non aspirerebbero alla nobiltà. Addio; lascia gli altri vivere mendicando; tu sii di quelli che mettono in pratica l'arte di Wolner[28]  l'inglese, trangugia tutto quello che ti danno, é una buona purga ti faccia di nuovo affamato come quelli che! lavorano in una segheria. Vado ad ascoltare il barbagianni.

Esce

Lodovico                      - (a parte). Questo era il mezzano di Bracciano ed è singolare che con la vergogna tanto chiara e manifesta della sua adultera sorella osi dar voce a così scandalosa rabbia. Bisogna lo tenga d'occhio.

Ritorna Flaminio         

Flaminio                 - (a parte). Come osa questo conte bandito tornare a Roma, senza avere ancora ottenuto il suo perdono? Ho sentito dire che la morta Duchessa gli passava una pensione e che è venuto da Padova al seguito del giovane Principe. C'è qualche cosa sotto. Ma i medici, che turano dai veleni, adoperano i con­travveleni.

Marcello                 - Notate lo strano incontro.

Flaminio                 - Il dio della malinconia muti il tuo fiele in veleno, e le brutte rughe sul tuo volto, come le onde tumultuose in una tempesta, si sovrappongano l’una all'altra.

Lodovico                - Ti ringrazio, e ti auguro francamente, per il tuo bene, la canicola tutto l'anno.:

Flaminio                 - Come gracchia il corvo! È morta la nostra buona Duchessa?

Lodovico                      - Morta.  

Flaminio                 - O fato! Le disgrazie vengono a mucchi, come le faccende al giudice istruttore.

Lodovico                      - Vuoi che facciamo casa insieme?

Flaminio                        - Sì, son contento; associamo due insocievoli.

Lodovico                      - Stiamo tre giorni insieme a discorrere.

Flaminio                 - Solo a farci delle smorfie. Dormiamo vestiti.

Lodovico                      - Con fascine per guanciale.

Flaminio                        - E coi pidocchi, 

Lodovico                      - Con fodere di taffettà: Quella è nobile malinconia: dormire tutto il giorno.

Flaminio                        - Sì; ecome la lepre malinconica, mangeremo dopo mezzanotte.

Entrano Antonelli e Gasparo, ridendo.

Siamo osservati: vedete come quei due si rattristano.

Lodovico                      - Che strana creatura è un buffone che ride! Come se l'uomo non fosse stato creato che per mostrare i denti.

Flaminio                        - Ti dirò.... Sarebbe bene, invece che negli specchi, guardassi il viso ogni mattina in una coppetta di sangue di strega coagulato.

Lodovico                - Ammirevole canaglia! Non ci lasceremo mai.

Flaminio                 - Mai, fin che l'avidità dei cortigiani, lo scontento dei preti, la povertà dei soldati e di tutte le creature che pen­dono incatenate, peggio di quelli che soffrono la tortura della strappata, sul cerchio più basso della ruota della Fortuna, non imparino dalla vita di noi due a disprezzare quel mondo che priva la vita del necessario.

Antonelli                - Mio signore, porto buone nuove. Il Papa, sul suo letto di morte, per l'ardente preghiera del Granduca di Firenze, ha firmato il vostro perdono e vi ha restituito....

Lodovico                - Vi ringrazio per le vostre notizie. Alza di nuovogli occhi, Flaminio, vedi il mio perdono.

Flaminio                 - Perché ridete? Non v'era questa condizione nel nostro patto.

Lodovico                - Perché?

Flaminio                 - Non dovete parere più felice di me. Sapete il nostro patio, signore; se volete essere allegro, fatelo con l'aspetto dì un grand'uomo che assistesse all'esecuzione del suo nemico; anche se è un gusto per te, fallo col volto arcigno d'un buon politico.

Lodovico                - Vostra sorella è una sgualdrina dannata.

Flaminio                        - Ah!

Lodovico                      - Bada, l'ho detto ridendo.

Flaminio                        - Pensi di ridirlo?

Lodovico                      - Sentite? Volete vendermi quaranta once del suo sangue per annaffiare una mandragora?

Flaminio                        - Povero signore, avete fatto voto di viver da pidoc­chioso,

Lodovico                      - Sì.

Flaminio                 - Come uno che avesse per sempre rinunciato alla luce del giorno, per i suoi debiti.

Lodovico                      - Ah, ah!

Flaminio                        - Non mi meraviglio molto che rompiate la vostra parola; vostra signoria lo ha imparato da un pezzo. Ma vi dirò....

Lodovico                - Che cosa?

Flaminio                        - E vi rimarrà impresso....

Lodovico                      - Non vedo l'ora di saperlo.

Flaminio                        - Questo ridere è odioso sulla vostra faccia: se non volete esser malinconico, siate arrabbiato. (Lo schiaffeggia) Ecco ora rido io.

Marcello                 - Siete da biasimare; vi farò portar via di qui con la forza.

Lodovico                      - Toglietemi le mani di dosso. (Escono Marcello e Flaminio) Che io debba esser costretto a farmi ragione da me con un mezzano!

Antonelli                       - Mio signore....  

Lodovico                - Sarebbe stato altrettanto bene per lui se avesse colpita col suo pugno la folgore.

Gasparo                         - Si vede!

Lodovico                      - Perdio! Come ha potuto mancarlo la mia spada? Questi gaglioffi sono tanto stanchi della vita; pure, sfuggono ai maggiori pericoli. Che la peste lo colga! Tutta la sua reputa­zione, anzi, tutto l'onore della sua famiglia, non valgono la metà di questo terremoto. Nessun maestro d'armi m'ha insegnato a tremare così. Orsù, lo voglio dimenticare, e andrò a bere del vino.  

Escono.

ATTO QUARTO

SCENA I.

Roma, Il Palazzo di Francesco. Entrano Francesco De Medici e Monticelso

Monticelso                    - Andiamo, mio signore, sciogliete le pieghe dei vostri pensieri, e lasciateli pendere sciolti come capelli di sposa. Vostra sorella è stata avvelenata.

Francesco de Medici     - Lontano sia dai miei pensieri il cercare vendetta.

Monticelso                    - Come, siete divenuto tutto di marmo?

Francesco de Medici     - Dovrò sfidarlo, e imporre al collo dei miei poveri sudditi una guerra assai gravosa che non avrò il po­tere di far terminare quando io voglia? Sapete: tutti gli assassinii, le violenze carnali, e i furti commessi nell'orrida voluttà della guerra, colui che ingiustamente la fece nascere li ritroverà nella tomba, e nel suo seme.

Monticelso                    - Non è questo il modo d'agire che vorrei seguiste; vi prego, ascoltatemi. Vediamo che le mine nascoste danno mi­glior risultato che non il cannone. Sopportate i torti che vi furon fatti, tenendoli nascosti, e, paziente come la tartaruga, lasciate che questo cammello passi maestoso sul vostro dorso senza schiacciarvi; dormite come un Icone e lasciate che questa razza di topi sciocchi e fiduciosi giochi con le vostre narici, fin che sia maturo il tempo per i conti sanguinosi e la stretta fatale. Mirate da abile cacciatore, chiudete un occhio, per poter meglio appostare la preda.

Francesco de Medici     - Liberami, oh mia innocenza, dagli atti di tradimento! So che vi son folgori lassù; e rimarrò come una vallata tranquilla che piega basse le ginocchia davanti a un'orgo­gliosa montagna. Poiché so che il tradimento, come i ragni che tessono reti per le mosche, è scoperto per la sua opera vile, e in essa muore. Per lasciare questi pensieri, mio onorato signore, si dice voi possediate un libro nei quale avete annotato, per le intelligenze che avete, i nomi di tutti i peggiori colpevoli che vanno attorno per la città.

Monticelso                    - È vero, signore; e v'è chi lo chiama il mio libro nero: e ben può portare questo titolo: perché, se pure non in­segna l'arte della stregoneria, in esso si nascondono i nomi di molti demoni.

Francesco de Medici     - Vi prego, fatecelo vedere.

Monticelso                    - Lo andrò a prendere per vostra signoria. 

Esce.

Francesco de Medici       - Monticelso, non mi fiderò di te; ma in tutte le mie trame resterò gelosamente chiuso, come una città assediata. Tu non puoi immaginare quello che intendo fare: la stoppa prende presto fuoco, e presto è spenta; ma l'oro si ri­scalda adagio, e rimane a lungo, infocato.

Ritorna Monticelso e da un libro a Francesco De Medici.

Monticelso                    - Eccolo, mio signore.

Francesco de Medici     - Prima, le vostre spie; vi prego, mostra­temele.

Monticelso                    - Il loro numero cresce stranamente; e alcune di esse le credereste onesti uomini. Poi vi sono i mezzani; qui i pirati; e questi fogli che seguono sono per le vili canaglie che rovinano i giovani gentiluomini prestando loro mercanzie in­vece di danaro, per i falliti che nascondono il morto, per i ga­glioffi che sono i ruffiani delle loro mogli solo per poter vendere cavalli e gioielli da poco, orologi, argenteria alterata, e simili mercanzie alla nascita del loro primo figlio.

Francesco de Medici     - V'è di codesta gente?

Monticelso                    - Questi sono per le impudenti ruffiane che vanno intorno vestite da Uomo; per gli usurai che dividono l'utile con i notari che han dato loro buone informazioni; per gli avvocati che antedatano i loro istromenti. E potreste trovare dei sa­cerdoti in queste pieghe, se io non li tralasciassi, per ragioni di coscienza. Questo è un catalogo generale di bricconi: uno potrebbe studiare a fondo tutte le prigioni senza mai raggiungere preziosa dottrina.

Francesco de Medici     - Assassini! Piegate il foglio, vi prego. Mio buon signore, permettetemi di chiedervi in prestito questa strana dottrina.

Monticelso                    - Servitecene, ve ne prego, mio signore.

Francesco de Medici     - Posso assicurare vostra signoria che siete un degno membro dello stato, e che avete fatto un bene infinito con lo scoprii/e questi colpevoli.

Monticelso                    - Un poco, mio signore.

Francesco de Medici       - Oh Dio! migliore del tributo di lupi che si pagò in Inghilterra[29] le loro pelli saranno appese alle siepi.

Monticelso                    - Mi permetterò di lasciar vostra signoria. 

Francesco de Medici     - Signore, di tutto cuore vi ringrazio. Se qualcuno domanda di me a corte, dite che mi avete lasciato in compagnia di canaglie. (Esce Monticelso) Scopro qui che qualche abile gaglioffo, agente di questo mio signore, uno: che è saltato di recente da un banco di scrivano a una sedia di giudice, ha fatto questa canagliesca raccolta; e intende, come i ribelli irlandesi che avevano per costume di vender le teste,: farne danaro. E così accade: quei poveri diavoli che non hanno i mezzi per ungere le mani col danaro devono pagare; il resto della banda è raschiato dalla lista dei gaglioffi, oppure il miosignore chiude un occhio, con facile volontà: il suo uomo, si fa ricco, e le canaglie rimangon canaglie. Ma, in quanto all'uso che io ne farò: mi servirà a indicarmi una lista d'assas­sini, abili a ogni vile azione. Se volessi dieci terzetti di cortigiane, questo me li fornirebbe: anzi lavandaie per tre eserciti., Che in tanto poca carta possa essere la rovina di tanti uomini Non è voluminoso quanto venti denuncie. Vedete il perfido uso che taluni fanno dei libri: la teologia, falsata da qualcuno di sangue fazioso, fa sguainare le spade, scatena le battaglie e di­ strugge ogni bene. Per dar forma più atroce alla mia vendetta, voglio ricordarmi il volto della mia sorella morta. Domanderò il suo ritratto? No, chiuderò gli occhi, e in un malinconico pensiero evocherò

Entra lo spettro di  Isabella

La sua figura davanti a me. Ora io,... perdio; com'è potente l'opera della fantasia! come può dar forma alle cose che non sono! Mi pare sia davanti a me; e dalla viva idea della mia mente, se la mia abilità fosse feconda, potrei disegnare il suo ritratto. Il pensiero, come un abile giocoliere, ci fa credere soprannaturali cose che hanno cause volgari come la malattia. È la mia melanconia. Come sei venuta a morte? Come son vano, se interrogo le mie proprie vane fantasie! Sognò mai uomo da sveglio, fino ad ora? Via quest'oggetto; fuori dal mio cervello: che cosa ho mai da fare con tombe, o letti di morte, funerali o lacrime, se debbo meditare, la vendetta? (Esce lo Spettro) Ecco, è finita, come una favola: gli uomini di stato credono spesso di veder cose più strane che non i pazzi. Orsù, a questo grave affare: la mia tragedia deve avere un che di allegria vana, o non avrà mai successo. Sono innamorato, innamorato della Corombona; e la mia richiesta d'amore così zoppica verso di lei, in versi. (Scrive) Fatto mirabilmente. Oh destino dei principi! Son così avvezzo alla frequente adulazione che, tutto solo, mi adulo da me. Ma andrà bene; è suggellato.

Entra un Servo.

Portate que­sto alla Casa delle Convertite e trovate il modo di darlo in mano della Corombona o della Superiora quando ci sia vicino qualcuno della gente di Bracciano. Via!  (Esce il Servo) Chi agisce in ogni cosa con la forza è di poco cervello: dove passa la testa di un uomo, tutte le membra seguiranno. Lo strumento in questa faccenda, l'ardito conte Lodovico: l'oro procurerà questo strumento; non v'è uomo che adeschi i falchi a mani vuote.

Bracciano                      - ora son pronto ad incontrarti: come il selvag­gio irlandese, non crederò tu sia morto fin che non potrò gio­care al calcio con la tua testa. Flettere si nequeo superos, Achèronta movebo.

Esce.

SCENA II.

Atrio nella Casa delle Convertite,

Entrano la Superiora e Flaminio,

Superiora                       - Se si sapesse che il vostro Duca ha così accesso a vostra sorella prigioniera, ne avrei probabilmente gran danno.

Flaminio                        - Neanche un'ombra: il Papa è sul suo letto di morte, e le loro teste sono ora turbate da altre faccende che la .sorveglianza di una dama.

Entra il Servo.

Servo                             - Flaminio è laggiù che parla con la superiora. Permettimi di parlarvi; vorrei supplicarvi di consegnare per me questa lettera alla bella Vittoria.

La Superiora                 - Lo farò, signore.

Servo                             - Con ogni cura e segretezza. Più tardi saprete chi sono e riceverete i ringraziamenti per questa cortesia.

Esce

Flaminio                        - Ebbene; che cos'è?

La Superiora                 - Una lettera.

Flaminio                        - A mia sorella? Avrò cura sia consegnata. 

Entra Bracciano

Bracciano                      - Che cos'è che leggete, Flaminio?

Flaminio                        - Guardate.

Bracciano                      - Ah (legge) « Alla molto sventurata, la molto rispettata Vittoria». Chi era il messaggero? 

Flaminio                        - Non so.

Bracciano                      - No! chi l'ha mandata?

Flaminio                        - Perdio, parlate come se uno dovesse sapere che uccello è sepolto in un pasticcio prima di tagliarlo.

Bracciano                      - L'aprirò, foss'anche il suo cuore. Qual'è la firma? « Firenze »! Questa astuzia è grossolana e tangibile: ho sco­perta la frode. Leggete, leggete.

Flaminio                        - (legge). « Muterò le vostre lagrime in trionfo, se solo vorrete esser mia: il vostro sostegno è caduto: mi fa com­passione che una vigna, che i principi finora hanno agognato di vendemmiare, per mancanza di sostenitori, debba ora appassite e morire ». In fede mia, mio signore, anche con la feccia il vino potrebbe andar bene per lui. « Presto romperò l'incanto della vostra triste prigionia, e con potente braccio di principe vi condurrò a Firenze, dove il mio amore e le mie cure sospenderanno i vostri desideri ai miei capelli d'argento ». Sulla forca i suoi strani doppi sensi! « Ora, per l'età mia, non mi riman­date il triste ramo del salice[30]: chi preferisce i boccioli al frutto maturo?». Mezzo, a quanto ne so, per esser rimasto troppo sulla paglia. « E tutte le rughe dell'età non posson contraddire questa verità: gli dei non invecchiano mai, e i principi nem­meno ». La peste la colga, stracciatela; basta con gli atei, per amor di Dio.

Bracciano                      - Morte di Dio, la ridurrò in atomi, e farò che il selvaggio vento del nord la scopi in alto e la soffi nelle narici del Duca! Dov'è questa sgualdrina?

Flaminio                        - Quella.... come la chiamate?

Bracciano                      - Oh, possa io diventar pazzo, prima che essa possa darmi il maledetto male che fa cadere i capelli! Dov'è quest'essere cangiante? ...

Flaminio                        - In acque profonde, sotto colla testa e le orecchie, vi assicuro[31]: non è roba che possiate portare.

Bracciano                      - No, mezzano?

Flaminio                        - Chi, io, mio signore? son forse il vostro cane?

Bracciano                      - Un segugio: sfidate, mi resistete?

Flaminio                 - Resistervi! corrano[32] quelli che son malati; io non ho bisogno d'empiastri.

Bracciano                - Volete esser preso a calci?

Flaminio                 - Volete che vi rompano il collo? Duca, ve lo dico, non siamo in Russia[33]; i miei stinchi debbono rimaner sani;

Bracciano                - Mi conoscete?

Flaminio                 - Oh, mio signore, compiutamente: come, a questo mondo, vi son gradazioni di mali, così, a questo mondo, vi son gradazioni di demoni. Voi siete un granduca, io, il vostro povero segretario. E m'aspetto ora un fico alla spagnola, ora un'insalata all'italiana[34], tutti i giorni.

Bracciano                - Mezzano, fa' il tuo mestiere e lascia le chiacchiere

Flaminio                 - Tutta la vostra bontà verso di me è come quel mi­serabile favore di l'olifemo verso Ulisse; mi riservate, per di­vorarmi per ultimo: strappereste l'erba dalla mia tomba per dar da mangiare alle vostre allodole; e sarebbe musica, per voi. Venite, vi condurrò da lei.

Bracciano                - Mi affrontate?

Flaminio                 - Oh, signore, non andrei avanti a un nemico astuto voltandogli il dorso, neanche se dietro a me ci fosse una vo­ragine.

Entra

Vittoria Corombona

Bracciano                - Sapete leggere, signora? guardate questa lettera: non vi son cifre, né geroglifici; non avete bisogno di com­mento: son diventato il vostro mezzano. Dio buono! diventerete una ben nobile dama, una magnifica sgualdrina che ha fatto strada.

Vittoria Corombona      - Come dite, signore?

Bracciano                      - Su, su, fate vedere il vostro scrittoio, mostrate il vostro tesoro di lettere d'amore. Morte e Furie! Le voglio veder tutte.

Vittoria Corombona      - Signore, sull'anima mia, non ne ho nes­suna. Da dove viene questa?  

Bracciano                - Maledetta la vostra ignoranza simulata! Siete am­maestrata, non è, vero? Vi metterò i sonagli come a un fal­cone, e vi lascerò volare al diavolo.

Flaminio                 - Attento al falco, mio signore.

Vittoria Corombona      - « Firenze »! questo è un tradimento, mio signore! Non mi è mai sembrato amabile, protesto, nep­pure nel sonno.

Bracciano                - È vero! son tradimenti. La vostra bellezza! Oh, sia maledetta diecimila volte! Quante volte ho veduto il diavolo in un cristallo!;Tu mi hai condotto, come un sacrificio pagano, con musica e fatali gioghi di fiori, alla mia eterna rovina. La donna all'uomo è dea, o lupa.

Vittoria Corombona      - Mio signore ….

Bracciano                      - Via! Ci respingeremo come due calamite; l'una fuggirà l'altra. Come, tu piangi? Cercane solo dieci del tuo falso mestiere: basteranno a fornire tutti i funerali 'd'Irlanda, con urla che sorpasseranno quelle dei selvaggi irlandesi.

Flaminio                 - Ohibò, mio signore.

Bracciano                      - Quella mano, quella maledetta mano che ho con­sumata coi miei folli baci! Oh mia dolce Duchessa, come sei bella adesso! I miei pensieri smarriti si sparpagliano come ar­gento vivo: ero stregato; perché tutti parlan male di te.

Vittoria Corombona - Non importa. Adesso vivrò ih modo che il mondo ritratti e muti i suoi discorsi. Avete fatto il nome della vostra Duchessa.

Bracciano                - La cui morte Dio perdoni!

Vittoria Corombona      - La cui morte Iddio vendichi, su di te, empio Duca! 

Flaminio                 - Si scatenano due turbini.

Vittoria Corombona - Che cosa, ho ottenuto da te, se non infamia? Tu hai macchiato l'onore immacolato della mia casa e ne hai fatta fuggire la nobile compagnia: come quelli che son malati dì paralisi, e tengono intorno a sé volpi malodoranti[35]e son sempre sfuggiti da quelli che hanno narici delicate. Come' chiamate questa casa? È questo il vostro palazzo? non l'ha chiamata il giudice una casa di sgualdrine penitenti? chi mi ci ha mandata? chi ha l'onore di elevare Vittoria a questo collegio dell'incontinenza? non siete voi? Non è questo l'avanzamento che vi debbo? Andate, andate, vantatevi di quante dame avete rovinate come me. Addio, signore; che io non senta più parlare di voi: avevo un membro ridotto un'ulcera dalla corruzione, ma l'ho tagliato via; e adesso me ne andrò in cielo piangendo, sulle grucce. In quanto ai vostri doni, ve li renderò tutti; e vorrei potervi far legatario universale di tutti i miei peccati; Oh, s'io potessi buttarmi in una tomba altrettanto presto! per quello che tu meriti, non verserò una lagrima di più.... scop­pierò, piuttosto.

Si butta su un letto.

Bracciano                - Ho bevuto il Lete. Vittoria! Felicità, mia cara! Vittoria! Che vi duole, amor mio? perché piangete?

Vittoria Corombona      - Sì, ora piango pugnali, lo vedete?

Bracciano                - Non ammiccano a me quegli occhi senza pari?

Vittoria Corombona      -  Come vorrei non fossero micce.

Bracciano                - Non è mio questo labbro?

Vittoria Corombona      - Si, da staccarmelo con un morso, piuttosto di darlo a te.

Flaminio                 - Volgiti al mio signore, cara sorella.

Vittoria Corombona      - Via di qui, mezzano!

Flaminio                        - Mezzano! son io l'autore del vostro peccato?

Vittoria Corombona      - Sì; è un ladro infame, chi fa entrare un ladro.

Flaminio                        - Saltiamo in aria, mio signore.

Bracciano                - Vuoi ascoltarmi? Essere stato una volta geloso di te, è dire che li amerò in eterno, e non sarò mai più geloso.

Vittoria Corombona      - Oh sciocco, la cui grandezza sorpassa di assai l'intelligenza! Che puoi tu lare che io non possa sopportare, pur di non essere sempre la tua sgualdrina? in quanto a questo, ti sarà più facile fare un fuoco di gioia in fondo al mare.

Flaminio                 - Oh, niente giuramenti, per amor di Dio!

Bracciano                - Mi ascolterete?

Vittoria Corombona      - Mai.

Flaminio                        - Che maledetta postema è la volontà di una donna! Niente può romperla? Ohibò, ohibò, mio signore, le donne si prendono come le tartarughe; bisogna voltarle sul dorso. — Sorella, per questa mano, sono al vostro fianco. — Orsù, orsù, l'avete offesa: come siete stato stranamente credulo, mio signore, nel pensare che il duca di Firenze la potesse amare! Vorrà un merciaio la mercanzia di'un altro, una volta che è malmenata e sporcata? — Eppure, sorella,' come mal vi si addice questa caparbietà! I giovani leprotti non resistono a lungo; e l'ira delle donne dovrebbe, come la loro corsa, dare un po' di diver­timento; un buon urlare per un quarto d'ora, e poi uno stanco accosciarsi.

Bracciano                      - Dovranno essere spenti questi occhi, che hanno così a lungo contemplato, il vostro viso?

Flaminio                        - Nessuna al mondo di quelle padrone che prestano quattrini agli spazzini, e ne vogliono l'interesse, farebbe questo. Stringetele la mano, mio signore, e baciatela: non siate come il furetto, non lasciate la presa per un soffio[36].

Bracciano                      - Stringiamoci di nuovo la destra.

Vittoria Corombona - Via di qui!

Bracciano                - Mai l'ira, né il vino che fa dimenticare, mi fa­ranno commettere una simile colpa.

Flaminio                        - Ora che siete sulla buona strada, continuate ardi­tamente.

Bracciano                      - Fa' la pace con me, e che il cannone minacci tutto il mondo.

Flaminio                 - Notate il suo pentimento. Le migliori nature com­mettono i più grandi falli quando si abbandonano alla gelosia come il miglior vino, morendo, da l'aceto più forte. Sappiatelo, il mare è più selvaggio e furioso dei calmi fiumi, ma è pur anche meno piacevole e salubre. Una donna tranquilla è un'acqua morta sotto un grande ponte; un uomo vi può passar sopra con sicurezza.

Vittoria Corombona - Oh, questi uomini falsi!

Flaminio                 - È cosa che succhiammo, sorella, dal seno delle donne, nella nostra prima infanzia.

Vittoria Corombona - Aggiungere miseria su miseria!

Bracciano                - Mia dolce....

Vittoria Corombona - Non sono umiliata abbastanza? Ahimè, il vostro buon cuore s'è fatto una palla di neve, ora che il vostro affetto è freddo.

Flaminio                 - Perdio, si scioglierà e sarà cuore di nuovo, o tutto il vino di Roma scorrerà, fino alla feccia.

Vittoria Corombona - Un cane o un falco sarebbe meglio ricompensato di quanto io non sia stata. Non dirò una parola di più.

Flaminio                 - Chiudetele la bocca con un dolce bacio, mio signore. Così, ora la marea è cambiata, il vascello vira di bordo, E un buon abbracciatore. Oh, noi uomini dai capelli ricci, siamo pure i più teneri verso le donne! Cosi va bene.

Bracciano                - Che dobbiate irritarvi cosi!

Flaminio                 - Oh, signore, i piccoli camini son quelli che buttano più fumo! Sudo per voi. Congiungetevi insieme in un silenzio profondo come quello dei greci nel loro cavallo di legno. Mio signore, unite i fatti alle vostre promesse; sapete che la carne dipinta non rinite la fame.:

Bracciano                - Rimanere in questa ingrata Roma....

Flaminio                 - Roma! merita d'esser chiamata Darberia, per il' modo infame col quale ci ha trattati.

Bracciano                - Adagio! seguirò lo stesso progetto che il duca di: Firenze (non so se per amore o per frode) concepì per la sua fuga.

Flaminio                        - E nessun tempo è più adatto di questa notte, mio signore! Il Papa è morto e tutti i cardinali sono entrati in con-, clave per eleggere un nuovo Papa; la città è in gran confusione. Possiamo vestirla da paggio, farle correr la posta, prender nave, e via, verso Padova.

Bracciano                      - Andrò all'istante a portar via di furto il principe Giovanni e partirò per Padova; Voi due, con la vecchia madre, e il giovane Marcello che è al seguito del duca di Firenze, se lo potete risolvere a questo, seguitemi. Io farò la fortuna di voi tutti. In quanto a voi; Vittoria, pensate al titolo di duchessa.

Flaminio                        - Vedete, sorella! — Aspettate, mio signore; vi rac­conterò una storiella. Il coccodrillo, che vive nel fiume Nilo, ha un verme che gli nasce nei denti e che gli da gran dolori. Un uccellino, non più grande di uno scricciolo, è il barbiere-chirurgo del coccodrillo; vola dentro le sue mascelle, tira fuori il verme e porta immediato sollievo. Il pesce, contento della li­berazione, ma ingrato a chi l'ha compiuta, perché l'uccello non possa sparlare all'intorno di lui, che non l'ha pagato, chiude le sue ganasce, pensando di inghiottirlo e così ridurlo a perpetuo silenzio. Ma la natura, che aborre tanta ingratitudine, ha armato questo uccello di una penna o punta sulla testa, la cui cima fe­risce la bocca del coccodrillo, forzandolo ad aprire la sangui­nosa prigione, e il grazioso stuzzicadenti se ne vola dal suo crudele paziente.

Bracciano                      - La vostra morale è che non ho ricompensato il servigio che mi avete reso.

Flaminio                        - No, mio signore. — Voi, sorella, siete il cocco­ drillo: la vostra fama è macchiata, e il mio signore la cura; e benché il paragone non possa applicarsi in ogni particolare, pure notate, ricordate quello che il buon uccello che ha la punta sul capo ha fatto per voi, e fuggite l'ingratitudine. (A parte) A qualcuno può parere ridicolo parlare così da canaglia e da pazzo, e a volte venir fuori con una secca sentenza, condita con la salvia; ma questo mi permette di. mutare d'aspetto; i bric­coni diventano grandi scimmiottando i grandi.

Escono.

SCENA III.

Davanti al Vaticano.

Entrano Francesco De Medici, LODOVICO,  Gasparo

e sei Ambasciatori.

Francesco de Medici     - Così, mio signore, mi raccomando alla vostra diligenza. Sorvegliate bene il conclave; e, secondo l'or-' dine, non lasciate che nessuno parli coi cardinali.

Lodovico                - Lo farò, mio signore. — Largo agli ambasciatori!

Gasparo                         - Sono meravigliosamente adorni, oggi: perché in­dossano quegli abiti diversi?

Lodovico                      - Oh, signore, son cavalieri di ordini diversi. Quel signore dal nero mantello, con la croce d'argento, è Cavaliere di Rodi; il seguente, è Cavaliere di San Michele; quello, del Toson d'Oro; quel francese, è Cavaliere dello Spirito Santo; monsignor di Savoia è Cavaliere dell'Annunziata; l'inglese è Cavaliere dell'onorata Giarrettiera, consacrato al loro santo, San Giorgio. Vi potrei descrivere le loro varie istituzioni, con le leggi annesse ai loro ordini; ma il tempo non permette ch'io lo faccia.

Francesco de Medici       - Dov'è il conte Lodovico?

Lodovico                - Qui, mio signore.

Francesco De Medici       - S'avvicina l'ora del pranzo. Ordinate il servizio dei cardinali.

Lodovico                - Così farò, mio signore.

Entrano Servi, con vari piatti coperti.

Fermi, lasciate che esamini il vostro piatto: per chi è questo?

Servo                      - Per il mio signore, il cardinale di  Monticelso.

Lodovico                - E questo?

Servo                      - Per il mio signore, il cardinale di Borbone.

L’Ambasciatore Francese      - Perché esamina i piatti? per vedere; che vivanda hanno preparata?

L'Ambasciatore Inglese         - No, signore, ma per impedire che siano fatte entrare lettere per comperar voti o per sollecitare l'elevazione di qualche cardinale. Il primo giorno che entrano, secondo la legge,, gli ambasciatori dei principi possono entrare con essi, per perorare per l'uomo che il loro principe preferisce agli altri; ma poi, fino all'elezione generale, nessuno può par­ lare con essi.

Lodovico                      - Voi che siete al servizio dei signori cardinali, aprite la finestra e ricevete le loro vivande!

Un Cardinale                - (alla finestra), Riportate il servizio: i signori cardinali sono occupati all'elezione del Papa; hanno finito lo scrutinio, e sono caduti in adorazione.

Lodovico                - Andate, andate!

Francesco de Medici     - Scommetterei mille ducati che sen­tirete or ora novelle del Papa. Ascoltate! certo è stato eletto: guardate, il mio signore d'Aragona appare sui merli della chiesa.

Aragona                        - (stilla terrazza). Denuntio vobis gaudium magnum. Reverendissimus cardinalis Lorenzo de Monticelso eleclus est in sedem apostolicam, et elegit sibi nomen Paulum Quartum., Omnes. Vivat sanctus pàter Paulus Quartus!

Entra un Servo

Servo                      - Vittoria, mio signore....

Francesco De Medici                -Bene, che cos'è di lei?

Servo                             - E’ fuggita dalla città....

Francesco de Medici     - Ah!

Servo                             - Col duca Bracciano.

Francesco de Medici       - Fuggiti! Dov'è il principe Giovanni?

Servo                      - È andato con suo padre.

Francesco de Medici     - Arrestate la Superiora delle Convertite. — Fuggiti! Oh, dannazione! (Esce il Servo) Come son fortunati i miei desideri! ma è per questo che ho agito: ho mandata la lettera per insegnargli quello che doveva fare. Prima, pazzo Duca, ho avvelenata la tua fama; ti ho messo sulla via di sposare una sgualdrina: c'è cosa peggiore? Questo ne segue,... la mano deve agire per soffocare la voce del furore: disdegno portare una spada e trattar con chiacchiere i torti che mi sono fatti.

Entra Monticelso col Seguito.

Monticelso                    - Concedimus vobis apostolicam benediclionem et remissionem peccatorum. (Francesco gli sussurra all'orecchio) Il mio signore mi annunzia che Vittoria Corombona è stata rapita dalla Casa delle Convertite da Braccano, e che son fuggiti dalla città. Ora, benché questo sia il primo giorno della nostra dignità, non potremmo piacer meglio al potere divino che staccando dalla santa chiesa questi esseri maledetti. Fate quindi sapere che pronunciamo la scomunica contro entrambi: tutti i loro parenti che sono in Roma, sono egual­ mente banditi. Procediamo.

Escono Monticelso, il suo Seguito, gli Ambasciatori, ecc. .

Francesco de Medici     - Venite, caro Lodovico; voi avete fatto giuramento di mettere in atto l'assassinio progettato. .

Lodovico                      - Con tutta fedeltà, Ma, signore, mi stupisco che vogliate impegnarvi di persona, essendo un gran principe.

Francesco de Medici       - Non me ne sviate. La maggior parte della sua corte è del mio partito, e alcuni sono dei mio consiglio. Nobile amico, il nostro pericolo sarà eguale in quest'impresa: permettete che una parte della gloria possa esser mia.

Escono Francesco De Medici e  Gasparo.

Ritorna Monticelso       

Monticelso              -  Perché il duca di Firenze ha messo tanta cura per ottenere il vostro perdono? Dite.   

Lodovico                      - I mendicanti italiani ve lo spiegheranno, che chiedendo l'elemosina, pregano quelli ai quali chiedono di fare il bene per amor di se stessi. O forse spande la sua generosità a piene mani, come i re, che molte volte danno senza misura, non tanto per il merito, quanto per il loro piacere.

Monticelso                    - So che siete astuto. Ditemi, che diavoleria era che stavate combinando?

Lodovico                      - Diavoleria, mio signore?

Monticelso                    - Ve lo domando. A che cosa vi adopera il Duca, poi che il suo tocco s'abbassava con tante cerimonie fino al suo ginocchio quando si congedava da voi?  

Lodovico                      - Ma, mio signore, mi diceva di un Cavallo berbero restio, che vorrebbe assai ridurre ad andar di carriera, a saltare e far corvetta: ora, mio signore, io ho un abilissimo scudiero francese.

Monticelso                    - State attento che il ronzino non vi rompa il collo. Credete di mettermi in mezzo con le vostre storie di cavalli selvaggi? Gaglioffo, voi mentite. Oh, sei una brutta nuvola nera, e minacci una violenta tempesta!

Lodovico                      - Le tempeste sono nell'aria, mio signore: son troppo in basso per scatenare la tempesta.

Monticelso                    - Miserabile creatura! So che sei fatto per tutti i mali, come i cani, che una volta sentito il sangue, uccidono sempre. Si trattava di qualche delitto, non è vero?

Lodovico                - Non ve lo dirò; eppure, non m'importa molto dirvelo, perdinci, con questi preamboli. Santo Padre, io non vengo a voi come una spia, ma da peccatore penitente. Quello che dico, è soltanto in confessione che  lo sapete, non deve mai esser rivelata.  

Monticelso                    - Me l’avete fatta.

Lodovico                      - Signore, amavo, appassionatamente la duchessa di Bracciano, o meglio, la perseguitavo con ardente desiderio, ben­ché essa non l'abbia mai .saputo. Fu avvelenata; sull'anima mia lo fu; e per questo ho giurato di vendicare il suo assassinio.

Monticelso                    - Al duca di Firenze?

Lodovico                - Sì, a lui.

Monticelso                    - Miserabile creatura! Se persisti in questo, sarai dannato. Credi di poter scivolare così sul sangue e non essere macchiato nella vergognosa caduta? O, come il nero e melanconico albero di tasso, credi di poter mettere radice nelle tombe degli uomini, e prosperare egualmente? L'avvertimento viene a te come dolci acquazzoni sulla terra troppo indurita: bagnano, senza penetrare a fondo. E così ti lascio, con tutte le Furie sospese intorno al tuo collo, fin che tu, con la penitenza, scacci questo male, esorcizzando dal tuo petto quel demone crudele.

Lodovico                      - Rinuncerò; dice che sarebbe la mia dannazione,Eppure mi aspettavo il suo suffragio, a causa della morte di Camillo.

Ritorna Francesco De Medici, con un Servo

Francesco de Medici     - Conoscete quel conte?

Servo                             - Sì, mio signore. ;

Francesco de Medici     - Portategli a casa questi mille ducati ditegli che li ha mandati il Papa. (A parte) Questo lo confermerà nel suo disegno più di tutto il resto.

Esce

Servo                             - Signore....

Lodovico                      - A me, signore?

Servo                             - Sua Santità vi manda mille corone, e desidera, se partite che lo avvertiate d'ogni cosa, come vostro protettore.

Lodovico                - Sono la sua creatura, alla quale può sempre comandare. (Esce il Servo) Come tutto è mutato! Mi rimproverava; eppure queste corone erano già contate e pronte,' prima che sapesse del mio viaggio. Oh gli artifici, le discrete forme dei H grandi! Stanno come le spose ai pranzi di nozze, con gli sguardi che si ritraggono dal minimo scherzo ardito, col loro stomaco schizzinoso malato di pudore, mentre i loro pensieri sono sfre­nati e già si danno agli ardenti passatempi lascivi che segui­ranno a mezzanotte. Tanta è la sua astuzia. Misura la mia profondità con una sonda d'oro. Ora son doppiamente armato.'? Ora, all'opera di sangue. Nel vasto inferno non vi sono che tre Furie, ma nel petto dei grandi ne dimorano tremila. 

Esce.

ATTO QUINTO

SCENA I.

Padova. Il Palazzo di. Bracciano.

Attraversano la scena Bracciano Flaminio, Marcello,

Ortensio, Vittoria Corombona, Cornelia, Zanche e altri.

Escono gli uomini, meno Flaminio e Ortensio.

Flaminio                 - In tutti gli stanchi minuti della mia vita, non s'era mai levato il giorno sino ad ora. Questo matrimonio mi assicura la felicità.

Ortensio                        - È una bella, promessa. Non avete ancor veduto il Moro che è venuto a corte?

Flaminio                        - Sì, e ho conferito con lui nel gabinetto del Duca. Non ho mai veduto un personaggio di migliore aspetto, né mai ho parlato con un uomo più esperto degli affari di stato e dell'arte della guerra. A quel che si dice, ha servito per quat­tordici anni i Veneziani a Candia, ed è stato capo di molte; ardite imprese.

Ortensio                  - Chi sono quei due che lo accompagnano?

Flaminio                        - Due nobili d'Ungheria, che, essendo al servizio dell'Imperatore come capitani, otto anni or sono, contro ogni aspettativa della corte, sono entrati in religione nel severo or­dine dei Cappuccini: ma, non essendo ben fermi nella loro vocazione, hanno lasciato l'ordine e sono tornati a corte. E là, sentendosi, poi, la coscienza turbata, fecero voto di servire contro i nemici di Cristo, andarono a Malta, dove furono fatti cavalieri, e al loro ritorno, in questa grande solennità, sono decisi ad abbandonare per sempre il mondo, e s. stabilirsi qui, in una casa di Cappuccini, in Padova.

Ortensio                  - È strano.

Flaminio                 - Una cosa è strana: han fatto voto di portare per sempre, sui loro corpo ignudo, le cotte di maglia che portavano da soldati.

Ortensio                  - Dura penitenza! Il Moro, è cristiano?

Flaminio                 - Sì.

Ortensio                  - Perché offre i suoi servigi al nostro Duca?

Flaminio                 - Perché comprende che è probabile nascano delle guerre fra noi e il duca di Firenze, e spera di trovarvi impiego. Non ho mai veduto chi in uno sguardo austero e ardito mostrasse più autorità, o in una frase altera esprimesse più sapere, o più profondo disprezzo dei nostri frivoli cortigiani. Parla come se avesse viaggiato per le corti dei principi di tutta la cristianità; in ogni cosa si sforza d'esprimere, perché tutti co­loro che discutono con lui lo sappiano, che ogni gloria, come le lucciole, splende di lontano, ma, guardata da vicino, non ha né calore, né luce. — Ecco il Duca!

Ritorna Bracciano, con Francesco De Medici travestito da. Mulinassar, Lodovico travestito da Carlo, Antonelli, Gasparo travestito da Pedro, Farnese, che portano tutti la spada; e l'elmo, e Marcello.

Bracciano                - Siate il benvenuto. Abbiamo udito parlare ampia­mente dei vostri onorevoli servigi contro il Turco. A voi, coraggioso Mulinassar, assegniamo una conveniente pensione; e siamo profondamente dolenti che i voti di questi due degni gentiluomini non permettan loro di godere il premio che offriremmo. Il vostro desiderio è di poter lasciare le vostre spade: guerriere come ricordo nella nostra cappella: io l'accetto come un grande onore che mi è fatto, e vi prego di permettere che si continuino le feste per la nostra Duchessa. Una sola cosa, come l'ultima vanità mondana che vedrete: non rifiutate di rimanere a un torneo preparato per questa sera: avrete posti particolari. È piaciuto ai, grandi ambasciatori di vari principi, nel tornare da Roma ai loro paesi, far grazia della loro presenza al nostro matrimonio, e onorarmi con questo divertimento.

Francesco de Medici     - Li persuaderò a rimanere, mio signore.

Bracciano                      - Andiamo nella sala dei ricevimenti!

Escono Bracciano Flaminio Marcello e Ortensio.

Lodovico                      - Mio nobile signore, il più felice benvenuto. (I Co­spiratori si abbracciano) Avete il nostro giuramento, suggellato dai sacramenti, di secondare la vostra impresa.

Gasparo                         - E ogni cosa è pronta: non avrebbe potuto trovare la sua rovina (fosse stato disperato) con maggior sicurezza.

Lodovico                - Non avete voluto accettare la mia idea.

Francesco de Medici     - È pensato meglio.

Lodovico                - Di far avvelenare il suo libro di preghiere, o un rosario, il pomo della sua sella, il suo specchio, o il manico della sua racchetta. Oh, questo, questo! Che mentre stava pas­seggiando a pallacorda avesse potuto votarsi all'inferno, e lanciar l'anima: sua nel grande abisso! Oh mio signore, avrei voluto che il nostro complotto fosse geniale, e fosse d'ora in poi tramandato come esempio, piuttosto che prendesse l'esempio.

Francesco de Medici       -  Non v'è modo più spedito di quello che abbiamo pensato.  

Lodovico                      - Avanti, allora..  

Francesco de Medici     - Eppure mi pare che questa sia una po­vera vendetta, perché viene su di lui furtivamente, come un ladro. Averlo preso per il casco in una battaglia campale, averlo portato a Firenze!

Lodovico                      - Sarebbe stato eccellente: e laggiù lo avremmo inco­ronato con una corona di fetido aglio, per mostrare l'acerbità del suo governo e il puzzo della sua lussuria. Viene Flaminio.

Escono Lodovico, Antonelli, Gasparo, Farnese.

Ritornano Flaminio Marcello e Zanche.

Marcello                 - Ditemi, perché questo demone vi perseguita?

Flaminio                        - Non lo so, poiché, per questa luce, non l'ho evocata. Non ci vuoi tanta astuzia quanta gli uomini credono, a far comparire il diavolo: poiché qui ve n'è già uno, la più grande astuzia sarebbe farlo tornare sotto terra.

Marcello                 - Essa è la nostra vergogna.

Flaminio                        - Ti prego, perdona. In fede mia, vedete, le donne . sono come le lappole: dove l'amor loro le getta, s'attaccano.

Zanche                          - Quel mio compatriota è una nobile persona. Quando ne avrà agio, voglio parlargli nel nostro linguaggio.

Flaminio                        - Vi prego di farlo. (Esce Zanche) Come va, corag­gioso soldato? Oh, avessi veduto qualcuno dei vostri ferrei giorni! Vi prego, raccontateci qualcuna delle vostre imprese.

Francesco de Medici       - È cosa ridicola che un uomo diventi: il suo stesso cronista. Non mi son mai sciacquata la bocca con le mie lodi, per timore che me ne venisse il fiato cattivo.

Marcello                        - Siete troppo stoico. Il Duca s'aspetterà altri discorsi da voi.

Francesco de Medici       - Non lo adulerò mai: ho troppo stu­diato gli uomini per far questo. Che differenza c'è fra il Duca.; e me? non più che fra due mattoni, fatti della stessa argilla: soltanto, uno può essere posto in cima a una torricella, l'altro al fondo di un pozzo, per mero caso. Se io fossi posto tant'alto come il Duca, terrei altrettanto duro, farei una figura altrettanto  bella, e sopporterei come lui il maltempo.

Flaminio                        - (a parte) Se questo soldato avesse il permesso dimendicare nelle chiese, ne racconterebbe delle storie.

Marcello                        - Anch'io ho fatto il soldato.

Francesco de Medici     - Avete fatto fortuna?

Marcello                 - Poca, in fede mia.

Francesco de Medici     - Questa è la miseria della pace: non vi ;; sono rispettate che le apparenze. Come certe navi paiono molto grandi nei fiumi che paiono molto piccole sui mari, così certi;; uomini di corte paiono colossi in una sala, e, se venissero sul campo, parrebbero pigmei degni di compassione.

Flaminio                 - Per me, datemi una bella sala adorna di arazzi, e un gran cardinale che mi tiri le orecchie, come al suo favorito prediletto.

Francesco de Medici     - E che tu possa fare il diavolo sa quale villania.

Flaminio                        - E con sicurezza.

Francesco de Medici       - È giusto: vedrete in campagna, al tempo del raccolto, che se anche i piccioni distruggono quanto grano vogliono, il fattore non osa mostrar loro lo schioppo. Perché? Perché appartengono: al signore del maniero; mentre quei poveri passeri, che appartengono al signore dei cieli, vanno a finire in pentola, per un eguale peccato.

Flaminio                        - Ora vi darò delle istruzioni prudenti. Il Duca dice che vi darà una pensione. Non è che una mera promessa; infor­matevi sottomano. Perché ho conosciuto uomini che tornavano dall'aver servito contro il Turco, che hanno avuta la pensione per tre o quattro mesi, per comperarsi nuove gambe di legno o cerotti freschi; ma poi, non riuscivano ad averla. E questa miserabile generosità pare quella di un boia, che dia un cordiale bollente a uno che è morto per tre quarti sulla ruota, soltanto per ridar forza all'anima del disgraziato, perché soffra altre pene: d'inferno.   

Esce Francesco De Medici.

Ritornano Ortensio Zanche, con un Giovin Signore e altri due.

Ebbene, voi, gagliardi! Sono pronti per il torneo?

Giovin Signore              -Sì; i nobili signori si stanno mettendo le armature.

Ortensio                        - Chi è? 

Flaminio                 - Un nuovo risalito; uno che bestemmia come un falconiere, e mente all'orecchio del Duca, giorno per giorno, come un facitor d'almanacchi; eppure l'ho conosciuto, quando venne a corte, che puzzava di sudore peggio dell'aiutante del guardiano della pallacorda.

Ortensio                  - Guardate, laggiù è la vostra dolce padrona.

Flaminio                        - Tu sei; mio fratello giurato: ti dirò, amo,quella mora, quella strega, molto per forza. Conosce alcune delle mie scelleratezze. Io l'amo proprio come uno tiene un lupo per le orecchie; se non temessi che mi si rivoltasse contro e mi saltasse alla gola, la lascerei andare al diavolo.

Ortensio                        - Ho sentito dire che esige tu la sposi.

Flaminio                        - Certo, le ho fatto una oscura promessa' di questo genere; e, mentre cerco di fuggirne, corro sempre come un cane spaventato con una bottiglia attaccata alla coda, che vorrebbe ben staccarla con un morso, eppure non osa guardare dietro,a, sé. — Oh, mia graziosa bagascia.

Zanche                          - Sì, il vostro amore per me si raffredda, più che rioni: si scaldi.

Flaminio                        - Perdinci, ne divento un miglior amatore; abbiamo tante ragazze in città che si scaldano troppo presto.

Ortensio                        - Che cosa pensate, allora, di quei vagheggini profumati?

Flaminio                 - Il raso non lipuò salvare; son sicuro che hannoun certo odorino della malattia; perché, quelli che dormon coi cani s'alzeranno con le pulci.

Zanche                    - Davvero! un po' di trucco, e vesti allegre[37] fan si che mi detestate.

Flaminio                 - Come! amare una dama per il trucco e gli allegri ornamenti? Ti troverò un altro esempio, dal canile. Esopo aveva un cane sciocco, che lasciava andare la carne per acchiappare l'ombra. Vorrei che i cortigiani facessero tutti migliori. 

Zanche                    - Ricordate i vostri giuramenti?

Flaminio                 - I giuramenti degli amanti son come le preghiere! che i marinai dicono quando son ridotti all'estremo; ma quando la tempesta è passata, e il vascello smette di rullare, passano dai giuramenti al bere. Eppure, fra gentiluomini, giurare e bere vanno insieme, e vanno d'accordo come i calzolai e il lardo di Vestfalia: l'uno tira l'altro, perché il bere porta a giurare, e giurare porta a nuovo bere. Ora, questo discorso non vai meglio delle moralità del vostro gentiluomo abbronzato? .'  '''':

Ritorna Cornelia          

Cornelia                  - E qui che fai il nido, sgualdrina? va' in bordello.  

Percotendo Zanche,

Flaminio                 - Dovreste essere appesa per i talloni, ora: percuotere a corte!

Esce Cornelia

Zanche                    - Non è buona a nulla, se non a far prender freddo di notte alle serve. Non osano servirsi di una stanga del letto, per paura delle sue dita leggere.

Marcello                        - Siete una bagascia, una bagascia impudente.

Prende a calci Zanche,

Flaminio                 - Perché la prendete a calci, dite? Credete sia come uri'albero di noce? Che bisogni bacchiarla perché dia buon frutto?

Marcello                 - Si vanta che la sposerete

Flaminio                 - Ebbene?  

Marcello                 - Preferirei fosse issata su di un palo in un giardino seminato da poco, per spaventare le sue sorelle cornacchie.

Flaminio                 - Siete un ragazzo uno sciocco: fate la guardia al vostro cane, io ho l'età della ragione.

Marcello                 - Se la colgo vicina a voi, le tagliere la gola.

Flaminio                 - Con un ventaglio di piume?

Marcello                 - E in quanto a voi, vi farò passare questa pazzia a frustate.

Flaminio                 - Siete collerico? Vi purgherò col rabarbaro.

Ortensio                  - Oh, vostro fratello!

Flaminio                 - Possa essere impiccato, quegli mi fa più torto, che meno dovrebbe offendermi. Sospetto che mia madre facesse uno sporco gioco, quando t'ha concepito,

Marcello                 - Per tutte le mie speranze di salvazione, come i due figli di Edipo che si sgozzarono l'un l'altro, le stesse fiamme del nostro affetto prenderanno due vie. Ti farò ri­spondere di queste parole col sangue del tuo cuore. .

Flaminio                 - Se vuoi batterti, vieni dietro ai miei talloni, come un'oca. Sai dove mi troverai.

Marcello                 - Molto bene. (Esce Flaminio) Se sei un nobile amico, portagli la mia spada, e digli che aggiusti su quella la lunghezza della sua.

Giovin Signore        - Lo farò, signore.

Escono il Giovin Signore, Marcello, Ortensio e altri due.

Zanche                    - Eccolo. Via dame il meschino pensiero della mia vergogna.

Ritorna Francesco De Medici

Non ho mai amato il mio colore fino a questo giorno, perche posso dire arditamente, senza rossore, che vi amo.

Francesco de Medici       - Il vostro amore è seminato fuor di tempo; c'è un'estate, a San Martino, ma è una languida estate; sono carico d'anni, e ho fatto voto di non sposarmi mai.

Zanche                          - Ahimè! le povere ragazze trovano più amorosi chi mariti: eppure, vi potete sbagliare sulle mie ricchezze. Perché, come quando gli ambasciatori son mandati a congratularsi coi: principi, s'usa mandar con essi un ricco presente, così che, seal principe non piacciono né la persona dell'ambasciatore né le sue parole, almeno gli piaccia il regalo; io posso venire a voi allo stesso modo, ed essere più amata per la mia dote che per la mia virtù.

Francesco de Medici       - Penserò alla proposta.

Zanche                    - Fatelo. Ora, non vi tratterrò più a lungo. Quando avrete miglior agio, vi dirò cose che vi faranno tremare il sangue/ Non mi biasimate se rivelo questa passione: gli amanti che nascondono la loro passione muoiono nell'anima.

Francesco de Medici     - (a parte). Di tutte le spie, questa può' diventar la migliore, Certo, sniderò strani uccelli da questo nido vile.

Esce

SCENA II

La stessa

Entrano MARCELLO e CORNELIA

Cornelia                        - Sento mormorare per tutta la corte che state per battervi: chi è il vostro avversario? perché il litigio?

Marcello                        - È una diceria vana.

Cornelia                        - Perché dissimulare? certo, non fate bene a spaventarmi così; non siete mai così pallido, se non quando siete più irato. Vi scongiuro, se avete cara la mia benedizione... non chiamerò il Duca, ed egli vi ammonirà.

Marcello                        - Non rendete pubblico un timore che diventerebbe ridicolo: non è così. Questo Crocifisso non era di mio padre?:

Cornelia                        - Sì.

Marcello                        - E vi ho sentito dire, che quando allattavate mio fratello, lo prese fra le mani, e gli ruppe un braccio.

Cornelia                        - Sì, ma è stato accomodato.

Entra Flaminio,

Flaminio                        - Vi ho riportata la vostra spada.

Trapassa Marcello con la spada.

Cornelia                        - Ah! Oh orrore!

Marcello                        - L'avete messa a posto, in verità.

Cornelia                        - Aiuto! Oh, è assassinato!

Flaminio                        - Vi fate salir su la bile? Vado al santuario e vi mando un chirurgo.

Esce.

Entrano Lodovico, Ortensio e Gasparo

Ortensio                        - Come! a terra!

Marcello                                 - Oh, madre, ricordate ora quel che ho detto del crocifisso rotto! Addio. Vi son peccati che il ciclo punisce giu­stamente, in tutta una famiglia. Questo è elevarsi con tutti i mezzi disonesti! Che tutti gli uomini sappiano che starà saldo a lungo l'albero i cui rami non s'apriranno più larghi delle sue radici.

Muore.

Cornelia                  - Oh mio perpetuo dolore!

Ortensio                        - Virtuoso Marcello! È morto. Vi prego, lasciatelo, signora, venite, lo dovete.

Cornelia                        - Ahimè, non è morto; è svenuto. Ma come, nessuno guadagnerà nulla dalla sua morte. Lasciate che io lo rianimi, per amor di Dio! 

Lodovico                - Vorrei vi sbagliaste.

Cornelia                        - Oh, voi mi ingannate, voi mi ingannate, voi mi ingannate! Quanti se ne sono andati così, per mancanza di cure! Alzategli la testa, alzategli la testa: il sangue che perde internamente lo ucciderà.

Ortensio                        - Vedete che è finito.

Cornelia                        - Lasciate che io venga a lui; datemelo com'è: se deve ritornare alla terra, lasciate che gli dia un bacio col cuore, e ci metterete tutti e due in una bara. Cercate uno specchio;.; guardate se il suo flato non lo appannerà; o strappate qualche' piuma al mio guanciale, e mettetela sulle sue labbra. Volete  perderlo, per non darvi un po' di pena?

Ortensio                        - Il vostro più pietoso ufficio, è pregare per lui.

Cornelia                        - Ahimè, non vorrei ancora pregare per lui. Potrà vivere tanto da portarmi sottoterra e pregare per me, se lascerete che mi avvicini a lui.

Entra Bracciano tutto armato, meno l'elmo. Flaminio, Francesco De Medici e un Paggio.

Bracciano                      - Questa fu l'opera vostra?

Flaminio                 - Fu la mia sfortuna.

Cornelia                        -  Mente, egli mente; egli non l'ha ucciso, ma l'hanno ucciso costoro che non hanno voluto si prendesse miglior curar di lui.

Bracciano                      - Abbiate conforto, madre addolorata.

Cornelia                        - Oh voi, barbagianni!

Ortensio                        - Calmatevi, buona signora.

Cornelia                        - Lasciatemi andare, lasciatemi andare. (Corre a Flaminiocol suo coltello sguainato e, giunta a lui, lo lascia cadere)Il Dio del cielo ti perdoni! Non ti maravigli ch'io preghi per, te? Te ne dirò la ragione: ho appena respiro per contar venti minuti, e non lo voglio spendere a maledire. Addio. Una metà di te giace qui; e possa tu vivere per riempire una clessidra con le sue ceneri ridotte in polvere, che ti possa dire come dovresti passare il tempo avvenire in santo pentimento! 

Bracciano                      - Madre, ditemi, vi prego, come venne così a morte? qual fu il litigio?  

Cornelia                        - In verità, il mio figlio più giovane presumeva troppo della sua virilità, gli disse amare parole, sguainò per primo la spada; e così, non so come, perché ero fuori di me, cadde con la testa proprio sul mio petto.

Paggio                           - Questo non è vero, signora.

Cornelia                        - Taci, ti prego: Una freccia è già perduta nell'erba, sarebbe vano perdere questa, perché quella non sarà ritrovata mai più.

Bracciano                      - Andate, portate il corpo alla casa di CORNELIA. E comandiamo che nessuno informi la nostra Duchessa di que­sto triste accidente. In quanto, a voi, Flaminio ascoltatemi: non vi concederò perdono.

Flaminio                        - No?

Bracciano                      - Soltanto un contratto d'affitto per la vita; e non durerà che un sol giorno: sarai costretto ogni sera a rinno­varlo, o a essere impiccato.

Flaminio                        - A piacer vostro. (Lodovico spruzza veleno nell'elmo di Bracciano) Ora, la vostra volontà è legge, non mi ci im­mischierò.

Bracciano                      - Una volta mi sfidaste in casa di vostra sorella; ora vi ho in mio potere. Dov'è il nostro elmo?

Francesco De Medici    - (a parte). Domanda la sua perdita. Nobile giovane compiango il tuo triste destino! Ora, al torneo. Questo lo porterà al nero lago, più lontano. La sua ultima buona azione fu di perdonare- un delitto.;

Escono.

SCENA III.

La stessa.

Carica e clamori.

Combattono il torneo, prima a uno a uno, poi a tre a tre.

Entrano Bracciano,  Francesco De Medici, Flaminio e altri.

Bracciano                - Un armatolo! morte di Dio, un armatolo!

Flaminio                        - Armaiolo! dov'è l'armaiolo?

Bracciano                      - Strappatemi via l'elmo.

Flaminio                        - Siete ferito, mio signore? 

Bracciano                      - Oh, il mio cervello è in fiamme!

Entra l'Armaiolo.

L'elmo è' avve­lenato.

L’Armaiolo                   -Signore, sull'anima mia....  

Bracciano                - Portatelo alla tortura! Vi sono dei grandi che hanno avuto mano in questo, e vicini, intorno a me.

Entra Vittoria Corombona

Vittoria Corombona      - Oh mio signore amato! avvelenato!

Flaminio                        - Togliete la barriera. Oh tristi festeggiamenti! Chia­mate i medici.

Entrano due Medici.

Che la peste vi colga! Ne abbiamo già abbastanza qui della vostra scienza. Temo che anche gli ambasciatori siano I avvelenati.

Bracciano                      - Oh, son già finito! L'infezione già corre al cervello e al cuore. Oh cuor possente! V'è tra te e il mondo un tal patto, che vi dispiace romperlo.

Entra Giovanni.

Giovanni                       - Oh amatissimo padre!

Bracciano                      - Portate via quel ragazzo. — Dov'è quella donna eccellente? Se avessi mondi infiniti, sarebbero troppo poco per te. Debbo lasciarti? — Che cosa dite, voi, barbagianni, il veleno è mortale?

Primo Medico               - Veramente mortale.

Bocciano                       - Corrottissimo, machiavellico carnefice, sei maestro: nell'arte di uccidere; ma l'arte di salvare ti vien meno tanto spesso quanto gli amici ai grandi, quando ne hanno bisogno. Io che ho fatto grazia della vita a vili offensori e a miserabili assassini, non ho il potere di prolungare la mia di un anno? — Non mi baciare, ti avvelenerei. Quest'unguento, è mandato; dal granduca di Firenze.

Francesco de Medici     - Signore, fatevi coraggio.

Bracciano                      - Oh dolce morte naturale, che sei sorella gemella del più soave sonno! non guarda il tuo mite addio una sca­pigliata cometa; il triste gufo non batte alla tua finestra; il rauco lupo non fiuta il tuo cadavere: la pietà mette la tua salma nel sudario, mentre l'orrore è il compagno dei principi.

Vittoria Corombona - Son perduta per sempre.

Bracciano                      - Qual miserabilecosa è morire fra donne che gemono!

Entrano Lodovico e Gasparo, vestiti da Cappuccini.

Chi son questi?

Flaminio                        -  Francescani: hanno portato l'estrema unzione.

Bracciano                      - Pena la morte, nessuno mi parli di morte: è pa­rola infinitamente terribile. Ritiriamoci nel nostro gabinetto.

 Escono tutti, meno Francesco De Medici e Flaminio.

Flaminio                 -  Quale solitudine è intorno ai principi morenti! come fin qui hanno spopolate le città, divisi gli amici, e fatte inospiti le grandi case, così adesso, oh giustizia! adesso, dove sono i loro adulatori? Gli adulatori non sono che l'ombre del corpo dei principi; la più piccola nuvola densa li fa invisibili.

Francesco de Medici       - Si fa gran pianto per lui.

Flaminio                 - In fede mia, per qualche ora l'acqua salata scor­rerà in grande abbondanza in ogni luogo a corte; ma, credetelo, i più non fanno che piangere sulla tomba della loro matrigna.

Francesco de Medici     - Che cosa volete dire?

Flaminio                        - Come! fingono; come taluni che vivono entro la giurisdizione d'una corte.

Francesco de Medici     - Andiamo, avete ben fatto fortuna, sotto di lui.

Flaminio                        - In fede mia, come il lupus nel petto di una donna. Son stato nutrito di pollame[38]; ma, in quanto a danaro, capitemi bene, avevo tanta voglia di frodarlo quanto gli altri che hanno uffici a corte; ma non ero abbastanza astuto per farlo.

Francesco de Medici     - Che cosa pensavi di lui? su, parla  francamente.

Flaminio                        - Era uno di quegli uomini di stato che preferireb­bero contare quanti colpi di cannone hanno sparati contro una città, per calcolar così quello che hanno speso, che quanti dei loro valorosi e meritevoli sudditi hanno perduto davanti a essa.

Francesco de Medici       - Oh, parlate bene del Duca.

Flaminio                        - Ho detto. Vuoi sentire un po' della mia esperienza di corte? Riprendere i principi è pericoloso; e lodar troppo alcuni di essi, è evidente menzogna.

Ritorna Lodovico.

Francesco de Medici       - Come sta il Duca?

Lodovico                      - Mortalmente malato. È caduto in una strana pazzia:  parla di battaglie e monopolii, di imposte da applicare; e da questo cade nel più folle linguaggio. Il suo pensiero si attacca a venti diversi oggetti, e confonde la profonda saggezza e la follia. Una fine tanto tremenda può insegnare a taluni' che alzan troppo la cresta che, se la loro vita è la più felice, là loro morte non è la migliore. Ha conferita ogni sovranità del ducato a vostra sorella, fin che il Principe giunga all'età maggiore.

Flaminio                 - In questo, c'è ancora un po' di fortuna.

Francesco de Medici     - Eccolo, viene.

Entrano Bracciano portato su un letto, Vittoria Corombona, Gasparo, e il Seguito.

La morte è già sul suo viso.

Vittoria Corombona - Oh, mio buon signore!

Bracciano                      - Andate via! mi avete ingannato. (Queste parole sono fanne diverse dì follia e tali debbono apparire alla recitazione) Avete esportata moneta fuori dai nostri territori, comperati e venduti uffici, oppressi i poveri, e io non me ne sono mai accorto. Rendetemi i conti; ora, sarò io il mio ammini­stratore.

Flaminio                        - Signore, pazienza.

Bracciano                      - In verità, sono da biasimare. Avete mai sentito il nero corvo prendersela con le cose nere? o si è mai saputo che il diavolo se la pigliasse con le creature che hanno il pie forcuto?

Vittoria Corombona      - Oh, mio signore!

Bracciano                - Datemi quaglie, a cena.

Flaminio                        - Le avrete, signore.

Bracciano                      - No, fritto di pescecane; le quaglie[39] si cibano di veleno. Quel vecchio volpone, quel machiavellico duca di Fi­renze! Abbandonerò la caccia, e diventerò uccisore di cani: bello! Gli sarò amico; perché, notatelo, signore, un cane ne fa sempre abbaiare un altro. Silenzio! Ecco un bel gaglioffo che entra adesso.

Flaminio                        - Dove?

Bracciano                      - Come, là, colla berretta azzurra e un par di brache con una gran brachetta: ah, ah, ah! Guardate, ha la brachetta tempestata di spilli che han perle per capocchia. Non lo co­noscete?

Flaminio                 - No, mio signore.

Bracciano                      - Ma come, è il diavolo; lo riconosco da una gran rosetta che porta sulle scarpe, per nascondere il suo piede for­cuto. Discuterò con lui; è un loico impareggiabile.

Vittoria Corombona - Mio signore, qui non v'è nulla.

Bracciano                - Nulla! bene! nulla! quando voglio danaro, il nostro tesoro è vuoto, non c'è nulla. Non voglio mi si tratti così.

Vittoria Corombona      - Oh, riposate tranquillo, mio signore!

Bracciano                - Guardate, guardate: Flaminio che ha ucciso suo fratello, danza qui sulla corda, e porta un sacco di danaro in ogni mano, per tenersi in equilibrio, per paura di rompersi il collo; e c'è un avvocato col robone orlato di velluto, chefissa e sta a bocca aperta, nell'attesa che il danaro caschi. Che capriole fa il gaglioffo! avrebbe dovuto essere sulla forca. È là: chi è quella donna?

Flaminio                        - Vittoria, mio signore.

Bracciano                - Ah, ah, ah! i suoi capelli sono cosparsi di polvered'ireos, da far parere che abbia peccato in pasticceria. Chi è questo?

Flaminio                 - Un religioso, mio signore.

Qui Bracciano par prossimo alla fine, Lodovico e Gasparo, vestiti da cappuccini, si avvicinano al suo iella con un crocifisso e una candela benedetta.

Bracciano                - Sarà ubriaco; evitatelo: le discussioni son tre­ mende, quando v'inciampano i preti. Guardate, sei topi grigi che han perduta la coda strisciano sul guanciale; chiamate un acchiappatopi. Farò un miracolo, libererò la corte da ogni sporco parassita. Dov'è Flaminio?:

Flaminio                        - Non mi piace che mi nomini cosi spesso specialmente sul suo letto di morte: è un segno che non vivrò a lungo, Vedete, è vicino alla fine.

Lodovico                      - Permettete, vi prego. — Attende, domine Brachiane....

Flaminio                        - Guardate, guardate come fissa costantemente l'occhio sul crocifisso.

Vittoria Corombona      - Oh, tenetelo sempre alto! Calma il suo spirito smarrito; e così i suoi occhi si sciolgono in lagrime.

Lodovico                      - Domine Brachiane, solebas in bello tutits esse tuo clypeo; mine hunc clypeum hosti tuo opponas infernali.

Presso il crocifisso,

Gasparo                         - Olim basta valnisti in bello; mine hanc sacram bastam vibrabis contra hostem animarum.

Presso la candela benedetta.

Lodovico                      - Attende, domine Brachìane; si nunc quoque probas ea quae acta Sunt inter nos, flecte caput in dextrum.

Gasparo                         - Esto securus, domine Brachiane; cogita quantum babeas meritorum deniqne memineris meam animam prò tua oppignoratam si quid, esset periculi.

Lodovico                      - Si unne quoque probas ea quae acta sunt inter nos flecte caput in laevum. Sta per morire: vi prego, allontanatevi tutti, e lasciate soltanto1 che mormoriamo al suo orecchio delle meditazioni particolari, che il nostro ordine non vi permette di udire.

(Qui, gli altri essendo usciti, Lodovicoe Gasparo si scoprono.

Gasparo                         - Bracciano ….

Lodovico                      - Demone Bracciano sei dannato.

Gasparo                         - Per l'eternità.

Lodovico                      - Uno schiavo condannato e dato alla forza è il tuo gran signore e padrone.

Gasparo                  - È vero; perché tu sei preda del diavolo.

Lodovico                      - Oh vile! Voi che eravate considerato famoso poli­tico, la cui arte era il veleno!

Gasparo                         - E la cui coscienza era l'assassinio!

Lodovico                      - Che avreste voluto rompere il collo di vostra mo­glie facendola cader dalle scale, prima che fosse avvelenata!

Gasparo                         - Che avevate Se vostre maledette insalate!

Lodovico                - E belle bottiglie adorne e profumi mortali come la peste d'inverno!

Gasparo                         - Ed ecco, sublimato....

Lodovico                      - E copparosa....

Gasparo                         - E argento vivo....

Lodovico                      - Con altre diaboliche droghe da farmacista, che fon­ dono nel tuo astuto cervello. Odi?

Gasparo                  - Questi è il conte Lodovico.

Lodovico                - Questi, GASPARO. E tu morirai come un vile ga­glioffo.

Gasparo                  - E puzzerai come un cane morto e putrefatto.

Lodovico                      - E sarai dimenticato prima della tua orazione funebre.

Bracciano                      - Vittoria! Vittoria!

Lodovico                - Oh, il diavolo maledetto torna di nuovo in sé! siamo perduti.

Gasparo                         - Strangolatelo senza che vedano.

Entrano Vittoria Corombona, Franceso De Medici, Flaminio e il Seguito

Volete che torni ancora in sé, per vivere in triplicati tormenti? per carità, per carità cristiana, uscite da questa stanza.

Escono Vittoria Corombona, Francesco De Medici, Flaminio e il Seguito.

Lodovico                      - Vorreste chiacchierare, signore? Ecco un vero nodo d'amore, mandato dal duca di Firenze. 

Strangola Bracciano.

Gasparo                         - E già fatto?

Lodovico                      - Il lucignolo è spento. Nessuna infermiera al mondo, anche se avesse fatto sette anni di pratica al lazzaretto degli appestati, avrebbe potuto far la cosa con maggior grazia.

Ritornano Vittoria Corombona, Francesco De Medici, Flaminio e il Seguito.

Miei signori. è morto.

Omnes                  - Pace all'anima sua.

Vittoria Corombona      - Ahimè! questo luogo è l'inferno.

Esca.

Francesco de Medici       - Come la prende a cuore.

Flaminio                        - Oh, sì, si; se le donne avessero fiumi navigabili nei loro occhi, li spenderebbero tutti. Certo, mi maraviglio che: desideriamo più dumi alla città, quando esse vendono l'acqua tanto a buon mercato. Ti dirò, queste non sono che ombre lunatiche di dolori o paure; non c'è nulla che inaridisca tanto' presto come le lagrime delle donne. Ebbene, ecco la fine del mio raccolto; egli non mi ha dato nulla. Promesse di corte! I saggi le tengano per maledette, perché, nella vita, chi più! guadagna, peggio paga.

Francesco de Medici       - Certo, questa è opera del duca di Firenze.

Flaminio                        - E’ assai probabile. Duri sono i colpi che vengono dalla mano, ma i colpi mortali son quelli che vengon dalla testa. Oh i maravigliosi ritrovati di un machiavellico! Non viene, come un grossolano gaglioffo che si affatica a picchiarvi a morte; no, il furfante raffinato vi solletica fin che moriate, vi fa morire ridendo, come se aveste trangugiato una libbra di zafferano. Vedete l'impresa, è compiuta in un batter d'occhio; sì da insegnare all'onestà di corte che salta sul ghiaccio[40].

Francesco de Medici     - Ora la gente è libera di discorrere e di farla lunga sui suoi vizi.

Flaminio                        - Miseria dei principi, che debbono per forza essere censurati dai loro schiavi! Non biasimati soltanto per aver fatto cose che sono cattive, ma anche per non aver fatto quello che tutti volevano: meglio essere un trebbiatore. Morte di Dio, mi piacerebbe parlare ancora con questo duca.

Francesco de Medici       - Adesso che è morto?

Flaminio                 - Non sono stregone; ma se preghiere o bestem­mie possono farlo parlare, anche se quaranta diavoli gli fossero di scorta nella sua livrea di fiamma, gli parlerò, e gli stringerò la mano, dovessi esserne fulminato.

Esce.

Francesco de Medici     - Ottimo Lodovico! Ma come, l'hai ter­rorizzato fino al suo ultimo anelito?

:

Lodovico                - Sì, e così sbadatamente che per poco il Duca non ci ha riempiti di terrore.

Francesco de Medici       - Come?

Lodovico                - Questo lo saprete più tardi.

Entra.

Zanche                          - Ecco l'essere infernale che completerà il divertimento. Ora, la rivelazione di quel se­greto che promise quando s'innamorò di voi.

Francesco de Medici     - Vi ritrovo con passione in questo triste mondo.

Zanche                    - Vorrei che levaste il capo, signore; queste lagrime di corte non richieggono il vostro tributo. Lasciate piangere quelli che partecipano da colpevoli alla triste causa. Ho saputo la scorsa notte, da un sogno triste che ho fatto, che qualche male sarebbe seguito; pure, a dir vero, era soprattutto di voi che si trattava nel sogno.

Lodovico                      -   Si metterà a sognare?

Francesco De Medici    - Sì; e per seguire la moda sognerò con  lei.

Zanche                          - Mi pareva, signore, che veniste furtivamente al mio letto.

Francesco De Medici    - Mi crederai, cara? per questa luce, anch'io ho sognato di te; e mi pareva di vederti ignuda.

Zanche                          - Ohibò, signore! Come vi ho detto, mi pareva foste coricato al mio fianco.

Francesco De Medici    - Così sognai io; e per timore che tu prendessi freddo, ti copersi con questo mantello irlandese.  

Zanche                          - In verità, sognai che eravate un tantino ardito con me.  Ma per venire al fatto....

Lodovico                      -  Come, come! Spero che non ci verrete qui, da­ vanti a me.

Francesco De Medici    - No, dovete ascoltare il mio sogno fino in  fondo.

Zanche                          - Bene, signore, dite.

Francesco De Medici    - Quando buttai il mantello sopra di te, hai riso pazzamente, mi parve.

Zanche                          -  Riso!

Francesco De Medici    - E hai gridato che il panno ti faceva il solletico.

Zanche                          - Questo fu un sogno,  davvero!

Lodovico                      -  Osservatela, vi prego; ridacchia come la saponata nella  quale s'è lavato un carbonaio.

Zanche                          - Orsù, signore, la fortuna vi segue. Vi ho detto che avrei rivelato un segreto: Isabella, la sorella del duca di Firenze, fu avvelenala da un ritratto affumicato; e il collo di Camillo è stato rotto dal dannato Flaminio, e la colpa fu data a un ca­vallo da  volteggio.

Francesco De Medici    - Molto strano!

Zanche                          - Molto vero.

Lodovico                      -  Il nido di vipere è rotto.

Zanche                          - Confesso con tristezza di aver avuto mano nel ter­ribile l'alto.

Francesco De Medici    - Ti avevano fatto le loro confidenze?

Zanche                          - Così; e per questo, spinta dal pentimento, voglio rubare  a Vittoria,  stanotte.   

Lodovico                      -  Ammirabile penitenza! Gli usurai la sognano, quando prendono sonno alla predica.

Zanche                          - Per favorire la nostra fuga, ho chiesto licenza di riti­rarmi, fino al funerale, da un'amica, in campagna. Questa scusa favorirà la nostra fuga. In monete e in gioielli, raccoglierò per il vostro servizio almeno centomila corone.

Francesco De Medici    - Oh nobile ragazza!

Lodovico                      -  Divideremo quelle corone.

Zanche                          - È una dote, mi pare, che dovrebbe render falso quel proverbio abbronzato, e far diventare bianca un'etiope.

Francesco De Medici    - Lo farà. Via! 

Zanche                          - Siate pronto per la nostra fuga.

Francesco De Medici    - Un'ora prima dell'alba.  (Esce Zanche) Oh strana scoperta! fino ad ora non conoscevamo le circostanze della loro morte:

Rientra Zanche.

Zanche                          - Aspetterete, verso mezzanotte, nella cappella?

Francesco De Medici    - Sì.  

Esce Zanche.

Lodovico                      -  Ma ora il nostro atto .è giustificato.

Francesco De Medici    - Al diavolo la giustizia! Che male fa alla giustizia? ora noi, come le pernici, purghiamo il male con l'alloro; perché la fama coronerà l'impresa, e toglierà la vergogna.

Escono.

SCENA   IV.

La stessa.

Entrano Flaminio e Gasparo, da una porta; da un'altra, Giovanni, col Seguito.

Gasparo                         -  Ecco il giovane Duca: avete mai veduto un prin­cipe più grazioso?

Flaminio                 - Ho conosciuto il bastardo di una povera donna, che aveva più bell'aspetto. Questo, sia detto alle sue spalle; adesso, davanti a lui ogni paragone sarebbe odioso. Saggiò fu il pavone di corte, che era un gran favorito, e che essendo para­gonato per bellezza all'aquila regale da certi pivieri ch'erano là presso, disse che l'aquila era uccello assai maggiore di lui in bellezza, non per le sue penne, ma a causa dei suoi lunghi ar­tigli: i suoi, spunteranno col tempo. — Mio grazioso signore:!

Giovanni                 - Vi prego, lasciatemi, signore!

Flaminio                 - Vostra grazia dev'essere allegro: son io che. ho ragione di piangere. Poiché, sapete quel che diceva il ragaz­zetto che montava a cavallo dietro a suo padre?  

Giovanni                 - Ebbene, che cosa disse?

Flaminio                 - Quando sarete morto, padre », disse, « sperò di cavalcare io stando in sella ». Oh, è una bella cosa per un uomo sedere a cavallo da solo! Può alzarsi sulle staffe, guar­dare intorno, e vedere l'intera distesa dell'emisfero. Ora,'mio signore, voi siete in sella.

Giovanni                 - Meditate le vostre preghiere, signore, e fate peni­tenza. Sarebbe bene pensaste a quello che è stato; ho sentito chiamare il dolore il figlio maggiore del peccato.

Esce

Flaminio                 - Meditare le mie preghiere! mi minaccia religiosamente: sto già cadendo a pezzi. Pure non vorrei, come Anassarco essere pestato in un mortaio fino a morirne; e del resto questa morte meglio si converrebbe agli usurai: col loro oro e con essi pestali insieme, si farebbe un brodetto che sarebbe eccellente cordiale per il diavolo. Ha già lo sguardo malvagio di suo zio, ili sedicesimo.

Entra un Cortigiano.

Ebbene, signore, chi siete?

Cortigiano               -Piace al giovane Duca, signore, che evitiate la sala d'onore e tulle le stanze nelle quali gli si rende omaggio.

Flaminio                 - Così, il lupo e il corvo sono graziosissimi sciocchi, quando son giovani. È .vostro ufficio, signore, farmi star fuori?

Cortigiano               -Così vuole il Duca.

Flaminio                 - In verità, mastro cortigiano, gli estremi non deb­bono essere usati in tutti gli uffici. Supponete che una gentil­donna fosse portata fuori dal suo letto sulla mezzanotte, e im­prigionata a Castel Sant'Angelo, o alla torre laggiù, senza null'altro addosso che la camicia; non sarebbe crudeltà da parte del gentiluomo-portiere reclamare l'ultima veste, tirargliela so­pra la testa e gli orecchi, e metterla dentro ignuda?

Cortigiano               -Molto bene, siete allegro.

Esce.

Flaminio                 - Fa per me un caso di espulsione dalla corte? Un tizzone in fiamme butta'più fumo fuor dal camino, che dentro. Ne soffocherà qualcuno! 

Entra Francesco De Medici.

Come, sei triste?

Francesco de Medici     - Ho. Veduto or ora lo spettacolo più pietoso.

Flaminio                 - Ne vedi un altro qui, un cortigiano privato del grado, degno di compassione:

Francesco de Medici       - La vostra venerabile madre è diventata assai vecchia, in due ore. Li ho trovati che avvolgevano la salma di Marcello nel sudario. E v'è una tanto solenne melodia, di canti di duolo, di lagrime e tristi elegie — come quelle con le quali le vecchie nonne che facevano la veglia ai morti solevano consumare le notti — che, credetemi, non avevo occhi per gui­darmi fuori dalla stanza, tanto eran pieni di lagrime.

Flaminio                 - Li andrò a vedere.

Francesco de Medici       - Sarebbe assai spietato da patte vostra; poiché la vostra vista accrescerà le loro lagrime.

Flaminio                 - Li andrò a vedere; sono dietro la cortina; voglio udire quegli urli superstiziosi:

Tira la cortina.

Si vedono Cornelia, Zanche e altre tre Dame che avvolgono nel sudario la salina di Marcello. Canzone.

Cornelia                  - Questo rosmarino è appassito; vi prego, datemene di fresco. Vorrei che quest'erbe crescessero sulla sua tomba quando sarò morta e in corruzione. Prendete l'alloro, metterò una ghirlanda intorno al suo capo; proteggerà ilmio ragazzo dalla folgore. Questo lenzuolo, lo conservo da vent'anni, e ogni giorno l'ho santificato con le mie preghiere. Non credevo che lo avrebbe portato.

Zanche                          -Guardate; chi c'è là?

Cornelia                        - Oh, porgetemi i fiori.

Zanche                          - Sua signoria sragiona.

Dama                      -Ahimè, i! dolore l'ha fatta ridiventare bambina!

Cornelia                  - Siete molto benvenuto: ecco rosmarino per voi, e ruta per voi; (a Flaminio) viole del pensiero per voi; tenetele da conto, vi prego. Ve ne son altre per me.

Francesco De Medici       -Signora, chi è questo?

Cornelia                  - Siete, mi pare, l'affossatore.

Flaminio                 - Sì.

Zanche                          - E’ Flaminio.

Cornelia  li prende la mano.

Cornelia                        - Mi credete tanto sciocca? ecco una bianca mano: può il sangue esser lavato tanto presto? Lasciatemi vedere. Quando i barbagianni ululano sui comignoli, e lo strano grillo del Ionio canta e salta, quando sulla vostra mano appaiono macchie gialle,siate certo che sentirete parlare di un cadavere. Via questa mano, com'è macchiata! certo ha toccato un rospo. L'acqua di primula è buona per la memoria: vi prego, compratemene tre oncie.

Flaminio                 -Vorrei esser lontano di qui.

Cornelia                        -  Udite, signore? Vi dirò una nenia che la mia nonna usavacantare sul suo liuto, quando udiva la campana sonare a morto.

Flaminio                        - Dite, se volete, dite.

Cornelia                  - (fa questo in vari modi di follia)

Chiamale il pettirosso e lo scricciolo

poi che su ombrosi boschetti svolano,

e con le foglie e fiori ricoprono

gli abbandonati corpidegli insepolti.

Chiamato al suo funebre lamento

la formica, il topo de' campi, e la talpa,

che glialzino tumuli per tenerlo caldo,

e (quando le ricche tombe son saccheggiate) non

 (avrà male:

ma tenete lontano il lupo, nemico agli uomini,

perché con le sue unghie li disotterra.

Non l'hanno voluto sotterrare, perché è morto in rissa; ma

ho per loro una risposta:

La santa chiesa io riceva come deve,

poi che fedelmente pagò le sue decime.

Le sue ricchezze sono raccolte, e questi son tutti i suoi beni: questo hanno i poveri, e i grandi non hanno di più. Ora che tutte le mercanzie se ne sono andate, possiamo chiuder bottega. Dio vi benedica tutti, buona gente.

Escono Cornelia, Zanche e le Dame.

Flaminio                        - Sento in me qualche cosa di strano, a cui non posso dar nome, a meno che non sia compassione. Vi prego, lasciatemi. (Esce Francesco De Medici) Stanotte conoscerò quel clic mi destina la sorte; voglio sapere quello che la mia ricca sorella mi darà per i miei servigi. Ho vissuto male, da dissoluto, come certuni che vivono a corte; e a volte, quando il mio volto era pieno di sorrisi, ho sentito sgomentarsi la coscienza nel mio petto. Spesso le vesti ricche e onorate provano queste torture: crediamo che gli uccelli in gabbia cantino, ma in verità pian­gono.

Entra lo spettro di Bracciano, con casacca, brache di cuoio e stivali, incappucciato. In mano ha un vaso di gigli, con un teschio dentro.

Flaminio                        -  Ah! Ti posso affrontare: avvicinati, avvicinati an­cora. Qual derisione ha fatto di te la morte! sembri triste. In qual luogo sei? in quella galleria stellata, lassù? o nella segreta maledetta? — No? non parli? Vi prego, signore, chiaritemi, in quale religione è meglio un uomo muoia? o è in vostro potere dirmi quanto a lungo ho da vivere? Questa è la domanda più necessaria. Nessuna risposta? siete ancora come certi grandi uomini, che camminano soltanto su e giù come ombre, senza proposito? dite! Lo Spettro getta della terra su di lui, e gli mostra il teschio) Che cos'è? Oh fatalità! getta della terra su di me! Il teschio di un morto sotto le radici dei fiori! — Vi piego, pariate, signore: i nostri sacerdoti italiani ci fanno cre­dere che i morti conversino coi loro familiari, e molte volte vanno a letto con loro, e mangiano con loro. (Esce lo Spettro) Se n'è andato; ed ecco, il teschio e la terra sono scomparsi. Questo è piùche una mera allucinazione. Oso sfidare il mio falò a fare il peggio. Ora, all'alloggio di mia sorella, a raccon­tarle questi onori, la disgrazia che il Principe ha gettata su di me; poi, la vista pietosa del mio morto fratello; e la follia ili mia madre; e infine, quest'orribile visione. Tutto questo la generosità di Vittoria farà diventar migliore, o immergerò que­sta spada nel suo sangue.

Esce.

SCENA V.

La stessa.

Entrano Francesco De Medici, Lodovico e Ortensio,

Lodovico                -Mio signore, per l'anima mia, non andrete più lontano; vi siete assurdamente impegnato fin troppo. Da parte mia, ho pagati tutti i miei debiti: perciò, se dovessi cadere, i mici creditori non cadranno con me; e giuro di sdebitarmi con tutti di questa ardita assemblea, fino al più meschino seguace. Mio signore, lasciate la città, o rinuncerò al delitto.

Esce.

Francesco de Medici     - Addio, Lodovico; se perirai in quest'anione gloriosa, ti alzerò un tal monumento che la fama con­serverà vivo il tuo nome, quando sarai cenere.

Ortensio                        - E’in cammino qualche nero delitto. Scenderò su­bito alla cittadella, e metterò insieme gente. Queste violente fazioni di corte, che non sopportano ostacoli, nel loro corso fanno rompere spesso il collo ai cavalieri.

Esce.

SCENA VI.

La stessa. La camera di Vittoria.

Entrano Vittoria Corombona, con un libro in mano, e Zanche; Flaminio le segue.

Flaminio                        - Come, alle vostre preghiere? smettete.

Vittoria Corombona      - Come, scellerato?

Flaminio                 - Vengo di voi per affari mondani. Sedete, sedete; no, rimanete, sgualdrinella, potete ascoltare: le porte son chiuse abbastanza bene.

Vittoria Corombona      - Ah, siete ubriaco?

Flaminio                 - Sì, si, d'acqua d'assenzio; e ne gusterete un po', fra non molto.

Vittoria Corombona      - Che vuoi dir questo furioso?

Flaminio                        - Siete l'esecutrice testamentaria del mio signore; e reclamo la ricompensa per il mio lungo servizio.

Vittoria Corombona      - Per il vostro servizio!

Flaminio                        - Venite, dunque; ecco penna e inchiostro; mettete per iscritto quello che mi darete.

Vittoria Corombona      - Ecco. 

Scrive.

Flaminio                        - Ah! avete già finito? è un brevissimo documento.

Vittoria Corombona      - Lo leggerò.

Legge.

Ti do quella parte d'eredità, e non altra, sono la quale gemeva Caino dopo aver ucciso il fratello.

Flaminio                        - Buon brevetto di corte, per mendicare!

Vittoria Corombona - Siete un furfante.

Flaminio                 - Siamo a questo punto? Dicono che lo spavento curi la terzana: c'è un demone in te; voglio provare se lo posso far fuggire da te con lo spavento: No, rimani seduta: il mio signore mi ha lasciato, del resto, due scrigni di gioielli che mi faranno disprezzare la vostra generosità; li vedrete. 

Esce.

Vittoria Corombona      - Certo è impazzito.

Zanche                          - Oh è disperato. Per la vostra sicurezza, parlategli gentilmente.

Ritorna Flaminio con due custodie di pistole.

Flaminio                        - Guardate, queste sono assai migliori, in caso dispe­rato, di tutti i vostri gioielli.

Vittoria Corombona      - Eppure, mi pare che queste pietre non abbiano una bella luce, sono male incastonate.

Flaminio                        - Le volgerò verso di voi dalla parte giusta; vedrete come risplenderanno.

Vittoria Corombona      - Via da me questo orrore! Che cosa volete? che volete che faccia? Non è vostro tutto il mio? ho forse dei figli?

Flaminio                        - Vi prego, buona donna, non mi turbate con questo vano affare mondano; dite le vostre preghiere. Ho fatto un giu­ramento al mio morto signore, che né voi né io gii saremmo sopravvissuti più di quattr'ore.

Vittoria Corombona - Lo impose?

Flaminio                        - Sì; e fu per mortale gelosia, per tema che qual­cuno ti dovesse godere dopo di lui,clic mi spinse a questo giuramento. In quanto alla mia morte, gliela proposi volontaria­mente, sapendo che, se non poteva essere sicuro alla sua corte, lui, un gran duca, che speranza ci poteva essere per noi?

Vittoria Corombona      - Questa è la vostra melanconia e dispe­razione.

Flaminio                        - Basta! Sei folle se credi che i politici usino ucci­dere gli effetti degli oltraggi e ne lascino vivere la causa. Do­vremo gemere nei ferri, o essere vergognoso e grave peso a un pubblico patibolo? Questa è la mia risoluzione; non voglio vivere per la preghiera di nessuno, né morire per altrui co­mando.

Vittoria Corombona      - Volete ascoltarmi?

Flaminio                 - La mia vita ha reso dei servigi ad altri uomini; la mia morte servirà me stesso. Preparatevi.

Vittoria Corombona      - Volete veramente morire?

Flaminio                        - Con tanto piacere, quanto ne ebbe mio padre il generarmi.

Vittoria Corombona      - Sono chiuse le porte?

Zanche                          -Sì, signora.

Vittoria Corombona      - Siete divenuto ateo? Volete che il vo­stro corpo, che è il nobile palazzo dell'anima, diventi macello dell'anima? Oh, il dèmone maledetto che ci offre tutti gli altri peccati con tre strati di zucchero; e la disperazione coperta di fiele e d'antimonio; eppure la tracanniamo tutta. — Chiamate aiuto! (A parte, a Zanche) Ci fa abbandonare quello che fu fatto per l'uomo, il mondo, per sprofondare in quella che fu fatta per i dèmoni, l'eterna tenebra.

Zanche                          - Aiuto, aiuto!

Flaminio                 - Chiuderò la vostra gola con delle prugne d'in­verno.

Vittoria Corombona - Ti prego, ricorda ancora che milioni sono ora nella tomba, che l'ultimo giorno, come mandragore, si leveranno gridando.

Flaminio                        - Lascia le tue chiacchiere, poi che questi non sono che lamenti retorici, femminili argomenti: e mi commuovono come taluni dal pulpito commuovono il loro uditorio, più con il clamore che col buon senso della ragione o della sana dot­trina.

Zanche                          - (a parte, a Vittoria). Dolce signora, fingete di accon­sentire; soltanto persuadetelo a mostrarvi la via della morte; muoia lui per primo.

Vittoria Corombona - Va bene. Lo capisco, la morte è un cibo che bisogna prendere come le pillole, non masticandola, ma inghiottendola in fretta. Il bruciore della ferita, o la debo­lezza della mano, potrebbero altrimenti triplicare i tormenti.

Flaminio                        - Ho sempre tenuta per vile e miserabile la vita che non sa morire. .

Vittoria Corombona      - Oh, fragilità! Eppure, ora, son risoluta: addio, afflizione! Guarda,

Bracciano                      - io, che mentre vivevi feci un altare fiammeggiante del mio cuore per sacrificare a te, ora son pronta a sacrificare cuore e tutto. — Addio, Zanche!

Zanche                          -Come, signora! credete che vi sopravviverò soprat­tutto quando la miglior parte di me, Flaminio farà lo stesso viaggio?

Flaminio                 - O amatissima mora!

Zanche                          - Soltanto, con tutto l'amor mio, lasciate ciré vi sup­plichi. Poi clic è necessario che uno di noi faccia a se stesso violenza, siamo voi o io il suo triste maestro, per insegnarle come morire.

Flaminio                        - Nobilmente mi consigli: prendi queste pistole, per­ché la mia mane è già macchiata di sangue. Puntate due di queste al mio petto, l'altra contro il vostro, e così morremo egualmente contenti; ma prima giurate di non sopravvivermi.

Vittoria Corombona e Zanche. Molto solennemente.

Flaminio                 - Ecco qui la mia fine; addio, luce del giorno! Oh spregevole medicina, che vuoi cosi lunghi studi, solo per pre­servare una vita tanto breve, prendo congedo da te! — Queste son due ventose, che faranno scorrere tutto il mio sangue in­fetto. (Mostra le pistole) Siete pronte?

Vittoria Corombona e Zanche     - Pronte.

Flaminio                        - Dove andrò adesso? O Luciano, il tuo ridicolo purgatorio! trovare Alessandro il Grande che rappezza le scarpe, Pompeo che la punte di ferro ai lacci, e Giulio Cesare che fa dei bottoni di crine! Annibale che vende cera da scarpe e Augu­sto che grida per vendere l'aglio! Carlo Magno che vende cimose a dozzine, e Pipino che vende le mele in un carro tirato da un cavallo! Ch'io mi dissolva in fuoco, terra, acqua, aria, o in tutti gli elementi, in atomi, non so, né assai m'importa. — Sparate, sparate: di tutte le morti, la morte violenta è la mi­gliore; perché ci invola a noi stessi tanto presto che il dolore, appena sentito, è passato.

Sparano: egli cade; accorrono a lui e lo calpestano.

Vittoria Corombona - Come, siete caduto?

Flaminio                        - Son già commisto alla terra. Poi che siete nobile, mantenete i vostri giuramenti, e seguitemi con coraggio.

Vittoria Corombona - Dove? all'inferno?

Zanche                          -Alla più certa dannazione.

Vittoria Corombona - Oh fra i dèmoni il più maledetto!

Zanche                          - Sei preso. ..

Vittoria Corombona - Nella tua stessa trappola. Calpesto il fuoco che sarebbe stato la mia rovina.

Flaminio                        - Volete essere spergiura? quale giuramento solenne era quello sullo Stige, se gli dèi non osavano pronunciarlo, e violarlo! Oh, avessimo un simile giuramento da adempiere, e fosse tanto ben mantenuto nei nostri tribunali!

Vittoria Corombona - Pensa dove stai per andare.

Zanche                          - E ricorda le efferatezze che hai commesse.

Vittoria Corombona - Questa tua morte farà di me una stella fiammeggiante e di cattivo augurio: guarda in alto e trema.

Flaminio                 - Oh, son colto in una trappola!

Vittoria Corombona - Vedete che la volpe torna molte volte a casa senza caccia; eccone la prova.

Flaminio                        - Ucciso da due cagne!

Vittoria Corombona      - Non c'è offerta più adatta alle Furie infernali di uno nel quale regnarono mentre era vivo.

Flaminio                 - Oh, la via è scura e orrenda! Non posso vedere. Non avrò compagnia?

Vittoria Corombona - Oh sì, i tuoi peccati corrono davanti a te per cercare il fuoco dell'inferno, per farti luce fin laggiù.

Flaminio                        - Oh, sento l'odore della fuliggine, la fetida fulig­gine! il fuoco è nel camino: il mio fegato è bollito come un fegato alla scozzese; c'è un operaio che posa tubi nelle mie budella, mi brucia. — Mi sopravvivrai?

Zanche                          - Sì, e infileremo un palo attraversò il tuo corpo! [41]per­ché faremo credere che hai fatto violenza a te stesso.

Flaminio                        - Oh astuti dèmoni! ora ho messo alla prova il vo­stro amore ed eluso tutti i vostri disegni. — Non sono ferito;  (si alza) le pistole non avevano palle: era un'astuzia per pro­vare la vostra tenerezza verso di me: e vivo per punire la vostra ingratitudine. Sapevo che una volta o l'altra avreste tro­vato il modo di darmi una grande pozione. — Oh uomini che giacete sul vostro letto di morte, e siete perseguitati dalle mogli che piangono, non vi fidate di loro! si rimariteranno prima che il verme fori il vostro sudario, prima che il ragno facciauna sottilcortina per i vostri epitaffi. — Come foste abile nel tirare! vi esercitate al parco d'artiglieria? — Fidarsi di una donna! mai, mai! Bracciano mi sia d'esempio. Diamo l'anima al diavolo in pegno di un po' di piacere, e una donna fa l'atto di vendita. Che l'uomo possa mai pensare a sposarsi! Per un'ipermnestra che salvò il suo signore e marito, quarantanove delle sue sorelle[42]  tagliarono la gola ai mariti in una sola notte: ecco una folla di virtuose sanguisughe! — Ecco qui altri due strumenti.

Vittoria Corombona - Aiuto, aiuto!

Entrano Lodovico, Gasparo, travestiti.

Flaminio                 - Che rumore è questo? ah! chiavi false a corte!

Lodovico                - Vi abbiam portato una mascherata.

Flaminio                 - I mattaccini, pare, dalle vostre spade sguainate. Religiosi che diventano gaudenti!

Gasparo                         - Isabella! Isabella!

Lodovico                      - Ci riconoscete, adesso?

Flaminio                 - Lodovico e Gasparo!

Lodovico                - Sì; e quel moro al quale il Duca dette una pen­sione era il granduca di Firenze.

Vittoria Corombona - Oh, siamo perduti!

Flaminio                 - Non porterete via la giustizia dalle mie mani. Oh, lasciate ch'io l'uccida! — Tagliere la mia salvezza attraverso le vostre cotte d'acciaio. Il fato è un cane, non lo pos­siamo cacciare da noi a bastonate. Che rimane, ora? Tutti quelli che fanno il male, prendano questo esempio: l'uomo può pre­vedere il suo fato, ma non prevenirlo. Fra tutti gli assiomi, questo vincerà il premio: è meglio esser fortunato che saggio.

Gasparo                         -Legatelo alla colonna.

Vittoria Corombona - Oh, la vostra dolce pietà! Ho veduto un merlo che preferiva volare al seno d'un uomo, piuttosto di affrontare l'artiglio del feroce sparviero.

Gasparo                         -La vostra speranza vi illude.

Vittoria Corombona      -  Se il duca di Firenze fosse a corte, così mi uccidesse!

Gasparo                         - Insensata! i principi premiano con le loro mani, ma danno la morte e le punizioni con le mani degli altri.

Lodovico                      - Gaglioffo, mi avete percosso, una volta: ora vi colpirò io, al cuore.

Flaminio                 - Lo farai come un carnefice, un vile carnefice, non da coraggioso; poiché vedi che non posso renderti i colpi.

Lodovico                      - Ridi?

Flaminio                        - Vorresti che morissi come son nato, gemendo?

Gasparo                         - Raccomandatevi al cielo.

Flaminio                 - No, porterò le mie raccomandazioni lassù.

Lodovico                - Oh, vi potessi uccidere quaranta volte al giorno, e per quattro anni di seguito, sarebbe troppo poco! Nulla mi duole quanto che siate troppo pochi, per saziare la brama della nostra vendetta. A che pensi?

Flaminio                 - A nulla; a nulla: lascia le tue vane domande. Son sulla via di meditare in lungo silenzio: chiacchierare sarebbe vano. Non ricordo nulla. Non v'è nulla che sia di tanto tor­mento, come i pensieri dell'uomo.

Lodovico                - Oh, tu illustre sgualdrina! Se potessi separare il tuo fiato da questa pura aria quando lascia il tuo corpo, lo aspirerei, e lo respirerei su di un letamaio.

Vittoria Corombona - Voi, il mio carnefice! Mi pare tu non ti mostri abbastanza orrendo, tu abbia un volto troppo bello per essere un carnefice. Se lo sei, fa' il tuo ufficio con le debite forme; buttati in ginocchio, e domanda perdono.

Lodovico                - Oh, sei stata un'assai prodigiosa cometa! Ma io vi tagliere la coda, ucciderò la Mora per prima.

Vittoria Corombona      - Non l'ucciderete per prima; ecco il mio petto. Voglio essere scortata nella morte; la mia servente non andrà mai davanti a me.

Gasparo                         - Siete tanto coraggiosa?

Vittoria Corombona      - Sì, darò il benvenuto alla morte, come fanno i principi ai grandi ambasciatori; verrò incontro alla tua lama, a metà strada.

Lodovico                      - Tremi; mi pare che la paura ti debba far svanire nell'aria.

Vittoria Corombona - Oh, t'inganni, son troppo donna: la fantasia non mi 'può uccidere. Ora ti dico, nel morire non ver­serò una lagrima di viltà; o, se apparirò pallida, sarà per man­canza di sangue, non per paura.

Gasparo                         -Tu sei la mia bisogna, nera Furia.

Zanche                          -Ho il sangue rosso quanto ognuno di loro: ne vuoi bere? È buono per l'epilessia. Sono orgogliosa che la morte non possa mutare il mio colore, perche non parrò mai pallida..

Lodovico                      -Colpite, colpite tutti insieme.

Pugnalano Vittoria, Zanche e Flaminio.

Vittoria Corombona - Fu un colpo coraggioso. Col prossimo che dai, uccidi un neonato alla mammella, e allora diventerai famoso.

Flaminio                 - Oh, che lama è? Di Toledo, o una lama inglese? Ho sempre credulo che uno spadaio dovesse distinguere me­glio di un medico la causa della mia morte. Esplorate più a fondo la mia ferita; sondatela con l'acciaio che l'ha fatta.

Vittoria Corombona - Oh, il mio più grande peccato era nel mio sangue! Ora il mio sangue lo espia.

Flaminio                 - Sei una nobile sorella! Ti amo, adesso: se la donna genera l'uomo, dovrebbe insegnargli a essere uomo. Addio. Sappi che molle nobili donne, che son famose per virile virtù, furono viziose. Soltanto, toccò loro un più felice silenzio: non ha macchie, quella che ha l'arte di nasconderle.

Vittoria Corombona - La mia anima, simile a una nave' in una nera tempesta, è tratta non so dove.

Flaminio                 - Allora, butta l'ancora. La prosperità incanta gli nomini, poi che pare sicura; ma i mari ridono, si mostrano bianchi, quando le rocce sono vicine. Cessiamo di soffrire, ces­siamo di essere gli schiavi della fortuna, anzi, cessiamo di mo­rire, morendo. Sei andata? e tu, così vicina al fondo? raccon­tano il falso quelli che dicono che le donne competono con le nove Muse e hanno nove tenaci, durevoli vite! Non guardo chi mi ha preceduto, né chi mi seguirà. No, con me stesso voglio cominciare e finire. Mentre guardiamo in alto, al cielo, confondiamo conoscenza con conoscenza. Oh, sono in una nebbia!

Vittoria Corombona      - Oh felici coloro che mai videro la corte, e non conobbero i grandi che dai racconti!

Muore.

Flaminio                        - Mi riprendo coinè una candela consumata, per un bagliore, e all'istante mi spengo. Che tutti quelli che appar­ tengono ai grandi ricordino la tradizione delle comari e siano come i leoni della Torre il giorno della Candelora; si ricordino di piangere se splende il sole, per timore del miserabile resto d'inverno avvenire. È bene che ancora ci sia qualche cosa di buono nella mia morte; la mia vita è stata un nero carnaio. Ho preso un raffreddore eterno; ho perduta la voce irremissibil­mente. Addio, magnifici gaglioffi! Questo attivo mestiere della vita appare del tutto vano, poi che il riposo genera riposo, mentre tutti cercano pena con pena. Le acerbe lusingatoci cam­pane non suonino per me. Colpisci, folgore, e colpisci con fragore, al mio addio!

Muore.

Ambasciatore Inglese    - (dentro). Di qua, di qua! Sfondate le porte! di qua!

Lodovico                      - Ah siamo traditi? Allora, moriamo tutti insieme, con fermezza; e, avendo compiuta questa nobilissima impresa, sfidiamo il peggio della sorte, e non temiamo di sanguinare.

Entrano gli Ambasciatori e Giovanni

Ambasciatore Inglese   - Tenete indietro il Principe, sparate, sparate.

Sparano e Lodovico cade.

Lodovico                - Oh, sono ferito! Temo d'essere preso.

Giovanni                       - Voi, miserabili assassini, per quale autorità avete commesso questo massacro?

Lodovico                - Per la tua.

Giovanni                       -La mia!

Lodovico                - Sì; tuo zio, che è parte di te, ce l'ha comandato. Mi conosci, ne son certo; sono il conte Lodovico; e il tuo nobi­lissimo zio, travestito, era alla tua corte la notte scorsa.

Giovanni                       - Ah!

Gasparo                         - Sì, quel Moro che tuo padre scelse per dargli la pen­sione.

Giovanni                       - Lui, divenuto assassino! — Portateli via, alla pri­gione e alla tortura! Tutti quelli che hanno avuto mano in questo gusteranno la nostra giustizia, come è vero che ho spe­ranza nel ciclo.

Lodovico                      - Ancora mi glorio di poter chiamare mio quest'atto. Per parte mia, il cavalletto, la forca e la ruota della torturi non mi saranno che sonni profondi; qui è il mio riposo, Io disegnai questo quadro notturno, e fu il mio migliore.

Giovanni                       - Portate via i corpi. Vedete, miei onorati signori, quello che dovete trarre dal loro castigo. I colpevoli ricordino che i loro neri delitti s'appoggiano a grucce fatte di fragili canne.

Escono.

In luogo di Epilogo, soltanto questo di Marziale mi serve:

HAEC FUERINT NOBIS PREAMIA, SI PLAUI[43]

FINE


[1] Si   riteneva   che   le  meteore   fossero  esalazioni   di   vapori  estratti! dalla terra dal  calore solare,  e che s'infiammassero poi  nell'atmosfera superiore.

[2] Nella  doratura  a  mercurio  si  applicava  all'oggetto un  amalgama, d'oro e mercurio, indi il  mercurio  era  tolto via col calore:   i suoi vapori,  attraverso  i  polmoni,  potevan  produrre avvelenamento.

[3] In questa foggia  olandese,  il  giustacuore era attillato e le brache rigonfie.

[4] Mistress vale tanto:  signora, moglie, quanto il boccino nel giocodelle bocce.

[5] Allusione ai  recinti posti da ricchi proprietari nei pascoli pubblici, atto  che  provocò  sollevazioni  di   contadini.  Si  noti  poi  che  mullon nell'inglese elisabettiano, valeva, oltre che «montone»,  «donna di facili costumi »,

[6] Pezzetta di vetro cristallino, tinto sia un lato, che si mette nei fondo del castone di una gioia, la quale per troppa sottigliezza non possa reggere alla tinta.

[7] Cioè, cessare di camminare presso la staffa del mio signore come uno staffiere.

[8] Il corno dell'unicorno era ritenuto un antidoto.

[9] Allusione a malattia venerea.

[10] Allusione ai combattimenti d'animali che accompagnavano i trionfi romani.

[11] Cioè prostitute, secondo l'espressione idiomatica elisabettiana.

[12] Accenno alla sifilide che faceva cadere i capelli.

[13]Al tempo della foia.

[14] ' Nella Batracomiomachia

[15] I Polacchi si tosavano i capelli eccetto un lungo ciuffo sulla fronte che ravviavano ad'indietro.

[16] Virgilio, Eneide i, 26

[17] Vescicanti.

[18] Espressione che equivaleva a: mandare al diavolo.

[19] Il creditore fittizio esigette il pagamento del supposto debito.

[20] I fori dello .strumento musicale a fiato e gli orifizi delle branchie; della lampreda.

[21] Ovidio, Metam, III 466

[22] Questo vostro servizio.

[23] Catch conyes, chiappar conigli, espressione idiomatica elisabettiana per ingannare, uccellare.

[24] Quale si portava sotto l’armatura

[25] Il vangelo.

[26] Monete portoghesi

[27] Caino uccise Abele per via del sacrificio

[28] Un Richard Wolner di Windsor era famoso pel suo stomaco di struzzo

[29] Edgardo, pronipote di re Alfredo, estirpò in tre anni i lupi dal Galles commutando un tributo nella consegna di trecento teste di lupo all’anno.

[30] Emblema dell’amore non ricambiato

[31] Allusione al bagno che si dava alla seta marezzata

[32] Nel testo inglese c'è una freddura con run, detto di piaghe purulente.

[33] Allusione alla pena russa di bastonare i debitori insolventi sugli stinchi e i polpacci.

[34] Noti modi di somministrare veleno.

[35] Si credeva che l’odore della volpe fosse efficace contro la paralisi

[36] Si credeva, scioccamente, che un furetto lasciasse prese se si soffiava contro di esso.

[37] Nelle altre donne

[38] Per secoli si credette di curare il lupus applicandovi carne di piccione o altra

[39] Quaglia era sinonimo di prostituta nel linguaggio corrente elisabettiano

[40] Cioè, che vive in continuo pericolo

[41] Cosi per tradizione venivan trattati i corpi dei suicidi

[42] Le Danaidi

[43] Marziale, Ep., II, 91, 8.