Il filosofo inglese

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L'AUTORE A CHI LEGGE

Carlo Goldoni

IL FILOSOFO INGLESE

La presente Commedia di carattere in cinque Atti in versi rimati, che diconsi Martelliani, fu rappresentata per la prima volta in Venezia nel Carnovale dell'anno 1754.

ALL'ILLUSTRISSIMO

SIGNOR

GIUSEPPE SMITH

CONSOLE PER LA NAZIONE BRITANNICA IN VENEZIA

L'argomentopiù ardito che io abbia scelto da trattare in una commedia, egli è certamente, Signore, il Filosofo Inglese. Un Filosofo è assai rispettabile; molto più, tratto dal seno di una Nazione che pensa e che ragiona forse più delle altre. Lasciamo a parte i gran Maestri ch'ella ha prodotto, ma le persone tutte che hanno qualche coltura, riconoscono il merito della loro buona condotta dai semi interni della Filosofia; ed io che ho avuto la buona sorte di trattarne parecchi in varie parti d'Italia, li ho conosciuti quasi tutti filosofi, del carattere appunto di questo mio, che vale a dire di una filosofia civile, discreta e sociabile. Non vi è paese del quale io ricerchi con maggiore avidità i Viaggiatori, oltre quello dell'Inghilterra; leggo le opere inglesi tradotte con un piacere infinito, e vi trovo una tale robustezza di pensieri e di sentimenti, che sempre più mi sorprende, e mi fa piangere gli anni miei perduti senza aver appreso il linguaggio degli uomini dotti, e senza aver veduto il paese delle Arti, delle Scienze e della buona Filosofia. Con tutte queste mie giustissime prevenzioni, ho avuto dunque l'ardire di scegliere per soggetto di una Commedia il Filosofo Inglese, e non mi pento e non mi vergogno d'averlo fatto. Io non sono dell'opinione di certi tali scrittori dell'arte comica, de' quali, nel corso di tre o quattro anni, non picciol numero ne abbiam veduto sortire: io non credo, voleva dire, come alcuni di essi credono, che il Protagonista di una Commedia debba sempre essere o vizioso, o difettoso, o fanatico, per trarne da lui principalmente il ridicolo, il disinganno, o la correzione, che sono i fini principali della Commedia. Mi sono assai volte provato a fondar la Commedia sul carattere nobile e virtuoso, e sulla passione, e ne ho veduto i migliori effetti, anzi queste sono sempre state le Commedie mie più felici. Alla virtù ho sempre posto in confronto il vizio, colla sua pena o col suo disinganno, e in questa guisa non ho abbandonato lo scopo finale della Commedia, e ho consolato gli animi de' spettatori, innamorati del carattere principale. Il mio Filosofo Inglese è un uomo saggio, discreto, civile, non posto in scena per deridere il sacro nome della Filosofia, ma per esaltarla, per innamorare di essa gli animi degli uditori, e per onorare precisamente una nazione ch'io stimo. A fronte dell'uomo onesto, dell'uomo saggio, del filosofo buono, non ho mancato di mettervi degl'impostori, degl'ignoranti, onde maggiormente risulti il di lui merito e la di lui onestà. So esservi in Inghilterra un certo numero di persone, conosciute sotto il nome di Quacheri, i quali in mezzo ad un certo modo di vivere estraordinario, conservano però le più rigorose leggi dell'onestà, immancabili alla fede de' loro contratti, nemici dell'adulazione e del fasto. I due impostori da me introdotti nella Commedia, nemici del mio Filosofo, sono due ignoranti, fanatici, che per comparire distinti si gettano dalla parte più stravagante del Quacheri, senza conoscere né i loro principi, né le loro leggi, né i loro onesti costumi. Il garzone del caffettiere ne fa il ritratto, e ciò può bastare per giustificarmi presso di chi si sia, ch'io non ho avuto in animo di far credere diversamente, sapendo benissimo che ogni corpo deve essere rispettato.

Finora, Signore, ho cercato giustificarmi nella scelta dei titolo della Commedia, confessandolo ardito; ma quanto maggiore sarà l'ardir mio reputato, ora che pubblicandosi la Commedia mia colle stampe, a Voi la raccomando? Due ragioni addur posso per mia discolpa; una che riguarda fa mia persona, l'altra che riguarda la vostra. In quanto a me, sono da molti anni in possesso di presentare le opere mie ai più riguardevoli personaggi per nascita o per dottrina, e male profitterei della mia fortuna, se fra la serie de' miei Mecenati non collocassi il nome vostro, e farei un'ingiuria al mia edizione, se non le procurassi un sì prezioso ornamento. Riguardo a Voi, Signore, la ragione che mi anima a farlo si è la cortesia e la benignità dell'animo con cui avete sempre pazientemente sofferto e validamente difeso le opere mie teatrali, da che ne deriva un qualche impegno di doverle difendere ancora stampate. So che ogni altra Commedia avrei dovuto presentarvi fuori di questa, che tratta per l'appunto della vostra illustre nazione; poiché niuno meglio di Voi potrà scoprirvi i difetti; ma Voi sapete altresì più di tutti, che in una Commedia qualche cosa è tollerabile per la scena, né vi piccherete contro di me, come fece un amico mio italiano, il quale per essere stato qualche anno in Londra, trovò che dire contro la mia Commedia, e mi è diventato nemico. Voi, Signore, siccome non isdegnate passar la sera sovente al Teatro, resosi in oggi divertimento non indegno de' pari vostri, così mi lusingo che qualche fiata trovar possiate diletto a veder sotto gli occhi alcuna di quelle scene che vi avevano più divertito, quasi per respirare dalle seriose occupazioni vostre, e da quei studi ne' quali non va disgiunta dal piacere l'applicazione. In fatti converrà meco ciascheduno, Signore, che voi sortiste la mente più felice di questo mondo. Chi entra nella vostra Casa, ritrova l'unione più perfetta di tutte le Scienze e di tutte le Arti, e Voi sedete in mezzo di esse non come un amante che le vagheggia soltanto, ma come un conoscitore impegnato per illustrarle. Ciò chiaramente dimostra la libreria sceltissima che Voi avete, ricca delle più accreditate edizioni antiche, non meno che delle più pregievoli e più eleganti moderne, in cui niente manca alla perfetta raccolta d'istoria, di belle lettere, di belle arti e delle più nobili scienze. La copia numerosa di tali libri formato ha un grosso volume col solo indice, intitolato Bibliotheca Smithiana; onde la rarità di alcune vostre edizioni può molto contribuire alla Repubblica letteraria. La Pittura, l'Architettura, il disegno regnano a gara fra le vostre pareti. Il vostro buon gusto, la vostra cognizione perfetta vi hanno ispirato a scegliere le cose migliori, e il coraggio dell'animo vostro generoso vi ha mosso la mano per acquistarle. Che non avete Voi di raro, di singolare, di sorprendente in ordine a camei, a pietre dure intagliate, avanzi miracolosi della rispettabile antichità? Io non istarò a descriverne la quantità ed il pregio, perché non sono di tali studi bastantemente infirmato, ma so bene che cento e cento volte, in Venezia e altrove, ho sentito esaltare le vostre raccolte per singolari e sublimi, e non vi è persona intendente che non desideri di vederle, e non parta maravigliata. Tutte queste magnifiche cose le avete poi collocate in una casa degna di tali ornamenti, in cui spicca egualmente il vostro buon gusto per l'Architettura, e la proporzione delle idee della vostra mente. Questa Fabrica fa l'ornamento del luogo ove situata, siccome l'altra da Voi eretta in campagna forma il piacere di chi la mira, e molto più di chi ha la fortuna di seco Voi abitarla. Tutto quello che finora di Voi ho detto, poco sarebbe, se la vostra persona amabile non superasse il merito delle preziose cose che possedete. Qui mi si aprirebbe un largo campo per ragionare delle vostre virtù, ma so che se finora mi soffriste a stento, principierei a divenirvi stucchevole. Siete Inglese, siete filosofo, amico del merito, ma non della lode. Voi credete che le vostre virtù siano doveri dell'uomo, e che il lodarle soverchiamente sia un far torto alla umanità, alla ragione. La liberalità dell'animo vostro non è che una grata corrispondenza al Cielo che vi ha colmato di beni; la dolcezza del vostro tratto è una conseguenza delle idee della vostra mente, e della perfetta organizzazione del vostro corpo. La vostra cortesia, la vostra benignità... lasciatemi lodare queste due belle parti del vostro animo, poiché sono quelle che mi hanno incoraggiato ad offerirvi questo misero parto del mio talento, sono ammirabili, sono grandi, non ho stile bastante per commendarle; meglio sarà che io le veneri col silenzio, e dia fine a questo troppo tedioso foglio inchinandomi umilmente.

Di V.S. Illustriss.

Umiliss. Dev. Obblig. Servidore

Carlo Goldoni

L'AUTORE A CHI LEGGE

Questa Commedia si è recitata parecchie sere in Venezia con fortunato successo. Una persona rispettabile per ogni riguardo, si prese il piacere di criticarla, né potea far cosa per me più onorevole, poiché quantunque egli si protestasse benignamente averlo fatto per bizzarria di spirito, i suoi versi hanno eccitato un sì gran numero di difensori, che delle loro composizioni a favore del mio Filosofo potrebbe farsi un volume. Può essere che un dì si stampino, e faranno onore a me ed alle illustri penne che si sono per ciò adoperate. Due erano i punti principali della graziosa Critica. Il primo fondato sopra i due impostori, l'Argentiere ed il Calzolaio, sull'immaginazione ch'io avessi inteso di rappresentare due Quacheri, e di ciò sta la mia giustificazione nella lettera precedente, e nell'annotazione al nome degli Attori. Anche senza di questo, si sa comunemente che in ogni Religione, in ogni Corpo, in ogni Comunità, vi sono i buoni e i cattivi, onde se i due impostori della Commedia fossero effettivamente due Quacheri, sarebbero stati di quei cattivi, da' quali non può essere oscurata la fama degli onorati, ma la cosa sta come ho detto, e la questione è finita. L'altro articolo della Critica si appoggiava all'azione forte del mio Filosofo verso la fine dell'atto quarto, ove trasportato il Milord da un eccesso di collera sino a minacciarlo colla spada, mostra il Filosofo la sua intrepidezza di animo, avanzandosi senza timore e senza difesa, con un tuono di voce sì fiero, e con parole sì veementi e pesate, che imprime nel cuore del giovine Milord la trepidazione e il rispetto. Ad un tale obbietto hanno risposto sì dottamente i miei difensori, che io non potrei dire se non quello fu da essi già detto; hanno veramente fatta l'anatomia del cuore umano; hanno esaminata per ogni verso la passione del Milord e del Filosofo, ed hanno provato che ambidue non potevano operare diversamente. Che aveva a fare il Filosofo? Fuggir vilmente? difendersi col bastone? chiamar aiuto? No, doveva valersi della filosofia, e questa gli suggerì sul momento la stima ed il rispetto che aveva Milord della sua riputazione, gli suggerì che un momento irragionevole poteva esser corretto da un raggio sollecito di ragione, ed aiutò le parole collo strepito della voce, il che per ragion fisica può introdurre un subito turbamento nella macchina dell'assalitore ed arrestarlo per un momento, sicché l'altro se ne approfitti e incalzi la forza dell'invettiva. Abbiamo un caso simile nella vita di Molière scritta da Mons. Grimarest. Molière levò dalla compagnia di una donna Comica il celebre Mons. Baron, per averlo nella sua truppa. La femmina disperata per sì gran perdita andò alla casa di Molière, entrò nella di lui camera; dopo averlo pregato invano, lo caricò di rimproveri e finalmente cacciò una pistola per ammazzarlo. Egli era a sedere, non fece che alzarsi, e caricando imperiosamente la voce, con un solo rimprovero gli riuscì disarmarla e di farla piangere. Non si difese, non chiamò gente, non si avventò contro dell'inimica; Molière era filosofo, conosceva i cuori umani, e il forte e il debole delle passioni; l'intrepidezza avvilisce gli animi trasportati, ed ecco il caso del mio Filosofo. Non parlo delle altre critiche; sono troppo leggiere. Pregherò soltanto il lettore, che veduta non avesse rappresentare questa Commedia, considerare un po' bene l'artifizio ond'è composta la scena in cui si rappresenta l'azione. La Scena è stabile, ma in una sola scena vi si ritrovano cinque scene, e in cinque differenti luoghi si fa l'azione nel medesimo tempo, e molti parlano di varie cose fra loro opposte senza che uno disturbi l'altro; ma vi è la ragione per quei che parlano e per quei che tacciono. Questa scena, e questo modo diverso di condurre gli attori, mi ha costato molta fatica. So che in Napoli l'erudito Cavaliere Baron di Liveri varie Commedie ha composte per divertimento di quel Sovrano, condotte con queste azioni duplicate, triplicate, e quadruplicate in scena, ma io non ho avuto la fortuna di vederle rappresentare, perché a Napoli non sono stato ancora; ho letto le opere sue, ma non è sì facile dalla lettura venirne in chiaro, dipendendo tutto dalla istruzione agli Attori, in che suol egli divertirsi parecchi mesi per una sola Commedia, e riescono poi le più graziose cose del mondo. Io non vo' darmi il merito di aver pensato il primo ad un tal gioco di scena, ma dico bene che l'eseguirlo senza confusioni, e con poche prove, come da noi si pratica, è un impegno che fa sudare; e poi è forse l'ultima cosa che l'uditore conosca. Niuno mi ha detto bravo per questo, ed io me l'aspettava con tanto piacere. Lettor carissimo, in grazia di questa mia confessione, dimmi tu bravo, che tu sia benedetto.


PERSONAGGI

Milord WAMBERT

JACOBBE MONDUILL filosofo

Madama DI BRINDÈ vedova letterata

Madama SAIXON sua sorella maritata

Il signor SAIXON negoziante, marito di madama Saixon

Monsieur LORINO vecchio francese caricato

EMANUEL BLUK argentiere

Maestro PANICH calzolaio

ROSA cameriera di Madama Saixon

BONVIL marinaio

GIOACCHINO garzone del caffettiere

BIRONE garzone del libraio

Un Servitore del signor Saixon, che non parla.

La Scena rappresenta una strada pubblica in Londra con due botteghe, una di libraio e l'altra di caffettiere, e sopra le due botteghe medesime la casa del signor Saixon, con una loggia praticabile che domina la via suddetta, e colla porta di detta casa fra le due botteghe medesime. Dinanzi a queste vi sono alcune panche, che separano il terreno che appartiene a ciascheduna delle medesime, e servono per il comodo di quelli che vi si trattengono.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Gioacchino e Birone, ciascheduno dalla parte della sua bottega

BIR.

Ecco i stampati fogli, che il padron mio vi manda: (a Gioacchino)

I soliti foglietti di Parigi e d'Olanda,

Il Mercurio Galante, che fa tanto rumore,

Ed il corrente foglio del nostro Spettatore.

GIO.

Oh sì, che faran festa, leggendo i curiosi;

Verranno a satollarsi i critici oziosi;

E senza sale in zucca, e senza discrezione,

Si sentirà ciascuno a dir la sua opinione.

BIR.

Frattanto che siam soli, dammi il caffè, Gioacchino.

GIO.

Tel porto, e tu, Birone, recami un libriccino.

BIR.

Ben volentier, qual libro? Chiedilo, e te lo dono.

GIO.

Vorrei che tu mi dessi qualche cosa di buono.

BIR.

Ti porterò un romanzo. In oggi, se nol sai,

Sono le favolette in voga più che mai.

Chi può stampar romanzi, libraio è fortunato;

E suol, chi li compone, passar per letterato. (entra nella sua bottega.)

GIO.

Anch'io, per dire il vero, li leggo con piacere.

Son cose all'età mia conformi, e al mio sapere.

BIR.

Eccoti il libro.

GIO.

Aspetta. Darti il caffè mi preme.

BIR.

L'hai tu beuto ancora?

GIO.

No, lo berremo insieme. (va in bottega a prendere il caffè.)

BIR.

Ogni garzon per uso fa quel che facciam noi;

Tratta gli amici a spese delli padroni suoi.

GIO.

Eccol per tutti due. (porta due chicchere di caffè.)

BIR

Sediamo. (siedono ciascuno alla sua panca.)

GIO.

Sì, sediamo.

Questo poco di bene, fin che si può, godiamo.

BIR.

L'ora non è avanzata. Facciamla da signori,

Finché arrivar si veggano i nostri seccatori.

GIO.

Uno ve n'è fra quelli, che ognor da noi si vedono,

Che parmi un ignorante, e pur molti gli credono:

Emanuel Bluk si chiama, uomo che fa il sapiente,

Ma intesi dir da molti, ch'è un furbo e non sa niente.

BIR.

Da noi, per dire il vero, pratica gente buona:

Jacobbe Monduill merita una corona.

Filosofo, ma vero, non di quelli all'usanza,

Che per filosofia fan passar l'increanza.

GIO.

Dicon però, che il vostro filosofo erudito

Da madama Brindè sia stato un po' ferito.

BIR.

Madama di Brindè, vedova letterata,

Della di lui virtude si dice innamorata.

Vi è chi di lor si burla, chi mormora e sospetta;

Vi è chi dei studi loro qualche bel frutto aspetta.

Ma vi è chi li difende; chi dice che contenti

Passano il loro tempo coi libri e gli argomenti.

GIO.

So che madama Saixon, di lei minor sorella,

Si burla della tresca di questa vedovella.

Abitan qua di sopra, come tu sai. Sovente

Su questa loggia loro l'una e l'altra si sente.

La Saixon viene spesso anche in bottega nostra:

Di spirito vivace suol far pomposa mostra.

Diverte chi l'ascolta talor con qualche sale;

Ma tutti i suoi discorsi finiscono in dir male.

BIR.

E suo marito il soffre?

GIO.

Saixon è un negoziante,

Che più della consorte apprezza il suo contante.

Un buon marito, un uomo che di lei non sospetta;

Se in casa non la trova, senza gridar l'aspetta.

E quando la signora ritorna accompagnata,

Non chiede, con prudenza, dove e con chi sia stata.

BIR.

Suol la Brindè nutrire altri costumi in seno:

È saggia, è regolata; per quel che pare almeno.

GIO.

Vien gente.

BIR.

Separiamci.

GIO.

Addio.

BIR.

Buon dì, Gioacchino.

Del caffè ti ringrazio.

GIO.

Ed io del libriccino. (ambi si ritirano nelle loro botteghe)

SCENA SECONDA

Jacobbe Monduill e milord Wambertdalla parte del libraio.

MIL.

Non mi adulate, amico, parlatemi sincero.

JAC.

Signor, più della vita amo l'onesto e il vero.

Consiglio mi chiedete? Parlo da vero amico;

Quel che nel cuore i' sento, anche col labbro io dico.

Sprezzar le oneste nozze niuna ragione insegna,

Quando la scelta sposa non sia d'amore indegna.

Il filosofo greco nozze ricorda eguali

Non d'età o di ricchezza, ma di virtù e natali.

MIL.

Vi confidai la brama che ho di legarmi in petto:

Ora delle mie fiamme vi svelerò l'oggetto.

Su la mia scelta istessa bramo da voi consiglio:

Chiedolo, come al padre lo chiederebbe il figlio.

JAC.

Sia con paterno zelo, sia con servile ardore,

Risponderò ad un figlio, parlerò ad un signore.

MIL.

Quella che il seno mio ferì coi lumi suoi

Madama è di Brindè.

JAC.

Signor, non è per voi.

MIL.

Se ugual non è di sangue?

JAC.

Vil non è nata almeno.

MIL.

Saggia non è? discreta?

JAC.

Pien di virtude ha il seno.

MIL.

Di ricchezza non curo.

JAC.

Né la ricchezza è quella

che deggia prevaler.

MIL.

Non vi par vaga?

JAC.

È bella.

MIL.

Dunque se per lei sola mi arde d'Amore il nume,

Qual ragion vi si oppone?

JAC.

Il genio ed il costume.

MIL.

Spiegatevi.

JAC.

Milord, soglio agli amici in faccia

Dir con rispetto il vero, ancor quando dispiaccia.

Di genio e di costume tal donna è a voi distante,

Ma la distanza in quella non conosce un amante.

MIL.

Non vi capisco ancora.

JAC.

Mi spiegherò. Tal foco

Quant'è che vi arde in seno?

MIL.

Saran due mesi.

JAC.

È poco.

MIL.

E pur...

JAC.

Perdon vi chiedo. Chi di madama il merto

Dipinse al vostro cuore?

MIL.

Il comun grido.

JAC.

È incerto.

Ragionaste con lei?

MIL.

Sì, favellar l'intesi.

Star de' più dotti a fronte l'ho ammirata, e mi accesi.

JAC.

Signor, se l'ammiraste, se vi accendeste a un tratto,

Fu da virtù straniera vostro cuor sopraffatto.

Ma quella donna istessa, che un dì vi piacque tanto,

Vi spiacerebbe allora quando l'aveste accanto.

Bello è il veder la donna in mezzo a dotte genti

Sostener le questioni, risolver gli argomenti;

Ma in casa ad un marito non piacerà il sussiego,

Con cui le letterate soglion risponder: nego.

Deve bramar lo sposo sposa che senta amore,

Non che a indagar si perda la cagion dell'amore;

Non tal che del marito deluda l'intenzione,

Parlandogli nel letto d'impulso e d'attrazione.

MIL.

Vi ho inteso.

JAC.

Io non vorrei...

MIL.

Basta così. Son pago.

Scancellerò dal petto di madama l'imago.

JAC.

Siete convinto?

MIL.

Il sono: ogni consiglio approvo,

Quando da ragion vera sostenuto lo trovo.

La spada, il canto, il ballo finor fur mio diletto;

Madama ad altre scienze consacrò l'intelletto.

È ver ch'ella mi diede piacer coi sillogismi,

Ma le ragioni in casa mi parerian sofismi.

Grazie vi rendo, amico, uomo di cuor sincero,

Filosofo discreto, conoscitor del vero.

(Fa un saluto a Jacobbe, e passa alla bottega del caffè, sedendo sopra una panca, dove Gioacchino gli porta il thè.)

JAC.

Poco non è, che grato siagli un consiglio audace;

Colui che non adula, quasi sempre dispiace.

Che importa a me che unita sia con Milord madama?

Il mio cuor la rispetta, ma come lui non l'ama.

È ver che generosa mi soffre e mi soccorre,

Ma all'onestà non soglio l'interesse anteporre.

Povero quale io sono, dalle sventure oppresso,

Quando ognun mi abbandoni, sempre sarò lo stesso.

Stoico non son, non pongo nell'abbandon totale

Dei beni della vita la virtù principale.

Filosofia m'insegna che il mondo e i beni suoi,

Se inutili non sono, son creati per noi.

Nostro delle ricchezze, nostro de' cibi è l'uso,

Niun che ha discrete voglie, è dal goderne escluso.

Ma chi da sorte è oppresso, chi senza colpa è afflitto,

Delle miserie a fronte dee mantenersi invitto,

Sicuro che i disastri, se vengono dal fato,

L'anima non si offende, il cuor non è macchiato;

E allora sol che i danni l'uomo a soffrir non vale,

Rende maggior la pena, sente il dolor del male.

Ecco de' studi miei, ecco il più dolce effetto:

Non ho i comodi in odio, non aborro il diletto.

Sento dell'uomo i pesi, l'onesto ben mi piace,

Ma incontro le sventure, e le sopporto in pace. (si ritira dal libraio.)

SCENA TERZA

Milord Wambert bevendo il thè, seduto sopra una panca.

MIL.

Madama di Brindè discaccerò dal petto.

Se l'amor non conviene, le serberò il rispetto.

Ad onta del cuor mio, che mal di ciò si appaga,

Facile è sul principio rimarginar la piaga.

Il filosofo amico m'illuminò. Dovuti

Sarieno ad uomo tale di fortuna i tributi.

È degli amici suoi scorno e vergogna estrema

Che la necessitade lo circondi e lo prema.

Meco vivrà Jacobbe. Vo', per quanto a me lice,

Formar la sua fortuna, vo' renderlo felice.

SCENA QUARTA

Emanuel Bluk e detto, poi Gioacchino

EMA.

Gioacchino. (chiama.)

GIO.

Che comanda? (esce dalla bottega.)

EMA.

Vi è dello Spettatore

Foglio verun stamane?

GIO.

L'abbiamo. Sì signore.

EMA.

Portalo.

GIO.

Anche il Mercurio porterò, se lo vuole.

EMA.

Non lo voglio. Non perdo il tempo in cotai fole.

È la filosofia mio nume e mio diletto.

Voglio lo Spettatore.

GIO.

Vel porterò.

EMA.

Ti aspetto.

GIO.

(Vuol di filosofia parlare un argentiere.

Quanto farebbe meglio badare al suo mestiere!)

MIL.

Emanuel Bluk, che fate?

EMA.

Oh, Milord, ti saluto.

Pensavo a gravi cose: non ti avevo veduto.

MIL.

(Un'altra specie è questa di filosofi strani.

Il tu lo danno a tutti: lo danno anche ai sovrani).

GIO.

Ecco il richiesto foglio. (a Emanuel.)

EMA.

Bene.

GIO.

Ed or, se volete,

Vi porterò il caffè.

EMA.

Non bevo senza sete. (Gioacchino si ritira nella sua bottega.)

MIL.

Il caffè non per sete, amico, si suol bere,

Ma per trattenimento, per uso e per piacere.

EMA.

Trattenimento è questo dei sciocchi e degli oziosi

Le cose per piacere non le fan che i viziosi.

MIL.

A me pure è diretto lo stil poco opportuno.

EMA.

Quando parlo di tutti, io non escludo alcuno.

MIL.

La verità, nol nego, ogni virtute avanza;

Ma separare il vero si può dall'increanza.

EMA.

Tu sei un uomo ricco, tu sei nobile nato,

Ma fosti d'una pasta, come son io, creato.

Filosofia distingue gli sciocchi dai sapienti;

Quel che creanza chiami, è ambizion delle genti.

MIL.

Ma tutti quei che sono nell'etica iniziati,

Non usan per virtute di fare i malcreati.

EMA.

Trovami un uom che sappia, un uomo illuminato

Che pensi alla tua foggia.

MIL.

Amico, io l'ho trovato.

EMA.

Chi è costui?

MIL.

Un uom saggio, che i suoi doveri intende:

È Jacobbe Monduill, ch'è dotto e non pretende.

EMA.

Jacobbe Monduill è un ciarlator bugiardo,

Chiamato per ischerno filosofo bastardo.

Delle passioni umane altrui vuol porre il freno,

Ed ei le ha mascherate, ma le coltiva in seno.

Di madama Brindè pazzo, scorretto amante,

Fa il precettore in piazza, ed in casa il galante.

MIL.

Come! Jacobbe aspira della Brindè all'affetto?

EMA.

Non vi aspira, il possiede.

MIL.

(Ah, mi pone in sospetto). (da sé.)

EMA.

Egli, quell'uom sì saggio, molle del pari e avaro,

Della vedova insidia il cuore ed il danaro.

E l'ignorante volgo, che a tutto presta fede,

Quel ch'è passione in loro, virtù figura e crede.

MIL.

Qual fondamento avete per sostener tai detti?

EMA.

Lo so. Questo ti basti.

MIL.

Ponn'essere sospetti.

EMA.

Non mentono i miei pari. Quando per noi si dice

Questa tal cosa è vera, nessun ci contradice.

Una parola nostra val più di un istrumento,

La fè che a noi si presta, prevale al giuramento.

Jacobbe è un menzognero. È ver, perché io lo dico.

(Jacobbe è un temerario. Jacobbe è un mio nemico). (da sé; entra nella bottega del caffè.)

SCENA QUINTA

Milord Wambert

MIL.

Jacob fosse mendace? fosse mentito il zelo?

La sua passion coperta della virtù col velo?

Emanuel è villano, stimato sol dai sciocchi;

Ma in caso tal può darsi ch'ei sappia e mi apra gli occhi.

Più che ci penso, il temo. Madama di Brindè

Per esser letterata, donna non fia per me?

M'insulta, mi disprezza, e con sereno ciglio

Un tradimento infame maschera col consiglio?

Ah, se ne fossi certo... ma non lo sono ancora

Di assicurarmi il modo ritroverò in breve ora,

E se egli fia maestro d'inganni e tradimenti,

Termineran, lo giuro, le tesi e gli argomenti. (parte.)

SCENA SESTA

Il signor Saixon dalla porta della di lui casa, poi Gioacchino.

SAI.

(Dalla porta della sua casa esce, e va a sedere sopra una panca della bottega del caffè.)

GIO.

(Gli porta una pipa da fumare, e senza dir nulla, ritorna in bottega.)

SAI.

(Fuma e non parla.)

SCENA SETTIMA

Madama Saixon, sopra la loggia, e detto; poi Gioacchino.

M.SA.

Caro signor marito, parte senza dir nulla,

Esce di casa, e tosto col fumo si trastulla?

SAI.

Che volete?

M.SA.

Due doppie.

SAI.

Gioacchino. (chiama.)

GIO.

Signor mio.

SAI.

A madama mia moglie. (dà due doppie a Gioacchino.)

M.SA.

Vi rendo grazie.

SAI.

Addio.

M.SA.

Impiegar io le voglio...

SAI.

Non vi domando in che.

M.SA.

In un ventaglio indiano.

SAI.

Lo raccontate a me?

M.SA.

Ora per Gioacchino vel mando, e voi direte

Se faccio buona spesa, se val queste monete.

Sostiene mia sorella ch'è brutto, e la ragione

Fonda perché gli manca disegno e proporzione.

Ella le cose dotte soltanto approva e loda,

Io soglio lodar tutto, basta che sia alla moda. (si ritira.)

SCENA OTTAVA

Il signor Saxon, poi Bonvil marinaio.

SAI.

Gran donne! i lor pensieri, le cure ed i travagli

Consiston nelle cuffie, nei nastri e nei ventagli.

Prenda il danaro, e taccia: io bado ai fatti miei;

Se la mia moglie è pazza, non vo impazzir con lei.

BON.

Signor. (al signor Saixon.)

SAI.

Che ci è?

BON.

Le botti son tutte caricate.

Le polizze di carico?

SAI.

Son qui, le ho preparate.

BON.

Speditemi, signore, il capitan vi prega.

SAI.

Andiam, farò più presto qui dentro la bottega. (si alza per entrare in bottega.)

SCENA NONA

Gioacchino di casa e detti.

GIO.

Dite, signor... (al signor Saixon.)

SAI.

Che vuoi?

GIO.

Ecco il ventaglio.

SAI

È quello?

GIO.

Sì, signore.

SAI.

A madama di' che lo compri, è bello. (entra, senza guardarlo, con Bonvil nel caffè.)

SCENA DECIMA

Gioacchino, poi Rosa nella loggia.

GIO.

Bello senza vederlo! Mi piace, non vi è male;

Ma io per riportarlo non voglio far le scale.

All'uscio picchierò. (batte alla porta.)

ROSA

Chi picchia così forte?

GIO.

Son io, bella Rosina.

ROSA

Il diavol che vi porte.

Che vuoi?

GIO.

Questo ventaglio dare alla tua padrona.

ROSA

A quale delle due?

GIO.

Io credo alla men buona.

ROSA

Non lo darò a nessuna, se ben non vi spiegate,

Perché son tutte due cattive indiavolate.

Una colla dottrina la servitù confonde;

L'altra minaccia e sgrida chi presto non risponde.

Guardate se trovaste per me qualche partito.

GIO.

Casa, vorrete dire.

ROSA

O casa, ovver marito.

GIO.

S'io fossi di altra etade, accetterei l'impegno;

Ma far queste fatture per altri non mi degno.

SCENA UNDICESIMA

Madama SAIXON sulla loggia, e detti.

M.SA.

Con chi ciarli? (a Rosa.)

ROSA

Gioacchino dee rendere un ventaglio;

Prendendolo, temea commettere uno sbaglio.

M.SA.

Prendilo, ch'egli è mio.

ROSA

Calerò giù il cestino. (Cala il cesto.)

GIO.

Eccolo. (mette il ventaglio nel cesto.)

ROSA

Un'altra volta vieni un po' su, carino. (sottovoce a Gioacchino.)

M.SA.

Lo vide mio marito? che disse? gli è piaciuto?

GIO.

Disse ch'egli era bello, ma inver non l'ha veduto.

M.SA.

Non l'ha veduto, e il loda? Mi burla e mi deride?

Questa sua flemma indegna è quella che mi uccide.

Voglio stracciarlo in pezzi. (straccia il ventaglio.)

ROSA

Signora, oh che peccato!

M.SA.

Or che mi son sfogata, lo sdegno mi è passato. (si ritira.)

ROSA

Gioacchino, ti saluto. Ricordati di me.

GIO.

Son troppo ragazzetto; non sono ancor per te.

ROSA

Voglimi bene, e cresci, che io ti aspetterò.

GIO.

Quando sarò cresciuto, allor risponderò.

ROSA

A costo di aspettare, voglio pregare il cielo,

Che in sposo mi conceda un uom di primo pelo. (si ritira.)

SCENA DODICESIMA

Madama di Brindè dalla propria casa. Maestro Panich calzolaio la incontra,

con un paio di scarpe in mano

M.BR.

(nell'uscire incontra Panich.)

PAN.

Il cielo ti consoli, madama di Brindè:

Eccoti le tue scarpe, venivo ora da te.

M.BR.

Panich, il mio costume superbo unqua non fu;

Ma è strano a un calzolaio complimentar col tu.

PAN.

Compatisci, madama, questo è lo stile mio;

Sono, se non lo sai, filosofo ancor io.

M.BR.

Filosofo anche voi? Me ne rallegro assai,

Voi sosterrete in Londra l'onor de' calzolai.

A forza di argomenti difender col grembiale

Potrete, che il far scarpe sia un'arte liberale.

PAN.

Per tale la sostengo in teorica e in pratica:

Convien per far le scarpe saper di matematica.

Il cuoio si dispone con peso e con misura,

E nell'unir le parti ci vuol l'architettura.

M.BR.

È vero, non lo nego, lo dice anche Platone:

Architettura è ogni arte che ha forma e proporzione.

Mostratemi le scarpe, che avete a me portate.

PAN.

(Le mostra le scarpe.)

M.BR.

Oh signor Archimede, son male architettate.

Una è di ordin toscano, e l'altra è di composito:

Vitruvio non insegna a far questo sproposito.

PAN.

Questa è una nuova moda, ed è invenzione mia

Paion fra lor discordi, ma sono in armonia.

Cotesta alza un pochino, quell'altra un po' degrada;

Ma fanno un bel vedere di giorno in sulla strada.

Basta avvertir che sempre si deve nel cammino

Alzar prima il piè dritto, e poscia il piè mancino.

M.BR.

Dovrei prender maestro di musica e di ballo,

Per andar a battuta, senza por piede in fallo?

Caro maestro mio, filosofo e architetto,

Lodo l'invenzion vostra, ma per me non l'accetto.

Voglio una scarpa buona, che al piede ben mi stia,

Che abbia delle altre scarpe l'usata simetria. (gli rende le scarpe.)

PAN.

Sì, sì, l'ho sempre detto, che far le scarpe a donna

Lo stesso è che di fango dorare una colonna.

Non vagliono puntelli, non vagliono ornamenti,

Se guasto è il capitello, la base e i fondamenti.

M.BR.

Olà, che ardire è il vostro? Portatemi rispetto.

PAN.

Un uom della mia sorte ha il ius di parlar schietto;

Un uom che la tomaia misura colla squadra,

Che del tallon di cuoio anche il circolo quadra,

Che insegna col compasso le regole ai garzoni,

Che sa da un punto all'altro serbar le proporzioni;

Un uom, che su tale arte ha scritto due volumi,

Esente va per tutto da incomodi costumi.

Col tu parla con tutti, va e vien quando gli pare,

Ed ha la sua licenza ancor di strapazzare.

M.BR.

Ma non avrà per questo la firma o la patente,

Che vaglia a mantenerlo dalle disgrazie esente.

Potrebbe un che le cose a misurar si è dato,

Essere da un bastone sul dorso misurato. (entra nella bottega del libraio.)

SCENA TREDICESIMA

Jacobbe Monduill dal libraio incontra madama Brindè con cui si ferma alcun poco ragionando e complimentando, e nel medesimo modo si avanzano, mentre maestro Panich favella.

PAN.

Azion sarebbe questa da gente ardita e stolta,

Ma non sarebbe poi per me la prima volta.

Spiacemi che gettate ho invano le parole:

Le scarpe son mal fatte, madama non le vuole.

Ma troverò alcun'altra, che avrà la tolleranza

Di prenderle e stroppiarsi, credendole all'usanza.

Ah, ah, la vedovella col satrapo di Atene!

Non voglio esser veduto, andarmene conviene.

Colui di me si ride, sostien ch'io non so nulla;

Ma affé, la faccio bella, se il capo un dì mi frulla;

La lesina adoprando, se altra ragion non vale,

Gli fo toccar con mano, che la natura è frale;

Che piccola puntura, che piccola ferita

Ad un filosofone può togliere la vita.

Vuò ritirarmi intanto a leggere i foglietti,

Oggi più non lavoro, e chi ha ordinato, aspetti. (entra nella bottega del caffè, e s'interna.)

SCENA QUATTORDICESIMA

Jacobbe Monduill e madama Brindè.

JAC.

Madama, un vostro cenno mi avrebbe a voi portato,

Senza che il vostro piede si avesse incomodato.

Esser certa potete che ogni momento, ogni ora,

Madama di Brindè fia di Jacob signora.

M.BR.

Con voi già lo sapete se io parlo volentieri:

Starei, se lo potessi, con voi de' giorni intieri;

Ma temo che il distorvi da' vostri studi gravi,

Saggio, discreto amico, vi scomodi e vi aggravi.

Non vi credea stamane ancor quivi arrivato,

Ed era al vostro studio il passo mio addrizzato.

JAC.

Che avete a comandarmi?

M.BR.

Un dubbio mi frastorna:

Il calcolo del sole di Newton non mi torna.

In quello di Cartesio vi trovo più ragione:

Vorrei che mi dicesse Jacob la sua opinione.

JAC.

Madama, voi sapete che tutti a braccia aperte

Hanno approvato in Londra di Newton le scoperte;

E tanto il suo sistema pel mondo si è diffuso,

Che le dottrine antiche sono di pochi in uso.

Anche del sesso vostro, per contentar le brame,

Evvi il Newtonianismo formato per le dame:

Opera peregrina di un veneto talento,

Della filosofia decoro ed ornamento.

M.BR.

Il calcolo de' cieli trattiene i miei pensieri,

Mi piace con un quattro levar sessanta zeri.

Sento che un ciel dall'altro lontano è più milioni,

Ma ancor della distanza non trovo le ragioni.

JAC.

Piacemi che madama nello studiar s'impieghi,

E di tante altre a scorno, l'ozio detesti e neghi:

Ma perdonate, il cielo troppo è da noi distante;

Filosofar possiamo sull'erbe e sulle piante.

La terra, il mar, la luce, il mondo e gli elementi

Di studio e di scoperte ci porgon gli argomenti;

E rende più contento, e reca più diletto,

Allor che esperienza si unisce coll'effetto.

Tolgon macchine e vetri alla natura il velo.

Troppo da noi distante, troppo, madama, è il cielo.

M.BR.

Questo calcolo solo spianar vorrei; venite.

Poi le question dei cieli per me saran finite.

JAC.

Verrò. Di compiacervi ho troppa obbligazione.

(Donna è alfin, benché dotta. Ha un po' di ostinazione).

M.BR.

Favorite in mia casa.

JAC.

Ben volentier. Madama,

Ho da narrarvi poi... Evvi un milord che vi ama,

Che vi desia per moglie.

M.BR.

Questo signor chi è?

JAC.

È Milord Wambert.

M.BR.

Milord non è per me:

Non studia, non intende, non ha filosofia.

Per or di maritarmi non faccio la pazzia.

Ma quando la facessi... Ho il cuor di virtù amico...

Basta, Jacob, andiamo. Io so quel che mi dico. (entra in casa.)

JAC.

Se mai di me parlasse, ella s'inganna assai.

Perder la libertade? No, non sarà giammai.

In lei virtude apprezzo, in lei beltà mi piace,

Ma quel che più mi preme, è del mio cor la pace;

E per quanto di donna discrete sian le voglie,

Sempre ad uomo che studia incomoda è la moglie. (entra dalla Brindè.)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Jacobbe Monduilldalla casa del signor Saixon, milord Wambert dalla strada s'incontrano

MIL.

Jacob, donde si viene?

JAC.

Dalla Brindè, signore.

MIL.

A far l'innamorato, o a farle il precettore?

JAC.

Né l'un, né l'altro. In me di amar non vi è desio,

Né della donna saggia il precettor son io.

MIL.

Madama di Brindè sol nata è per gli eroi.

Non è per me.

JAC.

Vel dissi.

MIL.

Sarà dunque per voi.

JAC.

Perdonate...

MIL.

Scoperto finalmente ho l'arcano.

Jacob, la passion vostra voi nascondete invano.

Strano non è che il core vi abbian ferito e colto

Gli occhi di bella donna: chi non li teme, è stolto.

Mi maraviglio solo che ardite in faccia mia

Di mascherar l'affetto, di dirmi una bugia;

Che con mentito zelo, fingendo consigliarmi,

Da lei mi allontaniate a costo d'ingiuriarmi;

E col chiamarmi indegno di femmina sapiente,

Tacciate me di stolto, di uom che non sa niente.

Solita frase audace di voi filosofastri,

Che per follia credendo discendere dagli astri,

A chi vi rende onore, a chi vi ammira e crede,

Parlate con disprezzo, tradite sulla fede.

JAC.

Milord, molto diceste, voi m'insultaste assai;

Bastami che le ingiurie però non meritai.

Esamino me stesso, ho la coscienza illesa;

Questa è la mia ragione, questa è la mia difesa.

MIL.

Bella morale in bocca di chi a ragion s'incolpa:

Affetta la costanza, e reo non si discolpa.

JAC.

Di che son reo, signore?

MIL.

D'amor colla Brindè.

JAC.

Non l'amo, e s'io l'amassi, colpa l'amar non è.

MIL.

Colpa è l'amarla allora che di un amico il foco

Si ascolta, si consiglia, e poi si prende a gioco.

JAC.

Di audacia o di menzogna rimorsi al cuor non sento.

Calmi soltanto il vero; lo dissi, e non mi pento.

MIL.

Farò ben io pentirvi d'ogni mentita cura,

Se più vedrovvi audace andar fra quelle mura.

JAC.

In ciò di soddisfarvi, Milord, io non ricuso;

Mi avrò, per compiacervi, da quella casa escluso;

Ma una ragion che salvi l'onor mio, la mia fama,

Si ha da saper dal mondo, l'ha da saper madama.

Dicasi che Milord comanda che io non vada;

Non passerò, se il vieta, nemmen per questa strada.

MIL.

L'amor, lo sdegno mio non irritar cercate;

Scegliete il vostro meglio, e me non nominate.

JAC.

Deh lasciate che possa, Milord, senza sdegnarvi,

A pro dell'onor vostro l'amor mio ragionarvi.

Della vedova in casa andar più non degg'io;

Voi l'imponete, e questo bastar dee al dover mio.

Ma se il comando vostro nascondere cercate,

Di un tal comando è segno che voi vi vergognate.

Doppia di tal vergogna può esser la ragione:

O perché voi non siete della Brindè il padrone;

O perché, per esporre ai torti un uomo onesto,

Scarsissimo è il motivo, ridicolo è il pretesto.

Signore, in ogni guisa io taccio, e vi obbedisco;

Ma ingiusto è il voler vostro, ma per voi arrossisco.

MIL.

Jacob, qui non è d'uopo di argomentar sul fatto;

Giusto, sincero, onesto vi crederò ad un patto.

L'accesso con madama facile avete ogn'ora;

Ditele che Milord la venera e l'adora.

Ma no, megli' è ch'io stesso le dica i sensi miei.

Andiamo; in questo punto guidatemi da lei.

Voi, se fia ver che amiate più il mio che il vostro bene,

Datele quel consiglio che all'amor mio conviene.

Per me colle ragioni svegliate in lei l'affetto;

Parlate al di lei cuore, parlate all'intelletto.

Se in voi costanza vera in tal cimento i' vedo,

Dileguasi il sospetto; Jacob, tutto vi credo.

JAC.

Rispondere, signore, a ciò mi fia permesso,

Che un cavalier per tutto ha libero l'accesso.

Di essere bene accolto da lei sicuro siete,

Di scorta e introduzione bisogno non avete.

Quella è la porta sua; si picchia, e poi si sale;

Sono, se nol sapete, brevissime le scale.

Madama è gentilissima, spiegatevi con lei.

Milord, cotali uffizi non son da pari miei. (entra nella bottega del libraio.)

SCENA SECONDA

Milord Wambert solo.

MIL.

Né son per i tuoi pari, simulatore insano,

Di madama Brindè la stima, il cuor, la mano.

È ver, del merto mio la sola unica scorta,

Di quell'audace ad onta, può farmi aprir la porta.

Né chiesi a lui per questo di procurar l'accesso;

Ma per potergli il cuore esaminar dappresso.

Scaltro ricusa, e sfugge il periglioso impegno;

Ecco della sua colpa, ecco verace il segno. (passa alla bottega del caffè.)

SCENA TERZA

Emanuel Bluk, maestro Panich dal caffè, ed il suddetto.

EMA.

Critica in questo foglio sol noi lo Spettatore.

PAN.

Gioco un paio di scarpe, che n'è Jacob l'autore.

MIL.

Merita una vendetta l'affronto del ribaldo;

La penserò, ma prima vo' che si scemi il caldo.

Decidere saprei qual merta in sul momento,

Ma su la mia passione le satire pavento.

Oggi non puossi in Londra trarsi un capriccio solo

Che dalla città tutta non sappiasi di volo.

Sonovi stipendiati de' scaltri osservatori,

Che stampano di tutti le favole e gli errori.

Util costume, è vero, che al pubblico ha giovato,

Ma che in angustia pone l'arbitrio del privato.

EMA.

Milord, buon giorno a te.

MIL.

Buon giorno, Emanuel mio.

PAN.

Milord, voltati in qua. Ti do il buon giorno anch'io.

MIL.

Oh, signor calzolaro, gli son bene obbligato.

PAN.

Tu burli, e noi di cuore ti abbiamo salutato.

MIL.

Qual novità vi porta uniti in questo loco?

So pur, che accompagnati andar solete poco.

EMA.

Amiamo l'andar soli per acuir l'ingegno;

Ora ci siamo uniti per ben del nostro regno.

Vi sono cose grandi stampate in queste carte:

Milord, te pur vogliamo del nostro zelo a parte.

In mezzo ti prendiamo, non già per complimento.

Speriam che tu sarai del nostro sentimento,

Che un uomo ad un altro uomo usando un van rispetto,

Lo faccia per ischerno, o faccial con dispetto.

PAN.

Ti abbiamo preso in mezzo, Milord, perché siam due;

Ognun senza fatica vuol dir le cose sue.

Per altro già si sa, che siam tutti del paro,

L'orefice, il milord, il sarto...

MIL.

Ed il somaro.

PAN.

Se avesse come noi l'interno e la ragione,

Sarebbe anche il somaro di pari condizione.

MIL.

La coda, gli orecchioni, gl'irsuti peli suoi,

Non lo distingueriano da Emanuel e da voi?

PAN.

Sì, lo distinguerebbe...

EMA.

Basta così, parliamo

Di quel che preme, e il tempo prezioso non perdiamo.

Questo stampato foglio, lo dissi e lo ridico,

Offende il nostro regno, e il Re ch'è nostro amico.

Distruggere vorrebbe l'economia perfetta;

Esalta delle mode la pratica scorretta.

Condanna il vestir soglio de' nostri cittadini,

Consiglia il mal esempio seguir de' Parigini.

Dice che non conviene ai nobili e agli artieri

(Che già vuol dir lo stesso) vestir come i staffieri;

E trova gli argomenti, e trova la ragione,

Che ai sciocchi persuada la gala e l'ambizione.

Questo velen, pur troppo, serpe di tanti in seno,

Bisogno ha di riforma, di regola e di freno.

Noi fatichiam per questo, noi sparsi abbiam sudori,

Del lusso e delle mode noi siam riformatori.

Costui col nome falso di Filosofo Inglese,

Corrompe il buon costume, precipita il paese;

L'empio che il nome usurpa fra noi di Spettatore,

Jacobbe è Monduill, filosofo impostore.

MIL.

Dunque colui...

PAN.

Ti accheta. Tocca parlare a me.

L'autor di questi fogli ora si sa chi è.

Tra le altre cose indegne, per suscitar litigi,

Accenna che son belle le scarpe di Parigi.

Le donne che aman sempre le cose forestiere,

Andranno anche le scarpe in Francia a provvedere;

E poscia, dalle piante passando agli altri arnesi

Le donne d'Inghilterra saran tutte francesi.

MIL.

Amici, se le mode, se il lusso detestate,

Se amate il ben comune, se gli usi riformate,

Perché da voi medesmi ricchi lavor si fanno,

Che recano dispendio, e apportano del danno?

Voi coll'argento e l'oro vi guadagnate il pane; (ad Emanuele.)

Voi nel formar le scarpe studiate mode strane. (a Panich.)

Dunque dannoso è il lusso, saggi prudenti eroi,

Sol quando i compratori non spendono da voi!

EMA.

Questa ragion non vale: io sudo e mi affatico

In un metal di cui sono mortal nemico.

PAN.

A forza e per dispetto faccio le scarpe all'uso;

Detesto e maledico dei stolidi l'abuso;

Se in pratica tornasse la grossa scarpa antica

Maggior sarebbe il lucro, minore la fatica.

MIL.

Dunque...

EMA.

Rispondi a me. Hai tu amicizia in Corte?

MIL.

A me, quando vi giungo, non chiudonsi le porte.

EMA.

Se sei buon cittadino, esponi al ministero

Il danno che alla patria può fare un menzognero.

Dall'isola si scacci costui che vuol dar legge,

Che sa palliare il vizio, e odiar chi lo corregge.

Avrai dai nostri amici pronto segreto aiuto.

Il ciel per me ti parla. Pensaci. Ti saluto. (parte.)

MIL.

Addio.

SCENA QUARTA

Milord Wambert e maestro Panich.

PAN.

Se a poco a poco si estirpano dal regno

Questi filosofoni, felici noi, m'impegno.

Noi siamo una brigata famosa ed erudita,

Che la filosofia l'abbiamo sulle dita:

Col mio grembial di cuoio, franco qual tu mi vedi,

Talor salir io soglio su scagno di tre piedi.

E stralunando gli occhi, e dimenando il collo,

Parlo qual s'io parlassi dal tripode di Apollo.

Mi odono a bocca aperta le femmine e i ragazzi;

Ho fatto più di cento finor diventar pazzi.

E dico, e lo sostengo, che al mondo non si dia

Più bel divertimento di quel della pazzia.

Impazzirai tu ancora, sol che colà mi veda.

Milord, io ti saluto. Il ciel te lo conceda. (parte.)

SCENA QUINTA

Milord Wambert solo.

MIL.

Che altri impazzir tu faccia, non è strano portento.

Verissimo è il proverbio: un pazzo ne fa cento.

Empi, maligni, astuti, mi porgono costoro

La via di vendicarmi con arte e con decoro.

Se a lor secrete trame unisco un caldo uffizio,

Vedrassi il mio nemico andare in precipizio.

Ma no, non fia mai vero, son cavaliere alfine,

Non deve la vendetta eccedere il confine.

Della Brindè io stesso voglio tentare il cuore.

Son vendicato assai, se mi promette amore.

Bastami che Jacobbe più oltre non ardisca;

Che l'opra coi consigli a me non impedisca.

Se con la bella unito a suo dispetto i' sono,

Bastami ch'egli peni, e ogni onta gli perdono.

Madama non dovrebbe sprezzar gli affetti miei;

Ragione ho di sperarlo. Provisi. Andiam da lei. (s'avvia verso la casa.)

SCENA SESTA

Madama Saixon di casa, servita di braccio da monsieur Lorino,

vecchio francese, ed il suddetto; poi Gioacchino.

MIL.

Oh, madama. (incontrandosi colla Saixon, s'inchina.)

M.SA.

Milord. (inchinandosi.)

LOR.

Vostro buon servitore. (a Milord.)

MIL.

Monsieur Lorin. (salutandolo.)

LOR.

Non siete, Milord, di buon umore.

M.SA.

Vedetelo, Milord, questo Francese antico,

Vecchio, senza denari, e del buon tempo è amico.

LOR.

Anche in età cadente, spogliato di ogni arnese,

Ha sempre il cuor brillante un nazional francese.

MIL.

E voi che l'allegria sopra ogni cosa amate,

Sol perché vien di Francia, da lui servir vi fate.

M.SA.

Povero vecchiarello, mi piace perché è fido,

Non se n'ha mal per niente, quando lo burlo e rido.

Io son così, mi piace talor prendermi gioco.

MIL.

I vostri adoratori con voi dureran poco.

M.SA.

Li cambio volentieri, e non ne sento affanno;

Monsieur Lorin, per altro, durato ha più di un anno.

MIL.

Un uom che va ramingo, lontan dal suo paese,

Soffre gl'insulti ancora, in grazia delle spese.

LOR.

Milord, mi maraviglio, non sono un disperato.

In Londra, come gli altri, anch'io sono impiegato.

Anch'io sono un di quelli che scrivono gazzette,

Che formano i Mercuri, che fan le novellette.

Coi critici miei fogli spesso mi faccio onore,

Li stampo sotto il nome anch'io di Spettatore.

Un ne ho stampato ieri, che un dì farà prodigi:

Ei parla delle mode che vengon da Parigi.

Colà si veste bene, colà ben si lavora,

E veniran fra poco di là le scarpe ancora.

MIL.

(Dunque del foglio ardito Jacob non è l'autore!

In ciò de' suoi nemici conoscesi il livore). (da sé.)

M.SA.

Per me son persuasa. Di Francia han da mandarmi

La seta per cucire, e l'acqua da lavarmi.

MIL.

Monsieur, del foglio vostro di già parlar s'intese:

Si vede, si conosce ch'è lo scrittor francese.

Londra non abbisogna di mode forestiere,

Ciascun degli operari sa fare il suo mestiere.

Nascono in Inghilterra nuovi lavori e strani,

Noi provediamo al lusso de' popoli lontani;

Ma l'aborrire il fasto, le gale e l'ambizione

Opra è del moderato spirto della nazione.

LOR.

Eh via, che l'Inghilterra...

M.SA.

Basta vecchietto mio,

Parlate con rispetto: son d'Inghilterra anch'io.

Milord, voi eravate vicino al nostro tetto.

Qual ragion vi conduce?

MIL.

La stima ed il rispetto.

M.SA.

Oh signor, troppo onore fate a una vostra serva, (inchinandosi.)

Che stima, che rispetto egual per voi conserva.

Se favorir volete, torniam; monsieur Lorino

Potrà, se ha qualche affare, andar pel suo cammino.

MIL.

Madama, tante grazie mi onorano non poco;

Ma io non soffrirei che mi prendeste a gioco.

Vi parlerò sincero. Diretti i passi miei

Erano alla Brindè.

M.SA.

Bene, andate da lei.

Monsieur Lorino, a voi: fate il piacere, andiamo. (si fa servire e passa al caffè.)

LOR.

Sì, madama, vi servo. (le dà il braccio.)

M.SA.

Porta il caffè. Sediamo. (siedono con monsieur Lorino.)

MIL.

(Costei da me vorrebbe due grazie adulatrici:

Presso della Brindè non voglio altri nemici).(passa al caffè.)

Madama, andar sospendo, se voi ve ne offendete;

Anzi col mezzo vostro...

M.SA.

Venite qui, sedete.

MIL.

Obbedisco. (siede, restando Madama in mezzo.)

M.SA.

Il caffè. Non lo portate a noi? (gridando forte.)

Con vostra buona grazia, lo pagherete voi. (a Milord,; viene il caffè, e lo bevono.)

MIL.

Questo è un onor, madama.

M.SA.

Dunque la vedovella,

Milord, per quel ch'io sento, il cuore vi martella?

MIL.

Apprezzo il di lei merto, la sua virtude io lodo.

M.SA.

L'amate?

MIL.

Sì, il confesso.

M.SA.

Bravo, Milord, ne godo.

Voi siete di buon gusto, amate una gran gioia;

Scommetto che in tre giorni Brindè vi viene a noia.

MIL.

Perché?

M.SA.

Perché di lei stranissimo è il costume.

Svegliasi a mezza notte, si rizza e accende il lume.

Di libri è circondata, or prende questo, or quello;

Talor scrive nel letto, e suona il campanello:

La cameriera crede le sia venuto male,

Corre, ed ella le chiede un libro di morale.

Se di colei marito voi foste per destino

In letto vi farebbe servir di lettorino.

MIL.

Donna nel buon costume avvezza e addottrinata,

Potria quel che fa sola, non fare accompagnata.

LOR.

In Francia di tai donne non se ne trovan molte;

Non voglion per soverchio studiar divenir stolte.

Il giorno allegramente lo passan con piacere;

La notte cogli sposi san fare il lor dovere.

M.SA.

Viva monsieur Lorino.

LOR.

Viva madama in pace.

M.SA.

Milord, ridete un poco.

MIL.

Ridiam, come vi piace.

SCENA SETTIMA

Il signor Saixon dalla bottega del caffè, con Bonvil marinaio; e detti.

SAI.

Va presto. Il vento è buono. Che sarpino a drittura.

BON.

Vado, signor.

SAI.

Buon viaggio.

BON.

Noi non abbiam paura. (parte.)

SAI.

(andando verso casa vede sua moglie, e non dice nulla.)

M.SA.

Dove, signor marito?

SAI.

A desinare.

M.SA.

Ed io?

SAI.

Venite, se volete.

M.SA.

Non mi aspettate?

SAI.

Addio. (parte ed entra in casa.)

M.SA.

Vedete? Ei non s'inquieta.

MIL.

Saixon è buono inglese.

LOR.

In questo va d'accordo la moda anche francese.

MIL.

È ver, ma con diversi principi di ragione:

Da noi si fa per comodo, da voi per soggezione.

SCENA OTTAVA

Madama di Brindè dalla sua casa, Birone dalla bottega sua, e detti.

M. BR.

(Esce di casa e senza osservare dalla parte del caffè, s'introduce in quella del libraio.)

M.SA.

Ecco la vedovella. (A Milord.)

MIL.

Andrò, se il permettete... (s'alza.)

M.SA.

Bella creanza!

MIL.

Io torno.

M.SA.

No, vi dico, sedete.

MIL.

(Soffro per poco ancora). (da sé, e siede.)

M. BR.

Digli che qui l'aspetto. (a Birone.)

BIR.

Glielo dirò. (entra in bottega.)

M.BR.

(Ridotto ho il calcolo perfetto). (siede sulla panca dirimpetto al caffè.)

MIL.

(Si alza, e riverisce la Brindè.)

M. BR.

(Si alza, e fa la sua riverenza.)

LOR.

(Si alza anche lui, e fa la riverenza alla Brindè.)

M.SA.

Eccola lì la vostra saggia filosofessa. (a Milord.)

SCENA NONA

Jacobbe Monduill dal libraio, e detti.

M.SA.

Ma quel che più le piace, è quel che a lei si appressa. (accenna Jacobbe a Milord.)

JAC.

Eccomi a voi, madama. (alla Brindè.)

M.BR.

Il calcolo vedrete

Ridotto a perfezione. (gli dà un foglio.)

JAC.

Ne avrò piacer.

M.BR.

Sedete.

JAC.

(Siede, e scuopre in faccia a lui Milord; s'alza, e lo saluta. Lui non gli risponde, ma bensì la Saixon e Lorino.)

M.BR.

Milord non vi saluta. (a Jacobbe.)

JAC.

D'altro sarà occupato. (alla Brindè, e legge piano.)

M.SA.

Milord, che avete voi? parete stralunato.

MIL.

Nulla, madama.

M.SA.

Io gioco che siete un po' geloso.

LOR.

Ho scritto in tal proposito un foglio portentoso.

Faccio toccar con mano, ch'è pazzo quel meschino

Che sente gelosia.

M.SA.

Bravo, monsieur Lorino.

Udiste? (a Milord.)

MIL.

(Sono stanco). Madama, perdonate. (s'alza.)

M.SA.

Dove, Milord?

MIL.

Passeggio.

LOR.

Eh, via non gli badate. (A madama Saixon.)

MIL.

(Passeggia, si accosta all'altra panca, e siede colla schiena verso la Brindè. Poi si alza, la saluta, e torna a sedere.)

M.SA.

Ehi, che caricatura! (piano a Lorino.)

LOR.

(Mi serve di un articolo,

Per mettere in un foglio che ha da riuscir ridicolo).

JAC.

Bravissima; si vede ridotto a perfezione

Il calcolo di altezza, e quel di dimensione.

MIL.

(Si volta osservando la Brindè e Jacobbe, e poi torna come prima.)

M.BR.

Torvo Milord vi guarda. (a Jacobbe.)

JAC.

Vel dissi, egli è invaghito.

M.BR.

Di chi?

JAC.

Di voi.

M. BR.

Che grazia! Sarebbe un bel marito!

M.SA.

Milord, per quel ch'io vedo, soffrite troppa pena;

Riguardo non abbiate a volgermi la schiena.

Se amate mia sorella, voltatele la faccia,

Per me, se vi gradisce, dirò: buon pro vi faccia.

MIL.

(Oh lingua maledetta!) (si alza.)

M.BR.

Milord, di mia sorella,

Benché di me si parli mi è oscura la favella.

Voi che intendete dire? (alla Saixon.)

M.SA.

Milord ve lo dirà

M.BR.

Spiegatemi il mistero. (a Milord.)

MIL.

Jacob lo spiegherà.

M.BR.

A voi. (a Jacobbe.)

M.SA.

No, poverino, non lo può far davvero.

JAC.

Vi ama Milord, madama; spiegato ecco il mistero. (alla Brindè.)

M.BR.

Un fenomeno è questo da me non preveduto.

MIL.

È ver, del vostro merto il mio cuore è un tributo.

M.SA.

Bravo, bravo, l'ha detto.

MIL.

Madama, a voi non parlo. (volgendosi con isdegno alla Saixon.)

M.BR.

(Che dir mi consigliate?) (piano a Jacobbe.)

JAC.

(Convien disingannarlo). (piano a madama Brindè.)

M.BR.

Milord, del vostro affetto grata vi sono, il giuro; (s'alza.)

Ma di novelle nozze, credetemi, non curo.

Incomodo provai la prima volta il nodo,

Ora tranquillamente la libertade io godo.

Chiedo perdono a voi, se vi rispondo audace;

Più caro mi sarete, se mi lasciate in pace. (siede.)

M.SA.

Oh bella, oh bella affé! (ridendo.)

LOR.

Oh bella! (ridendo.)

MIL.

Non ridete. (alla Saixon a Lorino.)

Ché, giuro al ciel, dei scherni or or vi pentirete.

Madama, loderei di cauto un tal pensiero, (alla Brindè.)

Se cogli accenti vostri voi mi diceste il vero;

Ma avendo di altre fiamme già prevenuto il core,

Conosco che ponete la maschera all'amore.

Col precettore ardito voi siete in ciò di accordo

Parlo con te, Jacob, che ora fai meco il sordo.

JAC.

Signor... (si alza.)

M.BR.

Non l'irritate. (a Jacobbe.)

M.SA.

È bella sempre più.

SCENA DECIMA

Rosa sulla loggia, e detti.

ROSA

Signore, si dà in tavola, presto venite su. (alla Brindè e alla Saixon.)

M.SA.

E ben, chi l'ha ordinato?

ROSA

Monsieur, vostro marito.

M.SA.

Che aspetti.

ROSA

Non aspetta; è tardi, ed ha appetito. (parte.)

MIL.

Madama, stranamente con voi mi ho dichiarato;

Ne ha colpa la germana, che ardita ha favellato.

Quel che dovea svelarvi a tempo in altro loco,

Voi l'intendeste adesso così, quasi per gioco;

Ma seriamente appresi da voi con mio rossore,

Che di me non curate il mio sincero amore.

Noto è il disprezzo vostro, mi è nota la cagione;

Non soffre un tale insulto la mia riputazione.

Quel che tacer faceami, era un uman rispetto;

Or che si sa l'arcano, sfogarmi anch'io prometto.

Contro di voi non parlo; con donna io non mi sdegno.

Ma tema il mio potere un perfido, un indegno. (parte.)

M.SA.

(Zitto). (a Lorino.)

LOR.

(Non parlo).

M.BR.

Udiste? (a Jacobbe.)

JAC.

Madama, a pranzo andate.

M.BR.

Ah non vorrei, Jacobbe...

JAC.

Per me non dubitate.

Fu il vero e l'innocenza ognor lo scudo mio.

Ite, madama, a pranzo; faccio lo stesso anch'io. (parte.)

SCENA UNDICESIMA

Il signor Saixon sulla loggia col tovagliolo sulla spalla, e detti.

SAI.

Venite, o non venite?

M.SA.

Son qui, vengo di volo. (si avvia verso la casa, servita da monsieur Lorino.)

SAI.

Ditel, se non venite, che mangerò io solo.

M.BR.

Spiacemi ch'ei dovesse provar qualche disgusto.

Difenderallo il cielo: Jacobbe è un uomo giusto. (parte.)

M.SA.

Monsieur Lorin, son grata al vostro complimento. (vicino alla casa.)

LOR.

Vi servo sulle scale.

M.SA.

No, no, qui mi contento.

Oggi ci rivedremo. (si stacca da lui colla mano.)

LOR.

Madama. (inchinandosi.)

M.SA.

Vi saluto. (entra.)

LOR.

Speravo un desinare. Per oggi l'ho perduto.


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Gioacchino e Birone

GIO.

Birone, hai desinato?

BIR.

Ho terminato or ora.

E tu, Gioacchino?

GIO.

Ed io non ho pranzato ancora.

BIR.

Perché mangi sì tardi?

GIO.

Perché? Perché il padrone,

Per quello che si vede, ha poca discrezione.

Va a casa colla moglie, ch'è una rabbiosa vecchia:

Ella cucina, ed egli la tavola apparecchia.

Son ricchi, e sono avari, compran ossi spolpati,

E a me li mandan poi, quando li han rosicchiati.

BIR.

Col mio padron, per dirla, ci cavo maggior frutto;

Ei molto non guadagna, ma gode e mangia tutto.

SCENA SECONDA

Maestro Panich con un altro paio di scarpe, e detti.

PAN.

Buon giorno, giovinotti.

GIO.

Maestro, vi saluto.

PAN.

E tu non mi rispondi?

BIR.

Che siate il benvenuto.

Ma vi ho sentito fare di molte querimonie

Contro color che usano di far le cerimonie.

PAN.

La cerimonia, è vero, è un vizio ed un difetto;

Ma inchinansi i miei pari per obbligo e rispetto.

BIR.

(È meglio ch'io men vada, pria che gli ammacchi il muso.

Questo degl'impostori, questo degli empi è l'uso.

Insegnan le virtudi, insegnan la morale,

E credon che a lor soli sia lecito far male.) (entra nella bottega.)

SCENA TERZA

Maestro Panich e Gioacchino.

PAN.

Colui è un temerario. Pregiudica al padrone.

Non stamperà il mio libro senza scacciar Birone. (a Gioacchino.)

GIO.

Signor, questa mi pare che chiamisi vendetta.

PAN.

È un atto di giustizia. Cosa sai tu, fraschetta?

GIO.

Signor, non strapazzate.

PAN.

In faccia mia si tace.

Via, portami del ponce, che poi farem la pace.

GIO.

Se 'l porto, il pagherete?

PAN.

Portal, son conosciuto.

GIO.

Oh, vi conosco anch'io: siete ignorante e astuto. (entra in bottega.)

PAN.

Eh ragazzaccio... no, c'insegna la morale,

Che a chi ci fa del bene, noi non facciam del male.

Se il ponce che dà gusto, senza quattrini io bevo,

Soffrir per umiltade qualche cosuccia io devo.

GIO.

Ecco il ponce, vel porto, se irato più non siete. (di lontano.)

PAN.

Portalo, Gioacchino. Ti voglio ben.

GIO.

Prendete. (gli dà la tazza del ponce, ed egli beve.)

PAN.

Questo paio di scarpe portar deggio a colei

Che abita in quella casa. Se ci è, saper vorrei.

GIO.

La serva? l'ho veduta.

PAN.

No, la padrona io dico.

GIO.

Colei alla padrona?

PAN.

Io non la stimo un fico.

(Stimata non l'ho mai, ma dopo la lezione

Di uno de' miei compagni, le donne ho in avversione).

Credi che ella sia in casa?

GIO.

Sì, vi sarà, cred'io.

PAN.

Prendi dunque la tazza.

GIO.

E chi mi paga?

PAN.

Addio.

GIO.

Pagatemi, ch'io deggio render conto al padrone.

Vi prenderò le scarpe. (gli leva le scarpe.)

PAN.

Lasciale star, briccone.

SCENA QUARTA

Jacobbe dalla parte del libraio, Birone dalla bottega; e detti.

JAC.

Birone.

BIR.

Signor mio.

JAC.

Porta questo viglietto

A madama Brindè. Qui la risposta aspetto.

BIR.

Vi servirò. (entra dalla Brindè.)

GIO.

Signore, fatemi voi giustizia.

Non vuol pagarmi il ponce.

PAN.

Nol faccio per malizia.

Ma un poco di acqua calda col valor di un quattrino

Fra zucchero, limone e spirito di vino,

Si paga troppo cara a questi bottegai:

E poi non ho danari, e non ne porto mai.

JAC.

Dunque, signor maestro, filosofo da bene,

A ber per le botteghe senza denar si viene?

PAN.

Ma tu che qualche cosa sai di filosofia,

Puoi approvar nel mondo una cotal pazzia?

Nati siam tutti eguali, quel ch'è nel mondo, è nostro,

E dir non si dovrebbe: questo è mio, questo è vostro.

Se l'uomo dell'altro uomo si serve ed abbisogna,

Pretender pagamento mi sembra una vergogna.

Io vengo da costui a ber senza denari;

Quando ha le scarpe rotte, le acconcio, e siam del pari.

GIO.

Non so di tante scarpe; mi viene uno scellino.

Vi pagherò ancor io, maestro ciabattino.

PAN.

A me?

JAC.

Taci; ha ragione, e la ragione è vaga:

Fra gli uomini di vaglia la roba non si paga.

Si cambia. Avrò bisogno di scarpe immantinente.

Panich farà ch'io le abbia, e le averò per niente. (a Gioacchino.)

PAN.

Adagio; se le scarpe ti do, che mi darai?

JAC.

Nulla, poiché mestiero non fo, come tu fai.

PAN.

Se tu non fai mestiero, io faccio qualche cosa.

Non cambio le mie scarpe con una mano oziosa.

JAC.

Con voi, per ragion pari, non cambierà Gioacchino

Il prezzo di un Perù con quel di uno scellino.

PAN.

Non sai quel che tu dica; voglio le scarpe mie.

GIO.

Pagatemi.

PAN.

Coteste si chiaman tirannie.

Voler che paghi a forza un uom senza monete,

O pur contro natura abbia a morir di sete?

JAC.

È ver, saziar la sete esige la natura;

Ma quando non si spende, si bee dell'acqua pura.

PAN.

Non sai quel che tu dica. Vo' le mie scarpe. Intendi?

JAC.

Dagli le scarpe sue. Ecco un scellino. Prendi.

GIO.

Ecco le scarpe vostre. Più non vi bagno il gozzo.

Potete andar a bere alla fontana o al pozzo.

PAN.

Jacob, non ti ringrazio, se l'hai per me pagato:

Soccorrer ciascheduno il prossimo è obbligato.

Natura ti ha sforzato a far codesta azione,

Per questo io non ho teco veruna obbligazione. (entra dalla Brindè.)

SCENA QUINTA

Jacobbe Monduill solo.

JAC.

Sensi di un cuor perverso, di un animo inumano,

Tanto di mente astuto, quanto di cuor villano.

È ver che la natura ci sprona a far del bene,

Ma le cagion seconde considerar conviene;

E se qualunque bene a noi provien dal cielo,

Il ciel rimunerato vuol di chi dona il zelo.

Mercede i' non ti chiedo di una moneta vile,

Condanno te soltanto per l'animo incivile.

Ah, che non vi è nel mondo peggior triste animale

Dell'uom che con il vizio confonda la morale.

Superbia senza freno suole appellar contegno,

Col nome di giustizia suol colorir lo sdegno,

L'usura e l'interesse vantar economia,

L'asprezza del costume chiamar filosofia.

Color che di virtude san mascherar gl'inganni,

Sono i più cari al mondo, ma sono i più tiranni.

SCENA SESTA

Emanuel Bluk e detto.

EMA

(Sempre egli è qui costui). (da sé, osservando Jacobbe.)

JAC.

(Ecco il fratel di quello). (da sé, vedendo Emanuel.)

EMA.

Buon giorno. (a Jacobbe.)

JAC.

Vi saluto. (si cava il cappello.)

EMA.

In testa il tuo cappello.

Queste son cerimonie, le quali in capo all'anno

Consumano i cappelli, e apportano del danno.

JAC.

Se tutti, come voi, avesser tal pensiero,

L'arte de' cappellai si ridurrebbe al zero.

EMA.

Arte non vi è nel mondo più inutile di questa:

Una berretta, un panno basta a coprir la testa.

JAC.

Più inutile di questo parmi un altro mestiere,

Che toglier si potrebbe.

EMA.

E quale?

JAC.

L'argentiere.

EMA.

(Di pungere non cessa, filosofo mordace). (da sé.)

JAC.

(Si cerca la riforma, ma in casa sua dispiace). (da sé.)

SCENA SETTIMA

Birone dalla casa della Brindè, con altro viglietto; e detti.

BIR.

Eccovi la risposta. (dà il viglietto a Jacobbe, e si ritira.)

JAC.

(Non l'ho spedito invano).

EMA.

Questo è il mestiere indegno.

JAC.

Qual è?

EMA.

Fare il mezzano

Colui con una carta uscì da quelle soglie

D'un uomo effeminato a lusingar le voglie.

JAC.

Un uomo che mal pensa, un maldicente siete.

D'amor qui non si tratta.

EMA.

Sciocco non son.

JAC.

Leggete. (Gli esibisce la carta ancor chiusa.)

EMA.

Leggere non vogl'io, de' fatti altrui non curo;

Ma di una cosa sola son certo e son sicuro.

JAC.

Di che?

EMA.

Che colla donna, sia vana o sia prudente,

Di un uomo esser non possa la tresca indifferente,

Che non si possa mai trattar col debil sesso,

Senza smarrire il cuore e l'intelletto istesso.

JAC.

Voi v'ingannate, amico; la provida morale

Dell'uomo e della donna non parla in generale.

Si trattano i congiunti, si trattano gli amici,

Dell'uno e l'altro sesso si tolleran gli uffici.

La donna è qual noi siamo d'alta virtù capace.

EMA.

È sempre perigliosa la donna quando piace.

JAC.

Sì, quando piace in lei la grazia, il brio, l'aspetto;

Non quando in lei si ammira lo spirto e l'intelletto.

EMA.

Che spirto, che intelletto! È stolto chi lo crede;

Il bello della donna è quello che si vede.

JAC.

Stolto è colui che parla di donna in guisa tale;

L'origine di lei è della nostra eguale.

Lo spirito è lo stesso, son simili le spoglie,

La macchina diversa diverse fa le voglie;

Ma in ogni mente umana comanda la ragione,

Diretta dal costume e dalla educazione.

Dell'organo ciascuno armoniche ha le corde:

Quella che più si tocca, risponde più concorde;

E se taluna ottusa al tasto non risuona,

L'altra ch'è tesa e acuta, vibra i suoi colpi e suona.

Se fra le donne hai visto donna al garrir portata,

Fia dall'esempio indotta, o male organizzata.

La corda dissonante dell'organo si tocca,

Ed esce strepitoso il suono per la bocca.

Se del piacer la vedi in traccia oltre al dovere,

Nell'organo tintilla la corda del piacere;

E il molle suon che rende, par che i sospiri scocchi,

Quando ragion non regga la mente degli sciocchi.

L'una dell'altra donna più pensa e più ragiona;

Ma in genere la donna non è che cosa buona.

EMA.

Ed io sostengo e dico, e se lo vuoi, lo scrivo:

La donna fra i viventi è un animal cattivo.

SCENA OTTAVA

Maestro Panich sulla loggia, e detti.

PAN.

È vero. Lo sostengo anch'io con argomenti:

Le donne sono corpi che non son mai contenti.

Faccio le scarpe a tante, e mai non trovo quella

Che dica, questa scarpa sta bene, e mi par bella.

Madama di Brindè non vuol le scarpe mie;

Le donne sono donne, son piene di pazzie.

JAC.

Pazzi voi siete entrambi. Udirvi più non voglio.

(Mi aveva per costui quasi scordato il foglio). (da sé; entra dal libraio.)

PAN.

Le donne sono donne…

SCENA NONA

Madama Saixon, Rosae maestro Panich sulla loggia, ed Emanuel Bluknella strada.

ROSA

Ben, che vorreste dire?

PAN.

Le donne sono donne.

M.SA.

Olà non si ha a finire?

PAN.

Perché non vuol le scarpe? Perché mi fa tai scene?

M.SA.

Perché non son ben fatte.

ROSA

Perché non le stan bene.

EMA.

Scendi per carità, scendi dal fatal loco:

Il cielo ti difenda; in mezzo sei del foco.

M.SA.

Itene, impertinente, e non tornate più.

ROSA

Itene per le scale, o noi vi buttiam giù.

PAN.

Portatemi rispetto, non sono uno stivale.

M.SA.

Voi siete un villanaccio.

ROSA

Voi siete un animale.

SCENA DECIMA

Il signor Saixon che esce di casa, e i suddetti.

EMA.

(Panich è mal condotto). (da sé.)

PAN.

Oh donne indiavolate!

ROSA

Si parte o non si parte?

M.SA.

Andate o non andate?

SAI.

(Si volta, osserva le donne che gridano, si pone al ridere fortemente, e parte senza dir nulla.)

PAN.

Vado; se più ritorno, che sia tagliato in fette.

Vi venga la saetta, che siate maledette. (parte.)

M.SA.

Indegno! (lo seguita.)

ROSA

Disgraziato! (lo seguita.)

SCENA UNDICESIMA

Emanuel Bluk, poi milord Wambert

EMA.

La donna è un animale;

Ma pur con qualche donna non l'ho passata male.

Conviene saper fare; trovarle il lor diritto;

Trattarle con dolcezza, amarle, ma star zitto.

MIL.

Vedeste voi Jacobbe?

EMA.

Milord, non te l'ho detto?

Ei legge dal libraio di madama un viglietto. (parte.)

MIL.

La tresca scellerata continua ad onta mia?

SCENA DODICESIMA

Mastro Panich dalla casa di madamas Brindè e milord Wambert

PAN.

Farò che me la paghi, strega, mezzana, arpia. (verso la porta.)

MIL.

Con chi l'avete, amico?

PAN.

(Vo' farle il mal che posso). (da sé.)

Io l'ho con tre donnacce, che hanno il demonio addosso

Madama vuol Jacobbe, per lui fa cose strane;

La serva e la sorella le fanno le mezzane.

Correggo i loro vizi, ricordo la modestia,

Minacciano, mi sgridano, rispondono da bestia. (parte.)

SCENA TREDICESIMA

Milord Wambert

MIL.

Più dell'amor mi punge l'onor, lo sdegno, il petto,

Madama con Jacobbe mi perdono il rispetto.

Noi non sappiamo in Londra, al volgo superiori,

I torti impunemente soffrir degli inferiori.

Vo' vendicarmi, e voglio cercare una vendetta

Che pari sia all'offesa, ma da ragion diretta.

Mi accende in un momento talor feroce sdegno;

Misero allor chi fosse di mie vendette il segno.

Ma la ragion ponendo ai primi moti il freno,

Tempo a risolver prendo, e non mi pento almeno.

SCENA QUATTORDICESIMA

Jacobbe Monduil dal libraio, e detto.

JAC.

(Ecco Milord, che a torto m'insulta e mi minaccia.

Lo compatisco. Amante non sa quel che si faccia). (da sé.)

MIL.

(Viene il ribaldo. Ah, sento un di que' moti al cuore.

Meglio sarà ch'io parta. Si accende il mio furore).(da sé, in atto di partire.)

JAC.

Signor.

MIL.

Meco ragioni?

JAC.

Bramo parlar con voi,

Se farlo mi è permesso.

MIL.

Parla. Da me che vuoi?

JAC.

Possibile che a un tratto un cavalier gentile

Cambiato abbia costume con chi gli parla umile?

MIL.

Spicciatevi, parlate. Da me che pretendete?

JAC.

Vorrei giustificarmi, signor, se 'l permettete.

MIL.

Nuove proteste i' sdegno udir da un menzognero.

JAC.

Punitemi, signore, s'io non vi dico il vero;

E ben potete voi punirmi in tal maniera,

Che della morte sia pena più cruda e fiera.

Se il Re mi condannasse, saprei morir contento:

La morte non è il male ch'io fuggo e ch'io pavento.

Ma a un suddito la vita togliere altrui non spetta;

altre saran le mire in voi della vendetta.

Che mai potete farmi? Con forza e con danari

Farmi insultar dai sgherri? Non è da vostro pari.

D'ingiurie caricarmi? Dirmi mendace, astuto?

Son povero, egli è vero, ma alfin son conosciuto.

La pena ch'io pavento, che a me da voi si appresta,

È della grazia vostra la privazion funesta.

Un uomo che all'onore consacra i suoi pensieri,

Ama le genti oneste, rispetta i cavalieri;

Ed essere da questi sprezzato e mal veduto,

È pena tal che al cuore porta uno strale acuto.

Povero nato i' sono; vivo co' miei sudori;

Condiscono il mio pane le grazie ed i favori.

Se voi sì saggio e onesto (per questo i' mi confondo),

Se voi mi abbandonate, di me che dirà il mondo?

Capace voi non siete di dir quel che non è,

Ma udransi i miei nemici a mormorar di me.

E voi, sol col privarmi di vostra protezione,

Fate la mia rovina, la mia disperazione.

Eccomi innanzi a voi, mi getto al vostro piede...

MIL.

Fermatevi.

JAC.

Siam soli, nessuno ora ci vede.

E quando sia veduto, signor, non ho rossore

Gettarmi in faccia al mondo a' piè di un protettore:

Di un protettor sdegnato, che in sen virtuti aduna,

Che vuolmi abbandonare, ma sol per mia sfortuna.

Non condannarvi ardisco d'ingiusto all'innocenza;

Credetemi, signore, v'inganna l'apparenza.

O reo non sono, o almeno esserlo non mi pare;

Se fossi reo, punito mi han le mie pene amare.

Dalla clemenza vostra chiedo pietade in dono;

Per grazia, o per giustizia, donatemi il perdono.

Certo che non lo chiedo spinto da vil timore,

Ma sol perché mi cale del cuor di un protettore.

MIL.

Jacob, mi conoscete. Non sono un disumano.

Al cuor di un cavaliere voi non parlaste invano.

Serbate il dover vostro, portatemi rispetto,

E nella grazia mia rimettervi prometto.

JAC.

Signor...

MIL.

Voi con madama sapete i desir miei.

JAC.

Non fui, da che li seppi, veduto andar da lei.

MIL.

È ver, ma si coltiva l'abuso degli affetti,

In lontananza ancora, coi messi e coi viglietti.

JAC.

L'arte de' miei nemici conoscere vi prego.

Alla Brindè un viglietto mandai, non ve lo nego.

Mandommi la Brindè risposta immantinente;

Serbo il suo foglio ancora: ecco, Jacob non mente.

Che trattisi di amori per altro non si pensi;

Sono diversi molto di questa carta i sensi.

Anzi, se li leggeste, Milord, io mi lusingo

Che chiaro si vedrebbe s'io son leale, o fingo.

Se voi non lo sdegnate, la pongo in vostra mano,

Vedrete che i nemici mi hanno accusato invano.

SCENA QUINDICESIMA

Madama di Brindè dalla propria casa, e detti.

MIL.

(Parla in tal guisa e prega, e tanto offre e s'impegna (da sé.)

Che la natura e il grado l'ira a frenar m'insegna).

Il foglio di madama leggere non ricuso. (a Jacobbe.)

JAC.

Eccolo.

M.BR.

De' miei fogli, Jacob, si fa tal uso? (lo leva di mano a Jacobbe.)

A voi chi diè licenza di por nelle altrui mani

I sensi del mio cuore, del mio pensier gli arcani?

Milord, un cavaliere saprà che non conviene

Leggere questa carta, che a lui non appartiene.

MIL.

(fa una riverenza a Madama, parte senza dir nulla, ed entra nella bottega del libraio.)

SCENA SEDICESIMA

Jacobbe e madama di Brindè; poi un garzone del libraio.

JAC.

Perdonate, madama.

M.BR.

Sì, vi perdono. Intendo.

Il foglio era opportuno; per ciò non vi riprendo.

Vorrei non esser giunta sul punto d'impedirlo;

Ma letto in mia presenza io non dovea soffrirlo.

JAC.

Sensi che un cuore onesto dettati ha con saviezza,

Offendere non ponno la sua delicatezza.

Che mai contiene il foglio, che a voi non faccia onore?

Vi scrissi, vi pregai, per grazia e per favore,

Di ritornar da voi per ora dispensarmi,

Che per il comun bene dovevo allontanarmi.

Benigna rispondeste con saggia e franca mano,

Che stima di me avreste, ancorché da lontano.

Cotali sentimenti non so di meritarli;

Ma la ragion non vedo, ond'abbiasi a celarli.

M.BR.

Questo non è che io bramo celare agli occhi altrui,

Ma quel che viene appresso, quel che domando a vui.

JAC.

Quel che chiedete a me, non è che una questione

Che spiega e che dimostra di Newton l'attrazione.

M.BR.

È ver che l'attrazione è il general soggetto,

Ma io la riduceva ai semi dell'affetto;

E non vorrei che male la tesi interpretata,

Il mondo mi credesse accesa, innamorata.

JAC.

Si sa che voi amate lo studio e le bell'arti.

M.BR.

È ver, ma sono umana; e il cuor fa le sue parti.

JAC.

Madama, io non v'intendo. Qual sentimento è questo?

M.BR.

Parto di un cuor sincero, parto di un labbro onesto.

Jacob, voi non verrete in casa mia?

JAC.

Vi prego

Dispensarmi per ora.

M.BR.

Restate, io non lo nego;

Ma in pubblico parlarmi almen non negherete.

JAC.

Farò quel che vi aggrada.

M.BR.

Meco, Jacob, sedete.

JAC.

Soffrir mal vi conviene l'incomodo sedile.

Recateci due sedie. (alla bottega del libraio.)

M.BR.

Filosofo gentile! (il garzone porta due sedie.)

Amico, sui principi di Newton immortale,

Dell'attrazione appresi il moto universale.

Gravitazione, impulso, magnete e simpatia,

Per attrazion soltanto afferma che si dia.

Degli atomi dicendo la forza equivalente

Tanto nel corpo attratto, quanto nell'attraente,

Su tal principio adunque ragiono, e così dico:

Un corpo esser non puote nemico dell'amico;

Poiché virtù attrattiva con tante forze sue

O entrambi li allontana, o unisce tutti due.

Pari ragione io trovo ne' corpi razionali:

Si odiano, se fra loro non son gli atomi eguali;

Si amano, se fra loro si trova analogia,

Traendosi a vicenda con forza e simpatia;

Onde se attrar si sente per un oggetto il core,

E l'altro non risponde con atomi di amore,

O ancor dell'attrazione fia la sentenza oscura,

O il corpo che resiste fa fronte alla natura.

JAC.

Madama, la questione bizzarra è inver non poco:

So che la proponete per passatempo e gioco.

Però dando risposta, siccome è mio dovere,

Sincero e brevemente dirovvi il mio parere.

È ver che opra per tutto la forza di attrazione

Ella però rispetta l'arbitrio e la ragione;

Poiché se ella sforzasse con barbara violenza,

L'uom perderebbe il dono più bel di provvidenza.

Non sol ne' corpi vari, ma nelle idee si prova,

A forza di argomenti, che l'attrazion si trova;

Ma son ragionamenti che fan pompa d'ingegno:

Niun delle occulte cose giugne a toccare il segno.

M.BR.

Negar potete voi, Jacob, che non si dia

Fra due diversi oggetti virtù di simpatia?

JAC.

Anzi sostengo e dico, che l'odio e che l'amore

Hanno la loro fonte negli atomi del cuore;

Ond'è che al sol mirare non più veduto oggetto,

Accendesi di amore, ovvero di dispetto.

M.BR.

Ma donde avvenir puote, stranissima ragione,

Che uno di amor si accenda, e l'altro di avversione?

JAC.

Ciò non sarà, madama; diversa è la sentenza.

Può credersi avversione di amor la indifferenza.

M.BR.

Indifferenza e amore son due diversi obietti;

Incerti di attrazione dunque saran gli effetti.

E se cotal sistema altrui non parrà strano,

Newton con sue scoperte avrà sudato invano.

JAC.

Ditemi, se vi aggrada, questo parlar sì forte

Di amor, donde proviene? Andiamo per le corte.

Madama, in confidenza, provate voi nel petto

D'impulso, di attrazione, di simpatia l'effetto?

M.BR.

Non spiego i miei pensieri, non fo tal confidenza,

Col dubbio d'incontrare disprezzo o indifferenza.

JAC.

Non può temer disprezzi donna dal volgo esente;

Può darsi che troviate un'alma indifferente.

Ma tal se la trovate a fronte dell'affetto,

Per voi la scorgerete ripiena di rispetto.

M.BR.

Ah Jacobbe...

SCENA DICIASSETTESIMA

Birone e detti.

BIR.

Signore. (a Jacobbe.)

JAC.

Da me che cosa vuoi?

BIR.

Col foglio e questa borsa Milord mi manda a voi.

M.BR.

Stelle! che fia?

JAC.

Leggiamo.

M.BR.

Servitevi. (si alza.)

JAC.

Sedete.

Dei sensi di Milord voi testimon sarete. (siedono, e Jacobbe apre e legge.)

Amico, in voi favelli timore ovver rispetto,

Le scuse, le discolpe, le umiliazioni accetto.

Mi scordo d'ogni offesa, ogni onta vi perdono;

In atto di amicizia, cento ghinee vi dono:

Ma a ciò che immantinente da Londra allontanato,

A viver vi portiate, Jacob, in altro Stato.

Nulla al bisogno vostro vi mancherà, lo giuro:

Ma se doman qui siete, di me non vi assicuro.

M.BR.

Che sento? (si alza.)

JAC.

Non partite. Recatemi da scrivere. (a Birone.)

M.BR.

Oimè!

JAC.

Non si sgomenta un uom che sappia vivere.

M.BR.

Milord è risoluto, conosco il suo costume.

JAC.

Bastami in mia difesa dell'innocenza il nume.

BIR.

Eccovi il calamaio.

JAC.

Aspetta.

BIR.

Sì, signore.

M.BR.

Deh, non vi rovinate.

JAC.

Non abbiate timore.

Scusi, Milord, s'io scrivo su questo foglio istesso.

Al cuor che mi ridona, tenuto io mi professo.

Se il suo dinar rimando, egli è perch'io nol merto;

La libertà non vendo con un mercato aperto.

Se il Re vorrà ch'io parta, andrò dal suolo inglese;

Come son qui vissuto, vivrò in ogni paese. (scrivendo pronunzia forte quello che scrive.)

M.BR.

L'irriterà quel foglio.

JAC.

No, se ragione intende.

Reca a Milord il tutto. (a Birone.)

BIR.

(La borsa ancor gli rende?) (parte.)

JAC.

Madama, io non m'inganno: vi esce dagli occhi il pianto.

M.BR.

Jacob, la mia virtude ora non giugne a tanto.

Vorrei coprir del duolo la debolezza estrema,

Ma sono donna alfine, ma il cuor vi adora e trema.

JAC.

Cotal dichiarazione tor mi potria la pace,

Se di essere turbato fosse il mio cuor capace.

Per voi duolmi, madama, più che per me il mio danno!

Se pon le mie sventure a voi recare affanno.

Ora dei studi nostri, ora il maggior profitto

Tragga fra le passioni l'animo forte, invitto.

Ai colpi di fortuna resistere c'insegna

Vera filosofia, che l'avvilirsi sdegna.

Porgano i studi vostri aiuto alla ragione;

Per me quel dolce affetto cambiate in compassione.

Lasciatemi partire senza cordoglio all'alma:

Virtù nel vostro seno porti trionfo e palma. (parte.)

SCENA DICIOTTESIMA

Madama di Brindè sola.

M.BR.

Ah, non fia ver ch'io perda di vista il di lui piede:

Lo seguirò da lungi ancor dove non crede.

Lo seguirò, infelice, giacché l'uso ha permesso

Tal libero costume in Londra al nostro sesso.

Filosofia mi parla all'intelletto, al cuore;

Ma tace ogni altra lingua dove favella amore. (parte dietro a Jacobbe.)


ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Birone e Gioacchino, ciascuno dalla sua bottega.

BIR.

Gioacchino, che dir vuole che vien sì poca gente

Alla bottega vostra?

GIO.

Di qua non si fa niente;

Dall'altra parte in folla: si vende alla giornata

caffè, ponc e sorbetto e birra e cioccolata.

A me il padron destina questo remoto loco;

Di ciò non mi lamento, perché fatico poco.

Qui vi era il gran concorso, ma si son tutti sviati,

Per causa di que' due filosofi malnati.

Chi vien per divertirsi, chi vien per altre cure,

Non vuol per complimento soffrir le seccature.

BIR.

Anche da noi, per dirla, concorre poco mondo,

Perché il padron di libri scarseggia e ha poco fondo.

Jacobbe Monduill vien qui, perché è vicino,

Ed ha colle sue chiavi là dentro uno stanzino.

SCENA SECONDA

Madama Saixon dalla sua casa, e detti.

M.SA.

Mia sorella dov'è?

BIR.

Signora, è andata via.

M.SA.

Sola?

BIR.

Sola per poco; ma dopo in compagnia.

M.SA.

In compagnia di chi?

BIR.

Jacobbe ha seguitato.

Lo avrà raggiunto poi.

M.SA.

Me l'ero immaginato.

Che pazza!

BIR.

(Ehi, senti come parlano le sorelle!) (a Gioacchino, piano.)

GIO.

(Ella è savia davvero!) (ironico, sottovoce a Birone.)

BIR.

(Che stil!) (da sé, e si ritira in bottega.)

GIO.

(Che buona pelle!) (da sé, e si ritira in bottega.)

SCENA TERZA

Madama Saixon sola.

M.SA.

Non so come si possa amare un uomo serio.

Passar ei mi farebbe qualunque desiderio.

Io son di umore allegro, eppur nemica sorte

Mi ha dato per tormento un satiro in consorte.

Pochissimo per altro noi stiamo in compagnia:

Ei bada a' suoi negozi, io bado all'allegria.

SCENA QUARTA

Monsieur Lorino, e detta.

LOR.

Madama, vostro servo.

M.SA.

Monsieur, ben ritornato.

Usciste di buon'ora.

LOR.

Dirò... non ho pranzato.

M.SA.

Pranzato non avete? Si conosce alla cera.

LOR.

Noi altri parigini mangiam solo la sera.

L'estro mi ha divertito: dei versi ho lavorati,

Sono riusciti bene, e già li ho dispensati.

M.SA.

Si possono vedere?

LOR.

Eccoli: io non volea... (dà un foglio alla Saixon.)

Ma tutti li han pagati sinora una ghinea.

M.SA.

Quante copie sinora, monsieur, ne avete dato?

LOR.

Quattro.

M.SA.

Quattro ghinee vi avete guadagnato?

LOR.

Sinora.

M. SA.

Mi rallegro. Siete un autor perfetto:

Andiam dunque a giocare sei partite a picchetto.

LOR.

Ben volentier, madama. (Ciò val più dell'argento). (da sé.)

M.SA.

(Vuol essere, se perde, un bel divertimento). (da sé.)

Andiam; su l'ora fresca non vi è né sol, né pioggia;

Noi passeremo il tempo giocando, in su la loggia.

LOR.

Pria di giocar, madama, fate l'onore almeno

Di leggere i miei versi.

M.SA.

Ah sì; posso far meno?

L'argomento qual è?

LOR.

Un ridicolo amante

Che smania senza frutto alla sua diva innante.

M.SA.

Che sì, monsieur Lorino, che questa è la novella

Di Milord Wambert, che adora mia sorella?

LOR.

Vi dirò... Non vorrei...

M.SA.

Sapete l'uso mio:

Non me ne importa un'acca, e riderò ancor io.

Leggiam. (apre il foglio.)

LOR.

Se qualcheduno li vuole, basta che...

Non so se mi capite.

M.SA.

Lasciate fare a me. (legge.)

Amor, tu che sì poco regni nel suolo inglese,

Come cotanto foco Milord nel cuore accese?

Amor, per vendicarti, dove non regni molto,

Un sol che vuol provarti, lo fai divenir stolto?

Bravissimo, son belli, son belli a maraviglia.

Lo stil conciso e forte a Sachespir somiglia.

Egli fu gran poeta, e tragico, e politico;

Ma il vostro stil francese è più frizzante e critico.

LOR.

Troppo onore, madama.

M.SA.

Andiam. No, no, aspettate.

Se posso, di tai versi, vo' che vi approfittiate.

Viene un... (osservando dalla parte del caffè.)

LOR.

Chi vien, madama?

M.SA.

Maestro Emanuelle.

LOR.

Egli non dà un quattrino, se gli cavan la pelle.

M.SA.

Amante è di novelle; son critici, son vaghi:

Se i versi gli dan gusto, può darsi che li paghi.

LOR.

Vedrem, ma non lo credo. Avaro ei sempre fu.

M. SA.

(Può esser che si giochino due partite di più!) (da sé.)

SCENA QUINTA

Emanuel Bluk e detti.

EMA.

(Se è ver quel che si dice, Jacobbe anderà via.

Possa egli andare all'Indie, e se ci va, ci stia). (da sé.)

M.SA.

Emanuel.

EMA.

Che vuoi?

M.SA.

Vo' farvi una finezza.

EMA.

Donna, finezze a me? puoi farle a chi le apprezza.

LOR.

Grazioso in vero! In Francia un uomo come voi,

A star lo manderebbero cogli orsi o con i buoi.

EMA.

E sono li tuoi pari, fra gli uomini britanni,

chiamati giustamente scimiotti e barbagianni.

M.SA.

Orsù, questi bei versi, venite qui, leggete.

Vi piaceran, son certa, e ben li pagherete.

Formano (dell'arcano a parte anche vi metto)

Milord e mia sorella ridicolo il soggetto.

EMA.

Li leggerò.

M.SA.

Tenete. (dà il foglio ad Emanuele ed egli legge piano.)

LOR.

Già non gli piaceranno.

L'opere dei stranieri lodar quivi non sanno.

Innamorati solo del gusto del paese,

Detestano lo stile, la grazia del francese. (alla Saixon.)

EMA.

Mi piacciono.

M.SA.

Vedete? (a monsieur Lorino.)

EMA.

Li tengo, e ti fo onore. (a madama Saixon.)

M.SA.

Teneteli, ma prima pagateli all'autore.

EMA.

È costui?

M.SA.

Sì, costui.

LOR.

Che termini incivili!

EMA.

Ti pagherò qual mertano le opere simili. (a Lorino.)

Ti avverto per tuo bene, che il critico poeta

Non giugne con salute del vivere alla meta.

Sotto il bastone, o sotto qualche maggior tormento,

Finisce i giorni suoi. Ecco il tuo pagamento.

LOR.

A me cotale insulto? Distinguere conviene...

M.SA.

Andiam, monsieur Lorino, andiam, che ha detto bene. (prende per mano monsieur Lorino, ed entra con lui in casa.)

SCENA SESTA

Emanuel Bluksolo.

EMA.

Se legge cotai versi Milord ch'è tutto foco,

L'autor s'egli conosce, può vedersi un bel gioco.

Merta colui... Ma poco mi cal del suo malanno;

Sopra Jacob vorrei precipitasse il danno.

S'egli autore ne fosse... crederlo ancor potrebbe;

Ma io non voglio espormi... Panich lo farebbe.

Eccolo per l'appunto, costui ch'è un nulla al mondo.

Arrischierò nel colpo, e intanto io mi nascondo.

SCENA SETTIMA

Maestro Panich ed il suddetto.

PAN.

Maestro, ho rilevato cose che tu non sai.

EMA.

Io più di te, maestro, ho rilevato assai.

PAN.

Jacob se n'anderà lontan dall'Inghilterra.

EMA.

Ed egli al suo nemico coi versi fa la guerra.

Leggili.

PAN.

(Veramente leggere non so molto). (da sé.)

EMA.

Senti Jacobbe audace. Leggili, che io ti ascolto.

PAN.

Amor... trachet... i... parco segni... di suolo inglese. (legge male.)

Il suolo delle scarpe condanna del paese.

EMA.

No, critica Milord.

PAN.

Intendo, intendo bene.

Com... è... catarro... (come sopra.)

EMA.

Basta. Ecco Milord che viene.

Mostrandogli tai versi puoi farlo protettore;

Ma digli sopra tutto esser Jacob l'autore. (parte.)

SCENA OTTAVA

Maestro Panich, poi milord Wambert.

PAN.

Glielo dirò senz'altro. Milord... in... cor... te... accese.

Intendo: fa Milord ribelle del paese.

Nel leggere lo scritto non fondo la mia gloria,

Ma leggo lo stampato, ed ho buona memoria.

MIL.

(Venendo dalla bottega del libraio.)

Se n'anderà Jacobbe. Se n'anderà, il prometto:

Lo voglio fuor di Londra di madama a dispetto.

Ricusa il mio danaro? Mi fa così gran torto?

Lontan da questo suolo deve andar vivo o morto.

Dicolo senza caldo, dicolo allor ch'io penso

Che la ragione in parte abbia frenato il senso.

Egli non viverebbe, se di là prima uscia,

Se a me si presentava in mezzo all'ira mia.

PAN.

Milord, son tre minuti che aspetto per parlarti.

MIL.

Perché non avanzarvi?

PAN.

Temea di disturbarti.

Batter le mani e i piedi ti vidi stranamente

Invasa dalle stelle credevo la tua mente.

Lo vedi? In questo foglio per te vi è un complimento;

Se leggere lo sai, ne resterai contento.

MIL.

Che è questo?

PAN.

Una insolente satira a te diretta,

Composta da Jacobbe per far di te vendetta.

Tieni, che te la dono; lo stile suo si sente.

L'ho letta e l'ho capita perfettissimamente.

SCENA NONA

Milord Wambert solo.

MIL.

Satire a me? Jacobbe audace a questo segno?

Non lo credo. Sì poco non temerà il mio sdegno.

Chi sa che gl'impostori?... Leggasi prima il foglio.

Satire a me? Può darsi tanta ignoranza e orgoglio? (legge piano.)

Ah scellerato, indegno, così de' pari miei

Si parla e si canzona? Anima vil, chi sei?

Se a me tu fossi noto... Ma lo saprò, lo giuro;

Nel centro della terra da me non sei sicuro.

Fosse Jacob? nol credo. Ma chi sarà l'audace?

Fosse monsieur Lorino? Ei ne saria capace.

Ma nemmeno: un francese in Londra rifugiato

Non può de' cavalieri parlar sì sconsigliato.

Ah, se egli fosse... chiunque sarà la mano ardita,

Pagar la tracotanza dovrà colla sua vita.

In ridicolo pormi? Smanio, deliro e fremo.

Elà. (passando al caffè.)

SCENA DECIMA

Gioacchino e il suddetto.

GIO.

Signor.

MIL.

Da bere. Porta dell'acqua; io tremo. (siede sopra una panca.)

GIO.

(Va a prendere dell'acqua.)

SCENA UNDICESIMA

Madama Saixon sulla loggia con monsieur Lorino, e Rosa che porta un piccolo tavolino, ed il suddetto; poi Gioacchino che torna.

M.SA.

Qui, qui giocar vogliamo. Al fresco, all'aria pura.

ROSA

Stupisco, che vogliate giocar con quest'arsura. (le accenna nonsieur Lorino.)

LOR.

Arso non son qual credi, fantesca impertinente.

Questi sono denari. (fa vedere la borsa.)

ROSA

Denari? allegramente.

Che sì che l'indovino? Voi avete venduti

A un parrucchier due oncie di capelli canuti.

LOR.

Fraschetta! custodisco la chioma con tal zelo,

Che morirei di fame pria di levarmi un pelo.

ROSA

E pur guadagnereste delli denari assai,

Le setole vendendo ai nostri calzolai. (parte.)

LOR.

Madama, questo è troppo. (alla Saixon.)

M.SA.

Affé, non vi è gran male.

LOR.

Di setole favella? mi tratta da maiale?

M.SA.

Via, via, la sgriderò. Venite qui, giochiamo.

LOR.

Eccomi a' cenni vostri. Darò le carte.

M.SA.

Alziamo. (fanno il loro gioco a picchetto.)

MIL.

L'acqua non viene mai?

GIO.

Eccola qui, signore. (porta un bicchiere d'acqua a Milord.)

MIL.

(Beve l'acqua.)

M.SA.

Scartate. Io già l'ho fatto. Che bravo giocatore!

MIL.

(Terminato di bevere, dà la tazza a Gioacchino che parte; poi si alza.)

(Satire a me? Vedremo s'io scoprirò l'indegno). (da sé, passeggia.)

M.SA.

Ehi! Milord. (a Lorino, accennando Milord.)

LOR.

È agitato. (alla Saixon.)

MIL.

(Lo sfogherò il mio sdegno). (seguita a passeggiare.)

M.SA.

Che sì ch'egli ha veduta la satira pungente? (a Lorino.)

LOR.

Ah, per amor del cielo, di me non dite niente. (alla Saixon.)

M.SA.

Se il sa tutto il paese! inutile è il celarlo.

LOR.

Mi pento averlo fatto. Con lui convien negarlo.

MIL.

(Lorino con madama gioca tranquillamente;

Parmi di aver ragione di crederlo innocente). (da sé.)

M.SA.

Via presto, rispondete. (a Lorino, giocando.)

LOR.

Sento tremarmi il core. (alla Saixon, giocando.)

MIL.

Madama, la Brindè è in casa? (alla Saixon.)

M.SA.

Non signore.

MIL.

Poss'io saper dov'è?

M.SA.

Dirovvelo di botto:

È andata con Jacobbe. Oh, vi ho dato cappotto. (a Lorino, giocando.)

MIL.

(Con Jacobbe madama? Ah indegni scellerati!

Giuro, se li ritrovo, cadranno ambi svenati.

Colui che ad onta mia la mia nemica adora,

Essere di que' versi l'autor potrebbe ancora). (da sé, e smania.)

M.SA.

Milord, non v'inquietate, se non volete poi

Che facciano i poeti le satire per voi.

LOR.

(Zitto, per carità) (alla Saixon.)

MIL.

Noti a voi son que' versi,

Che contro a un cavaliere son di veleno aspersi?

LOR.

(Per carità, madama). (alla Saixon.)

M.SA.

Noti mi son, signore,

E credo di sapere di lor chi sia l'autore.

LOR.

Io men vo. (si alza un poco.)

M.SA.

State fermo. (a Lorino.)

MIL.

Ditelo. (alla Saixon.)

LOR.

(Ah qual disastro!...)

MIL.

Ditelo a me, madama. (alla Saixon.)

M.SA.

Egli è un filosofastro. (a Milord.)

LOR.

(Respiro). (da sé.)

MIL.

(Ah, non vi è dubbio. Jacobbe è l'arrogante.

Lo troverò). Madama. (s'inchina.) (Mi tremano le piante). (parte correndo.)

SCENA DODICESIMA

Madama Saixon e monsieur Lorino.

LOR.

Godo che dal periglio mi abbiate liberato;

Ma spiacemi sentire Jacob pregiudicato.

M.SA.

Jacob? Filosofastro a lui dir non intesi;

Emanuel Bluk è tale, colui solo compresi.

Più volte con Milord parlare io l'ho veduto,

A lui mostrati i versi avrà il birbone astuto;

Onde, se non li ha fatti, merita almen per questo

Essere da Milord ricompensato e pesto.

LOR.

Ma in ogni guisa è male. Tacer voi potevate...

M.SA.

Monsieur Lorin, giochiamo, e più non mi seccate.

Faccio le carte io. Ho vinto una partita.

LOR.

La sorte giustamente madama ha favorita. (giocano.)

SCENA TREDICESIMA

Il signor Saixon e Bonvil, marinaio, e i suddetti.

SAI.

Se il capitano salpava, se fatto avesse vela, (a Bonvil.)

Sarebbe assai lontano. Ora vi vuol cautela.

Il sol fosco tramonta, il vento si è cangiato.

Digli che nel Tamigi trattengasi ancorato.

BON.

Fatte le provvigioni, ei partirà a drittura;

Siam trenta marinai che non abbiam paura.

SAI.

È vero, i nostri Inglesi son celebri nel mare;

Il vento e le burrasche non temono affrontare.

Prodigi col non forse da lor si son veduti;

Ma perdonsi talvolta i troppo risoluti.

Noi possiam ben le leggi imporre ai capitani:

Von fare a modo loro, noi siam nelle lor mani.

Il negoziar in mare è bel, ma si converte...

Madama col Francese che gioca e si diverte. (guardando la loggia.)

M.SA.

Ecco un repicco a voi. Marito, gliel'ho dato.

SAI.

Che cosa?

M.SA.

Un bel repicco.

SAI.

Non altro?

LOR.

Io l'ho pigliato.

SAI.

Giocate, se volete; per voi è sempre festa.

M.SA.

Ho vinto sei partite. (al signor Saixon.)

SAI.

Ho altro per la testa.

M. SA.

Che uom senza maniera! Monsieur Lorin garbato,

Ho vinto tre ghinee.

LOR.

Son io lo sfortunato.

SCENA QUATTORDICESIMA

Madama di Brindè e i suddetti.

M.BR.

Ah signore, di voi veniva in traccia appunto;

Vi vidi di lontano, accorsi, e vi ho raggiunto.

So che pietade umana fu sempre il vostro nume,

Né stimolo bisogna a chi opra per costume.

Pur le mie preci aggiungo, signor, per opra tale,

Che forse il nome vostro può rendere immortale.

SAI.

Dite, madama, dite. Andiamo per le corte.

Farò quel che potrò.

M.SA.

(Parlassero più forte!) (ascolta con attenzione quel che dicono nella strada.)

LOR.

(Giochiam). (alla Saixon.)

M.SA.

(Zitto).

M.BR.

Signore. Un uomo sventurato

S'ingiuria da un milord, e vien perseguitato.

Il misero è Jacobbe, che cerca un protettore;

Wambert, a voi ben noto, è il suo persecutore.

SAI.

Avrà la sua ragione.

M.BR.

Un pazzo amor l'accende

Per me che l'aborrisco e amor da me pretende.

Vede Jacob distinto, lo crede il suo rivale,

E cerca per vendetta di fargli il maggior male.

Parla, minaccia, insulta, per tutto gli fa guerra,

E giura che lo vuole lontan da questa terra.

Un uom di quella sorta, da voi ben conosciuto,

Si perde ingiustamente, se mancagli un aiuto,

E un cavalier sdegnato, per vana pretendenza,

Farà su l'innocente valer la prepotenza.

SAI.

Odio, aborrisco e sdegno le prepotenze ardite,

Permetter non si denno. Che posso far? seguite.

LOR.

(Madama...) (alla Saixon.)

M.SA.

(State zitto). (a Lorino.)

M.BR.

Se voi nel vostro tetto (al signor Saixon.)

Voleste ricovrarlo, gli porterian rispetto.

Fatelo, ve ne prego, cuor generoso, umano...

SAI.

Madama, non vorreste vi facessi il mezzano?

M.SA.

(Bravo! Ha risposto bene).

M.BR.

Signor, mi conoscete.

So che talor, parlando, scherzar vi compiacete.

Son donna, sono umana, e son di amor capace,

Ma l'onestà e l'onore è il mio nume verace.

Tre anni son ch'io vivo vedova a voi unita,

Pubblico al mondo tutto è il tenor di mia vita.

Amo le scienze ed amo, è ver, chi le coltiva;

Di nozze a me conformi fors'io non sarei schiva,

Ma qual se non vi fosse, con noi starebbe, il giuro.

SAI.

Madama, vi conosco. Scherzai, ve l'assicuro.

M.SA.

(Povera semplicetta! starà come un bambino). (da sé, ascoltando.)

LOR.

(Madama, non si gioca?) (alla Saixon.)

M.SA.

(Zitto, monsieur Lorino). (a Lorino.)

M.BR.

Dunque, che risolvete?

SAI.

Non so; vi è dell'impegno.

M.BR.

Credetemi, Jacobbe di protezione è degno.

Alfin che può temersi dal cavaliere irato,

Che l'ha senza ragione sinor perseguitato?

In Londra i mercatanti son del governo in stima,

Non lascian che dal grande il misero si opprima.

Si venera e si apprezza il nome vostro, e passa

Per un de' primi nomi nella Camera Bassa.

Non si farà un affronto a un uom che più di cento

Voti dispone e guida ei sol nel Parlamento.

Lode ne avrete e pregio; ché alfin giustizia è quella

Che a pro di un infelice vi stimola ed appella.

Un filosofo saggio, un uom che tanto vale,

Che a tutti fa del bene, che a niun sa far del male;

Un uom di sé contento, che sprezza i beni e l'oro,

Che sol nella virtute riposto ha il suo tesoro;

Che vive parcamente in bassa condizione,

Perché non sa valersi di falsa adulazione,

Questa è ben opra degna, signor, del vostro cuore:

Serbategli la vita, serbategli l'onore.

L'uno e l'altra s'insidia dal suo nemico fiero,

Difenderlo, salvarlo potete, ed io lo spero.

Fatelo, generoso, con viscere di amore,

Muovasi a compassione il vostro amabil cuore.

Usate a pro di lui la caritade, il zelo,

E certa vi promette la ricompensa il cielo.

M.SA.

(Non sa parlar, meschina! Sentiam cosa risponde).

SAI.

(Facciasi il ben, se giova). Jacob dove si asconde?

M.BR.

Ei sarà qui a momenti. Lo disse, ed io l'aspetto.

SAI.

Venga pur; ricovrarlo, difenderlo prometto.

M.SA.

Piano, signor marito, che cosa è questo imbroglio?

Jacobbe in casa nostra? In casa non lo voglio.

M.BR.

Oimè!

SAI.

Come ci entrate? Sono il padron sol io.

M.SA.

Non ci verrà, lo giuro.

SAI.

Sì, ch'egli venga. Addio. (alla Brindè, ed entra in casa.)

M.SA.

Vo' discorrerne meglio. La vogliam veder bella. (parte.)

M.BR.

Può esser più indiscreta colei con sua sorella?

LOR.

Oh maledetto il punto che io venni, ed ho giocato!

Con questa bella grazia mi ha vinto e mi ha piantato. (parte.)

SCENA QUINDICESIMA

Madama di Brindè sola.

M.BR.

Ecco un novello scoglio al misero infelice,

Contro di lui congiura sempre la sorte ultrice.

Se la germana mia persiste a non volere,

Jacob restar dovrebbe con onta e dispiacere.

Ed ei, che è per natura civile e delicato...

Eccolo; in ogni guisa dev'esser ricovrato.

SCENA SEDICESIMA

Jacobbe Monduill e la suddetta.

JAC.

So che Milord mi cerca; detto me l'ha più d'uno.

Madama, lo vedeste?

M.BR.

Qui non si è visto alcuno.

Però non vi consiglio attenderlo per via;

So anch'io che vi cercava, che fremere si udia.

Il ciel vi ha provveduto di asilo e protettore.

Entrate in quella casa.

JAC.

Madama... il vostro onore?

M.BR.

Saixon, ch'è mio cognato, per voi così dispone.

JAC.

Il mondo non appaga sì debole ragione.

M.BR.

Temete di Milord? Saixon vi sarà scudo.

JAC.

Affronterei Milord armato, a petto ignudo.

Minacce non pavento; per lui non mi confondo.

Quel che timor mi reca, non è la morte, è il mondo.

Niun crederà, madama, ch'io sia nel vostro tetto

Per altro ricovrato, che per ragion di affetto.

Milord con più fermezza si chiamerebbe offeso.

L'onor di me, di voi, non anderebbe illeso.

Può ben vostro cognato aver pietà di me;

Ma avvezzo a pensar bene il popolo non è.

Si mormora pur troppo a torto, a discrezione;

Pensate, se vi fosse un'ombra di ragione.

Voi stessa esaminate, no, non vi aduli il cuore,

Quel che per me vi sprona, non è virtute, è amore.

Poc'anzi di attrazione interpretai la tesi,

Più assai che non diceste, a mio rossore intesi.

Mi onora il vostro affetto, di tanto io non son degno;

Ingrato non rispondo di amore al dolce impegno.

Solo desio, madama, che quanto più mi amate,

Sollecita e gelosa dell'onor mio voi siate.

Entrar fra quelle mura non deggio ad ogni costo;

Prima di porvi il piede, io morirò più tosto.

Deh, non abbiate a sdegno questi miei detti amari;

Amatemi, ma sia l'amor da vostra pari.

M.BR.

Ah Jacob, lo confesso, per voi, per me arrossisco;

Sdegnate il mio soccorso? Io taccio, e vi obbedisco.

Parto di dolor piena. Non so quel che mi dica.

Ah, vi difenda il cielo, il ciel vi benedica. (entra in casa piangendo.)

SCENA DICIASSETTESIMA

Jacobbe Monduill solo.

JAC.

Misera! compatisco in lei l'amor, la pena;

Mirarla bramerei tranquilla e più serena;

Ma se per me l'affanna barbaro duolo e rio,

Calmisi il di lei cuore, ma non si turbi il mio. (va a sedere sopra una panca del libraio.)

Da me che vorrà mai Milord che mi rintraccia?

Perché sì stranamente l'ira dimostra in faccia?

La carta che io gli offersi, dovea disingannarlo.

Il denar rimandato potea forse irritarlo?

SCENA DICIOTTESIMA

Milord Wambert e il suddetto.

MIL.

Indegno. (scoprendolo dopo qualche momento.)

JAC.

A me, signore? (si alza.)

MIL.

A te, lingua mendace.

JAC.

Voi mi scandalizzate.

MIL.

Perfido.

JAC.

Ancora?

MIL.

Audace!

Parti di Londra tosto. L'imbarco è preparato;

O al bordo della nave ti fo condur legato.

JAC.

Farmi condur legato? La cosa è un poco strana;

Le mercanzie si legano, s'imballano in dogana.

MIL.

Anima vil, tu scherzi?

JAC.

Par che voi pur scherziate.

MIL.

Non provocarmi, indegno.

JAC.

Perché vi riscaldate?

MIL.

Quel sorriso mendace mi provoca a dispetto.

JAC.

M'odiate, m'insultate: io vi amo e vi rispetto.

MIL.

Sei traditor.

JAC.

Signore, non è ver; lo protesto...

MIL.

Perfido una mentita? (mette mano alla spada.)

JAC.

(Si alza furiosamente, e con intrepidezza, gettando il suo bastone via.)

Olà, che ardire è questo?

Mira il ciel, che ti vede. A te con mano ardita,

Barbaro, non si aspetta togliere altrui la vita.

Sai chi ti vedi innanzi? Un uomo, una creatura,

Ch'è del supremo nume miracolo e fattura;

Un uom che, qual tu sei, vive soggetto al cielo,

Che spirito immortale rinchiude in uman velo;

Su cui l'arbitrio solo ha quel che l'ha creato,

E in terra l'hanno i regi, cui tal potere è dato.

Chi sei tu, che presumi di usar meco lo sdegno?

Sei tal, che per la colpa sei della vita indegno.

Vuoi tu ferirmi, audace? Vuoi bere il sangue mio?

Eccoti il petto inerme, ecco te l'offro anch'io.

Strano sarà che in Londra un uom cotanto ardisca;

Esclamano le leggi, che ogni uccisor perisca.

E se morir non temi, pur ch'io cada svenato,

Ferisci questo seno, carnefice spietato.

Come! Tu tremi? Abbassi per non mirarmi il ciglio?

Vergognati, paventa per te maggior periglio.

Temi che ad egual colpo ti renda il ciel soggetto;

Ma non avrai, crudele, la mia costanza in petto.

(Basta così, mi sembra il misero atterrito.

Troppo dissi. L'offesi; quasi ne son pentito). (Si accosta, gli prende la mano, e gliela bacia umilmente, e parte senz'altro dire, entrando nella bottega del libraio.)

MIL.

(Osserva un poco Jacobbe, e mostrandosi compunto, parte anch'esso senza parlare.)


ATTO QUINTO

Notte

SCENA PRIMA

Birone dall'interno della bottega viene accendendo i lumi.

Gioacchino con lume spento dalla sua bottega.

GIO.

Fammi il piacer, Birone, accendi questo lume.

BIR.

Eccomi, volentieri. L'accendo per costume.

Per altro, se di giorno vengono pochi a spendere,

La sera molto meno si può sperar di vendere.

GIO.

Da noi frutta la sera più assai del chiaro giorno:

La notte abbiamo pieno di dentro e qui d'intorno.

BIR.

Utili infatti siete voi altri alle persone;

Fanno con poca spesa la lor conversazione.

Parlano se ne han voglia, bevono se hanno sete;

Stanno a sedere, e pagano pochissime monete.

GIO.

Aggiugni che taluno, più franco e più valente,

Ha la bontà di bevere, e non pagar niente.

BIR.

A certi anch'io talvolta dei libri venderò,

Che quando li avrò letti, dicon, li pagherò;

Ma perché legger essi non san poco, né assai,

Mantengon la parola, e non li pagan mai.

GIO.

Per tutto si riscontrano tai casi e tai costumi.

Biron, la buona sera. Vado a accendere i lumi. (Entra nella sua bottega, ed accende tutti i lumi che occorrono nella medesima. Birone va nella sua bottega.)

SCENA SECONDA

Madama Saixon e monsieur Lorino.

M.SA.

(Esce di casa, e si avvia alla bottega del caffè, in aria di sdegno.)

LOR.

Madama. (seguitandola, e offerendole il braccio.)

M.SA.

Cosa ci è?

LOR.

Vi servo, se volete.

M.SA.

Ho altro per il capo. (seguita a camminare.)

LOR.

Madama, cosa avete?

M.SA.

Per causa di Jacobbe ho da esser maltrattata?

Questa è la prima volta che Saixon mi ha sgridata.

Minaccie a una mia pari? Dirmi ch'io non comando?

Mostrarmi anche il bastone? L'affronto è memorando.

LOR.

Monsieur vostro marito alzò dunque il bastone?

M.SA.

Non l'alzò, l'ha mostrato. (con ira.)

LOR.

Tutt'un...

M.SA.

Siete un buffone.(irata.)

LOR.

Madama è compitissima in tutti i detti suoi,

Ma vincere e lasciarmi?...

M. SA.

Voglio un piacer da voi.

LOR.

Imponete. Son qui...

M. SA.

Dal vostro stile ardito

Una satira voglio contro di mio marito.

Fra gli altri sentimenti, dite che alzar le mani

Contro la propria moglie sono azion da villani.

LOR.

Dunque le mani alzò.

M. SA.

Non è ver, non l'ha fatto;

Ma voglio dell'affronto vendetta ad ogni patto.

Monsieur Lorino, a voi.

LOR.

Madama, non vorrei...

cadesse la minaccia sul fil de' lombi miei.

M.SA.

Non si saprà.

LOR.

Badate.

M.SA.

Scrivete con del foco;

Mi scorderò per questo le tre ghinee del gioco.

LOR.

A tanta gentilezza non posso dir di no.

(Tre ghinee risparmiate, e poi profitterò). (da sé.)

Un solito prodigio farò colla mia mente;

Vado a compor là dentro estemporaneamente. (entra nella bottega del caffè.)

SCENA TERZA

Madama Saixon, poi Gioacchino.

M.SA.

Bastami poter dire: l'affronto è vendicato.

Che importa se costui fosse anche bastonato?

Spiacemi restar sola. Rosa? (chiama) Non sente. Rosa?

Gioacchino? (chiama)

GIO.

Mia signora.

M.SA.

Vien qui, chiamami Rosa.

GIO.

Vi servo. (va a picchiare.)

SCENA QUARTA

Rosa sulla loggia e detti.

ROSA

Chi è che picchia?

GIO.

Ascoltami, son io

ROSA

Ora le scale scendo. Vengo, Gioacchino mio.

M.SA.

Viene? (a Gioacchino.)

GIO.

Signora sì. (Discende allegramente.

Suppone ch'io la cerchi, e non l'ho neanche in mente). (da sé. Si accosta alla bottega.)

ROSA

Eccomi. Chi mi vuole? Gioacchino, dove sei?

GIO.

Da me non sei cercata.

ROSA

Dunque da chi?

GIO.

Da lei. (accenna alla Saixon, ed entra in bottega.)

ROSA

(Affé, se lo sapea, non ci venia per ora). (da sé.)

M.SA.

Io son che la domanda. Favorisca, signora. (ironica.)

ROSA

Eccomi! (È pur graziosa!) (si accosta.)

M.SA.

Siedi vicino a me.

ROSA

Vuol farmi quest'onore? (siede.)

M.SA.

Sì, perché altri non c'è.

ROSA

(Miracolo che è sola!) (da sé.)

M.SA.

Saixon che fa?

ROSA

Le robbe

Dispone di due stanze, per alloggiar Jacobbe.

M.SA.

Jacobbe in quella casa?

ROSA

L'avete pur sentito.

M.SA.

Ad onta mia?

ROSA

Stavolta vuol farla da marito.

M.SA.

Che dici tu, ignorante? Che da marito? Che?

Prenda Jacobbe in casa: l'avrà da far con me.

ROSA

(Che bestia!) (da sé.)

M.SA.

Cosa dici?

ROSA

Nulla.

M.SA.

Sì baccellona.

Sarai di non tenere tu pur dalla padrona?

ROSA

Essere indifferente soglio io per ordinario;

Ma tengo questa volta da chi mi dà il salario.

M.SA.

Chi ti paga?

ROSA

Il padrone.

M.SA

Ed io non ti do nulla?

ROSA

Mi deste una gonnella, che usaste da fanciulla.

M.SA.

Via, in mezzo della strada scorgere mi farai?

ROSA

Quando non son cercata, per me non parlo mai.

SCENA QUINTA

Monsieur Lorino dal caffè, con un foglio in mano, e le suddette.

LOR.

Eccovi quattro versi, che vagliono un tesoro.

(La serva...). (Piano alla Saixon, ritirando il foglio.)

M.SA.

(Non temete, ell'è una bocca d'oro). (piano a Lorino.)

A me. (gli chiede il foglio.)

LOR.

Migliori versi non feci in vita mia. (piano alla Saixon, dandole il foglio.)

M.SA.

A Saixon questi versi reca per parte mia. (dà il foglio a Rosa.)

LOR.

(Madama...)

M.SA.

(Non temete).

LOR.

Ragazza, io non li ho fatti.

ROSA

Io servo la padrona. Voi siete il re de' matti. (parte, ed entra in casa.)

SCENA SESTA

Madama Saixon e monsieur Lorino

LOR.

Ma leggeteli almeno.

M.SA.

Sì, sì, li leggerò.

Una copia ne avrete.

LOR.

La mala copia io l'ho.

Eccola; favorite sentir che stile è questo.

Trovate chi, qual io, sappia far bene, e presto. (le dà un altro foglio.)

M.SA.

(Legge.) Uomo non è che piaccia, non è condiscendente

Marito che minaccia la moglie impertinente.

A me?

LOR.

Nel far la rima, trovato ho un po' d'impaccio.

M.SA.

Ed io per far la rima, vi dico un asinaccio. (legge.)

Quando la moglie tuona, si va per altra strada;

È vil chi la bastona, è un uom chi non le bada.

LOR.

Ah? che ne dite?

M.SA.

Bello. Bel sentimento invero!

A donna non si bada? Bellissimo è il pensiero!

Pria soffrirei le busse, ch'esser non ascoltata.

Saixon mi offese, è vero, ma almen mi son sfogata.

Se meglio non sapete difendere i miei torti,

Andate alla malora, che il diavolo vi porti. (parte, ed entra in casa.)

SCENA SETTIMA

Monsieur Lorino.

LOR.

Ecco ricompensati con sprezzo i versi miei;

Ma le ghinee non pago, non torno da colei.

Per me non vi è fortuna in questa patria inglese;

Voglio imbarcarmi adesso, voglio cambiar paese.

Ma vo', dovunque vado, cambiar la professione.

Le satire acquistata non mi han riputazione.

Pavento nuovi guai: tornar voglio a Parigi,

Tosto per imbarcarmi vo' correre al Tamigi.

Ma perché non si offenda dai tristi la mia gloria,

Vo' prima di partire lasciare una memoria. (entra nel caffè.)

SCENA OTTAVA

Il signor Saixon, poi Birone

SAI.

Mia moglie a non badarle con questi versi insegna.

Tarocca, non le bado, e poi meco si sdegna.

È pazza. Ehi dal libraio. (alla bottega del libraio.)

BIR.

Signor, che mi comanda?

SAI.

Dov'è Jacob? si sa?

BIR.

Chi è che lo domanda?

SAI.

Sono io.

BIR.

Se siete voi potete andar là dentro.

Milord morto lo vuole.

SAI.

Di Milord non pavento. (entra nella bottega con Birone.)

SCENA NONA

Madama di Brindè sulla loggia

M.BR.

Non vedesi Jacobbe, che mai sarà di lui?

Qual son per sua cagione, inquieta unqua non fui.

Posso cangiar la brama, posso frenar l'amore;

Ma dileguar dal seno non posso il mio timore.

Mi pesa e mi addolora l'essere di lui priva;

Almen per mio conforto resti Jacobbe, e viva.

SCENA DECIMA

Milord Wambert dalla parte del caffè, e la suddetta.

MIL.

Quanti pensieri in mente! quanti rimorsi al core!

M.BR.

(Milord giunge opportuno. Gli parlerò). Signore. (a Milord.)

MIL.

Madama. (inchinandosi.)

M.BR.

Bramerei, se lice, ragionarvi.

MIL.

Eccomi a' cenni vostri. (vuole avviarsi verso la casa.)

M.BR.

Non voglio incomodarvi.

Verrò, se mi attendete, io stessa in su la strada.

MIL.

Capisco. La Brindè non vuol che in casa io vada.

Qual nuovo pensamento le cade in fantasia?

Son fuori di me stesso, non so dove mi sia.

L'attenderò.

SCENA UNDICESIMA

Milord Wambert e madama di Brindè dalla sua casa.

M.BR.

Signore. Eccovi a voi dinante

Quella di cui diceste poc'anzi essere amante.

Se ciò fia ver, son pronta...

MIL.

Madama, permettete. (passa alla sinistra con un complimento.)

M.BR.

Milord, troppo gentile. (con una riverenza.)

MIL.

Fo il mio dover. Sedete. (siedono su due scagni.)

M.BR.

Io vi dicea...

MIL.

Che pronta siete a gradir l'affetto...

M.BR.

Tutto, Milord, dirovvi, se aspetterete.

MIL.

Aspetto.

M.BR.

Veggo per mia cagione un innocente oppresso.

Jacob è un uomo dotto; lo stimo, io lo confesso;

E confessar volendo tutto il mio core appieno,

Eguale alla mia stima è l'amor mio non meno.

Strano non è che il merto mi abbia ferito il petto.

MIL.

Concludasi, madama.

M.BR.

Se aspetterete...

MIL.

Aspetto.

M.BR.

Strano non è ch'io l'ami questo felice ingegno,

Ma l'amor mio non passa della ragione il segno.

Non vo' colla mia mano, non vo' coll'amor mio

Precipitare un uomo saggio, discreto e pio.

Al regno d'Inghilterra io sarò debitrice,

S'ei parte per me sola dall'Isola felice;

E se per me l'opprime di una vendetta il pondo,

Io son la debitrice della sua vita al mondo.

Milord, che d'ira acceso più che di amore ha il seno,

Lontan vuol ch'egli vada dall'anglico terreno.

Milord, di cui non vidi un'anima più ardita,

Minaccia, s'ei non parte, di togliergli la vita.

Amor ciò non risveglia, ma provoca il dispetto...

MIL.

Dunque mi odiate. (altiero.)

M.BR.

Aspetti, chi vuol saperlo.

MIL.

Aspetto.

M.BR.

Signor, che da Jacobbe, che da me si pretende?

Oltre il confin del giusto vostro voler si estende;

Ma prevaler se deve l'ardir, la prepotenza,

In noi ritroverete rispetto ed obbedienza.

Jacob non sarà mio, di ciò ve ne assicuro.

Non sarò di Jacobbe, a tutti i numi il giuro.

Bastavi ancor? Non basta: deggio esser vostra, è vero?

Lo sarò, della mano vi concedo l'impero;

Ma il cuor se pretendete, voi lo sperate invano. (si alza.)

Non merita il mio cuore un barbaro inumano.

Di nozze dispettose, signor, se siete vago,

Eccovi la mia destra, sposatemi, vi appago.

Sfogate dell'orgoglio l'irascibile foco:

Se vostra mi volete, vostra sarò per poco.

Se a forza strascinata vedrommi al vostro letto,

Mi ucciderà, lo spero, la pena ed il dispetto.

E se natura ingrata mi riserbasse in vita,

Milord, son nata inglese, son di alma forte e ardita.

So la via di sottrarmi. Basta; voi m'intendete.

Pensateci. Son vostra, se tal mi pretendete.

MIL.

Madama...

SCENA DODICESIMA

Il signor Saixon dalla bottega del libraio, i suddetti, e poi Birone.

SAI.

Di Jacobbe non dassi un uom simile: (alla Brindè.)

Saggio, discreto, onesto, giusto, prudente, umile.

La casa gli offerisco, ei franco la ricusa,

E di Milord lo sdegno è l'unica sua scusa.

Milord, mi conoscete, io francamente parlo.

Jacobbe è un uom da bene. Mi preme di salvarlo.

Giustizia mi facea raccorlo nel mio tetto;

Ei degl'insulti ad onta, per voi serba il rispetto.

Ma ovunque egli sen vada, ovunque egli sen stia,

Jacobbe, vel protesto, Jacobbe è cosa mia.

Merita ben che voi cambiate in sen lo sdegno;

Che abbiate maggior stima di un uom ch'è di amor degno.

Dovreste far con esso quello che ho fatto anch'io:

Cento ghinee gli ho date or con un foglio mio.

Se amor vi dà molestia, spiegatevi con lei:

Se io fossi innamorato, almen così farei.

Amore in vita mia però non mi diè pena.

Milord, ci siamo intesi. Madama, io vado a cena. (entra in casa.)

MIL.

Ehi. (alla bottega del libraio.)

BIR.

Signor.

MIL.

Di' a Jacobbe che venga qui.

BIR.

Signore... (con timidezza.)

M.BR.

Ditegli ch'egli venga; non abbia alcun timore. (Birone parte.)

Milord, nel vostro cuore che dice ora l'affetto?

MIL.

Nol so.

M.BR.

Saper vorrei...

MIL.

Se aspetterete...

M.BR.

Aspetto.

MIL.

(va a sedere sopra una panca.)

M.BR.

(Ah, voglia il ciel che in lui cambisi il rio consiglio.

La pace a noi si renda; e tronchisi il periglio). (da sé, e siede.)

SCENA TREDICESIMA

Rosa sulla loggia con due lumi di cera custoditi dal vetro, con un Servitore, col quale vanno preparando una tavola per la cena del signor Saixon; e detti.

ROSA

Presto, qui si prepari per il padrone il desco;

A cena vuole andare, e vuol mangiare al fresco.

M.BR.

(Tarda Jacobbe ancora! Lo avran pure avvisato). (da sé.)

ROSA

Dite al padron che venga, che tutto è preparato.

Questo arrostito bove, questo bodino inglese,

Son le vivande eterne, che si usano in paese.

Stupisco che il padrone non se ne stufi mai;

Ma s'egli mangia poco, il ber gli piace assai.

SCENA QUATTORDICESIMA

Masdama di Brindè, milord Wambert, poi Birone.

M. BR.

Birone? (chiama.)

BIR.

Mia signora.

M.BR.

Di' a Jacob che si aspetta.

BIR.

Ora glielo dirò. (parte.)

MIL.

(Madama ha una gran fretta). (da sé.)

SCENA QUINDICESIMA

Il signor Saixon sulla loggia, col Servitore per servire a tavola; ed i suddetti.

SAI.

Oh, qui con questo fresco stasera mi consolo,

Sto ben quando la moglie mi lascia mangiar solo.

È meco indiavolata. Qui non dovria venire.

Milord, cognata mia, volete favorire?

MIL.

(Si cava il cappello senza parlare.)

M.BR.

Al vostro dolce invito, signor, sono obbligata.

SCENA SEDICESIMA

Madama Saixon sulla loggia, e detti.

M.SA.

In pubblico si cena? Che novità sguaiata?

SAI.

(Eccola qui). (da sé.)

M.SA.

E a quest'ora?

SAI.

Un tondo anche per lei. (al Servitore.)

M.SA.

Scoperti, ed a quest'ora, sol cenano i plebei.

Pure sarò forzata mangiar per la paura

Che non facessi poi patir la creatura. (Il Servitore dà una sedia a madama Saixon, e le porta l'occorrente.)

SCENA DICIASSETTESIMA

Jacobbe dal libraio, ed i suddetti; poi Gioacchino.

JAC.

Eccomi, chi mi cerca?

M.BR.

Milord è che vi vuole. (si alza.)

JAC.

Signor, sono da voi.

MIL.

Brevissime parole.

Di questi versi indegni siete l'autor creduto.

Scolpatevi. (gli dà il foglio con i versi scritti contro di lui.)

SAI.

Milord, io bevo e vi saluto.

MIL.

(Si cava il cappello.)

JAC.

(Legge piano i versi.)

M.BR.

(Stelle, che sarà mai?) (da sé.)

JAC.

Signor, io vi assicuro

Che tai versi non feci.

MIL.

Giuratelo.

JAC.

Lo giuro.

SAI.

Che ha Jacob, che mi pare turbato più che mai?

JAC.

Autor di versi indegni presso Milord passai.

SAI.

In materia di versi anch'io son fortunato;

In grazia di madama, son stato regalato. (fa vedere un foglio.)

Volete divertirvi? Or ve li manderò.

M.SA.

Non vo' che li mandiate.

SAI.

Ed io li getterò. (getta il foglio nella strada.)

JAC.

(Lo va a raccogliere, e lo porta a Milord.)

M.SA.

Vedrete dei spropositi scritti da un babbuino;

Basta dir che di quelli è autor monsieur Lorino.

MIL.

Lorino autor di questi? (a madama Saixon.)

M.SA.

Li ha fatti non è un'ora.

MIL.

Dunque l'autor Lorino è di quegli altri ancora.

Date quel foglio a me. (a Jacobbe.) Confronta in eccellenza.

M.BR.

Anche in ciò di Jacobbe è nota l'innocenza.

Chi mai poté accusarlo di critico insolente?

MIL.

Attendete. Gioacchino. (chiama accostandosi al caffè.)

M.BR.

Che mai gli cade in mente? (A Jacobbe.)

JAC.

Si vedrà.

GIO.

Che comanda?

MIL.

Panich si è qui veduto?

GIO.

Egli è per l'altra parte questa sera venuto.

MIL.

Venga qui.

GIO.

Sta trattando delle faccende sue

Col vecchio Emanuelle.

MIL.

Vengano tutti due. (Gioacchino parte.)

Madama, non diceste che questi versi arditi

Da un vil filosofastro furono partoriti? (a madama Saixon.)

Di chi parlaste allora?

M.SA.

Di quelle rime belle

L'autore io mi credea che fosse Emanuelle.

MIL.

Si sentirà.

M.BR.

Jacobbe che vi predice il cuore?

JAC.

Che tutto sarà salvo, se salvo fia l'onore.

M.SA

Io bevo alla salute di quei che nel paese

Diranno un po' di bene del Filosofo Inglese.

JAC.

Madama assai mi onora.

SCENA DICIOTTESIMA

Emanuel Bluke maestro Panich dal caffè, coi loro mantelli, ed i suddetti; poi Gioacchino.

EMA.

Eccomi, chi mi chiama?

PAN.

Venga qui, se vi è alcuno che favellarci brama.

MIL.

Sì, vi verrò io stesso. Chi disse a te, impostore,

Che di tai versi indegni Jacob fosse l'autore?

PAN.

Milord, tu sei un grand'uomo. Ora mi piaci più.

Mi piaci, che principii a ragionar col tu.

EMA.

(Zitto. Non dir che io...) (piano a maestro Panich.)

MIL.

Rispondimi a dovere.

PAN.

Risponderò. Quel foglio lasciami un po' vedere.

Larich... Tanai... ghitton... son tutte cose belle!

Jacobbe n'è l'autore. L'ha detto Emanuelle.

M.SA.

Emanuel sapea ch'erano di Lorino.

Io finsi per ischerzo, ma quegli è un malandrino.

EMA.

(Si va toccando la barba senza parlare.)

MIL.

Torbida gente indegna... Ma il perfido Lorino

Dove sarà?

SAI.

Colui si ha da punir.

MIL.

Gioacchino. (chiama.)

GIO.

Signore.

MIL.

Hai tu veduto monsieur Lorino?

GIO.

Ei parte;

E prima di partire lasciate ha queste carte.

Tutti son fogli eguali, pregommi dispensarli,

E venderli per poco, piuttosto che donarli.

M.SA.

Sentiam.

SAI.

Curiosità.

MIL.

Partì dunque il Francese? (a Gioacchino.)

GIO.

L'intesi contrattare del nolo e delle spese. (parte.)

MIL.

(Legge.) Parto, perché non ha la poesia buon lume,

Dove la serietà trionfa nel costume.

Andrò dove si ammette la satira più fina,

Andrò... Va pur là dove il diavol ti destina;

Odiansi in Inghilterra i pessimi scrittori.

A voi ora mi volgo ridicoli impostori. (a Emanuel Bluk e maestro Panich.)

EMA.

(Col suo mantello si copre fino agli occhi.)

MIL.

E tu, che di tua bocca meco mentire ardisti, (a maestro Panich.)

Anima scellerata, pessimo fra i più tristi...

PAN.

(Anch'egli, osservando Emanuelle, si cuopre col mantello.)

MIL.

Copritevi la faccia col manto o colla mano,

Siete già conosciuti, ed il coprirvi è vano.

Io stesso coi ritratti vo' far di voi palese

L'effigie ed il costume per l'anglico paese;

Ed insegnare altrui, col vostro indegno esempio,

Sotto le spoglie umili come si asconda un empio.

M.BR.

Perfidi, scellerati.

JAC.

Alme mendaci e nere.

SAI.

Che bravo calzolaro!

M.SA.

Che perfido argentiere!

EMA.

(Fa cenno a maestro Panich di andar via.)

PAN.

(Si scioglie il ferraiuolo per parlare.)

EMA.

(Gli fa cenno di stare zitto, e parte.)

PAN.

(Torna a inferraiolarsi, e parte.)

SCENA DICIANNOVESIMA

Madama di Brindè, Milord Wambert, Jacobbe Monduill, madama Saixon, il signor Saixon.

M.BR.

Il rossor li confonde.

JAC.

Non san che replicare.

M.SA.

Son furbi.

SAI.

Son bricconi.

MIL.

Io li farò esiliare.

JAC.

Signor, sperar mi fate, che rendermi giocondo

Possa il perdono vostro? (a milord Wambert.)

MIL.

Per or non vi rispondo.

Madama, io deggio a voi una risposta certa.

Lo stil con cui parlaste, odio da me non merta.

Colpa è del mio destino, se me voi non amate;

Non voglio violentarvi, in libertà restate.

Torno ad aver per voi, tratto dal sen l'affetto,

Come risolsi un tempo, la stima ed il rispetto.

M.BR.

Meno da un cuor gentile sperar non si potea.

Signor, se egli vi offese, dunque son io la rea. (accennando Jacobbe.)

Attende anch'ei da voi una risposta onesta,

Che l'animi e il consoli.

MIL.

La sua risposta è questa. (porge una carta a Jacobbe, e parte.)

SAI.

Mangiato ho a sufficienza. Non voglio mangiar frutti. (parte.)

M.SA.

Anch'io sto ben così. La buona sera a tutti. (parte.)

SCENA VENTESIMA

Jacobbe Monduil e madama di Brindè.

M.BR.

Che sarà mai, Jacobbe?

JAC.

Oh provvidenza eterna,

Che il mondo e gli elementi e gli animi governa!

Milord con questa carta vuol dir che mi perdona,

Se colla firma sua mille ghinee mi dona.

Queste accettar non sdegno, queste che in guisa strana

Mi vengono offerite dalla pietade umana.

M.BR.

Io che farò per voi, anima invitta e forte?

JAC.

Basta non mi obblighiate ad esservi consorte.

M.BR.

Sì, di non esser vostra preso ho il più forte impegno;

Milord, or ch'è un eroe, di tal rispetto è degno;

Ma se di voi, Jacobbe, la mano esser non puote,

Vostro sarà il mio cuore, e vostra la mia dote.

Di quel che sopravanza al mio mantenimento,

A voi di donazione vo' a fare un istrumento.

JAC.

No, madama, fermate. A me non si compete...

M.BR.

Voglio così, lo voglio, e a me non si ripete.

Gradite un innocente atto dell'amor mio:

Di amor più non si parli; più non ci penso. Addio. (parte.)

SCENA ULTIMA

Jacobbe Monduill solo.

JAC.

Dolce Filosofia, mio nume e mio conforto,

Sei tu l'unica stella, che mi ha guidato al porto.

Misero me! se scosso delle passioni il freno,

Mi avessi abbandonato ai loro moti appieno,

L'ira potea condurmi de' precipizi al segno;

Questo de' miei nemici era il più forte impegno.

L'arte di rovinare un uom senza delitto,

È renderlo coi torti ingiustamente afflitto;

E far che i suoi disastri gli tolgan l'intelletto,

E perda per miseria la fede e il buon concetto.

Non così avviene a quelli che, in mezzo alle sventure,

A fronte agli inimici, sono anime sicure.

Trattano gl'insolenti con saggia indifferenza,

In guardia mantenendo l'onore e l'innocenza.

Ecco lo stil che giova, ecco lo stil che apprese

Per reggere se stesso un Filosofo Inglese.

Se agli uomini ben nati grata lezione è questa,

Le voci applaudiranno, le mani faran festa.

Fine della Commedia.