Il fu Mattia Pascal

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due tempi

di Tullio Kezich

dal romanzo di Luigi Pirandello

Giulio Einaudi Editore - Torino 1975

PERSONAGGI

Io, Mattia Pascal

Silvia Caporale

Adriana Paleari

Anselmo Paleari

Pepita Pantogada

Terenzio Papiano

Pinzone

Oliva Malagna

Romilda Pescatore

Don Eligio Pellegrinotto

Il signor Romitelli

La vedova Pescatore

Mino Pomino

Berto Pascal

Batta Malagna

Don Antonio Pantogada

Lo svizzero

Il giovane pallido

Il croupier

Il capostazione

Primo cliente

Secondo cliente

L'avvocatino

L'ubriaco

La prostituta

Primo teppista

Secondo teppista

Primo carabiniere

Secondo carabiniere

Viaggiatori, giocatori, passanti

Il fu Matita Pascal di Tullio Kezich, dal romanzo di Luigi Pirandello, è andato in scena per la prima volta l'8 novembre 1974 al Tea­tro Duse di Genova, nell'allestimento del Teatro Stabile diretto da Ivo Chiesa e Luigi Squarzina. Protagonista: Giorgio Albertazzi. Sce­ne e costumi: Gianfranco Padovani. Musiche: Doriano Saracino. Re­gia: Luigi Squarzina.


PRIMO TEMPO

Da una parte all'altra, nel buio, inquietanti arpeggi di chitarra. Al centro un improvviso suono di sonagli. Poi la voce di una donna che guaisce rabbiosamente co­me un cane alla catena. In fondo si delinea un lenzuolo bianco, che comincia a riverberare luci fosforiche da fuoco fatuo. E mentre il lenzuolo si gonfia come una ve­la, la luce biancastra che ne emana permette di intrave­dere il tavolo della seduta spiritica e le persone sedute intorno: la signorina Caporale al centro, sotto il lenzuo­lo, e poi, nel senso dell'orologio, io, la signorina Adriana, il signor Anselmo Paleari, la signorina Pepita, il signor Terenzio Papiano... Tutti personaggi che adesso non c'entrano, arriveranno più tardi, li conosceremo meglio al momento opportuno. Appena riuscirò a dare un po' di ordine a questi sogni, a queste fantasticherie, a questo affollarsi di ricordi e di supposizioni. La Caporale si lamenta in modo straziante, Pepita ride istericamente tra divertita e allarmata, Paleari zittisce ansioso, io mi protendo sempre più verso Adriana il cui volto adesso brilla nell'oscurità... Ma subito un gran colpo, un colpo formidabile viene vi­brato sul tavolo. Tutti si alzano, gridano, corrono di qua e di là trascinandosi dietro le sedie e rovesciandone qualcuna. Anche il lenzuolo viene tirato giù, io mi ritrovo al centro del carosello con la benda sull'occhio destro. Perché la benda ora? Me la tolgo immediatamente, qua­si strappandola.

Io               No, la benda ora no! Che c'entra tutto questo? Que­sto viene dopo... Adriana! Signorina Caporale! Pepita!

Adriana    Mattia!

Caporale         Mattia!

Pepita         Mattia Pascal!

Sento che mi chiamano, ma non riesco a vederle bene.

Io               No, no. Questo viene prima! Non siete voi, sono le serve che mi chiamavano bambino nella grande casa di mia madre... Quando mi perdevo nel buio, in un labi­rinto di stanze vuote...

Pepita         Mattia!

Adriana    Mattia!

Caporale         Mattia Pascal!

Io               È la mamma, rimasta sola dopo la morte del babbo, che mi cerca, mi fa chiamare dalle serve per stringermi a sé, per coccolarmi... Vengo, mamma, sono qui...

Caporale         Mattia!

Pepita         Mattia!

Adriana    Mattia Pascal!

Dal groviglio di personaggi ancora informi o inespres­si che si agita sul fondo emerge Pinzone, precettore alto e magrissimo. Mi taglia all'improvviso la strada, apo­strofandomi in versi.

Pinzone

Alto là! Giovanetto, presta orecchio

a chi ti insegna a vivere giocando.

Contempla la tua imago nello specchio

poiché alla Musa vai sacrificando.

Mi trascina davanti a uno specchio immaginario.

Io               Pinzone! Il mio precettore! Tutti quei versi che tira­va fuori... Niente scuole per Mattia Pascal, solo gli in­segnamenti di Pinzone. Ma sì, la vita è un gioco, un enimma, una sciarada...

Pinzone

Impara a mente i canti burchielleschi,

all'estro maccaronico ti affida:

perfino pellegrin fra le ossa e i teschi

farai brillare l'oro di re Mida!

Io               Sì, signor maestro, sì. Ma adesso mi faccia tornare dal­la mamma...

Pinzone

Dottissimo in bisticci fidenziani

in enimmi e in versicoli contorti

sfidar potrai i tipi più balzani

facendo scompisciare i vivi e i morti.

Orsù, Mattia, ripeti con fervore:

In cuor di donna quanto dura amore?

L'ultimo verso me l'ha sussurrato perché io lo ripeta gridando.

Io               In cuor di donna quanto dura amore?

È Oliva che fa l'eco, la futura madre di mio figlio.

Oliva          ...ore!... ore!... ore!

Pinzone, soddisfatto, mi fa cenno di continuare.

Io               Ed ella non mi amò quant'io l'amai?

L'eco, questa volta, viene da Romilda, la mia futura mo­glie.

Romilda    ...mai!... mai!... mai!

Continuo a ripetere il gioco di Pinzone.

Io               Del vero amore non mi sono accorto?                  

Risponde Adriana, il mio vero amore.                          

Adriana    ... corto!... corto!... corto!

Soddisfatto, Pinzone mi abbraccia e scandisce in coro con me l'ultima domanda.

Io e

Pinzone      Or chi sei tu che sì ti lagni meco?

Adesso l'eco la fanno tutti i personaggi, presenti e fu­turi, in un susseguirsi di invocazioni che mi costringono a correre da una parte all'altra.

Tutti          ...eco!... eco!... eco!

Dall'alto della sua scala da lampionaio, dov'è intento co­me sempre a sistemare i libri della biblioteca, don Eli­gio Pellegrinotto mi ha lanciato un volume, armato del quale inseguo l'eco menando inutilmente grandi colpi nel buio in direzione di personaggi, figure, forme che spariscono come davanti a uno scongiuro. Finalmente, tac, mi pare proprio di aver inchiodato qualcosa al tavo­lone di centro.

Io               Eccolo, eccolo, eccolo! L'ho preso, don Eligio, l'ho preso! Questo era un ragno di una specie rara: acrosoma horrida. Ma sarà vero che ammazzare i ragni porta ma­le?

Don Eligio, sempre sulla scala, allarga le braccia per­plesso. Siamo e resteremo per sempre nella chiesetta fuori mano di Santa Maria Liberale, non so per quale ragione sconsacrata e adibita a ospitare i libri della bi­blioteca che un certo monsignor Boccamazza nel 1803, esattamente un secolo fa, volle lasciare al nostro comu­ne di Miragno. Io ne sono il bibliotecario, anche se chi lavora è soltanto don Eligio. Ho trent'anni o poco più e una gran barba rossiccia.

Io               Sa cosa le dico, caro don Eligio? Mi pare di essere or­mai al di là del malocchio. In fin dei conti io sono mor­to, per il momento, già due volte... La prima per erro­re e la seconda... Mah.

Mi viene da ridere.                                    

Una volta, quando qualcuno dei miei amici o cono­scenti dimostrava di aver perduto il senno fino al pun­to di venirmi a chiedere un consiglio, o un suggerimen­to, io mi stringevo nelle spalle e gli rispondevo: «Io mi chiamo Mattia Pascal». «Grazie, caro, questo lo so» fa­ceva l'altro. E io: «E ti par poco?»... Non pareva mol­to, per la verità, neanche a me. Ma adesso?...

Don Eligio è sceso dalla scala, riprende il libro che mi ha gettato e me lo porge.

Eh, lo so che i libri lei non me li butta per dar la caccia ai ragni, amico mio. Lei pensa: stiamo in una bibliote­ca, che è anche un ex luogo di culto, la chiesa sconsa­crata di Santa Maria Liberale. Anche se dei nostri con­cittadini non ne viene mai uno a chiedere libri, stiamo in mezzo alla cultura, approfittiamone. E vorrebbe che io povero guardiano di libri, passassi il tempo a leggere, proprio come faceva il bibliotecario mio predecessore, il signor Romitelli. Se lo ricorda? Era sordo, cieco, rim­becillito e non si reggeva diritto. Eppure ogni mattina me lo vedevo spuntare a quattro piedi, compresi i due bastoni, uno per mano...

Appare il signor Romitelli, un vecchietto cadente, reg­gendosi su due bastoni.

... Tac... tac, tac... Poi si siede là, apre il cassetto del ta­volino, ne tira fuori quel vecchio libraccio, il Diziona­rio storico dei musicisti, artisti e amatori morti e viven­ti e si mette a leggere forte.

Romitelli    «Birnbaum Giovanni Abramo... Birnbaum Giovanni Abramo fece stampare... Birnbaum Giovanni Abramo fece stampare a Lipsia nel 1738... A Lipsia nel 1738... Un opuscolo in ottavo... In ottavo...»

Io               Ma cosa può importare, mi chiedo io, a un uomo nel suo stato, a due passi dalla morte (morì, infatti, morì quattro mesi dopo la mia nomina a bibliotecario), che cosa può importargli che Birnbaum Giovanni Abramo abbia fatto stampare a Lipsia nel 1738 un opuscolo in ottavo...?

Romitelli         In ottavo...

Io               Che se ne faceva di queste date, di queste notizie di musicisti? Era anche sordo!

Romitelli si alza, mi scruta come se mi vedesse per la prima volta, mi consegna il libro e sparisce nel buio ap­poggiandosi ai suoi bastoni. Metto giù il libro con de­cisione.

Io               Eh, no, signor Romitelli. No, don Eligio mio. Non mi pare più tempo, questo, di legger libri, e tanto meno di scriverne. Soprattutto se lei mi dice che il mio libro, il libro dei miei ricordi, dovrebbe essere condotto sul mo­dello di questi che lei va scovando qui...

Leggo.

«...il signor conte si levò per tempo, alle ore otto e mezzo precise... La signora contessa indossò un abito viola con una ricca fioritura di merletti alla gola...» Ma le pare possibile?

Don Eligio sembra perplesso.

Anche per la letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: maledetto sia Copernico. Perché quando la terra non girava...

Don Eligio ha un gesto di impazienza e mi volta le spal­le, tornando sulla sua scala ad armeggiare fra gli scaffali.

Non girava, non girava. E se girava, l'uomo non lo sa­peva e dunque era come se non girasse. Insomma quan­do la terra non girava e l'uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che si potessero legge­re o ascoltare o perfino scrivere storie di noialtri esseri umani, piene di minuti particolari. Ogni individuo era importante o poteva credersi tale. Ma quel Copernico, don Eligio, ci ha levato di colpo tutte le illusioni. Dal giorno della sua bella scoperta, eccoci qui a girare su un invisibile trottolino, cui fa da ferza un filo di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira senza sa­pere perché, senza pervenire mai destino, come se ci pro­vasse gusto a girare cosi per farci sentire ora un po' di caldo, ora un po' di freddo e per farci morire, spesso con la coscienza di aver commesso una sequela di sciocchezze, dopo cinquanta o sessanta giri. Che cosa siamo ormai nell'universo? Niente, meno che niente. Storie di vermucci, ormai, le nostre. Prima di Copernico, allo­ra sì, il fu Mattia Pascal si sarebbe potuto sfogare rac­contando la sua storia, scrivendola, magari... Come dice la gente? La mia vita è un romanzo. Ma ora come si fa? Star soli bisognerebbe. Lavorare con le mani. E non pen­sare a niente. Perché appena uno pensa, non è più solo.

Infatti sul fondo torna ad animarsi il solito informe groviglio.

Ho letto proprio ieri in un libro - ci casco anch'io, ve­de? - che i nostri pensieri e i nostri desideri si incorpo­rano in una essenza plastica, nel mondo invisibile che ci circonda, e subito vi si modellano in forme di esseri viventi. E questi esseri appena formati non sono sotto il dominio di chi, pensandoli, li ha generati, ma godono di una vita propria... Spesso labilissima, momentanea: una bolla di sapone. Ma a volte, invece, un pensiero che si ripete spesso o un desiderio vivo e costante formano un essere che può anche durare parecchi giorni... Così finiamo per essere legati, dal pensiero, a dei compagni invisibili e indesiderati che rappresentano per noi inin­terrottamente la commedia del nostro passato...

La scena è tornata ad animarsi dei vari personaggi del paese che puntualmente intervengono nei monologhi che faccio dialogando con don Eligio: Oliva, Romilda, la vedova Pescatore, Mino Pomino, mio fratello Berto...

Manca qualcuno... qualcuno di dopo, sì... ma senza il quale non possiamo, qui...

Riappare Anselmo Paleari, un vecchio di sessant'anni, in mutande di tela, con i piedi scalzi entro un paio di ciabatte, nudo il torso roseo, ciccioso, senza un pelo, con un turbante di schiuma in capo, una mano insapo­nata e l'altra che regge un manifestino.

Paleari       La tragedia di Oreste in un teatrino di mario­nette!

Io               Come?

Paleari       Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti numero 54. Sarebbe da andarci.

Io               La tragedia di Oreste?

Paleari       Di Sofocle dice il manifestino. Sarà l'Elettra.

Io               Abbia pazienza, signor Anselmo. Qui tutt'al più pos­siamo rivivere un'altra tragedia. O una tragicommedia, via.

Paleari dà un'occhiata critica agli altri personaggi.

Paleari       Non sarà per caso una farsa?

Io               In tutti i modi, guardi, lei entra più tardi. Fa parte di un altro capitolo.

Lo avvio cortesemente a ritirarsi.

Paleari       Come preferisce.

Io               Per cominciare avremmo bisogno di Batta Malagna.

Don Eligio mi fa cenno di tacere. Indica un punto del pavimento e resta immobile in ascolto. Anch'io ascolto in silenzio, poi annuisco a don Eligio e lo assecondo nel gioco.

Io               Che sia lui?... Ha ragione, don Eligio, è proprio lui.

Don Eligio si sposta rapidamente da un'altra parte, in­dica un altro punto, resta in ascolto. Lo seguo, annuisco ancora.

Scava, scava... Lo sente il vuoto? È lui... È lui... Quello che ci scava la terra di sotto i piedi... La talpa, come lo chiamava zia Scolastica... la talpa!

Seguendo quel rodere immaginario arriva alla talpa in persona, Batta Malagna: piccolo, tozzo, panciuto, con i baffi e il pizzo, e indossa un paio di pantaloni che gli ca­dono larghi come una veste.

Malagna         Abbiamo avuto un'altra bella bussata.

Io               Lo so a memoria il ritornello, signor amministratore.

Malagna    La nebbia ha distrutto sul nascere le olive a Due Riviere, la filossera s'è abbattuta sui vigneti dello Sperone.

Io               Ci resta il podere della Stia col mulino.

Malagna    Tutto ipotecato. Vi siete mangiati tutto, tu e tua madre.

Io               Ma com'è possibile? Mio padre ci ha lasciato una for­tuna in terre, in case... Prima di morire giurò alla mam­ma che non avremmo mai avuto preoccupazioni di dena­ro. E lei, poverina, è vissuta in questa convinzione.

Malagna    Farina del diavolo! Lo saprai, non è vero, co­me nacque la fortuna di tuo padre?

Io               Commerci marittimi.                                        

Malagna    Fece una gran vincita giocando a carte, altro­ché. Fu a Marsiglia, con il capitano di un vapore mer­cantile inglese.

Io               Chiacchiere di paese.

Malagna         Voce di popolo. Tuo padre tornò a Mirano ricco, ma quel capitano inglese non tornò più a Liverpool: per la disperazione si annegò in mare.

Io               Anche se fosse vero, voi da mio padre non avete avu­to che benefici. L'ho saputo da mia madre che il babbo, povero illuso, vi stimava una persona onesta.

Malagna    Perciò mi ha lasciato la cura dei vostri affari e io ho sempre fatto del mio meglio...

Io               Per scavarci la terra sotto i piedi, per divorare tutto ciò che potevate... Talpa!

Malagna    La colpa del disastro è tua: sei stato sempre un fannullone.

Io               Io lavoro! Sono bibliotecario alla Boccamazza!

Malagna    Due lire al giorno. Un tozzo di pane che il Co­mune ti ha passato per via di raccomandazioni. Almeno tuo fratello si è salvato con un buon matrimonio.

Vagamente interessato, poiché si parla di lui, Berto si avvicina: bello, elegante e un po' annoiato come sem­pre.

Io               Non starlo a sentire, Berto. Un tipo come questo non crede all'amore, pensa che ci si sposi solo per scavare cunicoli da talpa nella fortuna della moglie.

Berto alza le spalle e si accende una sigaretta.

Berto         Per me può dire quello che vuole. Gente invidio­sa, paesani.

Io               Beato te che sei fuori, ormai, dalle chiacchiere di Miragno. Ti sei trasferito altrove, hai la tua vita... E la mamma da mantenere l'hai lasciata a me...

Malagna    Il nostro Berto è a posto, sistemato: ha la mo­glie con il pedigré. Tu invece, Mattia,...

Io               Io invece... Bisognerà pure che ne parli, eh, don Eli­gio, del mio matrimonio.

Don Eligio fa un gesto allarmato.

Pulitamente, già... Ma come si fa a parlarne pulitamen­te. Voi sapete bene che...

Malagna   Tu fai piangere i sassi.

Io               Se sono ridotto in queste condizioni è perché voi mi avete derubato giorno per giorno. Credete che non sap­pia chi è adesso, dietro a un prestanome, il vero padro­ne dei beni miei e di mia madre? Siete voi, Batta Malagna, che vi siete messo d'accordo con gli strozzini!

Malagna    Le prove! Ti sfido a trovarne una, la più pic­cola!

Io               E come si fa, con un artista del furto? Un ladro più ladro di voi non nascerà più sulla faccia della terra!

Malagna         È il modo di parlare fra parenti?

Io               Il nostro sangue si intreccia per vie che mi ripugnano al solo pensarci.

Oliva          Ti pare bello quello che dici?                          

Mi rivolgo a Oliva, ancora florida del suo aspetto di bel­lezza campagnola, giovane, fresca.

Io               Ma tu, Oliva, come hai fatto a sposarlo? Vedovo, vec­chio, ripugnante... Ne parlavamo insieme ridendo, ti ri­cordi?

Oliva          Venivi tutti i giorni alla fattoria delle Due Riviere.

Io               Dove tu vivevi con i tuoi, e mia madre poveretta cre­deva che io stessi per mettere giudizio e prender gusto ai lavori della campagna... Diceva a mia zia Scolastica: «Mattia va tutti i giorni a Due Riviere per il raccolto delle olive». E la zia le rispondeva...

Oliva          «Di un'Oliva, di un'Oliva sola»!

Io               Due ciliegie le labbra e che denti... Ma da quelle lab­bra neppure un bacio. Un bacio!

Oliva ride, Malagna la prende per il braccio quasi trat­tenendola.

Malagna   Ti proibisco di parlare e ridere con lui.

Io               E invece l'unica Oliva delle Due Riviere la raccoglie­ste voi, Batta Malagna. O dovrei dire che la compraste a suon di quattrini?

Oliva smette di ridere e mi volta le spalle.

Però, figli niente. Eh, Batta? Quelli non si possono com­perare. E neanche rubare. Oppure sì? Ma intanto, con la moglie che non vi dava l'erede, in casa c'era una sce­nata al giorno.

Malagna   Niente?

Oliva          Niente.

Malagna    Mi hai ingannato con la tua aria di ragazza sa­na, vissuta sempre all'aria aperta! Una macchina perfet­ta per far figli ti avevo giudicata! Se l'avessi saputo non ti avrei innalzata fino a questo posto, già tenuto da una vera signora...

Io               ... alla cui memoria non avrei mai dovuto fare un tale affronto. Anche questo ve l'ho sentito ripetere cento volte.

Oliva si rivolge a me per cercare conforto.

Oliva          È successo in più di un caso di aver figlioli anche dopo dieci o quindici anni dal giorno delle nozze.

Io               Quindici anni? Ma quanti ne avrà, allora, il tuo spo­sino? Duecento?

Malagna sbuffa e si allontana seccato. Va a confabulare con la vedova Pescatore.

Non ti è mai venuto il sospetto che tra lui e te, come dire?, la mancanza possa essere più sua che tua?

Oliva          Anche se la colpa è sua, mio marito non lo am­metterà mai. Io non potrò mai dimostrarlo e cosi lui continuerà a maltrattarmi per tutta la vita.

Io               Si fa presto a fare la prova, se puoi avere figli o no... Basta che tu dica una parola, Oliva, e io...

Oliva          La parola è no.

Io               Pensaci, Oliva.

Oliva          Ho detto no.

Io               Troppo onesta. Di un'onestà incrollabile. Si è vendu­ta, ma non si concede.

L'ho detto al mio amico Gerolamo Pomino, detto Mino in uno dei tanti pomeriggi passati al caffè ad ammazzare il tempo e a parlar di donne. C'è anche mio fratello Berto.

Berto         Ih! Come la fate lunga a sofisticare sulle femmi­ne... Se ci stanno, se non ci stanno... Ma basta fare così...

Schiocca le dita.

... e le femmine arrivano.

Pomino       Sarebbe proprio bella, Berto. Uno fa così...

Tenta di schioccare le dita, ma non ci riesce.

Ma come fai, sangue di Bacco?

Berto         È tanto semplice...

Schiocca le dita. In quel momento passa Pepita e gli sor­ride. Berto si alza, le si affianca e si allontana con lei.

Pomino       Roba da chiodi. Lui risolve tutto facendo così... Tenta ancora, invano, di schioccare le dita.

Insomma, come fa lui... E intanto io... Senti. Ho biso­gno di un consiglio.

Io               Da me?

Pomino       Sì. Se mi sei amico mi devi aiutare.

Io mi stringo nelle spalle.                                        

Io                Io mi chiamo Mattia Pascal.                                     

Pomino       Grazie, caro. Questo lo so.

Io               E ti par poco?

Pomino       Non scherzare. Io divento matto per una ragaz­za, e non riesco neppure a parlarle.

Io               Chi è? La conosco?

Pomino       È la figlia di una cugina di Batta Malagna, il tuo amministratore. Si chiama Romilda Pescatore.

Io               La figlia della vedova?

Pomino       Io l'amo, l'amo, l'amo, l'amo, l'amo. Ma come faccio a dirglielo?

Io               Così, come lo dici a me. Sei seducentissimo.

Pomino       Ti pare?

Io               Commuoveresti Lazzaro nella tomba.

Pomino       Per ora ho commosso la serva. Mi ha detto che le due Pescatore, madre e figlia, han sempre lì per casa Batta Malagna e che cosi, all'aria, le sembra che lui me­diti qualche brutto tiro, d'accordo con la cugina che è una vecchia strega.

Anche don Eligio, interessato, è venuto a sentire di che si tratta.

Io               Che tiro?

Pomino       Mah, la serva dice che Malagna va lì a piangere di non aver figli. La vedova Pescatore, dura, arcigna, gli risponde che gli sta bene. Pare che questo diavolo di donna, alla morte della prima moglie di Malagna, si fos­se messa in capo di fargli sposare Romilda.

Io               E adesso vorrebbe?...

Pomino       Adesso Malagna si dichiara pentito e la strega, dopo averne dette di tutti i colori al suo indirizzo, lo riceve affabilmente e fa in modo da lasciarlo spesso solo con la nipote...

Io               Ah, vecchio satiro... Mi viene una gran tentazione di rompergli le uova nel paniere. Pomino, tu sei nato con la camicia: di questa faccenda me ne occupo io.

Pomino       Sì, però mi raccomando la ragazza. Per me è una cosa di destino. Io l'amo, l'amo, l'amo...

Io               Ho capito. E io farò di tutto per spianarti la strada.

Mi rivolgo a don Eligio.

Mi serve però una scusa, un pretesto qualsiasi.

Don Eligio consulta un incartamento e mi porge una cambiale.

Io               Perché no? Una scadenza urgentissima, certo. Baste­rà simulare una grande agitazione...

Con la cambiale in mano, mi metto a correre su e giù per farmi venire il fiato grosso. Cosi, tutto accaldato e in sudore, piombo nel salotto buono della vedova Pescatore, fra le incisioni nere e un po' lugubri del suo defun­to marito, in un'atmosfera di lutto protratto. Natural­mente Batta Malagna è là, in visita.

Io               Malagna! La cambiale!

Rimango di sasso di fronte a Romilda, che è una splen­dida figliola con due occhi notturni, tra due bande di capelli neri come l'ebano, ondulati, che le scendono sul­la fronte e sulle tempie quasi a far meglio risaltare la viva bianchezza della pelle.

Malagna         Che cambiale?

Io               La cambiale che scade oggi. Mi manda la mamma, che sta tanto in pensiero.

Consegno la cambiale a Malagna senza stornare lo sguar­do da Romilda. Malagna dà un'occhiata all'effetto...

Malagna    Ma fatto! Tutto fatto! Perbacco, che sopras­salto! L'ho rinnovata a tre mesi, pagando i frutti s'in­tende. Ti sei davvero fatta tutta questa corsa per così poco?

E ride facendo sobbalzare il pancione. Poi mi presenta alle donne.

Mattia Pascal. Marianna Dondi, mia cugina.

Pescatore        Vedova Pescatore.

Malagna         Romilda Pescatore, la mia nipotina. Vuoi un vermouth? Un rosolio?

Io               Un vermouth, grazie.

Malagna         Prendi il rosolio che è meglio.

Fa un cenno a Romilda, come se fosse in casa propria, e la ragazza va a prendere la rosoliera e i bicchierini. Più a bassa voce, Malagna mi illustra la situazione delle Pescatore.

Povere donne, come vedi. Campano con una rendituccia di quarantadue lire mensili. Ma «casa modesta, casa onesta» dice il proverbio.

Io               Veramente questo proverbio io non l'ho mai sentito.

Malagna    Ultimamente le ho aiutate un poco. Qualche mobiluccio. Qualche po' di denaro. Il sangue non è ac­qua. E io ho un cuore, Mattia, grande così...

Fa un gesto spropositato con le mani.

Io               Grande come, scusate?

Sull'occhiata insospettita di Malagna, rientra Romilda con una rosoliera nuovissima: un elefante inargentato, con una botte di vetro sul groppone e tanti bicchierini appesi tutti intorno che tintinnano.

Malagna    Te l'avevo detto di prendere il rosolio. Guarda che rosoliera. Un regalo mio.

Prendiamo il rosolio. Malagna, che si mangia Romilda con gli occhi, non resiste a sussurrarmi un commento.

Che ne dici? Bella, eh, bella?

Io               La rosoliera?

Malagna         La ragazza! Romilda!

Io               Non somiglia affatto alla madre.

Malagna         Questo è il ritratto del padre, eseguito con le proprie mani davanti allo specchio. Francesco Antonio Pescatore, valentissimo incisore, era mio cugino. In fa­miglia abbiamo anche una vena artistica. È morto pazzo a Torino.

Io               Beh, la ragazza non somiglia neppure al pazzo.

Devo commentare questo strano fatto con don Eligio.

Così bella, che sia figlia di un altro? Ma come immagi­nare un uomo, e per giunta bello, capace di essersi in­namorato di quella là?

Indico la vedova Pescatore.

Forse era un pazzo più pazzo del marito.                

Giro intorno a Romilda, ancora con il bicchierino del rosolio in mano.

Romilda    Spero che lei ritornerà a trovarci.

Io               (Ah, no! Non cominciamo! Io non c'entro! Io sono qui per parlare di Pomino e basta!)

Pescatore   Il signor Pascal non avrà certo tempo, con tutte le occupazioni che ha.

E mi strappa quasi il bicchierino vuoto di mano.

Malagna    Ah, ah, ah! Questa è buona! Se è il ministro degli affari inutili!

Io               Troverò, troverò il tempo... Fra un'occupazione e l'al­tra lo troverò...

Rassicuro Pomino.

Io               Sempre per conto tuo, naturalmente. Per parlarle di te. Potrei proporle una passeggiata sulle mie terre, fino al mulino alla gora della Stia...

Pomino       Allora ti è piaciuta?

Io               Della madre non ne parliamo. Ma la figlia, ci giurerei, è onesta oltre che bella. E noi due dobbiamo metterla al riparo, a ogni costo, dalle mire infami di Malagna.

Pomino       Noi due?

Io               Bisognerà prima accertare tante cose, andare in fondo, studiare bene. Capirai, non puoi mica prendere una ri­soluzione tanto grave sui due piedi.

Pomino       Tu dici forse... sposarla?

Io               Non dico nulla, io. Per adesso.

Pomino       Io l'amo, l'amo, l'amo, l'amo...

Io               Vedi? Tu sei nato marito come si nasce poeta.

Stiamo passeggiando, Romilda e io, ai bordi della gora della Stia, non lontano dal mulino. È venuto il momen­to per portare a fondo l'attacco: naturalmente, l'attac­co di Pomino.

È un bravissimo ragazzo, Mino Pomino, e certo farà strada. Uno dei migliori partiti del paese. Figlio del cavalier Gerolamo Pomino, assessore comunale. E poi è innamorato come un matto di questi occhi belli, di que­sto nasino, di questa bocca, di tutto... Di questa mano, che io vorrei baciare... Per conto di Pomino, s'intende.

Porto la sua mano alle labbra e la bacio forse troppo ap­passionatamente.

Romilda    Ma tu capisci quello che ci sta succedendo, Mattia?

Io               In qualche modo mi pare d'intuire... Ma come si fa? Bisogna essere prudenti.

Lei si alza sulle punte dei piedi e mi bacia sulla bocca. Che colpa ne ho io? Che cosa farebbe chiunque al mio posto? Mi godo il bacio, poi mi sottraggo alla stretta e faccio qualche passo.

Non precipitiamo le cose.

Romilda    Perché aspettare se ho scoperto che ti amo?

Io               Via, non è possibile! Amare me? Ma hai visto quest'occhio che tende a guardare per conto suo, da un'al­tra parte? E questa barbaccia rossa da orco, l'hai vista bene?

Romilda     Non scherzare, Mattia... Io sento che anche tu ti sei innamorato di me.

Io               E Pomino?

Romilda     Smettila con quell'imbecille di Pomino, non lo sposerò mai, neanche dipinto... È brutto, insipido... Dimmi invece quello che senti tu per me. Mi ami?

Forse è proprio così, forse l'amo.

Io               Ma sì, sì...

Romilda    E allora portami lontano, Mattia!

Io               Lontano dove?

Romilda     Lontano da casa mia, da mia madre... da quel­lo là.

Io               Vuoi dire lontano da Batta Malagna?

Romilda     Da tutti. Portami via, portami via. Ma subito, subito...

Io               Subito è una parola. Come si fa? C'è mia madre, tua madre, Pomino... Tanta di quella gente...

Romilda ha un sorriso strano, mi tende le braccia.

Romilda    Qui non c'è nessuno, Mattia.

Sì, Romilda, hai ragione tu. Tutto può essere così facile. Tu mi ami, io ti amo: facciamo l'amore. Quanto dura questo momento di felicità nelle fratte vicino alla gora della Stia? Mentre mi sciolgo dall'abbraccio di Romilda, in tempo per sorprenderci salta fuori Pomino.

Pomino       Giuda Iscariota! Caino! Iago! Gano di Maganza!

Ci resto male. Vorrei spiegargli, convincerlo della mia buona fede.

Io               Macché Gano di Maganza! Le cose fra me e lei, Mino, sono a un punto tale che non posso tirarmi indietro.

Pomino       Sei un uomo senza sentimenti.

Se ne va infuriato. Continuo a sfogarmi con don Eligio.

Io               Non è vero! Non solo ho compromesso Romilda, ma sono pazzo di lei. E mi figuro, momento per momento, di vederla apparire, poverina, a chiedermi di sposarla. E io? Debito di coscienza.

Ecco, infatti, Romilda.

Romilda     «Signor Mattia virgola la scongiuro virgola se lei è un gentiluomo virgola di non occuparsi più di me in alcun modo e di non venire più in casa mia punto sarà bene che noi non ci vediamo più punto distinta­mente e addio punto e a capo Romilda Pescatore».

Se ne va con passo deciso. Io la lettera l'ho levata di tasca.

Io               E come sarebbe? Io pronto, qua, a fare il mio dovere, a riparare ciò che in un attimo di follia sono stato tra­scinato a compiere... E lei? Distintamente e addio? Ma cosa le prende a quella là?

Oliva arriva piangendo, con un fagotto in mano.

Oliva          Mattia, sono la donna più infelice del mondo.

Io               Senti adesso quest'altra.

Oliva          Io torno dal mio babbo. La pace della mia casa è distrutta per sempre. Mio marito...

Io               Ebbene?

Oliva          È venuto trionfante ad annunciarmi che aspetta un figlio da un'altra donna.

Io               È impossibile, andiamo! Tuo marito non può avere figli. Nessuno lo sa meglio di te.

Oliva          Forse gliel'hanno fatto credere...

Io               Chi?

Oliva          Quelle due, madre e figlia.

Non capisco più niente: perché Romilda aveva detto di amarmi? Che cos'è successo dietro le mura di casa Pescatore?

Io               E che razza di porcheria è questa? Tu sai, allora, con chi s'è messo?

Oliva          Una nipote! E la madre, la madre è d'accordo!

Io               Lo dici a me? Distintamente e addio. Tieni, leggi.

Oliva prende la lettera, la guarda come stordita.

Leggi. La ragazza di cui sono innamorato mi dà il ben­servito dopo essere entrata nel letto di suo zio... Da' qui, te la leggo io.

Cerco di riprendere la lettera, ma Oliva se la stringe contro il seno.

Oliva          No! Non te la do più. Questa ora mi serve! Così tutti sapranno che sei tu il padre di quella creatura che deve nascere...

Io               E a cosa vuoi che serva? Vorresti mostrargliela? Ma in quella lettera non c'è una parola per cui Malagna po­trebbe non credere più a ciò che egli è invece felicissi­mo di credere. Te l'hanno accalappiato bene, tuo mari­to, la vedova Pescatore e l'ingenua Romilda, degna figlia di sua madre. A meno che...

Oliva          Cosa posso fare?

Rido, acre.

Io               Devi dirgli che ti sei sbagliata. Devi dirgli di sì, che è vero, verissimo che lui può avere figli... Fagliene uno anche tu.

Oliva          Ma non vengono...

Io               Ho detto che devi fargli un figlio, Oliva, non che de­vi farlo con lui...

Mentre guido Oliva verso un angolo buio, come per ap­partarmi con lei, don Eligio crolla il capo un po' scanda­lizzato.

Prima per infatuazione e adesso per rabbia, la parte che mi tocca è sempre la stessa. Non spiacevole, certo. Mi scusi, don Eligio, di queste cose, lo so, bisognerebbe par­lare in maniera più velata. O non parlarne affatto, come in quel lungo mese mentre passeggiavo da solo assapo­rando la mia vendetta...

Malagna schiaffeggia duramente Oliva.

Malagna         Puttana! Bagascia!

Io               Ma perché? Adesso che la moglie gli dà un figlio...?

Malagna si rivolge a me.

Malagna         Esigo subito una riparazione.

Io               Da me? Cosa c'è da riparare? Che torto vi avrei fatto?

Malagna         Io ti voglio vedere in chiesa.

Io               In chiesa? A fare che?

Malagna         A sposare quella che tu hai disonorato, rovi­nato.

Guardo Oliva, interdetto.

Io               Sposare? Ma come sarebbe? E chi dovrei sposare?

Oliva ha digerito gli schiaffi, ma sa ormai di aver vinto. È entrata nel gioco e mi sorride ambiguamente.

Malagna         La povera orfana che tu hai sedotto: mia ni­pote Romilda.

Io               Veramente io ho ricevuto una lettera...

Malagna   Ah, si? Quale lettera?

Guardo speranzoso verso Oliva, che strappa la lettera e se ne va.

Tu fai troppo il furbo, Mattia Pascal. Tu t'impicci di troppe cose. Sei uno di quegli uccelli che fanno il nido non importa dove... Ma adesso Romilda te la sposi.

Io               Dopo che ha fatto quello che ha fatto?

Malagna    La ragazza non ha fatto altro che confidarsi con la madre e la madre ha avuto il buon senso di lasciarla sola con me.

Tento di spiegare l'intrigo a don Eligio.

Io               Voleva cogliere al volo l'occasione, la vedova Pescatore. Per questo non aveva impedito le mie passeggiate in campagna con Romilda. E ora, dal colloquio privato con la nipotina, lo zio sarebbe uscito padre! Più sporca di così!

Malagna    Ma cosa stai pensando? Appena fummo soli Romilda scoppiò in lacrime e mi raccontò tutto.

Io               Anche ciò che la madre pretendeva da lei?

Malagna    Insomma io ho avuto pietà di quella ragazza. E potevo ben capire che la madre non volesse vederla sposata con te, un buono a nulla, uno scioperato. E sic­come io ho un cuore grande cosi, ho detto: Iddio non mi ha dato figlioli, vuol dire che questa creaturina quan­do nascerà la terrò come se fosse mia.

Io               Si può essere, mi domando, più onesti di così? Tutto ciò che ha rubato al padre, lo avrebbe restituito al figlio nascituro.

Malagna    E invece Iddio mi ha voluto dare la consola­zione di avere un figlio legittimo, io, da mia moglie. Un figlio inaspettato, ma mio. Nato dentro casa mia e dun­que mio. Così tu, Mattia, ti sposi la ragazza che hai se­dotto.

Io               Questo levatevelo dalla testa!

Malagna    C'è il codice penale, Romilda è minorenne. Vuoi andare in chiesa accompagnato dai carabinieri? Vuoi spezzare il cuore alla tua povera mamma? No, caro, non hai via d'uscita. Gusterai anche tu le gioie del matrimonio.

Ho capito la trappola in cui mi ha cacciato Batta Malagna e mi avvento contro di lui, quando si ripresenta il signor Anselmo Paleari.

Paleari       È tanto occupato lei qui? Davvero non pensa di venire con me a vedere le marionette? La tragedia di Oreste.

Io               Ho altro per l'anima, mi scusi, che le marionette. Non vede che sono sul punto di commettere uno sproposito? Costui, Batta Malagna se lo merita! Voleva soltanto un figlio... Era pronto a rubarmi quello di Romilda, in­sieme con la madre, comprando l'uno dentro l'altra... Così tutto quello che aveva rubato al padre lo avrebbe restituito al figlio nascituro. Ora che colpa ne ha lui, poveretto, se io ingrato e sconoscente gli ho guastato le uova nel paniere procurandogli un secondo figlio, legit­timo. Ma due sono troppi anche per un assetato di pa­ternità come Malagna. Due no! Eh, due no, perbacco!... E io che sentivo un debito di coscienza!

Rifaccio il gesto di scagliarmi su Malagna, ma già con minore convinzione.

Paleari       È la coscienza che ci rende vili. Senta un po', a proposito, la bizzarria che mi è venuta in mente. Se nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste sta per vendicare la morte del padre sopra gli assassini, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.

Io               Non so proprio.

Paleari       Lei non pensa che Oreste rimarrebbe terribil­mente sconcertato da quel buco in cielo?

Io               E perché?

Paleari       Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gli im­pulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa pas­sione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di cattivi influssi pe­netrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le brac­cia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto.

Io               Oreste diventerebbe Amleto?                                 

Paleari       Tutta la differenza fra la tragedia antica e la mo­derna consiste in ciò, creda a me: in un buco nel cielo di carta.

Don Eligio è rimasto tanto colpito dalle parole del si­gnor Anselmo che, con mia grande meraviglia, è anda­to a prendere la sua scala, ci è salito fino in cima e ha fatto un bello strappo nel cielo della scena: in modo che da ora in poi mi vedrà piovere addosso una luce di­versa. Il ragionamento di Paleari mi ha definitivamente smontato.

Io               Eh, già. Beate le marionette sulle cui teste di le­gno il finto cielo si conserva senza strappi. Niente per­plessità angosciose, per loro. Possono attendere con gu­sto alla loro commedia. Di quel buco in cielo, non si accorgono proprio. Ma io...

Sono già nel mio inferno domestico, dove si fa avanti la vedova Pescatore. Dietro a lei Romilda è già spetti­nata e ciabattona come una moglie incinta, che non si cura più di piacere al marito.

Pescatore Che hai concluso? Non ti era bastato di es­serti introdotto in casa mia come un ladro per rovinar­mi la figliola? Non t'era bastato?

Io               Eh, no, cara suocera. Perché se mi fossi arrestato lì, vi avrei fatto un piacere, reso un servizio.

Pescatore Lo senti, Romilda? Osa vantarsi della bella prodezza che è andato a commettere con quella puttana di Oliva Malagna! Ma che hai concluso? Non hai abban­donato anche tuo figlio così? Tuo figlio, che porterà il nome di un altro?

Io               E voi non avete cacciato via mia madre, che poverina, derubata di tutto, era stata costretta a venire a vivere qui con noi?

Pescatore  Certo, via! Fuori tua madre e fuori anche tu!

Io               Vedo che vi brucia di avere liete notizie del figlio che deve nascere a Oliva, tra gli agi e in allegria. Mentre quello della vostra preziosa Romilda, che doveva essere l'erede della fortuna di Batta Malagna, nascerà nell'in­certezza del domani, nell'angustia di questa casa dove tutti ci odiamo dal giorno delle nozze.

Pescatore Io ti odio, sì. Perché sei la rovina mia e di mia figlia.

Io               Voleva viaggiare in carrozza, la vedova Pescatore; e adesso invece, vede minacciata la sua rendituccia di quarantadue lire mensili dall'appetito del genero... Cos'è che si mangia oggi?

Romilda    Ma stai zitto, Mattia, stai zitto, per carità!

Io               Stai zitta tu. Se penso in quanti modi ti ho vista: co­me una vittima, da principio. Poi come una sgualdrina. Adesso non so.

Romilda    Non puoi vedermi come tua moglie?

Io               Se penso che per un attimo ho creduto alla tua since­rità: portami via, portami via subito...

Romilda     Io ero sincera. Sarei fuggita con te, subito... Perché non l'hai voluto?

Io               E allora la colpa di tutto sarebbe mia?

Romilda     Non parliamone più. Cerchiamo di vivere la no­stra vita.

Io               Qui dentro? In questa casa, sotto lo sguardo benedi­cente di mammà, in mezzo a questi mobilucci, alla roso­liera? Lasciamo stare, pensa piuttosto a dare alla luce il frutto del nostro amore... Nostro figlio.

Sono rimasto solo con don Eligio.

E furono invece due bambine, gemelle... Mi pare di ve­derle ancora, lì nella cuna, l'una accanto all'altra. Si sgraffiavano fra loro con quelle manine cosi gracili eppur quasi artigliate da un selvaggio istinto che incuteva ribrezzo e pietà... Una mi mori pochi giorni dopo, l'altra volle darmi il tempo di affezionarmi a lei, con tutto l'ar­dore di un padre che, non avendo più altro, faccia della propria creaturina lo scopo unico della vita. Volle avere la crudeltà di morirmi quando aveva già un anno, e s'e­ra fatta tanto bellina, tanto, con quei riccioli d'oro che mi avvolgevo attorno alle dita. Mi chiamava «papà» e io le rispondevo subito: «Figlia»; e lei di nuovo: «Pa­pà»... Così, senza ragione, come si chiamano gli uccelli tra loro...

Don Eligio mi mette affettuosamente una mano sulla spalla.

Mi morì contemporaneamente alla mamma mia, nello stesso giorno e quasi alla stessa ora. Non sapevo più co­me spartire la mia pena. Lasciavo la piccina che ripo­sava e scappavo dalla mamma, che non si curava di sé, della sua morte, e mi domandava di lei, della nipotina... Durò nove giorni questo strazio. Quando tutto fu finito io non sentii dolore, no, sul momento: mi addormen­tai. Sicuro. Dovetti prima dormire. Poi, si, quando mi destai il dolore mi assalì rabbioso, feroce... e fui quasi per impazzire. Vagai un'intera notte per il paese e per le campagne... Non so con che idee per la mente: e qualcuno mi vide, nel podere della Stia, presso alla go­ra del mulino... un mugnaio, e disse poi che avevo tutta l'aria di uno che vuol buttarcisi dentro.

Tiro fuori dalla tasca un biglietto appallottolato da cin­quecento lire e glielo mostro.

Cinquecento lire! Me le mandò mio fratello come per pagarmi le lacrime.                             

Riappaiono minacciose Romilda e la vedova Pescatore.

Sì, ci sarà stata una delle infernali scenate con mia suo­cera e mia moglie, che non voglio neanche più ricordare tanto intollerabile era il disgusto che mi procuravano... Via, via! Andate via!

Le allontano con un cenno perentorio.

Non volevo più vederle, non sapevo più resistere allo schifo di vivere a quel modo... E così, per una risolu­zione quasi improvvisa, fuggii dal paese con le cinque­cento lire in mano. Che furono la causa della mia pri­ma morte.

Don Eligio mi prende le cinquecento lire, che mi sono rimaste in mano, e le cambia con un mucchio di fiches. Non so dove metterle, me ne riempio le tasche. Intan­to don Eligio volta il tavolone e lo trasforma in un tavo­liere da gioco con la roulette, il tappeto verde e i nume­ri. Lo assecondo divertito a preparare la scena del casi­nò, che intanto si va animando di giocatori in marsina. Il signor Anselmo Paleari arriva con un lanternino dal vetro rosso, mi tira per la giacca e me lo mostra ammic­cando.

Paleari       Visto cosa ho portato?

Io               Toh, il lanternino con il vetro rosso. Ma questo si ado­pera per quelle famose sedute...

Paleari       Si lasci servire.

Va a collocare il lanternino rosso e lo accende, dando al­la scena una cert'aria di inferno da operetta. Soddisfat­to del suo intervento, Paleari se ne va. Magro, barbuto, livido, vestito di nero, mi si avvicina don Antonio Pantogada.

Pantogada  ¡Senor, bienvenido en la confraternita de la ruleta! Me presento: don Antonio Pantogada, jugador. Usted podrá encontrarme en todos los casino: Biarritz, Ostenda, Baden-Baden... Pero Montecarlo es para chi crede en el juego corno Roma para chi crede en Jesucristo.

Io               Veramente io non credo in Gesù Cristo, volevo dire, non credo nel gioco. Avevo pensato di andare a Marsi­glia e di imbarcarmi, magari con un biglietto di terza classe, per l'America, così alla ventura. Mi chiamo Mattia Pascal.

Pantogada      L'America è dove uno meno se l'aspetta, en el paradiso y en el enfierno... Cristobal Colón, Cristoforo Colombo, un español corno yo, la encontrò donde credeva de encontrar las Indias. ¿Y si usted encontrara l'America en Montecarlo?

Il croupier dà il via al gioco. Accanto a lui, come secon­do croupier, manovra il rastrello don Eligio.            

croupier    Messieurs, faites vos jeux!

Un omone dall'aria svizzera mi fa le sue confidenze.

Svizzero     Ah, il 12! Il 12! Il 12 è il re dei numeri ed è il mio numero! Non mi tradisce mai.

Croupier          Rien ne va plus!

Svizzero    Si diverte a farmi dispetti, magari spesso. Ma poi, alla fine, mi compensa sempre della mia fedeltà.

Croupier          Douze, rouge, pair et manque!

Svizzero    Mi ha parlato! Mi ha parlato!

Io               Come potrei fare perché un numero parlasse anche di me?

Don Eligio mi indica il 25. Metto diverse fiches su quel numero.                                                       

Io               25!                                                  

La ruota gira.

Croupier          Vintcinq! Rouge, impair et passe!

Pantogada      ¡El juego del puto, la primera carta es triunfo!

Ho vinto. Allungo la mano sul mio mucchietto moltiplicato da abili colpi di rastrello di don Eligio, che mi fa cenno di lasciare la posta dov'è. Un giovane pallido, di cera, con un grosso monocolo all'occhio sinistro, non osa guardare la roulette e mi si appoggia come se stesse per svenire.

Giovane pallido   Non ho il coraggio di guardare. Que­sto colpo è molto importante per me. È uscito il 16?

Io               No, il 25.

Giovane pallido   Non mi resta che uscirne con dignità.

Il giovane si allontana affranto.

Pantogada      La fortuna es mujer y la mujer, la donna, co­me usted sabe, es una ramera, una baldracca.

Io               25!

La ruota gira.

Croupier          Vintcinq! Rouge, impair et passe.

La mia vincita si moltiplica e la cosa comincia a piacermi. Don Eligio mi fa cenno di lasciare ancora la posta dov'è. Si avvicina una cocotte con una rosa in mano e me la offre.

Cocotte          A toi, mon chèri. Vuoi giocare insieme con me?

Io               Dipende da quale gioco e da quanto costa.

Cocotte          Tu metti il capitale, io la fortuna. Ça va?

Io               No, cara, non va, non va. Io sono solo e gioco da solo. 25!

Pantogada      ¡Muy bien! ¡Adelante! ¡Adelante!

La cocotte dà la rosa a Pantogada che la prende con un inchino. La roulette gira.

Croupier          Vintcinq! Rouge, impair, et passe.

Il mio mucchio aumenta sempre.

Vintcinq!

Vinco di nuovo.

Vintcinq!

Pantogada mi conduce verso la finestra.

pantogada Ven un momento con migo y mira por la ventana... Dalla finestra, guarda... ¿Qué es lo que ves?

Io               Gli alberi, don Antonio. Un grande parco pieno di al­beri.

Pantogada      Es necesario haber visto mucho para ver quello che io vedo... En todos los arbóles, veràs las sombras de los hombres colgados... Le ombre dei giocato­ri impiccati. Los que como tú, Mattia Pascal, volevano fare saltar Montecarlo.

Io               No, mi creda, io non voglio far saltar proprio niente... Non so nemmeno come si gioca, sono più di passaggio. Dovevo andare in America, forse ci vado appena smetto.

Don Eligio mi fa cenno di lasciare il denaro sul 25.

Gira la roulette.

Croupier   Vintcinq!

Si ripresenta il giovane pallido.

Giovane pallido Signore, oso ricomparirle davanti per un prestito. Vorrei tentare ancora una volta.

Io               Veramente io non la conosco e così su due piedi...

Pantogada      No le haga caso. Es contra la costumbre de la casa: le daré yo la última fiche.

Dà una fiche al giovane.

Giovane pallido    Posso almeno puntare dove punta lei?

Io               Faccia un po' come vuole! 25!

Giovane pallido     25!

Croupier   Huit, noir, pair et manque!

Don Eligio rastrella via le puntate mie e del giovane.

Giovane pallido    Quand'è così... Signori, buonasera.

Si allontana. Io rimango come spaesato.

Svizzero     Perché non esce il 12? Dove ti nascondi, bi­richino? Vieni fuori, fatti vedere... Parlami ancora!

La cocotte gli offre un fiore.

Cocotte   Vuoi giocare con me sul 12?

Pantogada      El sueño de todos, aqui, es de fare saltar Montecarlo. ¿Sabes cosa pasa cuando salta la banca? Los croupiers cubren la mesa, il tavolo, con una gran carpeta negra.

Io               Una cosa un po' funebre.

Pantogada      Como a la puesta del sol se vede un ultimo rayo prima della noche, así la fortuna, antes de marcharse, ti sorride una última vez. ¡Juega!

Io               Sì, gioco tutto... tutto sul 35!

La ruota gira.

croupier    Trentcinq! Rouge, impair et passe!

Don Eligio spinge verso di me una valanga di gettoni. Mentre incasso, stordito da tanta fortuna, si sente un colpo di pistola. Tutti accorrono. È il giovane pallido che si è sparato e giace coi piedi uniti, come se si fosse messo a giacere prima, per non farsi male cadendo. Mi inginocchio accanto a lui, tiro fuori di tasca un fazzolet­to e glielo stendo sulla faccia.

Svizzero    L'importante è capire quand'è il momento in cui i numeri non ti parlano più.

Cocotte          Vuoi giocare ancora con me?

Croupier          Messieurs, faites vos jeux!

Pantogada      ¡Pero claro, Mattia Pascal! La rueda está en marcha. ¡Sientate a tu sitio! ¡Juega! Juega!

Io               No, no... Non ho la grinta del giocatore... Non gioco più... Basta, non giocherò mai più...

Trovo il monocolo del giovane in terra, accanto al cor­po, e me lo incastro nell'orbita per provare.

Tutto potevo immaginare tranne che dopo poche ore dovesse accadere qualcosa di simile anche a me...

Butto a terra il monocolo e mi metto a raccogliere ra­pidamente i gettoni con don Eligio.

Ho vinto ottantaduemila lire... Oltre cento anni di la­voro in biblioteca! Centosessanta anni di pensione della vedova Pescatore! Come resterà quando gliele farò ve­dere? Riscatterò la Stia e mi ritirerò in campagna a fa­re il mugnaio... Non vedo l'ora di mostrare a quelle due donne che anch'io valgo qualcosa: ottantaduemila lire!

Il treno è in corsa, sto tornando a Miragno. Nel mio scompartimento ci sono altri due viaggiatori qualsiasi. Uno legge un giornale di Genova, «Il Caffaro» o «Il Secolo XIX». Passa il controllore che è don Eligio con un berretto da ferroviere, a bucare i biglietti. Poi c'è una fermata e quello che leggeva si alza e se ne va, la­sciando il giornale sulla poltrona. L'altro viaggiatore sonnecchia con il cappello sugli occhi. Prendo il giorna­le e comincio a scorrerlo.

Io               ... Lo Zar e la Zarina di Russia hanno ricevuto a Peterhof una speciale missione tibetana, che ha presentato alle loro Maestà i doni del Lama...

Guardo l'orologio.

E che saranno questi doni del Lama?

Mi figuro l'accoglienza che mi faranno la vedova Pescatore e sua figlia a Miragno.

Pescatore Neanche se tu ci avessi portato i doni del Lama, guarda. Furfante sei, furfante rimani.

Romilda     Tredici giorni senza dar notizie! E noi qui a morire di crepacuore.

Mi diverto a immaginare ciò che potrei rispondere.

Io               Ma insomma cos'è successo di tanto grave?

Pescatore  Hai perso il lavoro, se proprio vuoi saperlo. Non sei più bibliotecario. Hanno messo al posto tuo un altro morto di fame!

Romilda    Ti sei portato via la chiave della biblioteca. Alla notizia della tua sparizione hanno dovuto scassinare la porta!

Tiro fuori di tasca la grossa chiave della biblioteca e scoppio a ridere.

Io               Davvero l'ho portata con me tutto questo tempo?

Pescatore E tu ridi, infame, ridi dopo che ti sei butta­to di nuovo in mezzo a una strada! Ma io ti faccio mori­re di fame, sai? Due povere donne non possono aver l'obbligo di mantenerti!

Rimane senza parola alla vista del portafogli gonfio, che ho tirato fuori.

Dove li hai rubati?

Io               Settantasette, settantotto, settantanove, ottanta, ottantuno.

Pescatore        Cosa hai fatto? Ladro, truffatore, assassino della carne umana!

Romilda    Ti sei macchiato di sangue? Tu, Mattia?

Io               ... cinquecento, seicento, settecento, dieci, venti, venticinque; ottantamila settecento venticinque lire e qua­ranta centesimi!

Quietamente raccolgo i biglietti, li rimetto nel porta­fogli, e mi alzo.

Non mi volete più in casa? Ebbene, vi ringrazio. Me ne vado e tanti saluti.

No, come congedo posso trovar di meglio. Torno a se­dere e ci riprovo. Mi alzo e riprendo:

Dopo tutto il veleno che mi avete fatto inghiottire... No, neanche questo va bene.

Mi risiedo. Ci penso un attimo, mi alzo e riprendo.

Vecchia strega, mi hai sempre considerato un fallito, una nullità... Adesso la fortuna mi ha sorriso, tutto questo denaro...

 Pescatore E a che si ridurranno ottantamila lire o poco più, con i debiti che hai? Pensa ai tuoi creditori. Filippo Brisigo, il Recchioni...

Io               Il Recchioni! Chi ci pensava più?                       

Cado a sedere.

Pescatore ...E Cichin Lunaro, il torinese, e la vedova Lippani. Chi altro c'è? Ih, hai voglia! Il Della Piana, Bossi.

Romilda    ... e Margottini.

Io               Margottini, c'è anche Margottini! Tutta questa gen­te, me n'ero dimenticato. A Montecarlo ho vinto per loro!

Sto parlando forte e ho svegliato il mio compagno di viaggio, che mi guarda stupito. Gli dico qualcosa, tan­to per darmi un contegno.

Io               Eh, la vita è dura. È inesorabile. Non si sfugge al pro­prio destino, vero? Non si sfugge mai.

Mi guarda come un pazzo, fa un cenno qualsiasi di as­senso e si rimette a dormire. Sbuffando, riprendo in mano il giornale. Guardo in seconda pagina.

Io               Vediamo un po' la cronaca. «Suicidio». «Ci telegra­fano da Miragno...» Chi si sarà suicidato in quel buco di paese? «Ieri sabato 28 è stato rinvenuto nella gora di un mulino un cadavere in istato di avanzata putrefazio­ne... Il mulino è sito in un podere detto della Stia...» Il mio podere!

Mi alzo in piedi, per essere più vicino al lume.

«... a circa due chilometri dalla nostra città. Accorsa so­pra luogo l'autorità giudiziaria con altra gente, il cada­vere fu estratto dalla gora per le constatazioni di legge e piantonato. Più tardi esso fu riconosciuto per quello del nostro...»

Non credo a ciò che leggo.

«... del nostro bibliotecario Mattia Pascal. Scomparso da parecchi giorni. Causa del suicidio: dissesti finan­ziari». Io? Estratto dalla gora? «In istato di avanzata putrefazione»? Puah. Ma è possibile che mi abbiano ri­conosciuto.

In un lampo vedo la scena come deve essersi svolta al mulino della Stia: il fagotto del cadavere di quel pove­retto, tanto simile a me, e intorno i mostri della mia vita di Miragno.

Malagna         È lui, è lui, brutto da morto come da vivo.

Romiilda          Povero, povero Mattia!

Pomino       Me l'aveva fatta grossa, ma vederlo, ridotto così...

Pescatore        Tutte a me! Tutte a me devono capitare le sventure!

Io               Tutte a lei? Ma non sono io il morto? Tirato fuori dall'acqua verdastra della gora, fradicio, gonfio, orribile.

Nel raccapriccio, incrocio le braccia sul petto e con le mani mi palpo, mi stringo.

Io no, io no... Chi sarà quello? Mi somigliava, certo... Avrà forse avuto la barba anche lui, come la mia... la mia stessa corporatura... E mi hanno riconosciuto!

Fra la gente alla Stia si fa largo mio fratello Berto, che scruta commosso il cadavere.

Berto         In fede dichiaro che costui risponde al nome di Mattia Pascal. È mio fratello.

Malagna    È proprio lui.

Pomino       Anche da morto ha conservato quella sua espres­sione... dispettosa.

Romilda     Che cosa ti abbiamo fatto, Mattia, perché ci svergognassi in questo modo?

Pescatore Ma non finiranno mai queste formalità? Qui c'è un puzzo che non si resiste!

Io               Basta, basta così! Mi avete riconosciuto? Tutto è a posto, seppellitemi pure.

La banda comunale di Miragno attacca una marcia fu­nebre. Un piccolo gruppo di persone si riunisce intor­no al feretro nel cimitero. Mia moglie e mia suocera inal­berano veli da lutto; anche Oliva ha un fazzoletto ab­brunato sulla testa e sembra commossa, al braccio di Batta Malagna. Berto ha il lutto al braccio. C'è anche don Eligio, stavolta proprio nelle funzioni da prete. Si fa avanti, con un foglietto tra le mani, Mino Pomino. A un suo cenno la banda smette di suonare.

Pomino       Mattia Pascal! Non si avevano notizie di te da alquanti giorni: giorni di tremenda costernazione e d'i­nenarrabile angoscia per la desolata famiglia, costerna­zione e angoscia condivise dalla miglior parte della no­stra cittadinanza, che ti amava e ti stimava per la bon­tà dell'animo, per la giovialità del carattere e per la na­tural modestia...

Io               Grazie, caro, grazie.

Tutti zittiscono. Pomino alza il volto dal foglietto ten­tando di individuare il disturbatore, poi riprende.

Pomino       ... per la natural modestia, dicevo, che ti aveva permesso di sopportare senza avvilimento e con rasse­gnazione gli avversi fati, onde dalla spensierata agiatez­za ti eri in questi ultimi tempi ridotto in umile stato. Quando, dopo il primo giorno della tua inesplicabile assenza, la famiglia impressionata si recò alla biblioteca Boccamazza, dove tu, zelantissimo del tuo ufficio, ti trattenevi quasi tutto il giorno ad arricchire con dotte letture la tua vivace intelligenza...

Io               ... e a dar la caccia ai ragni...

Ancora una volta tutti zittiscono.

Pomino       Subito, innanzi alla porta chiusa della biblioteca, sorse nero e trepidante il sospetto che tu ti fossi allon­tanato dal paese per qualche segreta ragione. Ma ahimè! La perdita recente della figlioletta e dell'adorata madre insieme, dopo la perdita degli aviti beni, aveva profon­damente sconvolto il tuo animo, povero amico nostro... Tutto il paese prende parte al cordoglio della tua vedo­va sconsolata, del fratello in lacrime, della suocera affezionatissima, del fedele amministratore, e tutti hanno voluto accompagnare la tua salma all'estrema dimora. Col cuore lacerato diciamo dunque per l'ultima volta, al nostro buon Mattia: «Vale diletto amico, vale».

La banda riattacca la marcia funebre. Per seguire le ul­time fasi della cerimonia, sono addirittura montato in piedi sul sedile del treno. I parenti e gli amici si stanno abbracciando. Pomino sembra molto partecipe nell'abbracciare Romilda.                                                   

Io               Grazie, Pomino. Grazie, moglie mia. Grazie anche a te, vedova Pescatore, e a te, Batta Malagna, che hai vo­luto essere presente con la tua signora. Grazie, caro Berto. Grazie don Eligio per la bellissima funzione. Grazie a tutti. Però aspettate, aspettate, c'è un piccolo inconveniente! Il morto, che voi piangete, è vivo. E purtroppo un vivo, che per errore da qualche parte è ri­tenuto tale, è morto! Un uomo senza nome, uno scono­sciuto!... Adesso bisogna rimettere le cose a posto cioè bisogna che ognuno di noi riprenda a essere quello che è... Qui ci vuole ordine, chiarezza...

Mi arresto, colpito da un'idea improvvisa.

Ma perché dico che ci vuole ordine? Forse invece la mia salvezza è nel disordine, nella confusione... E se di­ventassi veramente quell'altro, lo sconosciuto, l'uomo senza nome? Tanto ormai voi mi avete pianto, vi siete abituati alla mia morte... Ma sì... Nei momenti decisivi basta un gesto solo... Un salto!

Appena sono saltato giù dal sedile, giù dal vagone, la locomotiva fischia, il campanello della stazione trilla in continuità. C'è un forsennato andirivieni di passeggeri sulla banchina di questa stazione fatale per la mia esi­stenza. Tutti passano magari urtandomi, ma senza guar­darmi in faccia, indifferenti e anonimi come lo sono or­mai io. Posso anche urlare in mezzo a questa folla, tanto nessuno mi sente.

Se morto son, che ottengo in contraccambio?

Tutti          ... cambio!... cambio!... cambio!

Passa di corsa il capostazione.

Capostazione    Signore, il treno riparte.

Mattia       Ma lo lasci, lo lasci ripartire. Cambio treno! Cambio!

Tutti          ... cambio!... cambio!... cambio!

Mi dirigo dall'uno all'altro per gridare a ciascuno e a tutti la mia scoperta.

Io               Cambio treno!

Tutti          ... cambio!... cambio!... cambio!

Io               Cambio nome!

Tutti          ... cambio!... cambio!... cambio!

Io               Cambio faccia!

Tutti          ... cambio!... cambio!... cambio!

Io               Cambio vita!

Tutti          ... cambio!... cambio!... cambio!

Io               Cambio tutto.

Tutti          ...tutto!... tutto!... tutto!

Sono solo. È come se mi investisse un fiotto di una luce intensissima, bianca, nuova. Nell'aria c'è qualcosa di ma­gico, di fermo, di irreale. Qualcosa che godo adesso per un lunghissimo istante, qualcosa che non proverò mai più. Come planare in un sogno, come galleggiare sull'acqua... È un'emozione musicale, una visione a occhi chiusi.

Le voci       ...tutto!... tutto!... tutto!

Mentre la luce sta tornando normale, finisco di planare su una seggiola da barbiere e faccio cenno a don Eligio, che si è infilato una giacca bianca.

Io               Barba, baffi... tutto!

La cosa avviene molto rapidamente. Il barbiere gira la sedia verso il fondo, fa l'atto di compiere il dovere suo e rigira la sedia un'altra volta. Non ho più la barba né i baffi, lo riscontro sullo specchietto a mano che il barbie­re mi porge: comincio a essere un uomo nuovo. Ma l'oc­chio storto è ancora un ricordo del fu Mattia Pascal.

Quest'occhio! Per mascherare quest'occhio in estasi per conto suo basterà un paio di occhiali azzurrini...

Li tiro fuori dal taschino, li provo subito, vanno benis­simo.

E adesso un nome... Che ne dice, don Eligio? Strozzani... Parbetta... Bartusi... Martoni? Carlo Martoni? Sì, Carlo Martello!

Don Eligio non sa aiutarmi nella scelta. Per fortuna ci sono nella barbieria due clienti immersi in una discus­sione.

Primo cliente    Cristo era bruttissimo!

Secondo cliente Ma si studi un po' l'iconografia cristia­na!

Primo cliente Lo afferma Grillo d'Alessandria: Cristo fu il più brutto uomo del mondo!

Secondo cliente È brutto forse il Cristo che si trova scolpito nella città di Paneade?

Primo cliente Quella statua rappresenta l'imperatore Adriano!

Secondo cliente È Cristo che quella statua rappre­senta!

Primo cliente    Adriano!                                    

Secondo cliente    Cristo!

Primo cliente    Adriano!

È come se lo dicesse a me.

Io               Adriano, va bene, Adriano.       

Secondo cliente Potrei anche citarle l'opinione di Camillo de Meis!

Io               De Meis? Adriano... Meis. Benone! Mi hanno battez­zato! Sono Adriano Meis. Non c'è più niente che mi le­ghi a Mattia Pascal. Niente, niente... Tranne una cosa, sì, l'anello... Questo cerchietto d'oro con incisi due no­mi, Mattia-Romilda, e la data di quel giorno disgrazia­to... Bisogna farlo sparire per bene...

Chiedo qualcosa all'orecchio a don Eligio. Annuisce, mi fa un cenno: in fondo a destra.

Da una parte c'è scritto «Uomini», dall'altra «Donne»: ho capito. È il posto ideale per intombare il mio anellino di fede.

Mi sfilo l'anello e mi avvio a compiere il rito con una certa solennità. Don Eligio si toglie la giacca bianca da barbiere, la butta sulla poltrona che spinge fuori. Poi si avvicina a una lavagna che c'è da un lato della biblio­teca, la raddrizza, la ripulisce con lo straccio. Io faccio un rientro sensazionale con i capelli lunghi, scomposti artisticamente, una finanziera e un cappellaccio a larghe tese. Ho una valigia in mano.

Io               Sembro un filosofo tedesco. Ma il tedesco non Io so e quindi devo continuare a essere italiano. Ecco, la mia vita a questo punto è proprio una lavagna vuota da riempire... Prenda il gesso e scriva: Adriano Meis. Ita­liano.

Don Eligio scrive sulla lavagna: adriano meis ita­liano.

Andiamo avanti. Chi era mio padre? Dove sono nato? Ho fratelli o sorelle? Questo no, senz'altro. Scriva: fi­glio unico. Più unico di così...

Don Elisio scrive: figlio unico.

Nato... Sarebbe prudente non precisare alcun luogo di nascita... Ma come si fa? Non si può nascere sulle nuvo­le... Sulle nuvole no, ma in viaggio sì. Nato in viaggio, su un piroscafo!

Don Eligio scrive: nato su un piroscafo.

Io               Mettiamo che i miei genitori fossero andati in Ameri­ca... Mio padre, a proposito, si chiamava Paolo Meis...

Don Eligio scrive: paternità paolo meis.

...emigrante. Tre, quattro anni di stenti, poi avvilito scrive da Buenos Aires una lettera al nonno... Il nonno! Un nonno vorrei proprio averlo conosciuto, un caro vec­chietto... Che gli manda i quattrini per tornare in Italia. Ma perché io devo nascere proprio in viaggio? Nasco in Argentina, pochi mesi prima del ritorno in patria dei miei genitori. Ma sì, il nonno si era intenerito per il ni­potino innocente. Per me unicamente aveva mandato i soldi per il viaggio. E così io piccino piccino, attraverso l'Oceano, mi presi anche una bronchite. Stavo per mo­rire, il nonno me lo diceva sempre. ... Nato...

Don Eligio ha cancellato: su un piroscafo e ha scrit­to: in argentina.                                                

In Argentina dove? Il nonno, con cui ho vissuto, non ha mai saputo dirmelo... Perché mio padre, inquieto co­me sempre, ritorna subito in America dopo pochi mesi, lasciando la mamma e me col nonno, e là muore di feb­bre gialla. A tre anni meglio restar orfano anche di ma­dre, è un grande dolore ma semplifica le cose. Insomma ricordo solo il nonno, un caro vecchietto spregiudicato, con la tabacchiera di corno, un po' bizzo. So, che non mi volle far seguire un corso regolare di studi preferendo istruirmi lui. Sempre in viaggio.

Don Eligio ha scritto: orfano a tre anni vissuto col nonno.

Io               Vissuto col nonno un po' dappertutto. Mettiamo a Nizza. Poi a Torino... Poi di qua e di là...

Don Eligio scrive: nizza torino e rimane incerto con la mano alzata.

Impossibile elencare tutte le città, sono quelle che vi­siterò per inventare il mio passato: Milano, Padova, Venezia, Ravenna, Firenze, Perugia... Eh? Che gliene pare? Lavorare al mio nuovo io, all'uomo inventato, sarà la mia occupazione da ora in poi. Devo solo abituarmi all'idea di una libertà sconfinata, unica... Me la sen­to entrare nel petto con un respiro lunghissimo e largo che mi solleva tutto lo spirito. Solo! Solo! Solo! Padrone di me! Senza dover dar conto a nessuno; ecco, posso andare dove mi piace! A Venezia? A Venezia! A Firenze? A Firenze! E questa mia felicità mi seguirà ovunque, anche oltre le Alpi. Su per le belle contrade del Reno, fino a Colonia, seguendo il fiume, Mannheim, Worms, Magonza, Bingen, Coblenza... Voglio andare più su di Colonia, più su della Germania, almeno in Norvegia, al Polo Nord! Ma un momento.

Mi siedo sulla valigia, don Eligio si siede accanto a me.

Io               Mettiamo di campare ancora una trentina di anni: così fuori d'ogni legge, senza un documento tra le mani per comprovare la mia esistenza reale, non potrò procac­ciarmi nessun impiego. Dovrò vivere con i quattrini del­la vincita. Fatti i conti non mi potrò concedere più di duecento lire al mese... Pochino, no? Certo libero, liberissimo, posso essere soltanto così: con la valigia in mano. Oggi qua domani là. Fermo in un luogo, proprie­tario d'una casa, eh, allora: registri e tasse subito! E non vorrebbero iscrivermi all'anagrafe? Ma sicuramen­te! E come!? Con un nome falso? E allora, chi sa?, forse indagini segrete intorno a me da parte della polizia... Insomma impicci, imbrogli. No, meglio alloggiarsi a pensione da qualche famiglia, in una camera mobiliata. Più economica e più sicura.

Attacca il pianoforte di Silvia Caporale che sta facendo provare una canzonetta a un'attrice esordiente di caffè concerto. Sul filo di queste note mi accingo a rientrare nell'atmosfera mattutina di quell'appartamento in via Ripetta: la mia futura stanza, accogliente come una trappola, con le sue grandi finestre sul fiume, il terraz­zino dove si passeranno le serate a conversare; scorci di corridoi oscuri e senza fondo come le anime degli inqui­lini. E alcuni di loro sono là: il signor Anselmo Paleari, che abbiamo già visto; sua figlia Adriana, una ragazzetta piccola piccola, bionda, pallida, che sta indossando il suo abito di lutto su cui infilerà una veste da camera troppo grande; e infine, intenta a ripassare degli spartiti al pia­noforte, Silvia Caporale, con la sua faccia volgarmente brutta da maschera carnevalesca, due occhi nerissimi tipo bambola automatica e un naso a pallottola sempre acceso, forse perché a portata di mano la zitella quaran­tenne tiene spesso una bottiglia cui si attacca per darsi coraggio.

Io               A Roma, una casa come le altre, in una via tranquilla, con la vista sul fiume...                   

La mia risoluzione a mettere radici è tale che sono venu­to addirittura con la valigia. Suono il campanello.

Perché a Roma? Mi è parsa una città di forestieri. La più adatta a ospitare con indifferenza, tra tanta gente, un forestiero della vita.

Viene ad aprirmi Anselmo Paleari.

Paleari       Oh, scusi! Credevo che fosse la serva... Abbia pazienza, mi trova così... Adriana! Terenzio! Qua c'è un signore!

Io               Ho saputo che affittate una camera mobiliata.

Paleari       Ecco mia figlia, parlerà con lei. Su, Adriana, è per la camera.

Viene avanti, tutta confusa, la signorina che si chiama Adriana, come me.

Ma Terenzio dov'è?

Adriana    Oh Dio, papà, sai bene che è a Napoli da ieri. Scusi signore, venga avanti... E tu, papà, vai a rimetter­ti a posto... Se ti vedessi.

Paleari       Eh già, eh già.

Se ne va strascicando le ciabatte. Adriana mi mostra la camera addobbata con graziosa semplicità di tappezze­ria chiara, bianca e celeste. La giovane apre le finestre e la stanza è invasa dalla luce.

Adriana     La stanza è questa. Di bello c'è la vista. In fon­do si vede Monte Mario, Ponte Margherita e tutto il nuovo quartiere dei Prati fino a Castel Sant'Angelo. Qui sotto c'è il vecchio ponte di Ripetta e accanto co­struiscono quello nuovo... Là, guardi, c'è il ponte Um­berto con le vecchie case di Tordinona.

Io               E quelle alture verdi sono il Gianicolo, vero? Si ve­de la statua di Garibaldi a cavallo.

Adriana mi fa visitare anche il terrazzino.

Adriana    Questo terrazzino appartiene all'appartamento, almeno per ora. Lo butteranno giù, dicono, perché fa aggetto.

Io               Fa cosa?

Adriana    Aggetto. Insomma sporge. Non si dice così? Ma ci vorrà tempo prima che sia finito il lungotevere.

Io               E dica, signorina:  loro non affittano altre camere, vero?

Adriana     Questa è la migliore. Se non le accomoda...

Io               No no... Domandavo per sapere.

Adriana     Ne affittiamo un'altra. Di là, posta su via Ri­petta, senza la vista sul Tevere. È occupata dalla signo­rina Caporale che sta con noi ormai da due anni. Dà qualche lezione di musica.

Io               Me l'ero immaginato.

Adriana    Se la cosa le reca disturbo...

Io               Si figuri.

Adriana     Del resto l'appartamento è grande e siamo sol­tanto io, il babbo e mio cognato Terenzio Papiano. De­ve però andar via, col fratello che per ora sta anche lui con noi. Mia sorella è morta, da sei mesi. Siamo in lutto.

Io               E sua mamma?

Adriana    L'ho persa da piccola.

Io               Anche questo me l'ero immaginato. E fa lei da mammi­na a tutti, qui. Devo versare una caparra?

Adriana     Non occorre. Se vuol piuttosto lasciare il no­me...

Mi tasto il petto, sorridendo nervosamente.              

Io               Non ho... non ho neppure un biglietto da visita. Mi chiamo Adriano, sì, appunto. Ho sentito che si chiama Adriana anche lei. Forse le farà dispiacere.

Adriana si mette a ridere.

Adriana     Ma no! Perché?

Rido anch'io, un po' sollevato dall'imbarazzo.

Io               E allora, se non le dispiace, mi chiamo proprio Adria­no Meis.

Ci stringiamo timidamente la mano. Solo a questo pun­to Adriana sembra notare che ho con me la valigia.

Adriana    Ma lei ha già la sua roba con sé?               

Io               Qualcosa, per le prime necessità.

Adriana     Se vuol rimanere, cioè prendere possesso della camera, anche subito...

Quando Adriana se n'è andata, mi tolgo la giacca, ac­cendo una sigaretta e comincio a tirar fuori la mia roba dalla valigia. A un certo punto il pianoforte smette e la cantante attacca a fare dei vocalizzi. Mi compare da­vanti, con l'aria un po' eccitata e il passo esitante di chi ha bevuto, la signorina Caporale.

Caporale         Il vocalizzo, se una non ha voce, è uno strazio.

Io               Me ne accorgo.

Caporale   Non la sopporto più. È un'attricetta di caffè concerto. Non mi chieda come si chiama, non ha ancora un nome. Tutte qua vengono. Le preparo tutte io.

Io               Musica a volontà, in questa casa.

Caporale   Non abbia paura. Faccio provare qualche can­zonetta ogni tanto e per il resto tengo il pianoforte ben chiuso. Anch'io sono un tipo molto chiuso.

Io               Davvero?

Caporale   Il pianoforte lo odio. Ma è un modo per gua­dagnarsi la vita, no? Lei che fa?

Non posso fare a meno di sobbalzare a quella domanda diretta.

Io               Affari.

Caporale         Ah. E lei ha un nome, suppongo?

Sono vagamente innervosito.

Silvia Caporale è il mio. Però io di affari non ne faccio. E se ne faccio, faccio certi affari...

Ride un po' ubriaca.

Qui non starà male, vedrà. C'è un po' il fastidio di que­ste cantanti su e giù... Del resto sono belle ragazze, magari per un uomo è anche un diversivo.

Io               Mi abituerò.

Caporale   Se poi, tra un affare e l'altro, vorrà scambiare quattro chiacchiere... Silvia Caporale, mi chiamo. Ma devo averglielo già detto.

Rientra Adriana con aria preoccupata.

Adriana    Silvia, andiamo. Il signor Meis è arrivato ades­so. Sarà stanco, vorrà riposare.

Le prende un braccio e accenna ad accompagnarla fuori.

Io               Mi scusi. Non mi sono presentato: Adriano Meis.

La Caporale si volta di scatto, con un movimento da ubriaca, e mi fissa come per una rivelazione. Sono imbarazzatissimo. Ma è soltanto una reazione da persona non completamente in grado di controllarsi.

Caporale         Bel nome. Gran bel nome. Complimenti.

Con un sorriso che cerca il mio compatimento, Adriana la porta via. Un po' sconcertato, ricomincio a sistemare la mia roba. Il signor Anselmo, che nel frattempo si è ricomposto e ha indossato un abito decente, mi sorpren­de con alcuni libri in mano.

Paleari       Mi faccia indovinare. Lei è un filosofo.

Io               Devo deluderla: no.

Paleari mi stringe la mano.

Paleari       Anselmo Paleari, caposezione del Ministero del­la pubblica istruzione. A riposo.

Io               Mi chiamo Adriano Meis.

Paleari      Posso?

Accenna ai libri, e senza aspettate la mia risposta si mette a guardarne i dorsi.       

53

Paleari       Ne ha di buoni. Poi, qualche altro giorno, le mostrerò i libri miei. Ne ho di buoni anch'io, sa? Mi ci mangio ogni mese mezza pensione. Soprattutto teosofia: La Mort et l'au-delà, L'homme et ses corps, Karma, La doctrine secrète. Francese. A proposito, lei è forse un artista?

Macchinalmente scuoto la cenere della sigaretta in quel­lo che mi sembra un portacenere appeso al muro.

Io               Neanche un po'.

Paleari       Eppure è un'anima sensitiva, lo si vede dall'occhio.

Io               Si è accorto anche lei che sono strabico?

Intanto Adriana, rientrata per assettare la stanza, ha notato la cenere in quella che in realtà è un'acquasan­tiera. Ha un leggero moto di disappunto, ma subito to­glie la bacinella dal muro e fa per uscire.

Io               Signorina Adriana.

Adriana     Vedo che lei ha bisogno di un portacenere.

Interviene Paleari per spiegarmi l'equivoco in cui sono caduto.

Paleari       Quella sarebbe un'acquasantiera.

Io               Mi dispiace. C'era dell'acqua benedetta?

Adriana    Abbiamo qui dirimpetto la chiesa di San Rocco. Le farò avere il portacenere.

Se ne va, lasciandomi un po' in colpa.

Paleari       È molto religiosa, Adriana. Quanto a me, cre­da, non uso acquasantiere.

Io               Non vorrei aver offeso i sentimenti della signorina. Ma un'acquasantiera a capo del letto, sa, io non ci sono abituato. Anzi, ora che ci penso, sono anni che non entro in una chiesa per pregare. Un mio amico, un intimo amico, è addirittura morto di mala morte, senza i con­forti religiosi. Suicida.

Paleari       Se lei si interessa alla faccenda, noi potremo di­scutere a lungo della morte.

Io               La morte per me è un argomento, come dire? supe­rato.

Paleari       Superato? Oh bella.

Io               Volevo dire: d'accordo che la morte esiste, ma perché pensarci tanto?

Paleari       Perché non possiamo comprendere la vita se in qualche modo non ci spieghiamo il suo contrario. Il criterio delle nostre azioni, il filo per uscire dal labirin­to, il lume, insomma, signor Meis, deve venirci di là, dalla morte.

Io               Col buio che ci fa?

Paleari       Buio per lei. Provi ad accendervi una lampadina di fede, con l'olio puro dell'anima. Se questa lampadina manca, noi ci aggiriamo qua, nella vita, come tanti cie­chi, con tutta la luce elettrica che abbiamo inventato!

Io               La scienza le sembra dunque inutile?

Paleari       Sta bene, benissimo, per la vita, la lampadina elettrica. Ma noi, caro signor Meis, abbiamo anche bi­sogno di quell'altra lampadina che ci faccia un po' di lu­ce per...

Io               ... per la morte?

Paleari       Guardi, io provo anche, qualche sera, ad accen­dere un certo lanternino col vetro rosso. Eh, bisogna impegnarsi in tutti i modi, tentar comunque di vedere. Per ora mio genero Terenzio è a Napoli. Tornerà fra qualche tempo e allora la inviterò ad assistere, se vuo­le, a qualche nostra modesta sedutina.

Io               Spiritismo?

Paleari       La signorina Caporale, la maestra di pianoforte, è una medium come ce ne sono poche. L'ho scoperta io, lei stessa non lo sapeva. E così, anche se è un po' in ri­strettezze, la teniamo qui come una di famiglia. Capirà, facoltà medianiche straordinarie... Vedrà vedrà. E chis­sà che la luce di quel lanternino rosso non illumini per lei certi sentieri...

Io               Le ho già detto che ho tanti problemi, ma questo pro­prio no. La morte non mi riguarda.

Paleari       E perché sarebbe venuto a Roma, allora?

Siamo appunto a passeggio per Roma, in uno di quei tramonti dove tutto assume il colore della porpora e del sangue, io e il mio padrone di casa, Anselmo Paleari. Ci sono in giro borghesi che prendono il fresco, prostitute, teppisti, carabinieri.

Io               Perché mi piace la città. Mi piace il movimento che c'è in giro...

Paleari       Eppure è una città triste. Molti si meraviglia­no che nessuna impresa vi riesca, che nessuna idea viva vi attecchisca...

Nell'andirivieni di gente a passeggio ci si affianca un avvocatino chiacchierone, che forse Paleari ha conosciuto in qualche caffè.

Avvocatino La causa vera di tutta questa tristezza, mi credano, è la democrazia. La democrazia, cioè il gover­no della maggioranza. Perché quando il potere è in ma-no d'uno solo, questo sa di essere uno e di dover conten­tare molti; ma quando i molti governano, pensano sol­tanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa.

Io               Ma di quale tirannia parla, scusi?

Avvocatino    Della tirannia mascherata da libertà.

Paleari       Dove li sentirebbe discorsi simili se non a Ro­ma? E lo sa perché nascono proprio qui? Perché Roma è morta.

Adesso tutto il movimento, il traffico intorno a noi due mi appare come bloccato, congelato: un'assemblea di mummie. Guarda quale potere di suggestione comin­ciano ad avere su di me i discorsi del signor Anselmo.

Io               Morta anche Roma?

Vorrei mostrare incredulità, ma ciò che vedo intorno a me sembra dar ragione al mio interlocutore. Paleari si aggira nella folla senza vita come un visitatore in un museo di statue.

Paleari       Da gran tempo, signor Meis! Ed è vano, creda, ogni sforzo per farla rivivere. Chiusa nel sogno del suo maestoso passato, non ne vuol più sapere di questa pic­cola vita che si ostina a formicolarle intorno. Quando una città ha avuto una vita come quella di Roma, non può diventare una città moderna, cioè una città come un'altra. Roma giace là, con il suo gran cuore frantuma­to, alle spalle del Campidoglio. Queste case nuove, in mezzo alle quali ci muoviamo, non sono Roma.

Io               Ma noi, allora, dove siamo?

Paleari       Si ricorda il portacenere al posto dell'acquasan­tiera? Con Roma è accaduto lo stesso. I papi ne aveva­no fatto, a modo loro, un'acquasantiera. Noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere. Da ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro, che è poi il simbolo della frivolezza di questa miserabile vita nostra e dell'amaro e velenoso piacere che essa ci dà. E con questo, signor Meis, buon proseguimento per la sua passeggiata e benvenuto a Roma.

Io               Signor Anselmo! Signor Anselmo, dove va? Perché mi lascia solo?

È scesa la notte, sull'andata via del signor Anselmo Paleari, e si accendono i lampioni. Pian piano, in varie di­rezioni, sfollano anche i passanti. Si sente lontano il canto di un ubriaco.

Eccomi di nuovo in compagnia di me stesso.

Mi tocco la faccia e la riscopro sbarbata, mi passo una mano sui capelli lunghi, mi rassetto gli occhiali sul naso.

Ma quale me stesso? Sbarbato, con i capelli lunghi, gli occhiali... Non mi riconosco neppure. Mi pare di non essere più io, di non riuscire a toccarmi... Siamo giusti, io mi sono conciato in questo modo per gli altri, non per me. E ora devo stare con me, cosi mascherato? Ma io posso credere di essere Adriano Meis solo a patto che ci credano gli altri... Io devo andare in giro, parlare con la gente, vivere...

Un ubriaco che passa canterellando, vedendomi medita­bondo, si china, sporge un po' il capo a guardarmi in faccia da sotto in su e mi scuote il braccio.

Ubriaco      Allegro!

Io               Eh?

Ubriaco      Che fai? Che pensi? Non te la prendere! Alle­gro!

Io               Hai ragione. Ma sì, allegro devo essere! Allegro. Non pensare più alle malinconie. Buttarmi nella vita... Alle­gro! Allegro!

Ma l'ubriaco se n'è già andato riprendendo a cantare la sua canzone. Mi sento pervaso da una strana energia, da un'improvvisa voglia di vivere. E proprio adesso una donna di strada, inseguita da due teppisti, arriva di cor­sa, gridando disperatamente.

Prostituta Aiuto! Aiuto! Mi ammazzano! La donna, istintivamente, mi si avvinghia. Mi aiuti, signore, per carità!

Primo teppista    Si tolga di mezzo, che lei non c'entra.

Secondo teppista    Se ne vada senza voltarsi o piangerà anche lei.

Prostituta Mi vogliono sfregiare!

Stranamente, non ho paura e sono pronto addirittura a comportarmi da eroe.

Io               Via quei coltelli e andatevene!

Primo teppista Questi, signorino, sono affari di fami­glia.

Prostituta Non è vero, lui non è nessuno per me.

Primo teppista In ogni modo, le ripeto con la massima educazione, giri i tacchi e via.

Secondo teppista    La ragazza rimane con noi.

Io               Venite a prenderla.

I due scattano all'assalto, ma io mi metto fra loro e la prostituta e comincio a menare grandi fendenti con il mio bastone da passeggio. Sconcertati dalla mia resisten­za, i due balzano di qua e di là per cogliermi di sorpre­sa. Ma stasera sono un leone: Orlando il paladino, il di­fensore dei deboli, Don Chisciotte... Sul più bello del combattimento, compaiono sul fondo della strada le sa­gome di due carabinieri.

Prostituta Carabinieri! Carabinieri!

Primo carabiniere    Alto là! Che succede?

Secondo carabiniere    Fermi tutti!

Sfuggendo i colpi del mio bastone, i due teppisti scap­pano da una parte e dall'altra. Mentre mi fermo a ri­prendere fiato, la prostituta corre verso i carabinieri raccontando affannosamente ciò che è accaduto.

Prostituta      Erano in due, non li conosco, mi sono ve­nuti addosso con i coltelli... Volevano sfregiarmi... Se non fosse stato per questo coraggioso signore...

Non posso impedirmi un moto di compiacimento a sen­tirmi definire così, per la prima volta in vita mia: un coraggioso signore. I carabinieri vengono verso di me, certo per congratularsi. Io mi sto spolverando il vestito e accenno un sorriso, che si spegne subito quando il primo carabiniere pronuncia la formula rituale.

Primo carabiniere    Documenti!

Ancora tutto frastornato dall'incidente con i teppisti e i carabinieri, rientro di corsa in via Ripetta. Ho fatto i gradini a due a due e appena entrato chiudo istintiva­mente la porta con il catenaccio.

Io               Credo che quei due teppisti, sorpresi con il coltello in mano, non hanno corso quanto me che ero innocente, anzi eroico... Ma quali documenti? Io non devo più uscire, non devo più espormi a questi rischi...

Dal terrazzino, dove stava a chiacchierare con Adriana, arriva la signorina Caporale.

Caporale         Non ricorda la sua promessa, signor Meis?

Io               No, davvero, signorina. In questo momento...

Caporale         Suvvia, venga a far due chiacchiere con noi sul terrazzino...

La seguo docilmente, visto che non vuole altro. Sul ter­razzino fa fresco. Mi fanno sedere. Adriana mi sorride. Mi sento imbarazzato, ma anche un po' tranquillizzato. In fondo si sta bene qui.

È vedovo lei, scusi, signor Meis?

Io               Io no. Perché?

Caporale   Perché lei col pollice si stropiccia sempre l'a­nulare, come chi voglia far girare un anello intorno al dito. Così... È vero, Adriana?

Adriana    Non ci ho fatto caso.

Caporale   Ma io sì.

Io               Io assomiglio alla signorina Adriana, sono poco at­tento a questi particolari.

Caporale   La prima volta che la vedo fare così, lei paga pegno.

Io               Può darsi che io abbia questo vezzo. Ho tenuto per molto tempo, qui, un anellino, che poi ho dovuto far tagliare da un orefice perché mi serrava troppo il dito!

Caporale   Povero anellino! Tanto stretto le stava? Non voleva uscirle più dal dito? Sarà stato forse il ricordo di un...

Adriana           Silvia!

Caporale   Che male c'è? Volevo dire di un primo amore. Su, ci dica qualcosa, signor Meis, possibile che lei non debba parlare mai?

Io               Stavo pensando alla conseguenza arbitraria che lei ha tratto dal mio vezzo. I vedovi, che io sappia, non usano levarsi l'anellino di fede. Pesa, se mai, la moglie, non l'anellino, quando la moglie non c'è più.

Le due donne ridono.

Caporale   Lei è tremendo. Dietro quell'aspetto così serio.

Io               Come ai veterani piace fregiarsi delle loro medaglie, così al vedovo piace portare l'anellino.

Caporale         Io ho avuto questa impressione e basta.

Io               Che fossi vedovo?

Caporale   Sissignore. Non pare anche a te, Adriana, che ne abbia l'aria, il signor Meis?

Adriana è nell'imbarazzo, cerca di intervenire per ti­rarla d'impaccio.

Io               Ma cosa vuole che sappia la signorina Adriana dell'a­ria dei vedovi?

Mi accorgo che ho detto una cosa che non dovevo, evo­cando l'immagine del cognato Terenzio Papiano, il vedovo di casa.

Adriana    Ho qualcosa sul fuoco.

Si alza ed esce a precipizio. Mi rivolgo alla Caporale.

Io               Mi è sfuggita una battuta infelice. In questa casa c'è un lutto recente... E c'è un vedovo, il cognato della si­gnorina, il signor Papiano.

Caporale         Quello? Sarebbe meglio che fosse morto lui.

Un'altra sera, uscendo sul terrazzino a prendere una boc­cata d'aria le ritrovo nuovamente tutte e due. Adriana è eccitatissima, cerca di frenare l'esuberanza della Caporale.

Adriana      No, Silvia, te lo proibisco! Non t'arrischiare.

Caporale   Su, che c'è di male? Signor Meis, Adriana vo­leva sapere...

Adriana    No, no... È una sciocchezza.

Caporale         ... perché lei non si fa crescere almeno i baffi?

Adriana     Non è vero! Non ci creda, signor Meis. È sta­ta lei, invece... Io...

Si mette quasi a piangere.

Caporale   Ma no, via, che c'entra? Non c'è proprio nien­te di male!

Adriana     C'è che tu hai mentito, e mi fai rabbia! Parla­vamo degli attori di teatro che sono tutti... così, e allora tu hai detto: «Come il signor Meis! Che sia un attore anche lui? Chissà perché non si fa crescere almeno i baffi?»

Caporale   Sì, ma tu hai subito ripetuto: «Chissà per­ché?»

Adriana    Ma l'hai detto prima tu.

Io               Posso rispondere?

Adriana    No, scusi, signor Meis. Buona sera.

Fa per andarsene, ma la Caporale la trattiene per un braccio.

Caporale   Eh via, sciocchina! Si fa per ridere. Il signor Adriano è tanto buono. Non è vero, signor Adriano? Glielo dica lei perché non si fa crescere almeno i baffi.

Io               Perché c'è sotto un mistero.

Altero burlescamente la voce.

Sono congiurato.

Caporale   Un bel sornione lo è di certo. Scommetto che si fa scrivere fermo posta. Ma uno di questi giorni, stia attento, mi nascondo dietro l'angolo di piazza San Silvestro e la sorprendo con l'olezzante missiva tra le mani.

Io               Si armi di pazienza, aspetterà a lungo.

Caporale   Comunque lei non riceve mai lettere a casa.

Io               È la pura verità, purtroppo. Non ricevo lettere perché nessuno mi scrive.

Adriana    Non ha nemmeno un amico?

Io               Siamo io e l'ombra mia sulla terra. Me la sono porta­ta a spasso, quest'ombra, di qua e di là...

Caporale   Beato lei, signor Adriano, che ha potuto viag­giare tanto. Ci parli dei suoi viaggi, chissà che esperien­ze interessanti...

Io               Ma cosa le fa pensare che io abbia fatto esperienze tan­to interessanti?

Caporale   La sua aria, sì... di... viaggiatore. Le etichette sulla sua valigia.

Adriana    Silvia, sei indiscreta.

Io               Effettivamente, io ho molto viaggiato. Per quasi due anni sono andato in giro cosf, di città in città, a vedere, a visitare, a conoscere... Eppure adesso le confiderò una cosa, signorina Adriana, che non ho mai detto a nessuno. Del primo inverno, se rigido, piovoso, nebbioso, non mi sono accorto affatto. Ma già agli inizi del secondo inverno, sa, ho cominciato ad accorgermi che si, un po' di nebbia c'era.

Caporale   Che vuol dire? La nebbia, d'inverno, è un fe­nomeno naturale.

Adriana    Forse il signor Meis vuol dire che a un certo punto si è sentito...

 Io              ... come un uccello senza nido, signorina Adriana.

Da quella sera ho l'abitudine di sedermi più vicino ad Adriana, guardandola fissa negli occhi. Anche lei mi de­dica a tratti un fuggevole sguardo, come il lampo di una grazia dolcissima subito interrotta dal chiacchierio dilagante della Caporale.

Caporale         Lei non deve aver cuore, signor Adriano.

Io               Lo pensa davvero?

Caporale    Lo penserei se fosse la verità ciò che lei di­ce, è che io non credo, d'esser vissuta finora incolume.

Io               Che vuol dire incolume?

Caporale         Senza amori né passioni.

Io               Mai, signorina, mai. Almeno finora.

E guardo per un attimo Adriana, che ha alzato anche lei lo sguardo su di me.

Il cuore forse ce l'avrei; ma io sono anche giusto, signo­rine: mi guardo allo specchio, con questo bel paio d'oc­chiali, e mi cascano le braccia. «Come puoi pretendere, mio caro Adriano - mi dico - che qualche donna s'inna­mori di te? »

Caporale   La donna, lo sappia, è più generosa dell'uomo, e non bada solo alla bellezza esteriore.

Io               Oltre alla generosità, signorina, ci vorrebbe una buo­na dose di coraggio per amare un uomo come me.

L'ho detto per Adriana, naturalmente.

Caporale   Ma vada via! Lei prova gusto a dirsi e a farsi più brutto di quello che è. Se si lasciasse crescere un po' la barba...

Io               Mai avuto la barba... E poi a che servirebbe, con que­st'occhio qui?

Caporale   Oh Dio, poiché lei ne parla con tanta disinvol­tura... si faccia operare. Ormai è una cosa facilissima, c'è il dottor Ambrosini che è molto bravo.

Io               Io mi farò più brutto di quello che sono, ma lei mi ha consigliato di combinarmi un'altra faccia: i baffi, la barba, l'occhio...

Riflettendo, come davanti allo specchio, la signorina Caporale mi ha dato un'idea.

... Ma forse ha ragione la signorina Caporale. Se un'ope­razione relativamente lieve può far sparire dal volto questo sconcio connotato cosi particolare di Mattia Pa­scal, Adriano Meis potrebbe anche fare a meno degli oc­chiali azzurri, concedersi un paio di baffi e accordarsi, insomma, con le proprie mutate condizioni di spirito.

Nel rientrare in camera mia, trovo il signor Paleari con un libro in mano.

Paleari       Caro amico, mi sono introdotto qui solo per la­sciarle questo trattato. Dovrebbe leggerlo.

Dò un'occhiata al titolo.

Io               Le Plan Astral. Premier degré du monde invisible d'après la theosophie. Non so se sono tanto nell'umore di una simile lettura, signor Paleari. Proprio stasera mi sento, lo confesso, eccezionalmente vivo e in vena di far progetti.

Paleari       Secondo l'autore del Plan Astral, chi sente di più i pruriti della vita sono appunto i morti. Si rifà alla filosofia indiana per cui essi si troverebbero nei gusci del «Kamaloka»... Specialmente i suicidi. Stanno in questi gusci e sono eccitati da ogni sorta di appetiti uma­ni, a cui non possono soddisfare sprovvisti come sono del corpo carnale che essi però ignorano di aver perdu­to. Strana condizione, signor Meis. È una cosa che do­vrebbe farci riflettere, no? Buonanotte.

Mi ha messo la pulce nell'orecchio e se ne va. Sfoglio svogliatamente il libro, turbato da ciò che il vecchio mi ha detto.

65

Io               Secondo questa filosofia del «Kamaloka», tutto po­trebbe essere diverso da come mi appare in questo mo­mento... Forse io mi sono veramente gettato nella gora della Stia, quella notte, e qui, chiuso nel mio guscio, tormentato dai rimorsi e dalle paure, adesso stuzzicato anche dall'amore, mi illudo di vivere una vita tutta im­maginaria, non mia... La vita di un altro.

Mi scuoto di notte al suono di due voci che parlano basso, concitatamente, nel terrazzino. Incuriosito mi av­vicino alla finestra per guardare dalle spie della persia­na e riconosco nel buio la signorina Caporale. Ma chi è quell'uomo che parla con lei? Ha circa quarant'anni, è alto di statura e robusto di membra: un po' calvo, con un grosso paio di baffi brizzolati, un bel nasone, occhi grigi acuti e irrequieti come le mani. Non può essere che Terenzio Papiano arrivato improvvisamente da Napoli. E il bello è che stanno parlando proprio di me.

Papiano      Insomma non lavora ed è sempre per casa?

Caporale         È una persona molto educata.

Papiano      Ricco?

Caporale   Ha l'aria di campare sul suo... Del resto se sei tanto curioso, domani lo vedrai.

Papiano le fa cenno di parlar più piano e si mette a dirle delle cose a bassa voce, ma con estrema concitazione. La Caporale cerca di ribattere, gli mette una mano sulla spalla e lui la respinge sgarbatamente.

Caporale         Ma come potevo impedirlo? Chi sono io? Che cosa rappresento in questa casa?

Papiano       Chiamami Adriana!

Caporale         Dorme.

Papiano      Va' a svegliarla! Subito!

Io               Ma guarda che modi! Adesso vado fuori e gliene dico quattro.

La Caporale non è più sul terrazzino. Papiano si è mes­so a guardare il fiume, appoggiato con tutti e due i go­miti sul parapetto e la testa fra le mani. Arriva Adriana insonnolita, in veste da camera, seguita dalla Caporale.

Papiano      Lei vada a letto! Mi lasci parlare con mia co­gnata!

Caporale         Non sono la sua serva.

Adriana    Silvia, rimani.

Papiano      Ma io ho da parlarti in privato.

Adriana    Puoi parlare anche in pubblico. Che vuoi dirmi?

Papiano      Signorina Caporale, Rea Silvia, se ne va o debbo accompagnarla a letto?

Caporale         Lei è fortunato perché sono una signora.

La Caporale se ne va.

Adriana    Avresti anche potuto aspettare fino a domani.

Papiano      No! Ora!

Le afferra un braccio, la attira a sé. Adriana cerca di svincolarsi.

Adriana    Lasciami! Lasciami!

Non posso più reggere: faccio per uscire fuori ma una figura mi si para davanti sbucando dal buio. È don Eli­gio che s'è ficcato in testa una parrucca di capelli bion­di e si è infilato un vestito che gli casca da tutte le par­ti, come in una mascherata di carnevale. Adesso ha de­ciso di sbarrarmi l'accesso al terrazzino. Faccio un pas­so laterale, lo fa anche lui; lo faccio dall'altra parte, stessa reazione. Sembra proprio deciso a contrastarmi il passo. Ma Adriana ci ha visti e mi chiama.

Adriana      Oh, signor Meis! Venga, venga.

Approfitto di un'esitazione del biondo per farmi strada fino al terrazzino. Intanto Papiano ha lasciato il braccio della ragazza.

Io               Ma cosa succede qui?

E alludo soprattutto al personaggio con la parrucca che mi ha seguito sul terrazzino.

Adriana    Le presento, signor Meis, mio cognato.

Mi squadra quasi minaccioso.

Papiano      Papiano.

Poi cambia improvvisamente tono e mi tende la mano quasi festevole.

Felicissimo!


SECONDO TEMPO

Riprendiamo le posizioni che avevamo sul terrazzino: io, Adriana, Terenzio Papiano e don Eligio camuffato con la parrucca bionda. Divenuto improvvisamente pie­no di riverenza e di calore, Papiano mi stringe ancora la mano.

Papiano      Papiano. Felicissimo. Spero che lei non si sia spaventato. Quello è mio fratello Scipione, poveretto. Scipione! Scipione!

Don Eligio - Scipione s'è come incantato. Papiano corre a dargli schiaffi sulle guance e biscottini sul naso, gli soffia in faccia fino a farlo rinvenire. Quando lo sguardo del poveretto è tornato presente, quasi lo abbraccia con affetto inducendolo a lasciare il terrazzino.

Soffre di convulsioni epilettiche. Sono disgrazie, signore mio, che succedono nelle famiglie... Ma noi l'abbiamo disturbata con le nostre piccole miserie.

Io               No, no...

Papiano      Davvero mi dispiace di essere stato tutto que­sto tempo assente da Roma. Ma sono sicuro che la mia cognatina avrà saputo provvedere tutto. Se poi le man­casse qualche cosa, dica, sa? Dica!

Io               Non mi manca proprio niente.

Papiano      Lei si avvalga pure di me, in tutte le opportu­nità, per quel poco che posso valere... Adriana, figliola mia, tu dormivi, torna pure a letto.

Adriana    Eh, tanto... Ora che mi sono levata.

Sembra che Adriana non voglia lasciarmi solo con il co­gnato.

Papiano      Anche a me è seccato non potermi muovere da Napoli. Ma che vuole? Il dovere. Ricerche d'archivio sulla fine del Regno delle due Sicilie, nientemeno.

Io               Lei fa lo storico?

Papiano      No, sono semplicemente il segretario del mar­chese Giglio, avrà sentito don Ignazio Giglio d'Auletta. Degna persona intendiamoci, ma borbonico e clericale... E io che ogni mattina, lo dico sottovoce perché siamo in famiglia, saluto con la mano la statua di Garibaldi, là sul Gianicolo... Proprio io sono costretto a servire i Borboni. Che ci vuol fare? Pane! Le giuro che tante vol­te mi viene da sputarci sopra! Mi resta qua in gola, mi soffoca... Ma che posso farci!? Pane! Pane! Su Adrianuccia, a letto! È tardi. Il signore avrà sonno.

Adriana mi tende la mano, che io subito afferro. Terrò a lungo il pugno stretto per serbare la pressione della mano di lei.

Adriana    Buona notte. E grazie.

Ci siamo capiti ancora una volta e anche Papiano ha l'a­ria di aver capito molte cose. Infatti passa subito all'at­tacco. Appena Adriana è rientrata in casa, vedendo che mi appresto a fare altrettanto, Papiano mi blocca.

Papiano      È una bella notte. Non si ferma a fare ancora due chiacchiere?

Devo riflettere bene a tutto ciò che gli rispondo.

Io               Veramente mi è venuto sonno.

Papiano      Via, non deve mica alzarsi per andare a lavorare, no?

Io               (Lo sai benissimo che vivo di rendita, te l'ha detto prima quell'altra...)

Papiano      Un bicchierino soltanto di questo rosolio che ho portato da Napoli.

Si appresta a stappare la bottiglia e a versare il liquore nei bicchieri.

Io               (Se è una sfida, la devo accettare). Per farle piacere.

Papiano      Eh, lei è una persona garbatissima. Lo si ricono­sce subito chi ha avuto in famiglia una buona educazio­ne: è una delle cose che non si possono mascherare...

Io               (Strano verbo da tirar fuori...)

Papiano mi porge un bicchierino.

Papiano      Era sveglio da molto?

Io               (Vuol sapere se ho sentito qualcosa)... Soltanto da po­chi minuti, perché?

Papiano      Sa, a volte parlando, anche di notte, uno alza la voce e non pensa a quelli che riposano.

Io               Non si dia pena. (Ti ho sentito, caro mio: sei l'amante della Caporale, a quattrocchi vi date del tu, e le tue mi­re non si fermano là...)

Papiano      Sa cosa le dico? Io ho l'impressione di averla già incontrata.

Io               (Me l'aspettavo). È senz'altro possibile. Io ho viaggia­to molto.

Papiano      Magari a Napoli.

Io               Mai stato a Napoli.

Papiano      O altrove.

Io               Eh, chissà.

Papiano      Lei è settentrionale?

Io               Come?

Papiano      Dalla pronuncia si direbbe del Nord.

Io               (Che sia una spia della questura?) Infatti.

Papiano      A Roma di passaggio?

Io               Come vede.

Papiano      Milanese?

Io               (È proprio un interrogatorio! ) No, vissuto in Piemonte fino ai dieci anni.

Papiano      Ci sono! Come non ci avevo pensato? Lei è un parente del mio amico Francesco Meis di Torino.

Io               Non sono di Torino.

Papiano      Scusi, lei mi ha detto proprio adesso che fino ai dieci anni...

Io               Guardi, la mia storia è un po' complicata.

Papiano      Uno di questi giorni glielo porto.

Io               Chi?

Papiano      Francesco Meis. Sono sicuro che scoprirete dei legami di parentela.

Io               No, senta, non mi porti nessuno. Deluderebbe il suo amico.

Papiano      Sarà felicissimo, altroché.

Io               Le ho detto che è inutile! Non siamo parenti, non ho parenti in Italia. E questo per la semplice ragione che sono nato in Argentina. (Così la faccenda è chiusa).

Papiano      Ah, mi dà una notizia stupenda. Io ci sono sta­to in Argentina!

Io               (È una bugia per mettermi alla prova! ) In questo caso mi felicito con lei che in Argentina c'è stato. Perché io posso quasi dire di non esserci stato...

Papiano      Se ha detto che è nato laggiù!...

Io               Nato soltanto. Mi portarono via di pochi mesi. Sicché i miei piedi non hanno toccato il suolo americano. (Gli basterà?)

Papiano      Insomma, lei è venuto in Italia con tutta la fa­miglia e vi siete stabiliti in Piemonte. E i suoi genitori, ancora là?

Io               Tutti defunti. (E vai pure a cercarli! )

Papiano      Ma ha fratelli, sorelle?

Io               Figlio unico.

Papiano      Sicché non avrebbe proprio nessuno?

Io               Nessuno. (E l'argomento è chiuso).

Papiano      Insomma lei sarebbe un argentino vissuto in Piemonte e senza più radici né di qua né di là dell'O­ceano.

Io               Ho dei cugini nelle Pampas. (Ma gli dirò che non ci scriviamo mai).

Papiano      Che non le scrivono mai.

Io                Come lo sa?

Papiano      Ci vuol poco: anche gli affetti, in certe situa­zioni...

Io               Vedo che lei afferra tutto a volo. Arriva alle risposte da sé, tanto che non avrebbe neppure bisogno di fare le domande... (Se adesso non ha capito che deve smet­terla, lo butto di sotto).

Papiano      Sono stato troppo curioso, mi scusi. È solo il desiderio di conoscerla meglio per venire incontro ai suoi gusti, alle sue abitudini. Francamente dubito che noi, gente semplice, siamo in grado di ospitare una per­sona come lei.

Io               (Vuol farmi capire che devo andarmene...) No, no, sono certo che continuerò a trovarmi benissimo. Lei è cosi premuroso...

Papiano      Dovere, signor... dimentico sempre il suo no­me...

Io               (Mattia Pascal! Stavo per dirglielo... Ma cosa vuole quest'uomo: cogliermi in fallo?)

Papiano      ... Adriano Meis. Mi scusi, ora ricordo benis­simo. Amnesie. Che vuole? Troppo lavoro. Con tutti quei Borboni là...

Sono rimasto solo con don Eligio - Scipione, che si è messo a sedere sul baule davanti alla mia porta. Mi pre­cipito a prendere la valigia, comincio a riempirla in fretta.

Io               Via, via, devo andarmene subito da qui e senza voltar­mi indietro. Questo Papiano è sinistro, non capisco dove vuol arrivare... Via, via... Dove sono le camicie? E le calze?

Ma la preparazione della valigia non va avanti. Mi met­to a sedere sul letto.

Cosa mi trattiene? Lo so io cosa mi trattiene. L'idea che Adriana, dal terrazzino, mi ha chiamato, come per essere protetta da me, e che per darmi la buonanotte mi ha stretto forte forte la mano...

Scipione lascia cadere qualcosa. Mi alzo di scatto.

E lei cosa fa su quel baule? Ha eletto domicilio lassù? O mi fa la sentinella per ordine di suo fratello?

Al pianoforte Silvia Caporale sta dando un saggio della sua appassionata abilità. Suona con foga sempre maggio­re, tutta infervorata, i capelli scomposti e il respiro af­fannoso: forse è anche un po' ubriaca. A metà dell'ese­cuzione, s'interrompe di colpo e si mette a piangere con il volto tra le mani.

Io               Signorina! Signorina Silvia!

Caporale         Mi scusi, signor Adriano. Quando suono mi succede così...

Io               C'è qualcosa che la turba?

Caporale         Se lei sapesse come io ho bisogno di un vero amico...

Si attacca con tutte e due le mani alla mano che le ho messo sulla spalla. Comincio a sentirmi imbarazzato.

Io               Parli pure liberamente.

Caporale         Lei dovrebbe comprendermi, lei che è solo al mondo come me...

Si alza e per un attimo ho la sensazione che voglia ab­bracciarmi, ma non osa e si abbandona nuovamente sul seggiolino del pianoforte.

Ma lei è un uomo! E io, più che di un amico, avrei bi­sogno... di morire.

Io               Non dica così.

Caporale   Ma se neanche la morte mi vuole! Scusi, si­gnor Meis, che aiuto potrebbe darmi lei? Tutt'al più, di parole... Sì, un po' di compassione. Sono orfana e debbo star qui, trattata come... forse lei se ne sarà accor­to. E non ne avrebbero il diritto, sa! Perché non mi fanno mica l'elemosina... Seimila lire! Seimila lire gli ho messo in mano a quello là...

Io               Vuol dire al signor Papiano?

La Caporale annuisce.

Caporale   Due anni fa... Quando morì mia madre, non mi vedevo più in quell'appartamento. Smisi casa e ven­ni a vivere qui, presso i Paleari... Dalla vendita dei mo­bili avevo ricavato seimila lire, e subito lui, Terenzio, me le chiese per un affare, sicurissimo diceva, lucroso...

Io               Ma perché glielo ha dato quel denaro?

Caporale   Due perfidie una più nera dell'altra! Gliel'ho dato per dimostrargli che avevo ben compreso che cosa egli volesse in realtà da me. Dio, che vergogna! Mi ha capito, signor Adriano? Con la moglie ancora in vita...

Io               Ho capito, ho capito.

Caporale         Si figuri se io, con la povera Rita per casa...

Io               La moglie?

Caporale   Sì, Rita, la sorella di Adriana... Due anni ma­lata tra la vita e la morte. Però tutti sanno come mi sono comportata. Adriana lo sa e mi vuol bene proprio per questo, poverina. Non le dico, tuttavia, le chiacchiere, le insinuazioni...

Io               Ma lei non poteva andarsene? Piuttosto che vivere in una tale situazione...

Caporale   Me ne andrei domani se lui mi restituisse le seimila lire... E Terenzio sarebbe anche disposto a dar­mele se...

Io               Se...?

Caporale   Se io lo aiuto. Ha avuto la sfrontatezza di propormelo così, tranquillamente.

Io               Aiutarlo in che cosa?

Caporale         In una nuova perfidia.

È la conferma dei miei sospetti: Terenzio vuol sposare Adriana.

Io               ... La signorina Adriana?

Caporale         Dovrei persuaderla io! Io, capisce?

Io               A sposar lui?

Caporale   S'intende. E sa perché? Ha, o piuttosto do­vrebbe avere, dodicimila lire di dote quella povera di­sgraziata: la dote della sorella, che Terenzio doveva su­bito restituire al signor Anselmo... Invece ha chiesto un anno di tempo e ora spera...

Io               ... di sposare Adriana e tenersi il denaro. È inaudito! Ma voi dovete ribellarvi: la signorina Adriana, il signor Anselmo, tutti...

Caporale         E lei, signor Adriano?

Io               Io che c'entro? Io non faccio parte di questa famiglia, sono un ospite, sono completamente al di fuori...

Caporale         Ne è proprio convinto?

Io               Potrei ribellarmi in una sola maniera: andandomene.

Caporale   Forse è questo, appunto, che Adriana non vuole.

Io               Che io me ne vada?

Caporale         Ci pensi bene.

Io               Ma io ho le mani completamente legate...

Caporale   Credevo che lei fosse di un'altra stoffa. E in­vece è il tipo che si regola secondo il proverbio: un sì mi imbroglia, un no mi sbroglia. Vero?

Io               Non è così semplice, signorina.

Caporale   Beh, faccia un po' come le pare. Si consideri al di fuori. Si chiuda pure nel suo guscio.

Me ne torno in camera mia recriminando.

Io               Che cosa ne sa lei del mio guscio? Chi mi impedisce di farmi i fatti miei? Delle mie decisioni devo rispon­dere solo a me stesso... A quale me stesso, però? A quel­lo di prima oppure?... In ogni modo non è il caso di far­si tirare in un intrigo familiare dove io, come estraneo, ho tutto da perdere... Accidenti, ma chi c'è qui?

Nel buio del corridoio, sono finito fra le braccia di don Eligio - Scipione che se ne sta di nuovo asserpolato sul baule.

Cosa fa sempre seduto su questo baule? Se ne vada da un'altra parte. Qui lei mi impiccia! Capito?

Mi guarda balordo con gli occhi languenti, senza scomporsi.

Ha capito?

Lo scuoto per un braccio con una certa forza. Appare Adriana.

La prego, signorina, veda un po' di far intendere a que­sto poveretto che vada a sedere altrove.

Adriana    È malato.

Io               Ma qui mi impiccia... E poi gli manca l'aria... Vuole che lo dica al fratello?

Adriana    Troverò io il modo di dirglielo, non dubiti.

Io               Non sono ancora re da avere una sentinella alla porta!

Compare all'improvviso Papiano, che fa scendere Sci­pione dal baule e lo manda via con un cenno.

Papiano      Lei dimostra molta umanità, caro signor Meis, sopportando così benevolmente le bizzarrie di questo mio disgraziato Scipione.

Io               Non vorrei venire frainteso...

Papiano      Noi tutti le siamo sinceramente affezionati. An­che Scipione, a modo suo. Perciò si mette davanti alla porta della sua camera. È un bambino. Non è così Adriana?

Adriana    Bisognerebbe spiegargli che non va bene.

Papiano      Lo farò, lo farò. Gli raccomanderò di non im­portunare il signor Meis. Lei qui deve vivere tranquil­lo. Altrimenti la mia cognatina se la prende con me.

Adriana reagisce con imbarazzo.

Adriana      Che c'entro io adesso?

Papiano      Ha visto come si è fatta rossa? È vergognosa come una monachella, Adriana.

Sono rimasto di nuovo solo.

Io               Ma che gioco sta facendo? Mi provoca? Vuole esaspe­rarmi? Adesso tira in ballo anche la simpatia che Adriana mi dimostra... Mi fa un assedio fitto fitto di cerimo­nie che sono tutti uncini per tirarmi a parlare. Non rie­sco più a riposare tranquillo, mi sento i nervi a pezzi e le mani che tremano... Come sa da un momento all'al­tro dovesse succedere qualcosa e se quel vassatore servi­zievole potesse... sì, scoprirmi, strapparmi la maschera.

Pantogada ¡Roma para chi crede en Jesucristo es como Montecarlo para chi crede en el juego!

Io               Questa voce... È lo spagnolo di Montecarlo, il gioca­tore.

Don Antonio Pantogada attraversa il corridoio in com­pagnia di Papiano. Li spio dal buco della serratura.

Come avrà fatto Papiano a trovarlo e a portarlo fin qui?

Pantogada      ¡Dinero! ¡Dinero! Es triste tener que hablar de esto, pero todo el mundo se mueve a forza de dinero! Io también estoy descubriendo la importancia de esta triste palabra. ¡Dinero!

Io               Parla di denaro! Preparano un ricatto, certamente. Ma cosa sa di me quello spagnolo! Mi ha visto a Montecarlo...

Pantogada      Cuando tendré el dinero que me tienen que dar, no molestare mas... Cuando avrò el dinero desapareceré, sparirò en algun sitio solitario come me manda mi naturaleza de hombre solitario. Yo vivo con migo mismo y con la ruleta.

Io               Potrebbe anche non riconoscermi se non fosse per quest'occhio storto, l'unica cosa che mi rimane di Mattia Pascal!!!

Corro a prendere uno specchio, mi scruto.

Non ricordo neppure io che faccia avevo. Ma quest'oc­chio, certo... Devo seguire il consiglio della Caporale, farmi operare. Se scampo a questo ricatto, giuro che lo faccio di corsa...

Papiano fa allontanare Scipione e si avvicina alla mia porta.

Papiano      Signor Adriano, permette?

Papiano entra.

Lei magari stava riposando... 

Io               No, no...

Papiano      Ho ricevuto una visita.

Io               Non ho sentito niente, leggevo.

Papiano prende in mano uno dei libri di Paleari.

Papiano      Anche lei con questa teosofia, come mio suoce­ro? Me li sono leggiucchiati tutti anch'io Leadbeater, Annie Besant, Madame Blavatskij... A proposito, cono­sce Pascal?

Io               Come ha detto?

Papiano      Pascal è un maestro della teosofia. Théophile Pascal.

Io               Il nome non mi è nuovo.

Papiano      Lo immaginavo.

Si siede.

Ora le parlerò francamente,

Io               Parli pure, io l'ascolto.

Papiano      È per questo signore che è venuto qui a trovarmi. Sono ancora tutto sottosopra. Ma lo sa lei chi era?

Io               Se vuole dirmelo, me lo dica.

Papiano      Don Antonio Pantogada, il famoso giocatore di professione. Uno che frequenta tutti i casinò: Biarritz, Ostenda, Baden-Baden, Montecarlo. Lei è mai stato in una casa da gioco?

Io               Perché me lo chiede?

Papiano      Se ne tenga lontano. Ah, caro signor Meis, mi scusi, ma ho proprio bisogno di sfogarmi... Questo Pan­togada è il genero del marchese Giglio d'Auletta. Vent'anni fa sposò l'unica figlia del mio nobile principale, ma poco dopo le nozze fu scoperto dalla polizia in una bisca clandestina e richiamato a Madrid. Da allora in poi il marchese d'Auletta non ha avuto più pace, for­zato continuamente a mandar denaro per i debiti di gio­co del genero incorreggibile.

Io               Allora questo Pantogada è venuto qui?...

Papiano      Vuole altri soldi. Altrimenti minaccia il marche­se di riprendersi la figlia Pepita, una splendida ragazza, sa?, che vive col nonno dopo la morte della madre. Pan­togada è un ricattatore, il suo modo di fare mi disgusta. Va, viene, capace di capitarmi qui nelle ore più impen­sate. Ma lei mi segue? È così pallido...

Io               Il fatto è che stavo pensando ad altro... Avrei preso la decisione di consultare un medico, sì, il dottor Ambrosini. Voglio farmi operare quest'occhio. Mi pare che stia male e oggi tutti mi dicono che sono interventi facilissimi.

Papiano      Non si preoccupi. La cureremo noi e cerchere­mo anche di divertirla... Eh, già, poiché dovrà stare quaranta giorni al buio!

Fa un segno a Scipione. Al buio.

Don Eligio - Scipione con un cenno spegne tutte le luci. Si sente il pianoforte di Silvia Caporale.

Dopo un po', nel buio della mia camera dove sono steso sul letto con l'occhio bendato, appare il signor Anselmo Paleari. Lo intravedo appena nel taglio di luce che arriva dal corridoio.

Paleari       Dorme, signor Meis? L'occhio le fa male?

Io               No, mi annoio un poco. Sa, tanti giorni al buio.

Paleari prende una sedia e viene a sedersi accanto al mio letto.

Paleari       Ma il buio è immaginario.

Io                Davvero? Standoci immerso, non l'avrei mai detto.

Paleari       Se ha pazienza, mi spiego subito. Per nostra di­sgrazia noi non siamo come l'albero, che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l'aria, la pioggia, il vento, non sembra che siano cose diverse da lui: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo è toccato un triste privilegio, quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una real­tà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita... Diciamo questo lanternino che ciascuno di noi porta acceso in sé.

Io               Un lanternino?

Paleari       Sì, un infelice lanternino che ci fa vedere sper­duti sulla terra, e ci fa vedere il male e il bene: un lan­ternino che proietta tutt'intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l'ombra nera, l'om­bra paurosa che non esisterebbe, badi, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo purtrop­po credere vera fintanto che esso si mantiene vivo. Dor­me?

Io               Continui pure, signor Anselmo. Mi pare quasi di ve­derlo questo suo lanternino.

Paleari       Spento alla fine il lanternino dal soffio della mor­te, ci accoglierà davvero quell'ombra fittizia, ci accoglie­rà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione? O non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell'Essere, che avrà rotto soltanto le vane forme della ragione umana? Perciò le dicevo che il buio non esiste. Tutta quell'ombra, l'enorme mistero sul quale invano i filosofi hanno speculato e che ora la scienza non esclu­de, non sarà forse un inganno come un altro, un ingan­no della nostra mente.

Io               Queste sue teorie potrebbe battezzarle: lanterninosofia.

Paleari       Lei scherza, ma ha paura della morte. E io no perché so che la morte non esiste. Non è l'estinzione della vita, ma il soffio che spegne in noi questo lanter-nino, lo sciagurato sentimento che noi abbiamo di essa, penoso, pauroso perché limitato, definito da questo cer­chio di ombra fittizia, oltre il breve ambito dello scarso lume che noi, povere lucciole sperdute, ci proiettiamo attorno, e in cui la nostra vita rimane come imprigio­nata, come esclusa per un certo tempo dalla vita uni­versale, eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre ci rimar­remo, ma senza più questo sentimento di esilio che ci angoscia.

Io               Ah, signor Paleari, vorrei poterle credere.

Paleari       Basta volere, signor Meis. Peccato che forse in un'altra forma di esistenza non avremo più una bocca per poter fare le più matte risate su tutte le vane, stu­pide afflizioni che il nostro lanternino ci ha procurate! Ma è ora di cominciare a prepararci... Le avevo parlato di un altro lanternino, quello visibile, con il vetro ros­so. Eccolo qui. Posso sistemarlo?

Io               Non capisco proprio perché lei dicendo giustamente tanto male del lanternino che ciascuno porta acceso in sé, ora ne vuol accendere un secondo.

Paleari       Correttivo! Un lanternino contro l'altro.

Paleari accende il lanternino che rompe con una luce rossastra il buio della stanza. Entra Adriana.

Adriana    Ha bisogno di qualcosa signor Meis?

Io               Di niente, grazie, signorina. L'occhio va molto meglio.

Paleari       Dammi piuttosto una roano a sistemare la stan­za, Adriana.

Adriana lo asseconda riluttante. Spostano qualche mo­bile per fare posto.

Paleari       Lo so che tu non approvi queste sedute e non vuoi prendervi parte...

Io               Dunque stasera non l'avremo con noi?

Paleari       Scrupoli religiosi, signor Adriano. La religio­ne, di fronte al problema dello spiritismo, drizza orec­chie d'asino...

Adriana    Papà!

Paleari       ... né più né meno della scienza, intendiamoci. Eppure i nostri esperimenti, te l'ho già detto tante vol­te, Adriana, non sono affatto contrari né alla scienza né alla religione. Anzi sono una prova della verità che esse contengono.

Adriana    E se io avessi paura?

Paleari       Di che? Della prova?

Io               O del buio?

Paleari       Anche la fotografia, del resto, ha bisogno della camera oscura.

Io               Siamo tutti qua con lei, signorina. Vorrà mancare lei sola?

Adriana     Ma io... Io non ci credo, ecco... Quando vedo certe cose, non posso crederci... E non capisco come tu, babbo...

Si interrompe perché arriva Papiano portando un tavo­lino rettangolare, d'abete, senza cassetto, senza verni­ce, dozzinale. Lo aiuta il fratello Scipione. Portano den­tro anche un lenzuolo, che appendono a una funicella dietro il posto di capotavola riservato alla signorina Caporale, una chitarra, un collare da cane con molti sonaglioli e altri oggetti. Mentre prepara la scena, Papiano parla in continuazione.

Papiano      Questo lenzuolo, signor Meis, serve, diciamo, da accumulatore della forza misteriosa. Lei lo vedrà agitarsi, gonfiarsi come una vela, rischiararsi a volte di un lume strano, quasi direi siderale! Sissignore. Non siamo ancora riusciti a ottenere materializzazioni, ma luci sì...

Adriana, uscendo, incrocia Papiano intento ai prepara­tivi e lo fulmina con lo sguardo. Lui abbassa gli occhi.

Paleari       Vedrà se la signorina Silvia questa sera si tro­verà in buona disposizione, vedrà.

E intanto accosta la sedia su cui stava seduto al tavolino dello spiritismo.

Papiano      Rea Silvia comunica con lo spirito di un suo an­tico compagno di Conservatorio, morto, Dio ne scampi, di tisi a diciott'anni...

Paleari       Era di Basilea...

Papiano      Un genio, sa, per il pianoforte. Reciso dalla morte crudele prima di dare i suoi frutti.

Paleari       La signorina Caporale comunica con lo spirito di Max. Si chiamava così, Max Oliz. Un'anima del piano astrale, il più prossimo a noi... Purtroppo per comunica­re con gli esseri superiori del piano mentale, ci vorreb­bero altro che le nostre sedute...

Papiano      Bisogna accontentarsi.

Paleari esce a cercare altre sedie.

Io               Ma dica un po', signor Terenzio, lei ci crede proprio?

Papiano      Per dire la verità non riesco a vederci chiaro.

Io               Eh, sfido!

Papiano      Non perché gli esperimenti si fanno al buio. I fenomeni, le manifestazioni sono reali, non c'è che dire, innegabili. Non possiamo mica diffidare di noi stessi...

Io               E perché no? C'inganniamo cosi facilmente...

Paleari rientra con due sedie.

... quando ci piace di credere in qualche cosa.

Papiano      Mio suocero ci crede perché è molto addentro in questi studi. Io, fra l'altro, non ho neanche il tempo di pensarci... Ho da fare tanto con quei maledetti Borboni del marchese.

Paleari esce di nuovo. Papiano fa segno a Scipione di andarsene anche lui.

Papiano      A proposito, le ho preparato una sorpresa.

Io               Di che si tratta?

Papiano      Di un'ospite.

Io               Io non sto ancora bene, non sono in grado di ricevere nessuno.

Papiano      Neanche se le dicessi che si tratta di Pepita Pantogada, la nipote di don Giglio d'Auletta? Il padre è quel giocatore, quel ricattatore... Ma la figlia, vedrà che femmina. Piena di fuoco, con un paio d'occhi fulminan­ti, una bocca... E la dote, poi: tutta la sostanza del mar­chese d'Auletta.

Io               Perché non se la sposa lei?

Papiano      Figuriamoci se il marchese la darebbe a un po­vero segretario... Eppure io so che sarebbe felicissimo di trovarle marito.

Io               E lei magari ha progettato che me la sposi io?

Papiano      Per carità. In queste cose delicatissime non met­to mai bocca. Io voglio semplicemente farle conoscere la signorina Pepita!

Entrano Adriana e Paleari portando una sedia ciascuno.

Io               E come mai il marchese d'Auletta, che lei mi ha de­scritto cos' clericale, permette che la nipote partecipi a una seduta spiritica?

Papiano      Perché sa in quali mani l'affida!

Io               E allora, se a questa seduta partecipa addirittura una rappresentante dell'aristocrazia nera, non vedo perché non possa intervenire anche lei, signorina Adriana.

Paleari      Giustissimo.

Papiano      Non forzatela. Contraria com'è a queste cose, potrebbe rappresentare un elemento negativo.

Adriana     Vado a prendermi un'altra sedia. Stasera resto anch'io.

Esce per prendersi la sedia.

Papiano      Non riesco a digerire i capricci delle donne... Tutt'al più se sono affascinanti come la signorina Pepita!

Accompagnata da Silvia Caporale, entra Pepita Pantogada: una tipica bellezza spagnola, vivacissima e sovrec­citata.

Pepita         jAquí me teneis! Espero no estorbar, no mole­star, sefior Terencio...

Papiano      Ma cosa dice? Conosce mio suocero, Anselmo Paleari... Il signor Adriano Meis...

Presentazioni, strette di mano.

Pepita         Encantada, encantada.

Papiano      Encantati, tutti encantati, signorina...

Pepita nota il lenzuolo.

Pepita         ¿¡Ay, que divertido! ¿A que sirve sto? ¿Es la pantalla?

Papiano      Come dice?

Pepita         ¿Tendremos cine?

Papiano      No, no, niente cinematografo... Qui si tratta di cose serie, señorita.

Rientra Adriana con la sua sedia.

Ma io non prevedevo che fossimo in tanti. Non so se la signorina Caporale se la sente... C'è anche Adrianuccia che s'è messa in capo di star con noi.

Caporale         Per me non mi disturba affatto, anzi.

Papiano      Ma io dicevo per lui, per Max.

Caporale   Sono certa che andrà bene anche per Max. Adriana lo conosce. E quanto alla nostra ospite spagno­la, Max ama le bellezze esotiche.

Pepita         ¡Ay, muchas gracias!

Papiano      Signori, distribuirò i posti. Formiamo la catena. La signorina Silvia a capotavola, sotto il lenzuolo. Qui alla sua destra mi ci metto io e tu, Adriana, vieni accan­to a me... Poi lei, signor Anselmo... Infine la signorina Pepita e il signor Adriano che chiude la catena.

È chiaro che Papiano ha distribuito i posti per tenersi vicina Adriana e mettermi accanto alla Pantogada, che infatti protesta subito.

Pepita         ¡Muchas gracias, asi no puede ser! Yo quiero estar entre el señor Anselmo y el señor Terencio.

Papiano      Per cortesia l'esperimento di stasera può riusci­re solo se riusciamo a mantenere una certa disciplina. Prendetevi le mani, formate la catena.

Tutti eseguono.

Bisognerebbe prima di tutto spiegare al signor Meis, e alla signorina Pantogada il linguaggio... come si chiama?

Paleari       Tiptologico. Un colpo vuol dire sì.

Pepita          ¿Que golpe?

Papiano      Colpi battuti sul tavolino o sulle seggiole o al­trove... O anche fatti percepire per via di toccamenti.

Pepita         ¡Ah, nononono!

Balza in piedi.

Yo no quiero tocamentos.

Papiano      Ma sarà opera dello spirito di Max, signorina. Niente di male, si rassicuri.

Io               Saranno semplici toccamenti tiptologici.           

Paleari       Allora: un colpo: sì; due colpi: no; tre: buio; quattro: parlate; cinque: luce. Basterà così. E adesso concentriamoci...

Qualche attimo di concentrazione, poi la signorina Caporale comincia a parlare come in un leggero dormiveglia.

Caporale         La catena. La catena va cambiata.

Paleari       Abbiamo già Max?

Caporale         Sì. Ma stasera siamo in tanti...

Papiano      Troppi! Io l'avevo detto! Mi sembra però che disposti così stiamo benone...

Paleari       Zitto! Sentiamo ciò che vuole Max.

Caporale   La catena non gli pare bene equilibrata... Il secondo alla mia sinistra...

Pepita         ¡Soy yo!

Caporale         ... prenda il posto del secondo alla mia destra!

Paleari       Adriana, tocca a te. Presto, vai al posto della si­gnorina Pantogada.

Le due donne si scambiano di posto. La Caporale ha vo­luto favorire me e Adriana: nella catena qualcuno è soddisfatto, qualcun altro freme. Solo il signor Anselmo è completamente immerso in quello che considera un affascinante esperimento di comunicazione con il piano astrale.

Paleari       Silenzio!

Il tavolino batte tre colpi. Buio!

Papiano va a spegnere il lanternino rosso. Dopo un at­timo la Caporale caccia uno strillo acutissimo, che ci fa sobbalzare tutti quanti sulle seggiole.

Tutti          Che succede? Luce! Luce!

Papiano riaccende il lanternino rosso. La signorina Caporale ha ricevuto un formidabile pugno sulla bocca: le sanguinano le gengive.

Caporale         Un pugno... un pugno tremendo... qui...

Pepita         ¡Gracias, senores! ¡ Gracias! ¡Aqui se dano cachetes!                                                            

Caporale         Basta! Basta! Non voglio più!

Paleari       Ma no, ma no! Signorina Silvia, questo è un fatto nuovo, stranissimo. Bisogna chiederne spiegazione.

Io               A Max, naturalmente.

Paleari       E a chi se no?

Io               Già, a chi?

Paleari       Max violento! E come si spiega? Quando mai?

Papiano      Io credo che lei, cara Silvia, abbia male inter­pretato i suggerimenti di Max nella disposizione della catena. Se tornassimo a prendere i posti di prima...

Io               Domandiamo una spiegazione direttamente a Max. Se poi dovesse dimostrarsi ancora uno spirito... di poco spirito, lasceremo andare.

Papiano      Domandiamo pure, io ci sto.

Caporale         Ma non ci sto io, così!

Papiano      E lo dice a me? Se lei vuol lasciare andare...

Adriana    Penso che sarebbe meglio.

Paleari       Ecco la paurosa! Sono puerilità, perbacco! Scu­si, lo dico anche a lei, Silvia! Sarebbe un peccato, via, proprio stasera che i fenomeni accennano a manife­starsi...

Io               Con energia.                     

Paleari       Appunto.

Adriana    Io dico che è meglio smettere.

Io               Non abbia timori. Se il gioco diventerà troppo pesan­te, lo faremo durar poco.

Papiano      Seguiamo pure il consiglio del signor Meis, pro­viamo a domandare una spiegazione a Max. Seduti e ri­formate la catena.

Spegne il lanternino.

Paleari       Max, Max Oliz... Ci sei? Un colpo, lieve, sul tavolino. C'è! E come va, Max, che tu, tanto buono, tanto gentile, hai trattato così malamente la signorina Silvia? Ce lo vuoi dire?

Due colpi secchi e sodi: no.

No. Non vuoi. Non insistiamo. Tu sei forse un po' al­terato, eh, Max? Lo sento, ti conosco... Vorresti alme­no dirci se la catena così disposta va bene?

Io               Sì!

Papiano      Ma io non ho sentito nessun colpo.

Io               Un colpetto... leggerissimo, qui sulla fronte... L'ho sentito io.

Papiano      Ne è proprio sicuro?

Io               Eh, un po' alla volta sto diventando un bravo spiritista.

Paleari       È merito di Max! E ora, Max caro, vorresti da­re un segno della tua benevolenza anche a noialtri?

Un arpeggio lieve sulle corde della chitarra.

Sentito? La chitarra? È lui, è Max...

Altri arpeggi.

Inconfondibile! La mano di un grande musicista!

Io               Ma non suonava il piano? Dopo morto ha cambiato strumento?

La provenienza dei suoni sta mutando.

Paleari       Zitto! Ascoltiamo... Il suono, arriva da quella parte...

Altro arpeggio dalla parte opposta della stanza.

Adesso di là... di qua... di là... di qua...

Io                È un vero suonatore ambulante.

Improvviso suono di sonagli, che si dirigono verso il punto in cui è seduta la Caporale.

Paleari       I sonagli... I sonagli!

Caporale         Ma cosa succede? Soffoco! Qualcosa alla go­la... qui... Mi stringe...

Continua il suono dei sonagli sempre dallo stesso punto.

No, questo no! Perché?... Maledetto... Ahi!

Adriana    Io non resisto, fermate!

Io               Luce! Accendete la luce!

Paleari       Accendo io il lanternino.

Alla luce del lanternino rosso si scopre che qualcuno ha messo intorno al collo di Silvia Caporale il guinza­glio del cane con i sonagli... La signorina porta le due mani al collo, come se volesse strapparsi il guinzaglio.

Caporale   Soffoco... Soffoco...

Mi affretto a liberarla dal guinzaglio.

Paleari       Magnifico! Stupendo! Questo non s'era mai verificato.

Papiano      Forse Max avrà pensato che la signorina Silvia corre troppo e le avrà voluto mettere il collare.

Adriana    Non si tratta una persona in questo modo! È una cosa vergognosa.

Va ad abbracciare Silvia, che nasconde il volto sul petto dell'amica.

Papiano      Adrianuccia vuoi insegnare la buona creanza an­che agli spiriti.

Io               A lui, a lui avrei dovuto insegnare la buona creanza! Fermare questa buffonata ignobile, proteggere la Caporale che per me e per Adriana si era ribellata a Papiano. Ma io non pensavo più a nulla, a nulla se non alla ma­nina di Adriana, le cui dita nel buio avevo intrecciato alle mie... Tenevo a quella manina un lungo discorso, stringente e pur carezzevole, che essa, la mano, ascolta­va tremante e abbandonata. E anch'io volevo andare avanti, più avanti, come gli altri intorno, senza prevede­re, come gli altri...

Paleari       Spaventarsi per tanto poco e abbandonare una serata così? Mai! Andiamo avanti.

Papiano      Ai vostri posti! la catena!

Mentre si riforma la catena, Papiano spegne il lanternino.

Paleari       Max, caro Max, ti siamo molto grati dei suoni di chitarra... Ci siamo divertiti allo scherzo che hai vo­luto fare a Silvia. Non se l'è mica presa, sai? Adesso vedi se puoi farci qualche altra cosa... Non so... Un fe­nomeno di tuo gusto... Quello che ti pare...

Il lenzuolo comincia a riverberare luci fosforiche, come fuochi fatui.

Bello, bellissimo... Sono i fuochi fatui... Tu sei maestro, Max, nell'arte delle luci... Vai avanti, vai avanti cosi...

Dal lenzuolo, adesso gonfio come una vela, comincia a riverberare una luce biancastra che permette di intra­vedere qualcosa nel buio.

Pepita         ¡No!

Paleari       Ha sentito qualcosa, signorina Pantogada?

Pepita         Aqui, en la mejilla, una caricia...

Paleari       Con la mano? Delicata, è vero? Fredda, furti­va e delicata...

Pepita         Juegos de manos, juegos de villanos.

Paleari       Macché, Max se vuole sa essere gentile con le donne... Vediamo un po', Max potresti rifare la carezza alla signorina? Dolcemente...

Pepita reagisce ridendo.

Pepita         ¡Aquf està! ¡Aqui està!

Paleari        Che vuol dire?

Pepita          ¡Me acaricia! ¡Me acaricia!

Io               E un bacio Max?

Pepita         ¡No! ¡No! Ah...

È certo qualcuno che sta baciando Pepita. Io ne appro­fitto per portare alle labbra la mano di Adriana. Lei non resiste. Allora mi chino a cercare la bocca di lei e così il primo bacio, lungo e muto, viene scambiato fra noi. Ma subito un gran colpo, un colpo formidabile, viene vibrato sul tavolo. Tutti si alzano, gridano, Papiano ac­cende dei fiammiferi... Infine viene accesa anche la luce grande, mi copro l'occhio bendato per non venir offeso dall'improvviso chiarore.

Papiano      Scipione! Scipione!

L'epilettico è per terra, in mezzo alla stanza, e rantola stranamente. Papiano si precipita ad assisterlo.

Paleari       A sedere! È caduto in trance anche lui... Ecco, ecco... Il tavolino si muove, si solleva, si solleva... La le­vitazione... Bravo Max... Evviva!

E davvero il tavolino, senza che nessuno lo tocchi, si leva alto più di un palmo dal suolo e poi ricade pesan­temente. La Caporale livida, tremante, atterrita, si av­vinghia a Adriana, altrettanto sconvolta.

Caporale   Adriana, Adriana... Non capisco. Stasera è sta­to tutto così...

Pepita ne ha abbastanza e ha deciso di andarsene.

Pepita         ¡Todo esto no me gusta! ¡No son cosas para mi! ¡Juegos de manos, porcarias! ¡No quiero tener nada que hacer con el espiritismo! ¡Es una cosa asqueroza! ¡Me marcho! ¡Me marcho!

Se ne va in gran fretta.

Paleari       No, qua... Venga qua... Venite tutti, non rom­pete la catena! Ora avremo il meglio! Max, Max!

Papiano      Macché Max! Non vede che Scipione sta male?

Paleari       Max è buono... Non può avergli fatto male, non è stato Max!

Paleari si avvicina a Scipione e Papiano per constatare ciò che è successo.

Io               Non è stato Max, basta guardare il terrore sulla faccia di Papiano e della signorina Caporale per convincerse­ne... Max lo hanno inventato loro per ingannare questo povero vecchio... Ma quale altra forza misteriosa ha agi­to allora sotto gli occhi miei e di tutti? Sento che in qualche modo la cosa riguarda proprio me...

Mi balena un dubbio, che nell'emozione del momento diventa quasi una certezza.

Sei tu? Sei lo sconosciuto che si è affogato al mio posto nella gora della Stia? Sei l'essere umano senza volto, senza identità, al quale io ho rubato involontariamente il compianto del mondo? E magari, invece, volevi che il tuo gesto fosse conosciuto, che la tua triste fine si sa­pesse... Riparazione, espiazione, vendetta: perché l'hai fatto? Perché hai cercato la morte? Perché sei sepolto al posto mio nel cimitero di Miragno? Non me lo sono mai chiesto, non ho mai pensato a te: soltanto a me stesso. Perciò mi hai seguito fin qui? Vuoi distruggere anche me, rivelando a tutti il mio segreto? Non farlo, proprio adesso che un bacio mi ha risvegliato nel cuore tante speranze. Non farlo, compagno invisibile. Abbi pietà.

Intanto Papiano ha fatto rinvenire Scipione e lo ha ac­compagnato fuori. Anche la Caporale è uscita, sorretta da Adriana. Mi viene accanto il signor Anselmo, ancora tutto eccitato.

Paleari       Anche lei si è emozionato tanto per la levita­zione del tavolino? Ma è un fenomeno cosi semplice, niente in confronto a quel po' po' di meraviglie cui ci ha fatto assistere stasera il buon Max.

Io               Ma, signor Anselmo, non ha visto Scipione in mezzo alla camera, svenuto? Non ha pensato a che cosa stava facendo lì?

Paleari       Si vede che queste nostre sedute misteriose lo hanno incuriosito. Sarà venuto a spiare, sarà entrato furtivamente, e allora... paffete, acchiappato.

Io               Acchiappato?

Paleari       Ma certo. I fenomeni straordinari della media-nità traggono origine dalle nevrosi epilettica, cataletti­ca e isterica. Max prende da tutti, sottrae anche a noi buona parte d'energia nervosa, e se ne vale per la pro­duzione dei fenomeni. È accertato. Non si sente anche lei come se le avessero rubato qualcosa?

Se ne va.

Io               Se mi hanno rubato qualcosa? Mi sento io un ladro, al­troché.

Rimasto solo, comincio a togliermi la benda intorno all'occhio. Mentre mi guardo allo specchio, mutato, sen­za l'occhio storto, con folti baffi e un principio di barba che mi fanno somigliare a un Mattia Pascal nobilitato, migliorato, appare lei.

Adriana    Come sta bene, signor Adriano. L'occhio... e il pizzetto che s'è fatto crescere... È felice?

Imbarazzato le faccio cenno di sì. Lei mi porge una busta.

Io               Una lettera?

Adriana    Sarà la nota del dottor Ambrosini. Il servo vuol sapere se c'è risposta

Io               Subito. Adriana...

Adriana           Sì?

Non so resistere al desiderio di abbracciarla.

Io               Solo da quando l'ho baciata sento di vivere davvero un'altra vita...

Lei alza il viso, ma io non la bacio.

Adriana    Perché?

Io               Povera Adriana.

Adriana    Perché? Non siamo felici?

Io               Sì... sì...

Adriana    E allora perché povera?

La sciolgo dall'abbraccio.

Io               Perché so tante cose per cui lei non può essere contenta.

Adriana     Cose che sa lei... per sé... O qui, di casa mia?

Faccio un cenno per dire: qui, qui. Lei mi abbraccia di nuovo e appoggia il capo sulla mia spalla.

Io               (Devo mentire. Come posso dirle che io non sono io? Che l'ho baciata con le labbra di un morto? Che sono Mattia Pascal e sono ammogliato? È il colmo, questo, della persecuzione che una moglie può esercitare sul ma­rito: liberarsene lei, riconoscendolo morto nel cadavere di un povero annegato, e pesare ancora, dopo la morte, su di lui, addosso a lui, così...)

Adriana    Certo qui in casa ho poco di che rallegrarmi.

Io               (Non so perché non mi rivelo, non mi dichiaro vivo, non dico tutta la verità... Basterebbero poche parole… poche parole).

Adriana    Adesso, però, con lei vicino...

Io               Come? Ah, sì... Vedrà... Vedrà che noi due insieme...

Lei si scioglie dolcemente dal mio abbraccio.

Adriana    Non vuol pagare il dottor Ambrosini?

Lacero la busta e mi sforzo di assumere un tono scherzoso.

Io               Seicento lire. Guardi un po', Adriana: la natura mi fa una delle sue solite stramberie. Per tanti anni mi con­danna a portare un occhio disobbediente, io soffro dolori e prigionia per correggere lo sbaglio e ora per giunta mi tocca pagare seicento lire.

Intanto sto cercando i soldi nello stipetto a muro dove ho messo il denaro. Ma la chiave non gira nella serra­tura.

Adriana     Forse il dottor Ambrosini non sarebbe conten­to se lei gli rispondesse di rivolgersi alla natura per il pagamento... Ma che succede?

Lo sportellino cede: era aperto.

Io               Lo sportellino è aperto. Possibile che l'abbia lasciato io così? Ma qui qualcuno ha messo le mani... Il denaro è tutto in disordine.

Adriana    Lo conti... Lo conti...

Io               Ma com'è possibile? Dieci... Venti... Quaranta... Cin­quantatre!

Adriana    Quanti?

Io               Dodicimila lire... Erano sessantacinque biglietti da mille, sono cinquantatre. Conti lei.

Adriana è sgomenta, ha quasi un mancamento. La fac­cio sedere sulla poltrona. Guardo in giro per la stanza, nei cassetti, nel portafoglio niente.

Niente, neanche nel portafoglio.

Adriana    Chiamo il babbo.

Io               No! Aspetti! Non si agiti così, per carità. Che c'entra lei? Mi lasci prima accertare... Io non posso, non voglio credere ancora a un furto. Dieci, venti, trenta...

Mi rimetto febbrilmente a contare il denaro, ma Adriana ha già capito.

Adriana     È inutile; ladro, anche ladro. Tutto congegnato avanti... Ho sentito qualcosa nel buio, m'era nato il so­spetto... Il fratello, durante quell'assurda seduta spiri­tica... Ma non potevo credere che arrivasse a questo. E come pensare che lei tenesse tanto denaro in casa?

Io               Ma potevo mai supporre?...

Adriana si alza in piedi; decisa.

Adriana     Adesso lei lo denuncerà! Mi lasci, la prego, chia­mare il babbo! Lei lo denuncerà subito!

Io               Adriana, lei non dirà niente! Glielo impongo. Non di­rà niente a nessuno, capito? Vuole uno scandalo?

Adriana     Voglio soltanto liberare la mia casa dall'ignomi­nia di quell'uomo!

Io               Ma lui negherà. E allora, lei, tutti di casa, innanzi al giudice... non capisce?

Adriana     Neghi, neghi pure. Noi per conto nostro abbia­mo altro da dire contro di lui. Lei lo denunci, non ab­bia riguardi, non tema per noi... Ci farà un bene, creda, un gran bene! Vendicherà la povera sorella mia... Io vo­glio, voglio che lei lo denunci. E se non lo fa lei, lo fa­rò io!

Cerco in tutti i modi di placarla.

Io               Si tranquillizzi, farò come vuole lei. Non per me, per liberare la sua casa da quel miserabile. Ma prima si cal­mi, non pianga più così... E poi mi giuri, su quanto ha di più caro al mondo, che per ora non parlerà a nessuno del furto... A nessuno!

Adriana    Ma perché?

Io               Voglio prima consultare un avvocato. Per le conse­guenze, capisce, che né io né lei possiamo prevedere. Sa­prà tacere? Me lo giura?

Adriana esita, poi esce con passo risoluto.

Dodicimila lire! Poche! Poche! Possono levarmi tutto, levarmi perfino la camicia di dosso! Tutto, tutto!

Adesso sono tutti intorno a me: Silvia Caporale, il si­gnor Anselmo, Adriana. E Papiano, sconvolto, tiene per la collottola il povero Scipione senza giacca, con le scar­pe in mano, e gli assesta un calcio che gli fa attraversare tutta la scena.

Caporale         È dunque vero? Dodicimila lire?

Paleari       Hanno forzato lo stipetto?

Papiano      Se è stato chi penso io... pagherà.

Indica il fratello Scipione con il dito teso. Quel pove­retto mi fa pena: vado verso di lui, gli tendo la mano, lo aiuto a rialzarsi. E cosa posso dire, a questo punto?

Io               Ho ritrovato il denaro.

Adriana caccia un urlo e si copre il volto con le mani.

Adriana    No!

Papiano      Come?

Paleari       Ritrovato?

Caporale         Possibile?

Adriana           No, no!

Vado verso Papiano, gli tendo la mano.

Io               Mi scusi tanto. Lei, e tutti... Mi scusino.

Papiano, sbalordito, non osa quasi stringermi la mano.

Sono proprio dolente dello scompiglio, del grave dispia­cere che, senza volerlo, ho cagionato.

Paleari       Ma no, cioè sì, veramente... Ecco, era una cosa che... non poteva essere, perbacco! Felicissimo, signor Meis, proprio felicissimo che lei abbia ritrovato il suo denaro perché...

Adriana     Ma se lei ha guardato, me presente, anche nel portafoglio. Se lì, nello stipetto...

Io               Ho cercato male, evidentemente. Tanto che poi ho ri­trovato tutto. Chiedo anzi scusa a lei in special modo, signorina Adriana, che per la mia storditaggine...

Adriana    No! No! No!

Rompe in singhiozzi e se ne va precipitosamente dalla sala.

Caporale   Ma che uomo è lei, signor Adriano? Capace di dire una cosa per l'altra in una faccenda come questa?

Io               Quanto a menzogne, non sarei l'unico qui dentro. Compresi lei e il suo amico.

Caporale         Di quale amico sta parlando? Io non ho amici.

Io               Di Max, naturalmente.

Paleari       Che c'entra il povero Max, adesso?

Io               Ha ragione, non c'entra. Mi sono lasciato trasportare.

Caporale   Con me sì: non sono bella, non sono buona e dunque se gli uomini con me si mostrano cattivi, un'om­bra di scusa possono averla. Ma Adriana, perché farla soffrire così?

Io               Soffrire? Se ormai...

Caporale   Ormai niente. Adriana non crede che lei ab­bia ritrovato il denaro.

Io               Via, signorina Silvia: dodicimila lire non sono una bazzecola. Le pare che io potrei sacrificare, per non so qua­le motivo, una somma simile?

Caporale   Forse Adriana crede che lei possa avere qual­che ragione per...

Io               Ma no, ma no! Fossero trenta, quaranta lire, eh via! Non ho di queste idee generose, creda pure... Che dia­mine! Ci vorrebbe un eroe.

Caporale   O un pazzo. Oppure un uomo che non è de­gno, no, di vivere in mezzo alla gente... Non è degno, non è degno...

Mi volta le spalle e se ne va anche lei.

Papiano      Io non ho potuto, creda, neanche dire di no... Quando mi hanno... qua, preso in mezzo... Mi sono pre­cipitato su mio fratello che... nella sua incoscienza, ma­lato com'è, irresponsabile... Chi sa! Si poteva immagi­nare che... Mi son veduto costretto a spogliarlo, a fru­gargli addosso... Una scena selvaggia! Dappertutto, ne­gli abiti, fin nelle scarpe... E lui, ah!

Il pianto gli fa impeto alla gola.

Dovevo... Dovevo andarmene... Anzi, tutto questo è ac­caduto perché io... così, innocentemente, avevo annun­ciato che volevo andarmene, per via di mio fratello che non si può più tenere in casa... Il marchese anzi mi ha dato... L'ho qua... una lettera per il direttore di una ca­sa di salute a Napoli... E mia cognata allora che ha per lei... meritatamente, tanto... tanto riguardo... è saltata su. A me questo! Al proprio cognato! L'ha detto in fac­cia a me, forse perché io, miserabile ma onorato, debbo ancora restituire qua, a mio suocero, la dote della sua disgraziata figliola.

Paleari       Ma che vai pensando, adesso!

Papiano      No! Io ci penso! Ci penso sempre, non dubita­te. E se me ne vado... Povero, povero, povero Scipione!

Piangendo abbraccia il fratello.

Paleari       E che c'entra più, adesso?

È incredibile, ma Papiano piange davvero. Si rivolge ancora a me.

Papiano      Vede? Con questo pianto io mi prostro, mi in­ginocchio quasi ai suoi piedi, lei lo capisce... di lei, che ha scoperto di avere ritrovato il denaro proprio nel pun­to in cui io accusavo... o almeno lasciavo intendere...

Io               Io capisco che in questo suo rimorso verso suo fratel­lo lei è sincero. Ma se io avessi fatto male i conti? Se scoprissi che quel denaro mi manca davvero?

Papiano      Adesso, perché mi vede così?

È pronto a rivoltarmisi contro.

Avrebbe fatto davvero male i suoi conti se si lasciasse ingannare dal mio avvilimento, signor Meis. Del resto...

Io   Del resto?

Papiano mi indica Scipione.

Già. Io non ho salvato che Scipione, lei dice... il quale, in fin dei conti, ove io lo avessi davvero denunciato, non avrebbe forse avuto a patir nulla, data la sua infermità...

Papiano      Povero, povero fratello mio!

I due Papiano escono abbracciati. Al signor Anselmo non resta che rivolgermi l'ultimo granellino di «lanterninosofia».

Paleari       Eh, signor Meis, sono momenti di gran buio, di gran confusione... In ogni età della storia si suole stabi­lire fra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà luce e colore a quei lanternoni che sono i grandi ter­mini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore... Ma ci so­no, nella storia, certe fiere ventate che spengono d'un tratto tutti quei lanternoni. Nell'improvviso buio, allo­ra, è indescrivibile lo scompiglio dei singoli lanternini: chi va di qua, chi di là, s'aggruppano a caso ma non pos­sono trovare un accordo. Noi, signor Meis, ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Tutti i lanternoni spenti, gran buio e gran confusione. Io, lei, tutti vaghia­mo a tentoni. Chi sa dove stiamo andando?

Se ne va scuotendo la testa. Mi guardo in giro: è come se volessi imprimermi bene nella memoria la scena del­la mia seconda vita. Che potrei fare ancora in questa ca­sa? Prendo il mio largo cappello da filosofo tedesco e mi avvio per andarmene. Sull'uscio incontro Adriana: ha gli occhi di pianto in un volto fermo e quasi duro.

Io               Signorina Adriana, sto andando via. Eppure le assicu­ro che sparire così, senza una spiegazione... Capisco che le sarò apparso inconseguente e crudele. Perfino Papiano, il ladro, le sarà apparso più conseguente e meno cru­dele di me. Ma se lei avesse accolto la mia preghiera di starsene zitta...

Mi folgora con lo sguardo.

Sì, certo: lei credeva di far bene. Anzi, ha fatto bene senz'altro. Meglio così. Cosa resta da dire? Non trovo le parole. E anche se le trovassi, sono troppo abituato a te­nere le cose dentro di me, a vivere come se fossi due persone... Lei non può capire, io non posso spiegare e quindi... Addio, addio, mammina.

Faccio un gesto, come per accarezzarla, ma non oso e me ne vado quasi di corsa. Mi ritrovo tutto affannato sul Ponte Margherita a guardare con occhi sbarrati il fiume nero nella notte.

Sì, la scena è proprio questa. Va benissimo così. Il pon­te Margherita, di notte, con il fiume nero che scorre di sotto. Nessuno che passa. Il buio pronto a inghiottirmi. Qui si consumerà l'ultimo atto della mia esistenza: che cos'altro mi resta da fare? Posso agire con calma, con metodo: ho tanto di quel tempo... Mi tolgo il cappello... la finanziera... le scarpe... Sarà roba di un minuto. Del resto è come se sapessi tutto, l'esperienza l'ho già fatta. Vedo i giornali: «... il corpo dell'annegato è stato rico­nosciuto per quello di Adriano Meis, torinese, pensio­nante presso la famiglia del cavalier Anselmo Paleari, caposezione al Ministero della pubblica istruzione, ora a riposo... Si ignorano le ragioni che hanno spinto il po­veretto al triste passo». Le ragioni? Mi sono aggirato due anni come un'ombra in un'illusione di vita oltre la morte... Un'ombra e ciascuno può passarci sopra, schiac­ciarmi la testa, schiacciarmi il cuore... e io, zitto... e l'ombra, zitta. Aveva un cuore, quell'ombra, e non poteva amare. Aveva denari, quell'ombra, e ciascuno poteva rubarglieli. L'ombra di un morto, ecco la mia vita. E ora sono costretto, forzato, trascinato per i capelli a eseguire la condanna su me stesso...

Mi alzo in piedi sul parapetto, quando dallo strappo nel cielo comincia a piovere su di me la luce che trasforma Oreste in Amleto.

Ma la condanna di chi? Di mia moglie e di mia suocera, che mi hanno voluto e riconosciuto morto mentre io non avrei mai pensato a simulare un suicidio per liberarmi di loro. O sbaglio?

È riapparso, accanto a me, il fedele don Eligio.

E adesso chi sto per uccidere io? Un morto! Nessuno! Certo in via Ripetta non posso tornare, certo Adriano Meis prima sparisce e meglio è... E se suicidassimo lui?

Ma sì, ma sì: come mia moglie e mia suocera, là nella gora del mulino, Mattia Pascal, io ora qui Adriano Meis... Una volta per uno!

Salto giù dal parapetto, don Eligio mi aiuta a rimettermi la finanziera e mi porge le scarpe.

Non c'è da aver pietà per Adriano Meis! Vile, bugiar­do, miserabile... Falso tutto come il suo nome: cervel­lo di stoppa, cuore di cartapesta, vene di gomma, acqua tinta al posto del sangue... Buttiamolo nel fiume questo triste fantoccio odioso, annegato come Mattia Pascal. Una volta per uno! Così quest'ombra di vita, sorta da una menzogna macabra, si chiuderà degnamente con un'altra menzogna macabra. Adriana soffrirà? Forse... Ma in questo modo le do anche una grande soddisfazio­ne per il male che le ho fatto! Se io per te non potevo essere vivo, Adriana, meglio che tu mi sappia morto. Morte le labbra che colsero quel bacio sulla tua bocca. Povera Adriana... Dimentica, dimentica! Qua il cappel­lo... Mettiamolo sul parapetto... Un pezzo di carta, un lapis...                 

Me li porge don Eligio.                                         

Ci scrivo il nome di quell'altro, così... Adriano Meis... l'indirizzo di via Ripetta e la data di oggi... Basterà a far capire ogni cosa.

Infilo il biglietto nel nastro del cappello, ripiegato e lo poso sul parapetto.

Non le sembra di aver sentito il tonfo, don Eligio, giù nell'acqua torbida del fiume? Con questo, lui è morto. Adriano Meis non c'è più. Io ritorno me stesso, sono quello di prima...

Mi è venuta l'idea che sono Mattia Pascal. Don Eligio annuisce vigorosamente, mi incoraggia a tornare me stesso.

Sono Mattia Pascal! Sono Mattia Pascal! E arrivo dal­l'altro mondo!

Ed ecco qua, bloccate come in una fotografia dal mio an­nuncio gridato, pallide, esterrefatte, la vedova Pescatore e Romilda. Ma un attimo dopo compare anche Mino Pomino, in giacca da casa e pantofole, e si blocca in un at­teggiamento analogo. Che fa Pomino in casa con le due donne? E Romilda ha il busto slacciato e in braccio un poppante. La vedova Pescatore caccia un urlo esagerato e fuori tempo.

Zitta! Mi prendi davvero per un fantasma?

Pescatore Vivo?

Io               Vivo, vivo! Ti era piaciuto riconoscermi morto là nella gora?

Pescatore  Non eri tu?

Io               Crepa, megera. Io sono vivo.

Romilda ha un mancamento. Pomino accorre a sorreg­gerla.

Pomino       Per carità... la piccina... Ho paura... il latte... Lo afferro per un braccio.

Io               Chi è questa piccina?

Pomino       Mia figlia.             

Pescatore        Si sono sposati un anno fa. Mentre tu eri morto.

Romilda sviene fra le braccia di Pomino, io sono pronto a raccogliere la piccina e resto così con quel fagottino in braccio. Mi viene la curiosità di guardarla.

Pomino       L'aceto, presto! I sali!

La vedova Pescatore corre a prendere le boccette. Io in­tanto mi adagio la bambina sul petto e comincio a batterle pian pianino una mano sulle spallucce e a dondolar­la passeggiando. E subito la vecchia, rientrata con i sali, mi attribuisce chissà quali intenzioni.

Pescatore  La piccina! Che vuoi farne?

Io               Me la mangio. Che faccio? L'avete buttata in braccio a me, ora lasciatemela stare. E poi voglio parlare con mia moglie.

Pomino       Ma è svenuta.

Io               La faremo rinvenire.

Pomino       Senti, Mattia, non potresti parlare con me?

Io               No! Con lei devo parlare. Tu qua non rappresenti più niente!

Pomino       Come? Io?

Io               Il secondo matrimonio diventa nullo alla ricomparsa del primo coniuge. Lo dice la legge.                          

Pomino       Ma che legge è questa? È una legge turca!       

La Pescatore mi si avventa addosso con i pugni alzati.

Pescatore        Ah, maledetto! Maledetto!                       

Non posso respingerla con le mani, che sorreggono la bambina, perciò le assesto quasi un calcio.

Io               Se avete da strillare, strillate con lui. È lui vostro ge­nero, io non vi conosco.

Mi chino verso Romilda, che piange disperatamente, e le porgo la figliola.

Su, tieni la piccola... Perché piangi? Piangi perché sono vivo? Mi volevi morto? Guardami... su, guardami in faccia! Vivo o morto?

Romilda    Ma tu... tu... Dove sei stato? Che hai fatto?

Io               Lo domandi a me che ho fatto? Tu hai ripreso mari­to... quello scemo là... Tu hai messo al mondo una figlio­la, e hai il coraggio di domandare a me che ho fatto?

La Pescatore tenta un altro assalto.

Pescatore Ah, cane! Ah, vigliacco! Ti ammazzo io con queste mani!

Pomino cerca di mettersi in mezzo.

Pomino       No, no, Marianna. Calmatevi, per l'amore di Dio.

Pescatore Ma sta' zitto, tu, melenso, balordo, buono a niente, che non sai fare la tua parte di uomo... Imbecille che ti farai strappare tua moglie e tua figlia dal primo ca­davere a spasso...

E se ne va. Lo sfogo della vedova contro Pomino mi mette una grande ilarità.

Io               Basta, basta così! Vedo che in questa casa hai proprio occupato il posto che tenevo io... e con che cuore potrei portartelo via?

Pomino       Allora, tu...?

Io               Aspetta. Che fretta c'è? Dammi il tempo di guardare nostra moglie...

Giro intorno a Romilda, che intanto ha consegnato alla madre la bambina da portar fuori. La osservo bene. Si è fatta più bella.

Posso? Non c'è niente di male. Sono marito anch'io, Pomino, anzi prima e più di te. Non ti vergognare, via, Romilda! Guarda, guarda come smania Mino... Ma che vi posso fare se non sono morto davvero?

Pomino       Così non è possibile?!

Io               S'inquieta, lo vedi Romilda? No, via, calmati, Mino... solo, aspetta... con permesso.

Mi accosto a Romilda e le dò un bacio.

Pomino       Romilda!

Io               Geloso di me? Va là! Ho diritto alla precedenza... E adesso lei, sì, mi pare un sogno, mi pare quella di prima che ci sposassimo. È ridiventata una bellezza... Ricordi, eh, Romilda? Portami via, portami via... Perché non l'ho fatto? Ti rimetti a piangere? Su, smettila... puoi guastarti il latte e far male alla tua piccina... Io ora sono vivo e voglio stare allegro. «Allegro!» come diceva un certo ubriaco amico mio. Allegro, Pomino!

È rientrata la vedova.

Pescatore Ti venisse un accidente in questo stesso mo­mento!

Io               Mi credete davvero cosi pazzo da ridiventar vostro genero? Ah, povero Pomino. Scusami, sai, se ti ho dato dello scemo. Ma anche tua suocera, vero? Non ti tratta con i guanti. E prima ancora me l'aveva detto Romilda, nostra moglie, che le parevi imbecille, brutto, insipido, e non so che altro. È vero, Romilda? Di' la verità...

Romilda    Sei tornato per metterci tutti alla tortura?

Io               Sono tornato perché questa morte apparente, credete­mi, era una morte vera. E cosi Romilda, abbiamo fatto pari e patta: io ho un figlio, che per tutti è figlio di Malagna, e tu adesso hai una figlia che è veramente figlia di Pomino. Se Dio vuole, li mariteremo insieme un giorno. Quanto alla vostra pace familiare, tenetevela. Io davve­ro non ci tengo più. Dico bene, doppia suocera?

Pomino       E tu rimarresti qua, a Miragno?

Io               Sicuro. E verrò qualche sera a prendermi in casa vo­stra una tazza di caffè.                                        

Pescatore        Questo no!

Romilda    Ma se scherza...

Io               Vedi, Romilda? Hanno paura che riprendiamo a fare all'amore... Sarebbe davvero carina! No, no: non tor­mentiamo Pomino. Vuol dire che se lui non mi vuole più in casa, mi metterò a passeggiare giù per la strada, sotto le tue finestre. Va bene? E ti farò tante belle se­renate.

Pomino       Sta di fatto che lei, con te qua vivo, non sarà più mia moglie.

Io               Ma credi davvero che verrò a darti fastidio se Romilda non vuole? Deve dirlo lei.

Pomino       Ma io dico di fronte alla legge!

Io               Oh, insomma. Volevo vendicarmi e non mi vendico: ti lascio la moglie, ti lascio in pace, e non ti contenti? Su, Romilda, andiamocene via noi due! Ti propongo un bel viaggio di nozze! Ci divertiremo! Perché l'alternati­va che mi offre il tuo Pomino è semplice: andarmi a buttare per davvero nella gora della Stia.

Pomino       Non pretendo tanto. Ma vattene, almeno! Vattene subito lontano senza farti vedere da nessuno!

Io               Morto di nuovo? Lontano dal mio paese? Tu scherzi, Pomino caro. Va' là: fai il marito in pace, senza sogge­zione... Il tuo matrimonio, comunque sia, s'è celebrato. Tutti approveranno, considerando che c'è di mezzo una creaturina. Ti prometto e ti giuro che non verrò mai a importunarti, neanche per una miserabile tazza di caffè, neanche per godere del dolce spettacolo della vostra fe­licità edificata sulla mia morte. Ingrati! Scommetto che nessuno di voi è andato a posare una corona di fiori sul­la mia tomba, là nel camposanto.

Pomino       Ti va di scherzare.

Io               Sepolto là c'è davvero il cadavere di un uomo e non si scherza. Ci sei stato?

Pomino       Non ne ho avuto il coraggio.

Io               Ma di prendermi la moglie, sì... E tu, Romilda, avrai avuto troppo da fare, fra nozze e battesimi, per andare al camposanto... Vero?

Romilda    Non volevo pensarci più.

Io               Bravissimi tutti. Vuoi dire che ci andrò io domani per portarmi una corona... Di', c'è almeno una lapide sulla fossa?

Pomino       Sì, a spese del Municipio. L'iscrizione l'ho det­tata io.

Io               Mi hai pianto poco, eh, vedovella... Poco o niente ad­dirittura? Di' su, possibile che io non debba sentire la tua voce? Guarda, è già notte avanzata... Appena spun­ta il giorno, io andrò via e sarà come se non ci fossimo mai conosciuti... Approfittiamo di queste poche ore... Su, dimmi.

Romilda si stringe nelle spalle, guarda Pomino, sorride nervosamente. Poi, riabbassando gli occhi e guardando­si le mani, mormora poche parole.

Romilda     Che posso dire? Ho pianto, certo...

Pescatore  E non te lo meritavi!

Io               Zitta là, doppia suocera. E andate a preparare il caffè.

Stranamente la vedova Pescatore mi obbedisce e scivo­la fuori. Forse vuole ingraziarmi perché non diventi pe­ricoloso.

Romilda     Siamo rimaste assai male, Mattia. E se non fos­se stato per lui...

Io               Bravo Pomino! Ma quella canaglia di Malagna, niente.

Romilda    Niente. Pomino ha fatto tutto lui.

Io               Beh, questa certo è stata una bella cosa... Dal vostro punto di vista, voglio dire.

Pomino       Ma tu, in questi anni, cos'hai fatto?

Io               Se te lo raccontassi, guarda... Ma poi cos'ho fatto? Ho viaggiato, ho vissuto a Roma... Non mi sono per niente divertito.

Entra la Pescatore con i caffè. Romilda mi porge la tazzina.

Romilda     Tu, al solito, senza zucchero, vero?

Che cosa legge in quest'attimo nei miei occhi? Abbasso subito lo sguardo. Nella livida luce dell'alba che sta na­scendo, sento stringermi la gola da un pianto inatteso. Romilda mi mette una mano sulla spalla. Pomino trasa­lisce. Con tutta la naturalezza di cui sono capace, faccio scivolare quella mano alzandomi in piedi. Bevo il caffè accanto alla finestra, poi mi volto verso Pomino.

Io               Pomino...    

Pomino      Sì?         

Io               La valigia... Posso lasciarla in casa tua finché non trovo un alloggio?

Pomino       Ma sì, ma sì... Non preoccuparti,

Io               Oh, tanto è vuota, sai? A proposito, Romilda, avresti ancora, per caso, qualcosa di mio... Abiti, biancheria?

Romilda    No, nulla. Capirai... Dopo la disgrazia...

Pomino       Chi poteva immaginarselo...

Ma giurerei che ha al collo un mio antico fazzoletto di seta.

Io               Eh, già... Ma adesso è giorno, il giorno della mia re­surrezione. È l'ora di ripresentarmi al mondo.

Sono per la strada, guardo la gente che passa.

E ora dove vado? Mi conviene mettermi in mostra.

Mi sento osservato.

«Guarda quel forestiero là! Se avesse l'occhio storto somiglierebbe a Mattia Pascal...» «Ma è lui! è lui!» «Vi­vo!» «Da dove vieni?» Dall'altro mondo. «E che hai fatto? » Il morto. Che strano! Mi accorgo di essere cre­sciuto a un tratto nella stima dei miei concittadini.

Come sempre don Eligio è accanto a me.

Don Eligio... ora che la storia è scritta e che lei conser­verà il segreto su tutto, che frutto possiamo cavarne? Intanto questo, lei dice: che fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che siano, per cui noi siamo noi, non è possibile vivere... Ma io potrei rispon­derle che non sono affatto rientrato nella legge né nelle mie particolarità: mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch'io mai sia...

Con una corona in mano, mi avvio al mesto pellegrinag­gio sulla mia tomba. Adesso tutti stanno scomparendo e ci sono soltanto io, davanti alla lapide, e leggo l'iscrizione.

Io               «Colpito da avversi fati

Mattia Pascal

Bibliotecario cuor generoso

anima aperta                      

qui volontario                                                     

riposa                                                    

la pietà dei concittadini

questa lapide collocò».

Depongo la corona e sosto in meditazione di fronte al mistero della morte mia, dello sconosciuto affogato nel­la gora e di tutti. Qualcuno mi interpella all'improvviso.

Voce          Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?

Io               Eh, caro mio. Io sono... Il fu Mattia Pascal!

Sono tornato me stesso. Ma è come se stessero caden­domi addosso tutti gli anni che ho scelto di passare qui dentro, nel chiuso di questa biblioteca. Quasi appog­giandomi a don Eligio, mi avvio al tavolino dove sede­va sempre il signor Romitelli, mi infilo un paio di oc­chiali. Don Eligio tira fuori dal cassetto il Dizionario storico, me lo porge e torna al suo lavoro di tutti i giorni.

«Birnbaum Giovanni Abramo... Birnbaum Giovanni Abramo fece stampare... Birnbaum Giovanni Abramo fece stampare... Birnbaum Giovanni Abramo fece stam­pare a Lipsia nel 1738... A Lipsia nel 1738... Un opu­scolo in ottavo... In ottavo...»