Il genio buono e il genio cattivo

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Carlo Goldoni

Il genio buono e il genio cattivo


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il genio buono e il genio cattivo

AUTORE: Goldoni, Carlo

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DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza

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TRATTO DA: Tutte le opere di Carlo Goldoni / a cura di Giuseppe Ortolani – Milano : A. Mondadori - v. ; 18 cm. - I classici Mondadori

CODICE ISBN: informazione non disponibile

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 23 gennaio 2009

INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO: Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

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Vittorio Bertolini, vittoriobertolini@inwind.it

PUBBLICATO DA:

Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

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Carlo Goldoni

IL GENIO BUONO

E IL GENIO CATTIVO

Commedia di cinque atti in prosa. Rappresentata per la prima volta in Venezia il Carnovale dell'anno 1768.

PERSONAGGI

Il GENIO BUONO.

Il GENIO CATTIVO.

ARLECCHINO.

CORALLINA sua moglie.

Mademoiselle PALLISSOT Francese.

Madame LA FONTAINE Francese.

Monsieur LA FONTAINE suo marito, Francese.

Monsieur CRAYON Francese.

Monsieur LE BARON Francese.

Mademoiselle LOLOTTE Francese.

Monsieur LE MAREPICA vecchio gottoso, Francese.

ANZOLETTO Veneziano.

Un MERCANTE Inglese.

Un CAPITANO Inglese.

Un PILOTA Inglese.

Un ARTEFICE Inglese.

BETZI caffettiera Inglese.

Due DONNE Inglesi.

Il CADÌ.

ALÌ capitano delle Guardie turche.

Un MORO.

PANTALONE mercante veneziano.

TOGNONE pescatore.

LENA sua moglie.

MEDORO pescatore.

AGATA sua sorella.

FILIDORO.

VANESIA.

POLIGRAFO.

Soldati.

Eunuchi.

Schiavi e Schiave.

Garzoni.

Spiriti.

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Giardino rustico con vari alberi fruttiferi e varie piante di fiori. Da un lato una capanna grande, di cui non si vede che l'entrata. In fondo la scena due alti cespugli, o due folti boschetti di alberelli truccati uno per parte, e nel mezzo una fontana rustica parimente truccata. Più avanti, di qua e di là, due alberi isolati, uno per parte, anch'essi truccati.

Arlecchino e Corallina escono dalla capanna ridendo, saltando e cantando.

COR. Allegramente, Arlecchino.

ARL. Allegri, muggier, allegri.

COR. Sono così contenta, che mi pare di esser una regina.

ARL. E mi, dopo che son to mario, sento proprio ch'el cuor me bàgola. Salterave sempre co fa un puttelo. Me despiase co dormo. No vorave mai indormenzarme per no perder un momento de consolazion.

COR. Osserva, Arlecchino, osserva i fiori che io ho piantati. Vedi come sono belli, come sono odorosi.

ARL. Varda quel perer che ho incalmà. Varda che bei peri, che boni peri! (stacca una pera, e la dà a Corallina) Senti, i par de zucchero, de miel, de botirro.

COR. Sì, caro, ti ringrazio. Aspetta. Voglio anch'io regalarti. Tieni una rosa, un giacinto, un garofano, un tulipano. Ecco un mazzo di fiori che ti presenta la tua cara consorte.

ARL. Oh benedetta! oh cara! oh che consolazion! oh che gusto!

COR. Vuoi tu ch'io vada a preparare da pranzo?

ARL. Zitto. Vedistu là quel boschetto? Ho teso una rede e diversi lazzi, per véder se me riesce de chiappar quattro oseletti. Zitto, vago a véder pian pian, e se ghe ne trovo, te li porto; li peleremo, e ti li cusinerà ti, colle to care manine.

COR. Sì, sì, tu sai ch'io so fare delle piatanzine gustose.

ARL. Oh che piatanze, condie dall'amor, dalla pase, dalla contentezza de cuor! (si accosta serso il boschetto)

COR. No, non vi può essere al mondo una donna più contenta, più fortunata di me.

ARL. (Vicino al boschetto) Muggier. (sotto voce)

COR. Cosa c'è? (sotto voce)

ARL. Sento a mover. Ghe xe qualcossa. (sotto voce)

COR. Animo, da bravo. (Mentre Arlecchino vuole allungar la mano al boschetto, esce di là una fiamma)

ARL. Aiuto! (ritirandosi)

COR. Cos'è stato?

ARL. Gh'ho visto fogo. (timoroso)

COR. Dove?

ARL. Là. Qualchedun che cusina i oseletti.

COR. Eh via. Non è possibile: andiamo.

ARL. Gh'ho paura.

COR. Eh, vieni con me. (lo prende per mano)

ARL. Andemo. (Si accostano al boschetto, e quando sono vicini, esce un'altra fiamma, e nel medesimo tempo il boschetto si dilata, e di là esce il Genio Cattivo. Arlecchino vuol fuggire)

SCENA SECONDA

Il Genio Cattivo vestito di nero con barba ed una bacchetta in mano, e detti.

GEN. C. Fermate, figliuoli, e non paventate. Io sono il Genio dominatore di queste selve. Son vostro amico. Voglio farvi del bene, e vengo a procurarvi la vostra felicità.

ARL. Chi èlo sto sior? Mi no lo conosso! (a Corallina)

COR. Signore, chiunque voi siate, vi ringraziamo della vostra bontà. Noi non abbiamo bisogno di niente, non ci manca niente, e siamo bastantemente felici.

GEN. C. (Ah sì, lo so pur troppo. Invidio lo stato loro, e non posso soffrire che vi sieno felici sopra la terra). (da sé)

ARL. (El dise che el ne vol far del ben). (a Corallina)

COR. (Non ne abbiamo bisogno, non l'ascoltiamo). (ad Arlecchino)

GEN. C. Poveri sfortunati! La vostra felicità è fondata sulla vostra ignoranza. Se conosceste il mondo, se conosceste i beni e i piaceri di questa vita, comprendereste la vostra miseria, piangereste il vostro destino.

ARL. Séntistu Corallina? (mostrando qualche curiosità)

COR. Andiamo, andiamo, non l'ascoltiamo di vantaggio.

ARL. Caro sior barbon, cossa ghe pol esser a sto mondo de più delizioso de sta campagna, e de più comodo della nostra capanna, de più dolce de do persone che se vol ben?

GEN. C. Se conosceste il mondo, non parlereste così. Voi siete nella più deserta, nella più povera situazione della terra. Passate i giorni vostri in un bosco, mentre infinito popolo passeggia per le vie spaziose delle città ricche e superbe. L'albergo vostro è un'affumicata capanna, e tanti più fortunati, e di voi forse men meritevoli, albergano in doviziose pareti, riposano su morbidi letti, siedono a laute mense, si trastullano fra i più soavi piaceri. L'amor vostro vi fa parer tutto bello, ma quel medesimo amore che qui v'incanta, che qui vi trattiene, si aumenterebbe in mezzo ai comodi e alle dovizie, e provereste le dolcezze della domestica pace, senza soffrire i disagi della povertà, senza temere i bisogni orribili della vecchiezza.

ARL. Séntistu, Corallina?

COR. Sento, sì, sento. Ei dice delle belle cose, ma... Orsù, non gli badiamo né punto, né poco; andiamocene, che sarà meglio per noi.

ARL. Aspetta. Gh'ho chiappà gusto. Vôi devertirme co sto sior barbon.

GEN. C. (Se mi ascoltano, la mia vittoria è sicura). (da sé)

ARL. La diga, caro sior; crédela mo ela che tutte ste belle cose che la ne depenze, le sia fatte per do poveri contadini che xe nati in t'un bosco, e che no sa far altro che arar la terra, piantar dei alberi, e volerse ben?

GEN. C. Il mondo è fatto per tutti, ogni uomo nato nella più vil condizione può aspirare ai primi gradi della civil società, e vi furono dei pastori che giunsero a possedere delle corone.

ARL. Séntistu, Corallina? (a Corallina)

COR. Sento anche troppo, e sento ch'egli principia ad inquietarmi. Caro Arlecchino, ti prego, andiamo via, non l'ascoltiamo di più. (ad Arlecchino)

ARL. Làsseme devertir. (a Corallina) La diga, sior barbon, e ela la gh'averave la facoltà e el poder de farme gòder ste belle cosse, sti bei piaceri, ste gran ricchezze?

GEN. C. Vi darò una prova del mio potere. Ditemi, nell'ordine de' commestibili, qual è la cosa che più vi piace? (ad Arlecchino)

ARL. Per dir la verità, quello che più me piase xe i maccaroni.

GEN. C. Eccovi il primo saggio della mia amicizia per voi, ecco la prima prova del mio potere. (Batte la bacchetta vicino alla fontana, e la fontana si trasforma in una caldaia di maccheroni che bollono, e si vede il foco sotto della caldaia. Compariscono due Spiriti in abito di Cuochi, i quali levano i maccheroni dal fuoco, li fanno passare in un gran piatto, li condiscono col butirro, e li presentano ad Arlecchino, il quale, unito a Corallina, fa le meraviglie, si consola vedendo i maccheroni, ma osserva, e dice)

ARL. E formaio? Oh, senza formaio no i val gnente, no i se pol magnar.

GEN. C. Avete ragione. (Batte la bacchetta sopra uno de' due alberi isolati; l'albero si apre un poco nel mezzo, e getta del formaggio parmigiano grattato. Arlecchino corre a raccoglierlo e lo mette sui maccheroni. Vorrebbe mangiare, ma si trattiene)

ARL. Li magneremo a disnar. (Il Genio ordina ai Cuochi di portar i maccheroni nella capanna di Arlecchino. I Cuochi eseguiscono. Arlecchino vorrebbe seguitarli. Il Genio lo trattiene)

GEN. C. Vergognatevi di correr dietro con avidità ad un cibo grossolano, triviale, voi non conoscete i sapori squisiti delle prelibate vivande, non vi è nota la delicatezza delle cucine francesi, siete privi di quella varietà che solletica il gusto e che forma in oggi l'occupazione più seria delle famiglie.

ARL. Séntistu, Corallina? (pateticamente e con piacere)

COR. Sì, sarà vero tutto quello ch'ei dice, ma noi siamo avvezzi ai nostri cibi semplici e naturali, e la novità di un mangiare più delicato potrebbe alterare il nostro temperamento, e farci perdere la salute. Non ci pensiamo. Non ci manca da vivere. Ringraziamo il signor barbone, e ch'ei ci lasci nella nostra tranquillità.

ARL. Sior barbon, che la ne lassa nella nostra tranquillità.

GEN. C. Voi, donna di spirito come siete, voi, nata per brillare nel gran mondo, rinunzierete ai privilegi del vostro sesso ed agli avvantaggi del vostro merito personale? Vi contenterete di spoglie rustiche e vili, in tempo che adornarvi potreste di seta, d'oro e di argento? Quanto spiccherebbe mai d'avvantaggio il vostro volto gentile con una acconciatura elegante, col ricco adornamento di diamanti e di perle, coi soccorsi dell'arte che correggono i difetti, o aumentano i doni della natura! Vivrete voi in una solitudine sì disgustosa, voi che col vostro talento potreste attirarvi le adorazioni degli uomini e formar la delizia delle società più brillanti?

COR. Senti, Arlecchino? (anch'ella pateticamente, e con piacere)

ARL. Sento. Ma come podémio gòder ste belle cosse, se semo do poveri spiantai, senza un soldo?

GEN. C. Volete voi del danaro? Eccone prontamente. (Batte con la bacchetta sull'altro albero isolato, il quale si apre un poco nel mezzo, e di là sorte quantità di monete d'oro e d'argento)

COR. (Corre col grembiale a raccorle)

ARL. (Fa lo stesso col cappello, e si getta per terra per raccogliere le monete cadute e sparse. Mostrano tutti due l'avidità del danaro. Contendono per averlo; ciascheduno vorrebbe averlo tutto, domandando la parte dell'altro)

GEN. C. (Ecco il seme della discordia. Ecco il principio di quella infelicità che loro vo destinando). (da sé) Godete di quell'oro in comune, approfittate dell'occasione, sortite da questi luoghi infelici, e andate a godere il mondo.

ARL. Ma come farémio? Dove anderémio?

GEN. C. Il mondo è grande, ma per ben principiare a conoscerlo ed a goderlo, vi consiglio di andare in Francia. Ite a Parigi; colà vi troverete contenti; e se qui manca il comodo delle vetture, e se non siete pratici del cammino, tenete: eccovi due anelli. Poneteli al dito. Qualunque volta vi piacerà di cambiar paese, non avrete che a voltare l'anello, invocare lo spirito che vi è rinchiuso, e diverrete invisibili, e vi troverete in pochi minuti trasportati al luogo desiderato.

ARL. Oh caro! (si mette l'anello al dito)

COR. Andiamo a Parigi. (con allegrezza, mettendosi l'anello)

ARL. Vederemo el mondo.

GEN. C. Profittate de' doni miei, prevaletevi delle occasioni, abbandonatevi ai piaceri del mondo; questa è la vera felicità. (Felicità che non dura, ma che degenera in tristezza, in desolazione, e strascina gli uomini al precipizio). (da sé) (Sortono delle fiamme. Il Genio Cattivo sfonda, e sparisce)

SCENA TERZA

Corallina ed Arlecchino.

ARL. Dov'èlo andà?

COR. È sparito, non si vede più.

ARL. No vorave che anca sti bezzi m'andasse in fumo.

COR. Dalli a me, che li custodirò.

ARL. Siora no, siora no. Oh cari! oh co belli! me li voggio coccolar mi.

COR. Cosa farai di quel danaro? In che cosa l'impiegherai?

ARL. Sangue de mi! Ti vederà cossa che farò! Comprerò, dove che anderemo, el bon, el meggio che ghe sarà da magnar: capponi, galline, colombini, maccaroni, formaggio; tre o quattro cuoghi in cusina, magnar sie o sette volte al zorno. Panza mia, preparate de far festa.

COR. Sciocco che sei! tu non pensi che a mangiare. Vedrai come io impiegherò il mio danaro! Abiti sontuosi, gioje stupende, casa magnifica, carrozze, servitori, camerieri, lacché, festini, conversazioni, passeggi.

ARL. E magnar?

COR. Il mangiar è l'ultima cosa.

ARL. E mi digo che la xe la prima, e no vôi che ti consumi i bezzi in minchionerie, e vôi pensar a magnar, e damme quei bezzi che li voggio mi custodir.

COR. Signor no, li voglio tener io, e spenderli a modo mio, e faresti meglio a consegnarmi anche i tuoi.

ARL. El manizo della casa tocca al mario, e voggio quei bezzi, e no me far andar in collera.

COR. Che collera! Che presunzione!

ARL. Dammeli, che li voggio. (vuol prenderli a forza)

COR. Lasciami stare, impertinente, briccone. (in collera)

ARL. A mi bricon? Te darò uno slepa. (fa l'atto di darle uno schiaffo)

COR. A me uno schiaffo? Giuro al cielo, a me uno schiaffo?

SCENA QUARTA

Dall'altro boschetto sortono delle fiamme, poi il boschetto si dilata ed esce.

Il Genio buono e detti.

ARL. Aiuto! (spaventato dalle fiamme)

COR. Cos'è mai questo?

GEN. B. Amici, miei cari amici, porgete orecchio al Genio Buono che vi parla e che vi consiglia. Il mio nemico, il Cattivo Genio che odia la pace e semina la discordia, vi ha sedotto lo spirito, vi ha guadagnato il cuore. Ecco il primo frutto delle sue funeste lusinghe. Voi andate perdendo quell'amore, quell'armonia ch'è il solo bene delle famiglie, e in mezzo alle ricchezze e ai piaceri, la vanità e l'ingordigia dell'oro vi renderanno sempre infelici.

COR. Senti, Arlecchino? (pateticamente)

ARL. Séntistu, Corallina? (pateticamente)

GEN. B. Deh! fin che siete a tempo, risvegliatevi da quel letargo in cui vi ha assopiti la falsa voce di quel ribaldo. Rinunziate alle sue lusinghe, contentatevi dello stato tranquillo in cui vi ha posto la sorte, e credete a me che vi amo e che vi proteggo, credete che non vi è, della vostra, vita più felice e tranquilla.

ARL. Sior sì, xe vero, ma quel sior barbon n'ha dito ch'el mondo xe cussì bello!

GEN. B. Beltà apparente, che nasconde le spine, i triboli ed i precipizi.

COR. Tanti piaceri, tante delizie...

GEN. B. Corti piaceri, delizie vane, che trascinano nella miseria e nell'amarezza.

ARL. E quei magnari cussì delicati?

GEN. B. Non servono che ad abbreviare la vita.

ARL. Corallina!

COR. Arlecchino!

ARL. Chi credémio che diga la verità?

COR. Non so. Sono confusa. Non so a chi credere.

GEN. B. Capisco il turbamento dell'animo vostro. Il mio rivale vi ha empita la testa delle bellezze del falso mondo. Voglio disingannarvi; voglio farvi comprendere a quai pericoli vi esponete, se andate in traccia di questo mondo mendace. (Batte la bacchetta. La scena si oscurisce, si leva il prospetto, e ve ne resta uno trasparente col giuoco delle ombre che rappresentano vari accidenti funesti della vita umana, per esempio un Arlecchino ed una Corallina in viaggio, assaltati da ladri, e spogliati e rubati. Corallina vagheggiata da uno o due giovani; altr'Arlecchino sopraggiunge, fa il geloso. Un giovane lo bastona. L'altro conduce via Corallina. L'Arlecchino prende una spada, si batte col giovane e resta ferito; poi arrivano gli sbirri e conducono in prigione l'Arlecchino ferito. Scena di mare. Un Arlecchino ed una Corallina in nave fanno naufragio, e periscono) (È in arbitrio del direttore l'accrescere ed il cambiare le apparenze di tal carattere). (Arlecchino e Corallina osservano e si spaventano, e mostrano di essere convinti e disgustati del mondo. Il Genio Buono batte la bacchetta. Torna il primo tendone, e la scena chiara)

GEN. B. Ebbene, siete voi persuasi delle bellezze di questo mondo?

ARL. Ladri? zelosie? bastonade? cascar in acqua? morir? No vôi altro. Ve ringrazio dell'avviso. Corallina, xe meggio che stemo qua.

COR. Eh sì, la nostra pace, la nostra tranquillità val più di tutti i piaceri del mondo.

GEN. B. Mi consolo con voi di una sì pronta, di una sì eroica risoluzione. Ma è necessario che sia costante e durevole.

ARL. Costante, costantissima.

COR. Durevole, durevolissima.

GEN. B. Se così è, spogliatevi della seduzione più forte, date a me quell'oro e quell'argento che custodite.

ARL. St'oro? (pateticamente)

COR. Questo danaro? (pateticamente)

GEN. B. Se voi non lo rinunziate, vi resterà sempre vicino il pericolo e la seduzione.

ARL. Cossa distu, Corallina?

COR. Perché dobbiamo noi privarci di questo danaro? (al Genio Buono)

GEN. B. Finora viveste bene, non ne aveste finora bisogno alcuno: a che volete voi conservarlo?

COR. Abbiamo vivuto, è vero, ma con parsimonia e fatica. Se potessimo vivere un poco meglio?

ARL. Sempre pan, sempre latte! Qualche gotto de vin, qualche piatto de maccaroni.

GEN. B. Non vi lasciate ingannare dall'avidità, dalla cupidigia.

ARL. (No vorria che sto sior, co sta pulizia, ne fasse la carità de torne sti bezzi, per gòderli elo). (piano a Corallina)

COR. (Per me non glieli do certamente). (ad Arlecchino)

ARL. (Gnanca mi seguro). (a Corallina)

GEN. B. Ebbene, che risolvete?

COR. Signore, tutto va bene. Resteremo qui, non correremo i pericoli di questo mondo, ma circa il danaro... ARL. Con so bona licenza, lo volemo tegnir per nu.

GEN. B. Non so che dire. Ho risvegliato la vostra ragione; vi ho illuminato bastantemente. Vi ho veduti disposti a calcolare il prezzo della vostra tranquillità ma, ohimè! se amate l'oro e l'argento, voi conservate il seme del vizio, voi presto o tardi ricaderete nel pelago delle sregolate passioni. (sortono fiamme, sfonda, e sparisce)

SCENA QUINTA

Arlecchino e Corallina.

ARL. Pussibile che l'oro sia una cossa cussì cattiva?

COR. Potrebbe esserlo per chi ne facesse cattivo uso. Noi resteremo qui; lo custodiremo e ne useremo a poco a poco nei nostri bisogni.

ARL. E se qualchedun vien a saver che gh'avemo sti bezzi? E se per portarli via i ne sassina?

COR. E noi li nasconderemo, non li spenderemo e nessuno saprà che li abbiamo.

ARL. Sconderli e no spenderli, tanto fa no averli.

COR. È meglio, è vero, che li spendiamo.

ARL. Ma in cossa? Qua in sto paese mi no saveria come spenderli.

COR. Se andassimo in qualche luogo, in qualche città qua vicina?

ARL. A Bergamo, per esempio.

COR. Oh quanto mi dispiace di non andar a Parigi!

ARL. I anelli ne poderave servir.

COR. E i pericoli che abbiamo veduto?

ARL. Che sia vero quel che n'ha dito quel zovenotto?

COR. Chi sa! potrebbe anche darsi di no.

SCENA SESTA

Il Genio Cattivo e detti. All'arrivo del Genio Cattivo precede qualche fiamma.

GEN. C. Animo, figliuoli miei, non vi abbandonate alla viltà suggeritavi da un giovane inesperto, senza cognizione e senza esperienza; ei vi ha dipinto il mondo in un aspetto orribile per atterrirvi. Vedetelo nella sua vera sembianza e profittate dei suoi piaceri. (batte la bacchetta)

SCENA SETTIMA

Ballerini e ballerine in abiti di letizia e di vari caratteri, ed i suddetti.

Danzano con allegria, e danzando circondano Corallina e Arlecchino invitandoli ad andar con loro. Arlecchino e Corallina godono e si compiacciono. Finito il primo ballo, si fermano.

GEN. C. Ecco un esempio di quelle persone felici che godono i piaceri del mondo. Imitatele, seguitatele, prevaletevi degli anelli. Andate incontro ai divertimenti, a' trastulli, andate in traccia della vostra felicità. (parte)

ARL. Sì, sì; per el mondo, per el mondo. (con allegria)

COR. A Parigi, a Parigi. (con trasporto)

(Ricomincia il ballo. Arlecchino e Corallina si meschiano anch'essi nella danza. Tutti partono)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Boschetto corto nel giardino delle Tuglierie di Parigi, con varie sedie di paglia, sparse qua e là per la scena.

Arlecchino in abito alla francese con parrucca in borsa.

ARL. (Pavoneggiandosi, facendo delle riverenze, e provandosi a far il galante ed a parlar francese) Monsieur... Votre serviteur très humble... comment vous portez-vous... à vous rendre mes devoirs... Je suis enchanté... ma fois en sovitè... oui. Oh che bella cossa! oh che bella cossa! Son qua a Parigi, son impareginà. Oh che gusto, oh che piaser! (allegro; poi pensa e dice patetico) Oh che piaser, oh che gusto, ma ho perso mia muggier, e questo no me dà troppo gusto. Sto zardin delle Tuglierie el xe grando co fa un paese. Quei do francesi l'ha tolta in mezzo. I corre che el diavolo i porta; i ho persi de vista, e no so dove andarli a cercar. Pazenzia, o presto o tardi la troverò, ma sta cossa la me despiase un pochetto. Son avezzo a star sempre con ela. No voleva lassarla andar co nissun, ma in sto paese no ghe vol zelusia. Me preme de farme onor, e bisognerà sopportar. Son stracco, xe caldo, me senterò un pochettin. (siede) Manco mal che ghe xe sto comodo de ste careghe; starò qua; se capitasse mai mia muggier... Sento zente. Donne! donne, per diana donne! (si alza) Manco mal che no ghe xe mia muggier. (passeggia)

SCENA SECONDA

Madame La Fontaine, mademoiselle Palissot ed il suddetto.

LA F. Aspettiamo qui mio marito. Egli è solito passeggiare da questa parte.

PAL. Oh, se troviamo vostro marito vuò che ci paghi la colazione. (prendono due sedie, le mettono nel mezzo e siedono. Arlecchino passeggia davanti di loro su e giù, cantuzzando sotto voce e facendo il galante)

LA F. (Chi è mai questo sguaiato?) (a Palissot)

PAL. (Mi par forastiere). (a la Fontaine)

ARL. Me perméttele che abbia l'onor de sentarme?

LA F. Il luogo è pubblico; vossignoria non ha bisogno di permissione.

ARL. Grazie alla so bontà generosa. (prende una sedia, e siede vicino a Palissot)

PAL. Ma il luogo è grande; ella starebbe più comodamente se si tirasse un poco più in là. (scostandosi con la sedia)

ARL. El più bel comodo del mondo xe l'onor della so vicinanza. (a Palissot, avvicinandosi ancora più)

PAL. (È poco polito questo signore). (a la Fontaine, ritirandosi con la sedia)

LA F. (È forastiere senz'altro). (a Palissot)

SCENA TERZA

Anzoletto veneziano, in abito alla francese, e detti.

ANZ. (Prende una sedia indietro, si mette a sedere da una parte della scena, tira fuori un libro e legge)

ARL. La perdoni, madama; no credeva che le signore in Franza le fusse cussì rusteghe.

PAL. Voi, a quel che vedo, non sapete distinguere la rusticità dall'impolitezza.

LA F. Di qual nazione siete, signore?

ARL. Italian, per servirla.

LA F. Di qual paese?

ARL. Romano, per obbedirla.

ANZ. (Chi diavolo xe sto martuffo che vien qua a discreditar la nostra nazion?) (mostra di leggere, ed ascolta)

ARL. E le sappia che le donne italiane no le xe cussì salvadeghe come ele.

PAL. Si usa nel vostro paese prendersi confidenza con una persona che non si conosce?

ARL. A una persona della mia sorte tutto xe lecito, tutto xe permesso.

LA F. Chi siete voi? Qualche principe?

ARL. No prencipe, ma cavalier. El cavalier Batocchio ai so riveriti comandi.

ANZ. (El dise che el xe romano, ma al linguaggio el me par venezian). (come sopra)

SCENA QUARTA

Monsieur Crayon, con una carta di musica in mano, ed i suddetti.

CRAY. (Passeggia cantuzzando sotto voce)

ARL. La diga, èlo un musico quel signor? (a Palissot)

PAL. Non signore. È un giovane assai civile, che ama la musica e si diverte.

ARL. Certo; l'è una cossa che fa da rider. In Franza tutti canta. Sappia o no sappia, gh'abbia ose o no gh'abbia ose, tutti vol cantar, tutti canta.

ANZ. (Mo chi mai xe sta bestia? Me sento proprio che me vien i suori). (da sé)

CRAY. (Sente, si accosta bel bello e saluta le due donne)

LE DONNE (Si alzano, fanno la riverenza e tornano a sedere)

CRAY. È forastiere questo signore? (Verso Arlecchino, sorridendo)

ARL. Sior sì. Cossa gh'ìntrela ela, patron?

LA F. È un italiano che non è contento delle donne di Francia.

CRAY. Ha ragione. Le signore di Francia sono poca cosa per un uomo di spirito come lui.

(sorridendo)

ARL. Cossa voràvela dir? Crédela che no ghe sia altri omeni de spirito che i francesi?

CRAY. Anzi ho in grandissimo credito il talento de' signori italiani; e vossignoria mi conferma nella mia opinione. (sorridendo)

ANZ. (No posso più). (si alza e passeggia)

ARL. Ah! cossa dìsela! Ghe par che gh'abbia del brio, della disinvoltura? E pur, con tutto questo, ste signore no le vol far grazia, no le me vol per gnente.

CRAY. Scusate, signore mie, fate torto al merito del signor italiano. (alle Donne)

ARL. Séntele? le me fa torto. (alle Donne)

LA F. Noi conosciamo il vostro merito, come lo conosce monsieur Crayon. (con ironia)

ARL. Obbligatissimo alle so grazie. (non si accorge della burla)

PAL. E vi rendiamo quella giustizia ch'egli vi rende. (ironica)

ARL. Effetto della so gentilezza. (con cerimonia)

ANZ. (Oh che alocco! I lo tol per man, e nol se ne accorze). (da sé)

ARL. Se le gh'ha per mi sta bontà, poderave donca torme la libertà... (si accosta colla sedia)

PAL. (Alzandosi) Signore se il vostro talento non vi fa discernere quale stima si fa di voi, non voglio espor d'avvantaggio la mia sofferenza. Madame la Fontaine, andiamo. (parte)

ARL. La favorissa, la senta...

LA F. Signore, per quel ch'io vedo, voi non capite le frasi che hanno del sale, della finezza. Vi parlerò io più chiaro per illuminarvi. Sappiate che le francesi stimano tutti; stimano i forastieri quanto i nazionali medesimi, ma non fanno alcun caso di chi non conosce la politezza. (parte)

SCENA QUINTA

Monsieur Crayon, Anzoletto ed Arlecchino.

ARL. Come? No capisso gnente. La se spiega meggio. (vuol seguitarla)

CRAY. Fermatevi, signore, e se ancor non capite, e se volete una spiegazione più chiara, ve la darò io.

ARL. La me farà grazia.

CRAY. Voi siete italiano. Nel vostro paese non vi è forse quella delicatezza.

ANZ. Con so licenza, signor. La me permetta ch'intra anca mi in sto discorso. Per quel che vedo, ela no conosce l'Italia. Son italian anca mi, e son in stato de informarla del mio paese.

ARL. Italian? (ad Anzoletto, con allegria)

ANZ. Sior sì, italian. (ad Arlecchino, con serietà)

ARL. De che paese? (come sopra)

ANZ. Venezian, patron. (come sopra)

ARL. E mi bergamasco. Patria, patria cara patria. (come sopra)

ANZ. Sior patria caro, adessadesso se parleremo. (ad Arlecchino) Crédela, patron, che in Italia no ghe sia zente de spirito, e che no se cognossa la politezza, la civiltà, e la bona maniera de conversar?

ARL. Crédela ste bestialità? Semo zente de spirito, e ghe faremo toccar con man che no la sa quel che la se diga.

CRAY. La maniera vostra di parlare è così villana... (ad Arlecchino)

ANZ. No la gh'abbada, signor, la me responda a mi.

CRAY. A voi, che siete più ragionevole, dirò ch'io non ho mai veduto l'Italia, ch'io la conosco per relazione dei viaggiatori che hanno scritto sul vostro paese, e che tutti i libri che qui si leggono di tal natura, ne parlano con poco avvantaggio.

ANZ. Sior sì, xe vero. Tutti sti libri li ho letti anca mi. Libri francesi, scritti da viaggiatori francesi, che portando per tutto l'amor della patria e la prevenzion, accresce i difetti delle nazion forastiere, diminuisce el merito che le distingue, mette tutto in ridicolo, e dà una falsa idea delle cosse, per adular se medesimi e farse un merito coi so patrioti. Nualtri all'incontro no femo cussì. Stimemo tutti, anca più del bisogno; scrivemo con avvantaggio delle nazion forastiere, conoscemo i difetti senza criticarli, e se femo un pregio de respettar tutto el mondo.

CRAY. I vostri libri io non li conosco.

ANZ. Perché in Franza no se leze altro che libri francesi, e no se crede che ghe sia zente che scriva fora de qua.

ARL. Vederè, vederè, patron, quando che mi scriverò: aspettè che impara a scriver, e po vederè el libro che stamperò dei mi viazi.

CRAY. Signore, io ho tutta la stima per voi. Vedo che siete uomo di spirito, e crederò tutto quel che mi dite. Ma non potrò mai formare buona opinione del vostro paese, quando vedrò degl'italiani del carattere di questo signore. (accenna Arlecchino saluta e parte)

SCENA SESTA

Anzoletto ed Arlecchino.

ANZ. (El gh'ha rason). (da sé)

ARL. Alo dito ben, o alo dito mal? (ad Anzoletto)

ANZ. Diseme, caro sior romano da Bergamo, chi diavolo v'ha fatto vegnir in sto paese?

ARL. Perché? no ghe posso vegnir? Ghe vien tanti altri; e no ghe posso vegnir anca mi?

ANZ. I omeni della vostra sorta no i xe fatti per viazar; no se va per el mondo co sto boccon d'ignoranza a svergognar la so patria.

ARL. Svergognar la so patria? Co sto abito? Co sta borsa de bezzi?

ANZ. I abiti e i bezzi xe belli e boni, ma ghe vol del saver, della prudenza e della bona condotta. Aveu sentìo sto francese? Da un omo solo spesse volte se giudica de tutti i altri. Se un italian fa una bassezza se mette in ridicolo el nome della nazion. Ve lo digo perché pur troppo son testimonio de sta verità, e cento volte ho dovesto arrossir. Compatisso quei che vien per bisogno, e i soccorro, se posso, coll'opera o col conseggio. Ma vu, per esempio, vu che sè qua per capriccio, per bizzarria, e che no sè fatto per viver in sto paese, ve prego da amigo, da fradelo, per el vostro ben e per l'onor della nostra patria comun, andè via de qua, partì più presto che podè; no v'esponé d'avantazo a renderve ridicolo in Franza; no fe che un omo d'onor, che un bon patrioto, come son mi, abbia un'altra volta la mortificazion de sentir per causa vostra a dir mal de quel caro paese, che venero, che rispetto, che adoro, mi che sparzerave el mio sangue per la so gloria, e per la so vera reputazion. (parte)

SCENA SETTIMA

Arlecchino, poi monsieur Le Baron.

ARL. Poverazzo! el me fa da rider; nol sa gnente a sto mondo. Un omo della mia sorta? Pien de oro, pien de bezzi, pien de diamanti! El cavalier Batocchio?

BAR. Oh signor Cavaliere!

ARL. Oh signor Baron!... A proposito dove xe mia muggier?

BAR. Non vi prendete pena di lei. È restata con Madama la Fontaine.

ARL. Sola? Fin che gieri in do, pazenzia, ma sola co sto monsieur...

BAR. Siete forse geloso?

ARL. Mi no.

BAR. Non sareste italiano, se non lo foste un pochino. (scherzando)

ARL. Sior no; ghe digo assolutamente che no son geloso. (Ghe patisso, ma vôi far onor alla patria). (da sé)

BAR. Volete venir con me?

ARL. Dove?

BAR. Al bosco di Bologna.

ARL. A Bologna? In Italia?

BAR. No, una lega di qui lontano. Al ballo pubblico dove vedrete una quantità di belle e graziose giovani ballare, passeggiare e passare il tempo.

ARL. Donne? Andemo subito. (con allegria) BAR. Andiamo. (s'incamminano)

SCENA OTTAVA

Corallina in abito magnifico, Monsieur La Fontaine e detti.

COR. Oh oh, ecco qui mio marito. (forte, con allegria)

ARL. Mia muggier. (torna indietro con allegria)

COR. Monsieur votre très humble servante. (fa un inchino ad Arlecchino con serietà)

ARL. Madame, votre serviteur très zamble. (fa lo stesso)

FONT. Scusate, amico, se ho trattenuto un poco troppo la vostra signora da voi lontano. Ha desiderato di vedere la sala dell'Opera, e mi ho creduto in debito di servirla.

ARL. Bravissima! l'ha fatto ben. (forzatamente)

BAR. Eh, il signor Cavaliere è un uomo di spirito, non è geloso.

ARL. Ah! cossa dìsela! So viver alla francese.

COR. Oh se sapeste, marito mio, quanto questo signore è cortese! Quante finezze mi ha fatto! ARL. Me ne consolo. (forzatamente e con pena)

FONT. Signore, io ho fatto il mio dovere con madama nei termini della buona amicizia e dell'onestà.

BAR. Il signor Cavaliere non è geloso.

ARL. Mi? Gnanca per ombra.

BAR. Signori, con vostra licenza, il signor Cavaliere ed io vogliamo andare al bosco di Bologna a vedere il ballo.

COR. Ci possiamo andare ancora noi. (a madame la Fontaine)

ARL. Poderessimo andar insieme. (a monsieur le Baron)

BAR. Nella mia carrozza non ci stanno che due persone.

FONT. E due nella mia.

COR. Bene; ne abbiamo abbastanza. Io anderò in una con mio marito, e lor signori nell'altra.

BAR. Perché con vostro marito? Che volete che dica il mondo?

ARL. Che diavolo de vergogna! Voleu che se femo ridicoli in Franza? (a Corallina, con affettazione)

BAR. Venite con me, signor Cavaliere. Madama anderà coll'amico.

ARL. Sior sì, andemo. Madame, votre très zamble serviteur.

COR. Monsieur, votre très humble servante. (con una riverenza)

ARL. (Forti, coraggio, e che se fazza onor alla patria). (da sé; parte col Barone)

SCENA NONA

Corallina e monsieur La Fontaine.

COR. Vuol che andiamo anche noi?

FONT. Vi sovverrete, che passeggiando vi ho proposto un appartamento comodo per voi e per vostro consorte.

COR. È verissimo. Mi sono scordata di dirlo a mio marito.

FONT. Scusatemi, non è necessario che voi diciate a vostro marito tutto quello ch'io mi prendo la libertà di offerirvi.

COR. Capisco la sua delicatezza. Ella ha paura di esser ringraziata.

FONT. Così è. Volete che andiamo a veder quest'appartamento?

COR. Facciamo tutto quello ch'ella comanda.

SCENA DECIMA

Madame La Fontaine, mademoiselle Palissot, e detti.

LA F. (Oh ecco qui mio marito). (indietro a mademoiselle Palissot)

PAL. (Chi è quella signora?) (a madama la Fontaine)

LA F. (Non lo so, non la conosco: ascoltiamo).

FONT. Vedrete un appartamento che non è magnifico, ma gentile, proprio, e ben situato.

COR. Noi non abbiamo bisogno di una gran casa.

FONT. Farò tutto quello che potrò, perché siate contenta.

COR. Sarà un effetto della sua bontà.

LA F. Signor marito. (avanzandosi)

FONT. (Oh diavolo! mia moglie). (da sé, con sorpresa)

COR. È questa la sua signora consorte? (a monsieur la Fontaine)

FONT. Sì signora. (confuso)

COR. Ho piacere d'aver l'onor di conoscere una mia padrona, e di rassegnarle la mia umilissima servitù. (con una profonda riverenza)

LA F. (Fa una riverenza, poi dice a monsieur la Fontaine) Chi è questa signora?

FONT. Una forastiera.

COR. Vostra umilissima serva. (una riverenza)

LA F. Signore, mademoiselle Palissot vorrebbe ritornarsene a casa, e vi prega di accompagnarla. (a monsieur la Fontaine)

PAL. Se voleste farmi questo favore. (a monsieur la Fontaine)

FONT. Ma io ho debito di servir questa signora.

LA F. Ella avrà la bontà di aspettare che ritorniate, ed io avrò l'onore di tenerle compagnia.

COR. Mi farà grazia. (a madame) Si accomodi. (a monsieur la Fontaine) Io godrò la compagnia della sua signora consorte.

FONT. (Io sono nel più bell'imbroglio del mondo). (da sé)

PAL. Volete favorirmi? (a monsieur la Fontaine)

FONT. Andiamo... Signora, con sua licenza. (a Corallina) (Passa vicino a Corallina, e procura di dirle piano) (Non dite niente a mia moglie).

PAL. (Qualche avventura, monsieur la Fontaine?) (piano)

FONT. (Andiamo, andiamo. Vi racconterò). (piano, e partono)

SCENA UNDICESIMA

Madame La Fontaine e Corallina.

LA F. Voi dunque siete forastiera?

COR. Per ubbidirla.

LA F. Come conoscete mio marito?

COR. Ho avuto l'onore di conoscerlo qui questa mattina, passeggiando alle Tuglierie.

LA F. Che cosa vi diceva egli a proposito di un appartamento?

COR. Vi dirò; è tanto generoso e compito, che mi ha esibito un appartamento.

LA F. Mi maraviglio che osiate dirlo a me stessa, e che non arrossite di voi medesima.

COR. Perché, signora, mi dite questo? Che male faccio a dire la verità? Siete forse gelosa? Sono anch'io gelosa di mio marito, ed egli è geloso di me; ma ci hanno detto che qui la gelosia è cosa ridicola, e ci sforziamo per uniformarci al costume.

LA F. È ridicola in Francia la gelosia che oltraggia e disturba la società. Si tratta, si conversa liberamente, ma nei limiti della politezza e dell'onestà. Una moglie saggia ed amorosa non soffre che suo marito offra un appartamento ad una giovane sconosciuta; e una donna onesta non accetta al primo incontro una simile esibizione. Conosco mio marito: è un uomo d'onore, ma ha la debolezza di correr dietro, non dirò alla bellezza, ma alla novità, e voi fate un'opera indegna se lo secondate. Il vostro discorso mi fa dubitare, se siate maliziosa o innocente. Se agite con innocenza, illuminatevi, e sappiate che le finezze degli uomini tendono alla rovina del cuore: ponetevi in guardia e prevaletevi dei miei consigli. Se poi maliziosamente vi conducete, assicuratevi ch'io non soffrirò questa tresca, che troverò la via di troncarla, che i tribunali favoriscono le mogli oneste, e che voi sarete giustamente e severamente punita. (parte)

SCENA DODICESIMA

Corallina sola.

COR. Povera me! Son rimasta stordita, avvilita, mortificata. Senza saperlo, faceva dunque un'opera mal onesta, e il povero mio marito non ne sa più di me. Allevati in una campagna, cosa sappiamo noi de' costumi delle città? Come possiamo noi distinguere le finezze e gl'inganni? Se questa buona signora non mi faceva aprir gli occhi, io mi lasciava attrappar nella rete. Ah il Genio Buono me l'ha avvertito, ed il Genio Cattivo mi ha strascinato. Quanto meglio faremmo a ritornarcene alla nostra capanna! Sì, sì, vuò ritrovar mio marito, e voglio persuaderlo che ce n'andiamo a rigodere la nostra pace; ma prima di farlo, giacché siamo in giro e che abbiamo il modo, potremmo vedere ancora un poco di mondo. Ho sentito dire che l'Inghilterra è un paese buono, dove gli uomini sono schietti e sinceri. Colà spero non ci tenderanno di tali insidie. Sì, sì, andiamo a veder Londra, e poi ritorneremo al nostro paese... Ma non sarebbe meglio ritornar subito a casa nostra?... L'animo mi dice di sì. Ma sento una voce che mi dice di no. È curiosissima la cosa. Di qua sento dirmi di sì, di là sento dirmi di no. Animo, animo; ci vuol coraggio. Abbiamo il danaro, abbiamo gli anelli. A ritirarci vi è tempo, e divertiamoci ancora un poco. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Recinto di tavole nel bosco detto di Bologna, dove si dà il ballo pubblico; al dissopra delle tavole si vedono i rami degli alberi che sono per di dietro, e qualche albero isolato si vede ancora nel recinto medesimo. In fondo vedesi una macchina preparata per fuochi artifiziali, ed isolata. Da un canto un bottegone di caffè e rinfreschi; dall'altro l'entrata del recinto, cioè un rastello, come quello delle commedie che si apre dal portinaro all'entrare delle persone. Tutto è pieno all'intorno di sedie di paglia. L'orchestra del teatro figura l'orchestra del recinto. Persone che vanno e vengono, fra le quali vi saranno tutti i ballerini in vari abiti, o di città, o di campagna. Chi va al caffè, chi passeggia, chi siede. Il portinaro è alla porta per aprire il rastello e ricevere il danaro.

Arlecchino e monsieur Le Baron pagano al rastello ed entrano.

BAR. Eccoci nel recinto dove si balla.

ARL. Oh che bella cossa!

BAR. Ecco il caffè ed i rinfreschi per chi ne vuole.

ARL. Pulito.

BAR. Vedete quella macchina?

ARL. Oh bella!

BAR. È destinata pei fuochi artifiziali che si fanno di quando in quando. Oggi non è la giornata, ma un altro giorno li goderete.

ARL. Oh che belle cosse!

SCENA QUATTORDICESIMA

Mademoiselle Lolotte al rastello che paga, poi entrano i suddetti.

BAR. Ecco una giovane ch'io conosco. (ad Arlecchino)

ARL. La xe un tocchetto che consola el cuor.

BAR. Brava, mademoiselle Lolotte. Oggi voi siete delle prime.

LOL. La giornata è buona, non ho voluto lasciare di profittarne.

BAR. Permettetemi, mademoiselle, ch'io vi presenti questo cavalier forastiere.

ARL. Servitor del so merito, e ammirator delle so bellezze.

LOL. Serva umilissima. (Che figura ridicola!) (da sé)

BAR. Via, fatele il complimento alla francese; abbracciatela. (ad Arlecchino)

ARL. Che l'abbrazza?...

BAR. Sì, come si usa.

ARL. Me vergogno.

LOL. No, no, non s'incomodi. Eh, io non sono amica di tai complimenti. (ad Arlecchino)

SCENA QUINDICESIMA

Monsieur Le Marepica, vecchio uffiziale gottoso, sostenuto da due Soldati; e detti.

MAREP. Piano, piano, bestie non mi storpiate.

ARL. (Oh bello sto sior! nol se pol mover e el gh'ha voggia de vegnir al ballo). (al Barone)

BAR. Questi è un vecchio uffiziale, valoroso egualmente nelle imprese di Marte, che in quelle di Venere.

ARL. Diseme, caro sior, xelo stà Marte, o xela stada Venere, che l'ha struppià? (a monsieur le Baron)

BAR. Credo vi sia dell'uno e dell'altro.

MAREP. Ehi! piano. Animalacci! datemi da sedere. (un Soldato va a prendere una sedia, l'altro lo sostiene: gli portano la sedia, e siede. Soldati partono)

ARL. (Scherza con monsieur le Baron e mademoiselle Lolotte a proposito dell'uffiziale)

MAREP. Ebbene? che si fa? Non si comincia a ballare? (forte)

BAR. Non vi è ancora gente abbastanza. (a monsieur le Marepica)

MAREP. Oh monsieur le Baron, siete voi? Vi saluto.

BAR. Riverisco il signor Marchese. Come sta di salute?

MAREP. Bene, perfettamente bene. Se la gotta non mi tormentasse, non la cederei a un giovane di vent'anni. Chi è quel signore? (verso Arlecchino)

ARL. Forastier per servirla.

MAREP. Di che nazione?

ARL. Italian per obbedirla.

MAREP. Viva l'Italia! Bel paese, buon vivere e belle donne! Ci ho fatto quattro campagne. Sono stato all'assedio di Milano, all'assedio di Pizzighettone, alla battaglia di Campo Santo, a quella di Parma, ho combattuto come un diavolo, e ho fatto l'amor come un disperato. Ahi! (la forza del discorso lo fa alzare, ma si sente dolere, e torna a sedere)

ARL. Viva el sior offizial.

MAREP. Signor italiano, di che paese siete?

ARL. Delle vallade de Bergamo.

MAREP. Bergamo? Ho veduto Bergamo. Sono stato a Bergamo. Stava nei borghi, faceva all'amore in città. Faceva una vita da bestia; su e giù di notte e di giorno; freddi, ghiacci, sole. È là dove mi ho guadagnata la gotta. Oh, chi è questa bella ragazza? (volgendosi e scoprendo Lolotte)

BAR. È una giovane ch'è venuta per divertirsi.

LOL. Mia madre è qui di fuori che passeggia pel bosco.

MAREP. Sì, madre, madre! Voi altre fanciulle che andate al ballo, avete padre e madre quando volete.

LOL. Signore, come parlate? Voi non mi conoscete. (sdegnata)

MAREP. Siete in collera? Venite qui, facciamo la pace. Non volete venir da me? Verrò io da voi. (si alza con pena)

LOL. (Si ritira. Il Marchese zoppicando vuol accostarsi e non può)

MAREP. Ehi, soldati; dove sono? I bricconi sono andati via. Amici, sostenetemi, non posso più. (al Barone e ad Arlecchino)

BAR. Eccomi, signor Marchese. (gli dà un braccio)

ARL. Se la comanda, son qua. (lo sostiene)

MAREP. Non mi toccate. (Si appoggia sopra una spalla di Arlecchino e si attacca dall'altra parte al braccio del Barone, poi zoppicando corre verso Lolotte)

ARL. La se comoda pur, senza suggizion.

MAREP. Vediamo un poco, se si può vincere questa bellezza tiranna. (zoppicando verso Lolotte. Ella si ritira, ed egli tenendosi come sopra, le corre dietro) Ahi! voi mi volete veder rovinato. (a Lolotte) Perché fuggite da me? Di che avete paura? Sono un galantuomo, un uffiziald'onore, non son capace di farvi un'impolitezza.

BAR. Via, madamigella; siate un poco men fiera.

ARL. Cossa gh'ala paura! no la vede in che stato ch'el xe! (a Lolotte)

LOL. Eh bene! Eccomi qui! Cosa volete da me? (accostandosi al Marchese)

MAREP. Niente altro che vedervi e ammirarvi. I vostri occhi m'incantano. La vostra bellezza mi anima, e mi rende vigoroso e robusto. Vicino a voi non sento più l'infermità della gotta. (Si stacca dai due, e si sostiene solo)

ARL. Animo, da bravo, coraggio.

MAREP. Sì, bella giovane. La forza della vostra bellezza... (si sforza di accostarsi) Ahi! aiutatemi, aiutatemi per carità. (a Lolotte)

ARL. Forti! ch'el coraggio no manca.

LOL. Se non potete stare in piedi, sedete.

MAREP. Un momento solo. Datemi mano, vi prego. (a Lolotte, traballando)

ARL. Animo, sior uffizial, da bravo.

LOL. (Mi fa ridere). (da sé) Ecco la mano. (gli dà mano)

MAREP. Ah questa mano mi consola, m'invigorisce. (fa il bravo ed il forte) Ahi! (si appoggia e si attacca ad un braccio di Lolotte)

LOL. Mi maraviglio di voi. Io non sono fatta per sostenervi. (si scosta, e lo lascia senza sostegno, e parte)

MAREP. Aiuto, aiuto, tenetemi. (al Barone che l'aiuta)

ARL. (Ridendo, e contrafacendo il Marchese) Coraggio forte, robusto, la bellezza mi dà vigore.

MAREP. Come? Che ardire? Che temerità? Corpo di satanasso! Si burla, si beffa un uffiziale della mia sorte! Elà, soldati; presto, le mie pistole; vi spaccherò il cuore, vi farò sbalzar le cervella. (infuriato all'eccesso. Arlecchino ha paura. In questo)

SCENA SEDICESIMA

Corallina e detti.

COR. (Entra fra il Marchese ed Arlecchino)

MAREP. (Infuriato, alla vista di Corallina si arresta, e la saluta dolcemente) (Ah, ecco una nuova bellezza che mi disarma). (da sé)

ARL. Ben venuta, madama. (vuol accostarsi a Corallina)

MAREP. Non vi accostate, che giuro al cielo, richiamerò le mie furie. (ad Arlecchino)

COR. Signore, che cosa avete con mio marito?

MAREP. Vostro marito? (a Corallina, con sorpresa)

COR. Sì signore.

ARL. Sior sì, la xe mia muggier; cossa voràvela dir?

MAREP. Voi possessore di tal tesoro? (ad Arlecchino)

ARL. Per servirla.

MAREP. Vi rispetto, come l'uomo il più fortunato del mondo. (il Barone l'aiuta a sedere)

COR. Ho piacere d'avervi ritrovato. (ad Arlecchino)

ARL. E mi ho piaser che me siè vegnuda a trovar.

BAR. Monsieur la Fontaine non è con voi? (a Corallina)

COR. Non signore, non è con me; l'ho lasciato, e spero di non vederlo mai più. Marito mio, sappiate che ho scoperto delle cose grandi. Monsieur la Fontaine mi voleva ingannare, e vi voleva tradire, e questo signore così garbato (accennando il Barone) era d'accordo con esso lui. Vi ha fatto tante finezze unicamente per allontanarvi da me.

ARL. El degnissimo sior Baron?

BAR. Io non so quello che vi diciate.

COR. Andiamo via, Arlecchino.

ARL. Dove?

COR. In Inghilterra.

ARL. Sì, in Inghilterra.

COR. A Londra.

ARL. A Londra.

MAREP. Come! come! (a Corallina, provando alzarsi, e non può) Aspettate. Ehi canaglie, dove siete? (chiama forte e vengono i due Soldati) Bricconi, venite qui, sostenetemi. (lo sostengono, ed egli si alza) Domani cinquanta bastonate per ciascheduno. (ai Soldati. I Soldati, sentendo ciò, lo lasciano un poco) Ahi, venite qui, vi perdono. (tornano a tenerlo) (Indegni, al quartiere la discorreremo). (da sé) Bellissima straniera, perché ci volete lasciare? (accostandosi, sostenuto dai Soldati)

BAR. Fatela restare, signor Marchese.

COR. No, no, signore, vogliamo andar via.

ARL. A Londra, a Londra; in Inghilterra, a Londra.

MAREP. Qui, qui si ha da restar, qui. (a Corallina, cercando di trattenerla) Animo, gioventù, dove siete? (ai Ballerini) Venite qui, ballate divertite questa signora, fatela ballar con voi. (Si suona. I Ballerini si avanzano, per principiare il ballo. Corallina ed Arlecchino vorrebbero andarsene, i Ballerini impediscono loro il passo, ballando. Il Barone anch'egli procura di trattenerli. Il Marchese zoppicando fa lo stesso. Corallina ed Arlecchino si difendono, e vedendo di non poter partire, si mostrano fra di loro l'anello, battono il piede. La macchina si trasforma in una carrozza da viaggio, con due cavalli attaccati. Corallina ed Arlecchino vi saltano dentro, salutano, e partono. Il Barone maravigliato parte. Il Marchese zoppicando, sostenuto dai Soldati, corre dietro alla carrozza. I Ballerini restano tutti attoniti, l'orchestra sospesa. Poi tutto in un tempo l'orchestra riprende il suono. I Ballerini si rimettono, e fanno il ballo.)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Bottega di caffè all'inglese con vari tavolini e sedie, e vari Garzoni che vanno e vengono.

Un Mercante inglese, poi un Capitano di mare inglese, poi un Artefice inglese,

poi un Piloto inglese.

MERC. (Entra serioso; si mette a sedere vicino ad un piccolo tavolino, e domanda) Caffè.

(Un Garzone porta il caffè, ed una pipa di tabacco, ed una candela di cera che mette sul tavolino e versa il caffè nella tazza, e parte. Il Mercante accende la sua pipa, prende il caffè, e fuma alternativamente. In questo)

CAP. (Entra, e siede ad un altro tavolino, e domanda) Tè.

(Un Garzone porta il tè, ed una pipa di tabacco, e passa la candela da un tavolino all'altro. Il Capitano prende il tè, e fuma come l'altro. In questo)

ART. (Viene, e siede ad un altro tavolino, e domanda) Ponch.

(Il Garzone porta il ponch, e passa la candela. L'Artefice fa come gli altri. In questo)

PIL. (Viene, siede ad un quarto tavolino, e domanda) Birra

(Il Garzone porta una bottiglia di birra, ed un bicchiere, ed una pipa di tabacco, e passa la candela. Anche questi fa come gli altri, e tutti quattro bevono e fumano senza parlare. In questo)

SCENA SECONDA

Arlecchino con l'abito alla francese e detti.

ARL. (Viene con allegria cantando, saltando, e facendo strepito, chiamando forte) Zoveni, chioccolata.

GARZ. Subito la servo. (I quattro Inglesi lo guardano con ammirazione, e poi continuano a bere, a fumare, e a leggere. Arlecchino si accosta al Mercante, e lo saluta alla francese, con brio. Il Mercante lo guarda, si leva un poco il cappello, poi lo rimette in testa, e continua come prima. Arlecchino si maraviglia della serietà. Si accosta al Capitano, e lo saluta come sopra. Il Capitano fa lo stesso, come il Mercante. Arlecchino continua a maravigliarsi, va dall'Artefice e gli dice)

ARL. Ghe xe novità in paese? Belle donne ghe n'è? Propriamente moro de voia de vedérghene qualcheduna.

ART. (Lo guarda, poi gli volta la schiena, e non gli risponde. Arlecchino va dal Piloto, gli domanda cosa legge di bello. Il Piloto non risponde. Vuol egli veder cosa legge. Il Piloto gli getta in faccia una boccata di fumo)

ARL. (Si sdegna e grida) Maledetto. El m'ha soffegà. Oh poveretto mi! Aiuto, una chioccolata, una chioccolata almanco per carità. Zoveni, disè, la chioccolata quando me la deu? Destrigheve, no posso più.

GARZ. (Viene con una pipa di tabacco e la presenta ad Arlecchino)

ARL. Coss'è sta roba? Mi domando la chioccolata, e ti me porti una pipa? Sastu che son el cavalier Batocchio? Voio esser respettà, sangue de mi, son el cavalier Batocchio, el cavalier Batocchio. Pipa a mi? A mi pipa? Tiò suso, tocco de senza creanza. (gli rompe la pipa sulla faccia) T'impararà un'altra volta a trattar coi cavalieri della mia stirpe. Animo, la chioccolata, destrìghete, e non vôi spettar altro. La chioccolata al cavalier Batocchio.

GARZ. Presto, il cioccolato al cavalier Batocchio (con impazienza) (I quattro Inglesi fanno atti d'ammirazione e d'impazienza. Un altro Garzone porta una tazza di cioccolata. Arlecchino la prende, e volendo sedere, e trovando tutti i tavolini occupati, vuol sedere accanto al Capitano; il Capitano lo guarda con dispetto, si alza, e porta il suo caffè e la sua pipa vicino al Mercante. Arlecchino resta solo, siede, si burla degli Inglesi, i quali fremono. Arlecchino domanda biscottini, gliene portano; mangia, beve, canta e siede, burlandosi degl'Inglesi. In questo)

SCENA TERZA

Due Donneinglesi e i suddetti.

All'arrivo delle due Donne inglesi, Arlecchino si alza, e se ne compiace, e vuol fare il grazioso; esse non gli badano. Il Mercante ed il Capitano ne chiamano una al loro tavolino, ella ci va; essi la prendono in mezzo di loro, e domandano della birra. I Garzoni portano della birra. Arlecchino vuol far il grazioso con l'altra. L'Artefice la fa sedere presso di lui, e domanda birra. Il Piloto va al tavolino dell'Artefice, e li due prendono in mezzo la Donna. Arlecchino arrabbiato vuol meschiarsi in conversazione colle donne e fa l'insolente cogl'Inglesi. Tutti si alzano adirati contro Arlecchino. Egli si mette in paura, credendo che vogliano insultarlo. I quattro Inglesi gli sono addosso, lo disarmano e lo sfidano a pugni. Le Donne partono.

ARL. (Eh, me fido dell'anello. Gnente paura). (Li sfida tutti e quattro a pugni. Gl'Inglesi con serietà dicono a vicenda: No; uno alla volta, senza soperchieria: farò io, tocca a me, voglio io e cose simili, con parole corte e interrotte, mettendosi tutti in azione contro Arlecchino. Lui si annoia e si arrabbia, ed attacca il Piloto. Si battono questi due, e gli altri Inglesi osservano, in positura di battersi anch'essi dopo il Piloto. Questi carica Arlecchino di pugni, ed egli non potendo resistere, volta l'anello, batte il piede, chiama lo Spirito, si rende invisibile, e mena un pugno al Piloto. Il Piloto non vedendo Arlecchino, crede che il pugno venga dall'Artefice, e lo attacca e si battono questi due. Arlecchino invisibile dà un pugno al Capitano, egli crede averlo avuto da quei che si battono, ed entra per terzo. Arlecchino come sopra dà un pugno al Mercante, si battono i quattro. Arlecchino ride e gode, poi si fa vedere. Tutti quattro sono contro di lui. Egli torna invisibile. Gl'Inglesi, acciecati dalla collera, prendono i Garzoni per Arlecchino, vogliono batterli. I Garzoni fuggono. Gl'Inglesi li seguono, Arlecchino resta solo, ridendo, e saltando, e baciando l'anello. In questo)

SCENA QUARTA

Betzi ed Arlecchino.

BET. Cos'è questo rumore?

ARL. Quattro matti che s'ha bastonà coi omeni de bottega.

BET. Mi maraviglio che abbiano osato di perdere il rispetto alla mia bottega! Licenzierò i garzoni, e gl'inglesi me ne renderanno conto.

ARL. Me consolo a sentir che la sia ela la patrona. La gh'ha rason d'esser disgustada, e la consegio de far castigar quei quattro inglesi. Sopratutto uno che all'abito m'ha parso mariner o piloto. Maledetto! El menava pugni da diavolo. (Squasi più el me rompeva una costa). (da sé)

BET. Avete veduto? Siete stato presente?

ARL. Son stà presente, seguro, anca troppo.

BET. Mi dispiace, signore, che per la prima volta che onorate la mia bottega, sia accaduta una tale discordia.

ARL. Eh, no serve gnente, no serve gnente. Quel che xe stà, xe stà, parlemo de altro. La diga... el so reverito nome se porlo saver?

BET. Io mi chiamo Betzi, per servirla.

ARL. Mi, siora Betzi, gh'ho da pagar una chioccolata. Cossa oio da dar?

BET. Uno scellino, signore.

ARL. Cossa val un scellin.

BET. Vale ventiquattro baiocchi romani.

ARL. Che vol dir quaranta otto soldi de Bergamo.

BET. Per l'appunto.

ARL. Oh, a Londra xe tutto caro, ma non importa. (tira fuori la borsa, e le dà una moneta d'oro) BET. Vado a cambiare, e vi porto il resto.

ARL. Eh non importa, la tegna pur, la la riceva per un piccolo sagrifizio alle so bellezze.

BET. Sono obbligata alla cortesia del signor forastiere. Di che paese è vossignoria?

ARL. Son italian.

BET. Veramente i signori italiani sono cortesi, affabili, e generosi. Le piace questo nostro paese? Si tratterrà qui lungamente?

ARL. Mi sì che el me piaseria, e ghe staria anca... ma sto costume no lo posso soffrir, sto disprezzo che i fa dei foresti...

BET. Signore, se voi conosceste bene questo paese, non ne sareste sì malcontento. Gl'inglesi sono di buonissimo core, e quando hanno dell'amicizia per qualcheduno, sono amici veri, fedeli, e operosi. Non è vero che sprezzino le altre nazioni, e che si credano superiori, ma come sono portati dal clima e dall'educazione alla serietà ed alla compostezza, non possono soffrire la pompa vana e l'allegria smoderata. Uniformatevi un poco al gusto della nazione, e vedrete col tempo, che il soggiorno di Londra è il miglior soggiorno del mondo.

ARL. Co l'è cussì, son contentissimo. Credo a quel che la me dise, e me fermarò... Ma belle donne, pulite, che le se possa trattar, ghe ne xe?

BET. Un gran paese non può mancare di belle donne. La cortesia, la gentilezza, la buona grazia sono doni o acquisti particolari; e vi sono qui ancora delle donne di merito, come se ne trovano dappertutto.

ARL. Ghe ne capita alla so bottega?

BET. Sì signore. In questo paese le donne godono di una pienissima libertà; e vanno per le botteghe senza essere criticate.

ARL. Donca me raccomando a ela. Vorave cognosser qualche bella inglesina: cara ela, la me daga una man.

BET. La proposizione è un poco equivoca. Siete voi ammogliato?

ARL. (E per questo no me posso divertir. Ma se a questa ghe digo de sì, ho paura de no far gnente). (da sé) Siora no, son putto.

BET. Vorreste voi ammogliarvi a Londra?

ARL. Mi sì, se me capitasse una bona occasion.

BET. Per dirvi la verità, io ho buona mano per i matrimoni, e sono sempre riuscita in ciò con onore. ARL. Tanto meio! Donca la se interessa anca per mi.

BET. Signore, senza conoscervi, non posso adoperarmi per voi.

ARL. Per questo po basta che la sappia che son cavalier. A tempo e logo la saverà el resto.

BET. Quando è così, signor Cavaliere, lasci operare a me, e vedrò di servirla; ma voglio darle un avvertimento. Si cambi di abito; si vesta all'inglese, e sarà meglio veduto dagli uomini, e con più facilità trattato ancor dalle donne.

ARL. Benissimo, co no gh'è altro che questo, lo fazzo subito. (Vardè se Corallina no xe una donna de garbo! La s'ha vestio subito all'inglese senza che ghel diga nissun). (da sé) Vado a muarme de abito, e se intanto vegnisse qualche bella donna, la la trattegna. Patrona. (vuol partire) Tornarò all'inglese, me contegnirò alla maniera inglese, parerò tutto inglese. La varda se fazzo pulito, la osserva con che naturalezza che me scomenzo a inglesar. (si compone goffamente e duro come un palo, e parte)

SCENA QUINTA

Betzi, poi il primo Garzone.

BET. Ecco il solito inganno de' viaggiatori. Osservano i costumi delle nazioni, ma trascurano il buono, e portano via le caricature. Garzoni! (chiama) Ripulite questi tavolini, e rimettete le sedie al loro luogo. (parte)

SCENA SESTA

Il primo Garzone che accomoda e ripulisce; poi Corallina, vestita all'inglese.

COR. Dove mai si sarà perduto questo birbante di mio marito? Mi ha detto che andava al caffè e che subito ritornava.

GARZ. Comanda qualche cosa, signora?

COR. Ditemi, amico, questa mattina sarebbe capitato per avventura alla vostra bottega un signor forastiere?

GARZ. Sì signora; il diavolo ne ha mandato uno.

COR. Perché dite che il diavolo lo ha mandato?

GARZ. Perché mi ha fatto l'impertinenza di rompermi una pipa in faccia.

COR. Lo conoscete questo forastiere?

GARZ. Non lo conosco, non è più stato a questa bottega, e spero non avrà più voglia di ritornarvi.

COR. Perché? Cos'è stato? (Non vorrei che fosse Arlecchino). (da sé) Gli è succeduto qualche cosa di male?

GARZ. Ha avuto una ronfa di pugni, che se ne ricorderà per un pezzo.

COR. (Povera me!) (da sé) Sapete di che nazione sia questo forastiere?

GARZ. Al parlare, io l'ho preso per italiano.

COR. E non sapete come si chiami?

GARZ. Io non lo so precisamente, ma l'ho sentito gridare come uno spiritato: Sono il cavaliere Batocchio, rispettate il cavaliere Batocchio.

COR. Batocchio? (con affanno)

GARZ. Sì signora, Batocchio.

COR. (Povero Arlecchino!) Siete stato forse voi che l'ha maltrattato? (con isdegno)

GARZ. Non signora, non sono stato io, anzi per sua cagione ne ho buscato la parte mia. Sono stati quattro inglesi quelli che lo han regalato.

COR. E per qual causa?

GARZ. Perché il signor Cavaliere, con sua e vostra permissione, è un impertinente. Sono capitate delle donne. Il signor Cavaliere è saltato in furia le voleva tutte per lui, si è messo come un diavolo per averle. Gl'inglesi l'hanno sfidato, l'hanno battuto, e se non fuggiva, ci sarebbe forse restato.

COR. (Mortificata) Questo signor Batocchio voleva domesticarsi con delle donne?

GARZ. E in che maniera! Io non ho veduto un uomo più effeminato di lui.

COR. Oimè! non posso più, mi vien male. (siede)

GARZ. Che cos'è stato? Lo conoscete questo signore? Vi appartiene egli per qualche cosa?

COR. No, no, non lo conosco, non so chi sia. (Povera me! Sento che la gelosia mi divora). (da sé, con affanno)

GARZ. Ma avete bisogno di qualche cosa? Volete del caffè, del rosolio, del vino di Spagna? Vorrei pure soccorrervi, se potessi.

COR. Non ho bisogno di niente.

GARZ. (Eppure ci dovrebbe essere qualche imbroglio; avviserò la padrona). (da sé) Se volete qualche cosa, chiamate. (parte)

SCENA SETTIMA

Corallina sola.

COR. Briccone! Indegno! (alzandosi con impeto) Ha cominciato questa vita a Parigi, e la continua a Londra egualmente. L'ho tirato di là, sperando che cambiando cielo cambierebbe costume, ma fa lo stesso qui ancora, e farà lo stesso per tutto. Ecco il frutto dei cattivi consigli del Genio Nero. Ma io ne ho la colpa, io che mi sono lasciata vincere dall'ambizione, dalla curiosità. Quale rimedio vi può essere presentemente? Ah sì, mi par ancor di vederlo quel giovinetto dabbene che mi ha consigliato a non abbandonare la mia capanna; mi par di vederlo venirmi incontro, e dirmi con quel labbro ridente, con quella voce gentile: Corallina, ritorna al tuo paese; ritorna, Corallina; Corallina, ritorna. Sì caro, ritornerò... Ma mio marito? Che tuo marito ritorni anche esso con te. Sì, mio marito verrà con me, torneremo insieme... E se mio marito, che ora ha preso un'altra carriera di vivere, continuasse a fare la stessa vita? Non potrebbe lasciarmi sola nel bosco, e andar qua e là cercando delle avventure, e correndo dietro alle paesane de' nostri contorni? Sì, certamente, e in tal caso? Povera me! in tal caso sarei io la sagrificata. Qual rimedio dunque potrei trovare per rimettere nello stato primiero il cuore di mio marito? Indegno! Mi lascia sola? Si scorda di me? Corre dietro alle donne? Mi vuol far crepar di gelosia? Bisognerebbe... Sì, se lo merita quel briccone; sì, voglio che provi anch'esso la gelosia. Il primo incontro che mi capita, il primo inglese che mi fa buona ciera, vedrà Arlecchino, se saprò prevalermi del suo buon esempio. Onestamente, m'intendo onestissimamente, ma voglio farlo crepare. Il cuor mi dice ch'io non lo faccia... Ma se non vi è altro rimedio, per farlo pentire della sua condotta, bisogna assolutamente ch'io gli faccia provare quella stessa pena che io provo per lui. E quando sarà disperato, e quando sarà pentito, allora poi faremo de' nuovi patti, e niente fu, niente sia, saremo allora del pari, e torneremo nella nostra prima tranquillità.

SCENA OTTAVA

Betzi e la suddetta.

BET. Signora, avete voi bisogno di qualche cura?

COR. Chi siete voi, quella giovane?

BET. Sono la padrona della bottega. Mi ha detto il garzone che voi non istate bene. Mi sono spicciata di un affare importante, e sono qui a vedere, se posso in qualche cosa servirvi.

COR. Vi ringrazio della vostra attenzione. Ho avuto un picciolo incomodo, ma non è niente.

BET. Me ne consolo infinitamente. Di che paese siete, signora?

COR. Sono italiana.

BET. È molto tempo che siete in Londra?

COR. Pochissimo.

BET. Vi piace questo nostro paese?

COR. Non lo conosco, perché sono appena arrivata.

BET. Se è lecito, signora, siete venuta qui per affari?

COR. No, ci sono venuta unicamente per divertirmi.

BET. Non sarete venuta sola.

COR. No certamente.

BET. Avrete in Londra delle conoscenze.

COR. Non ne ho, ma spero di farne.

BET. Scusatemi, se troppo m'inoltro. Di qual genere di conoscenze vorreste fare?

COR. Delle conoscenze oneste e civili.

BET. Questo è quello che promette il vostro aspetto e la vostra maniera, e pensando come pensate, io posso contribuire a rendervi il soggiorno un poco più dilettevole.

COR. Oh sì, fatemi conoscere qualcheduno. (con allegria)

BET. Siete voi maritata, o da maritare?

COR. Che cosa importa ch'io sia maritata o non maritata?

BET. Scusatemi importa moltissimo. Se siete da maritare, e che vogliate far qualche conoscenza per accasarvi, io mi presterò volentieri a procurarvi qualche buona occasione. Ma se foste mai maritata, né a voi sarebbe lecito di venire in un pubblico caffè a far delle conoscenze, né io dal canto mio avrei la bassezza di contribuirvi.

COR. Vi dirò. Per parlarvi sinceramente... (in questo entra un Servitore e chiama Betzi)

BET. Con permissione. Quel servitore vuol qualche cosa dalla mia bottega. Vado a sentir cosa vuole, e torno immediatamente da voi. (Betzi si accosta al Servitore che le dà del denaro. Ella va a prendere una bottiglia e gliela dà; il Servitore colla bottiglia parte. Intanto Corallina dice)

COR. Lo so che non è lecito ad una giovane maritata il far delle conoscenze, ma perché sarà lecito ad un marito? Questa è una legge ingiusta. Eppure bisognerà uniformarsi. Ma la vendetta ch'io voglio fare di mio marito? E la lezione ch'io voglio darci, acciò non mi faccia più soffrire la gelosia? Zitto, mi viene un pensiere a proposito. Non è necessario ch'io dica di essere maritata. Se passo per fanciulla, mi è permesso di far qualche conoscenza col pretesto di volermi accasare. La cosa non dee andar in lungo. Mi basta poter tormentar Arlecchino, e poi la conoscenza si manda a spasso... Non vorrei per altro... Eh niente, niente, non vi è paura di niente.

BET. E così, signora? Torno a dirvi ch'io non facilito le conoscenze alle giovani maritate.

COR. Ma chi vi ha detto ch'io sia maritata?

BET. Lo siete o non lo siete?

COR. Non lo sono.

BET. Siete dunque fanciulla?

COR. Fanciullissima.

BET. Vorreste voi maritarvi?

COR. Perché no?

BET. Chi avete con voi? chi vi ha condotta? chi vi custodisce?

COR. Una persona.

BET. Una persona? Maschio o femmina?

COR. Maschio, maschio.

BET. Maschio, maschio! Signora mia, scusatemi, io non ho l'onor di conoscervi. Questo maschio che vi custodisce, è qualche vostro parente?

COR. Oh sì, mio parente. BET. Parente vero, o parente supposto?

COR. Ma voi mi fareste venir la rabbia. Chi credete ch'io sia? Sono una giovane onesta e civile, e questo mio parente, è parente, e non ci sono né supposti, né cabale, né raggiri. (alterata)

BET. Vi domando mille volte perdono. Scusate la mia delicatezza, e prendetela in buona parte. Se siete quella che dite e quale l'aspetto vostro mi fa creder che siate, avrei un'ottima congiuntura da offrirvi.

COR. Sì, sì, animo, animo, procuratemi questa buona occasione.

BET. Un cavaliere italiano mi si è raccomandato perch'io gli faccia far qualche conoscenza.

COR. Un cavalier italiano? (Sarebbe mai quel briccone di Arlecchino?) (da sé) Lo conoscete questo cavaliere italiano?

BET. No, non lo conosco, ma voi che siete della stessa nazione, lo conoscerete più facilmente.

COR. Ditemi... per qual ragione vuol egli far questa conoscenza?

BET. Perché ha intenzione di ammogliarsi.

COR. Di ammogliarsi?

BET. Sì, certo; in altra maniera non mi sarei esibita di secondarlo.

COR. (Quand'è così, non è dunque Arlecchino). (da sé)

BET. Per quel che mi ha detto, dovrebbe capitare a momenti.

COR. L'aspetterò, se volete.

BET. Sì, a vostro comodo, e se non vi piace di restar qui ad aspettarlo, potrete entrar in quello

stanzino, dove starete con più libertà.

COR. Volentieri; mandatemi del caffè, e quando viene questo signore, avvisatemi.

BET. Sì, gli parlerò, e poi vi farò chiamare.

COR. Vi sarò infinitamente obbligata. Sono una giovane generosa; non mi manca il modo di

ricompensarvi, e sarete contenta di me. (Lascia fare, Arlecchino; se questo forastiere mi dà nel

genio, ti voglio tormentar come va). (da sé; entra in uno stanzino)

SCENA NONA

Betzi e Giovani.

BET. Garzoni, portate il caffè a quella signora. Sono sì grandi le spese che si fanno in questa città, che non ostante il guadagno considerabile di questo mestiere, in capo all'anno non si avanza gran cosa; se non mi meschiassi a far qualche matrimonio, non mi vedrei mai cento ghinee al mio comando. Ecco il signor italiano. Si è vestito all'inglese. Non ve n'era bisogno, se avesse saputo che dovea trattar con un'italiana.

SCENA DECIMA

Arlecchino vestito all'inglese, e detta.

ARL. (Affettando la caricatura inglese)

BET. Via, via, signore, non affettate di caricare i ridicoli di questa nazione. Delle caricature se ne trovano per tutto il mondo.

ARL. Me studio de imitar la maniera inglese per piaser a qualche donna inglese.

BET. Potete dispensarvene presentemente, poiché ho da proporvi la conoscenza di una signora italiana.

ARL. Italiana? Sì ben, son contento. Con una patriota farò manco fadiga a far conoscenza; ma xela bella, graziosa, zentil?

BET. Ella ha tutte le amabili qualità.

ARL. Ela maridada, o putta?

BET. Mi maraviglio che mi facciate questa interrogazione. Sapete ch'io non m'interesso per le persone maritate. Ella è libera, come voi lo siete, ed ha come voi la medesima intenzione dimaritarsi.

ARL. (Se la xe libera come mi, no la gh'averà intenzion de sposarme). (da sé) E cussì? Dove xela? Quando se làssela véder?

BET. Ella è in quello stanzino.

ARL. Andarò donca a trovarla.

BET. No, no, signore. Un poco di modestia e di convenienza. La farò venir qui. Aspettatela, e non l'abbordate con troppa vivacità. Con le donne non si dee mostrare né troppa passione, né troppa curiosità. State in contegno. Esaminatela di lontano, e poi accostatevi con civiltà. Scusatemi s'io vi do quegl'insegnamenti che mi paiono necessari.

ARL. Va benissimo, ghe son obligà, ma cara ela, la la fazza vegnir.

BET. Vado, e torno con lei. (entra nel camerino)

SCENA UNDICESIMA

Arlecchino, poi Betzi e Corallina.

ARL. Colle donne no bisogna mostrar né troppa passion, né troppa curiosità? Benissimo, e mi farò cussì. Per altro vorave saver... Ma eccola qua; no mostremo curiosità, e componemose.

BET. Ecco il signor italiano. (a Corallina)

COR. È vestito anch'egli all'inglese. (a Betzi)

BET. Sa, come voi, per uniformarsi al paese.

COR. Non mi guarda nemmeno.

BET. Dee pensare a qualche cosa d'importanza. Ora gli parlerò. (si accosta al Arlecchino)

COR. (Non so cosa sia. Il core mi batte terribilmente). (da sé)

BET. Signore, ecco qui la signora italiana.

ARL. Sì! vediamola. (si volta, fa qualche passo; marito e moglie si conoscono, e restano ammutoliti e mortificati)

BET. Che vuol dire questa sorpresa? Vi conoscete, signori?

ARL. Mia muggier. (a Betzi, pateticamente)

COR. Mio marito. (a Betzi, pateticamente)

BET. Come! Marito e moglie! E tutti due venite a parlarmi di conoscenze e di matrimonio? Mi maraviglio di voi. Sono una donna d'onore, non tengo mano a simili galanterie. Vergognatevi di voi stessi, ed alla mia bottega non ci capitate mai più. (parte)

SCENA DODICESIMA

Corallina ed Arlecchino, distanti l'uno dall'altra.

COR. (L'ho fatta). (da sé)

ARL. (Ghe son cascà). (da sé)

COR. (Come farò per accomodarla?)

ARL. (Come l'aggiusteremo?)

COR. (Oh maledetto Genio Cattivo!)

ARL. (Oh vecchio barbon maledetto!)

COR. (Non mi dà l'animo di alzare gli occhi).

ARL. (No gh'ho coraggio de vardarla in fazza).

COR. (Il cuor mi dice: pentiti, vagli a dimandar perdono).

ARL. (Se procuressimo de far pase? Se ghe domandasse perdon?)

COR. (Ma perché avvilirmi a tal segno?)

ARL. (Ma perché usar sta poltroneria?)

COR. (Briccone! non cercava anch'egli di rimaritarsi?)

ARL. (Desgraziada! no volevela un altro mario?)

COR. (Mi ha perduto affatto l'amore).

ARL. (No la ghe pensa più gnente dei fatti mii).

COR. (Potrei tentar di ricuperarlo).

ARL. (La se poderia accomodar).

COR. (Ma che? Anderò io a pregarlo?)

ARL. (Saroi mi el primo a andarme a raccomandar?)

COR. (Oh questo no).

ARL. (No sarà mai vero).

COR. (Animo).

ARL. (Coraggio).

COR. (È rotta per sempre). (passeggia in collera)

ARL. (No la se comoda più). (passeggia con sdegno)

COR. Bell'azione! (verso Arlecchino)

ARL. Bella reputazion! (verso Corallina)

COR. Indegno! (passeggiando, e passando dall'altra parte)

ARL. Desgraziada! (passeggiando, e passando)

COR. Un'altra moglie! (voltandosi, e passeggiando)

ARL. Un altro mario! (voltandosi, e passeggiando)

COR. Bell'onor di un consorte! (passeggiando)

ARL. Bella fedeltà de muggier! (passeggiando)

COR. Il tuo pessimo esempio. (ad Arlecchino, con collera)

ARL. La to cattiva intenzion. (a Corallina, con collera)

COR. Lo sai, indegno, quanto ti ho amato? (come sopra)

ARL. Ti te ricordi, se t'ho volesto ben! (come sopra)

COR. (Oh quanto volentieri farei la pace!) (da sé)

ARL. (Squasi squasi me butteria). (da sé)

COR. (Ma no).

ARL. (No gh'è più remedio).

COR. Uomo cattivo. (ad Arlecchino, passeggiando)

ARL. Femena poco de bon. (a Corallina, passeggiando)

COR. Per te è finita. (come sopra)

ARL. No ghe penso più. (passeggiando)

COR. Non ho più marito. (passeggiando)

ARL. No gh'ho più muggier. (passeggiando)

COR. Andrò dove mi pare e piace. (passeggiando)

ARL. Farò quel che me parerà. (passeggiando)

COR. Addio. (voltandosi ad Arlecchino con sdegno)

ARL. Bona notte. (voltandosi a Corallina con sdegno)

COR. Non ti curi di me?

ARL. No ti me preghi?

COR. Pregarti, indegno?

ARL. Curarme de ti, desgraziada!

COR. È finita.

ARL. La xe decisa.

COR. Vado via.

ARL. Va a bon viazo.

COR. Che ognun dal canto suo cura si prenda.

ARL. Tu ver Gerusalemme, io verso Egitto. (partono da due parti opposte)

SCENA TREDICESIMA

NOTTE

Luogo delizioso in vicinanza di Londra, detto Vauxhall, dove si mangia, si beve, si balla e si passeggia. Nel fondo si vedono quattro stanzini aperti, come i camerini di caffè in Venezia. Sono i detti stanzini illuminati di dentro, e in due di essi vi sono uomini e donne alle rispettive tavole, mangiando e bevendo. Tutto il Vauxhall è illuminato con fanali. Uomini e donne che passeggiano, e vanno e vengono; poi

I quattro INGLESI e le due DONNE delle prime scene di quest'atto e vari GARZONI che servono. I

quattro Inglesi, tenendo sotto il braccio le Donne, vengono con quell'allegria che può comportare

la società del paese, domandano Ponch, birra, pane, butirro ed entrano a tre a tre, ed occupano gli

altri due stanzini. Garzoni portano nei due stanzini tutto quello ch'è stato domandato. Tutti siedono,

e mangiano, e bevono colla medesima giovialità.

SCENA QUATTORDICESIMA

Arlecchino tenendo sotto il braccio una Donna all'inglese, che sarà una ballerina, affettando anch'egli con caricatura l'allegria composta degli Inglesi, dice alla Donna:

ARL. Disè, parlè, comandè, cossa voleu?

DON. Ballare.

ARL. Sonadori, soné. (si mette in figura colla Donna, mentre i Suonatori accordano gli strumenti)

SCENA QUINDICESIMA

Corallina tenuta pel braccio da due Inglesi che saranno due Ballerini. Vengono tutti tre dalla parte opposta, cosicché Corallina non vede in faccia Arlecchino, ed egli non vede Corallina. Gl'Inglesi domandano a Corallina se vuol rinfreschi. Ella dice di no. Domandano se vuol ballare. Ella con allegria dice di sì. Si avanzano per ballare. Marito e moglie si scoprono, hanno soggezione, e per non farsi scoprir dagli altri, tutti due a tempo accennano che vogliono servirsi dell'anello per rendersi invisibili; Suonatori suonano. I Ballerini principiano a ballare. La Donna non vede più Arlecchino. I due Ballerini non vedono più Corallina. Si maravigliano, sempre ballando e continuando il ballo fra loro tre, cioè i due Ballerini e la Ballerina. Arlecchino e Corallina invisibili.

COR. Crede il briccone ch'io non lo veda. (Arlecchino disgustato di aver lasciato la Donna va intorno di essa, si meschia nel ballo, e l'abbraccia. La Ballerina si spaventa, e fugge via)

COR. Briccone, galeotto! In faccia mia?

ARL. A mi briccon? A mi? maledetta! No so chi me tegna. (Si attaccano sempre più di parole. Gl'Inglesi dai camerini sentono le voci e non vedono le persone. Cresce la rissa fra Arlecchino e Corallina invisibili. Corallina prende una sedia per dare ad Arlecchino. Arlecchino un'altra per difendersi. Gl'Inglesi vedono le sedie in aria senza saper chi le mova. Chiamano le Guardie. La Guardia arriva. Corallina batte il piede. I due camerini si trasformano in una grotta, da dove escono quattro Furie con fiaccole accese. Arlecchino batte il piede, e gli altri camerini si trasformano in un luogo infernale. Escono Demoni con fiaccole accese. Tutti fuggono. Si fa un ballo di Spiriti e Furie, e con questo)


ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Piazza in Tripoli di Barbaria con veduta in prospetto della Moschea con porta chiusa nel mezzo,

che poi si apre. Due Guardie turche, una di qua, una di là della porta della Moschea.

Il Genio Cattivo travestito ed Arlecchino col suo abito naturale.

ARL. Dove semio, sior mercante? Che zente xe quella con quelle sàbole e quei turbanti?

GEN. C. Noi siamo in Tripoli di Barbaria.

ARL. Barbaria? M'avè menà in Barbaria? (con timore)

GEN. C. Qual apprensione vi reca questo nome di Barbaria? Credete che siano barbari i popoli di questa nazione? V'ingannate. Così si chiama questa parte dell'Affrica che contiene più regni; però si rispetta qui pure l'umanità e la giustizia.

ARL. Andemo via che quei mustacchi me fa paura.

GEN. C. Perché volete partir sì tosto? Perché volete privarvi del bel piacere di vedere il mondo, di esaminar nuovi popoli, di apprendere delle nuove leggi, di conoscere dei novelli costumi? Non avete desiderato voi stesso di veder l'Affrica e l'Asia? Non mi avete pregato a Londra di accompagnarvi? Non mi avete voi condotto per aria in virtù del vostro magico anello?

ARL. Xe vero. Desperà d'aver perso la mia cara muggier, no saveva a qual partio abbandonarme. El cuor me diseva: torna a Bergamo, torna alle to vallade, torna alla to capanna, e za era per tornar. Sè vegnù vu, m'avè conseggià a seguitar a viazar! M'ho lassà persuader, ma ve zuro che son pentio.

GEN. C. (Tardo è il tuo pentimento. Imparerai, o sciocco, a credere al Cattivo Genio che sotto questi abiti non riconosci). (da sé)

ARL. Ma come che semo vegnui, poderessimo andar; presto fazzo a voltar l'anello.

GEN. C. Caro amico, se avete la facoltà di partire quando volete, di che avete paura? Perché non profittate dell'occasione di divertirvi? Ah se vedeste le donne di Barbaria! se vedeste qual grazia, qual beltà regna in questa nazione! Voi col favore di questo anello potete penetrare nei bagni, nei serragli, nelle moschee, da per tutto. Potete voi solo vedere a faccia scoperta quelle bellezze che si tengono qui con tanta gelosia custodite.

ARL. Cospetto de mi! ghe xe delle belle donne? Le posso veder liberamente? Posso intrar in ti bagni, in ti serraggi, in te le moschee?

GEN. C. Così è; questa fortuna è sol per voi riservata.

ARL. Co l'è cussì, no vago via per adesso.

GEN. C. Vi consiglio di profittare dell'occasione.

ARL. E se m'arriva qualche accidente? Se i me trova, se i me scoverze?

GEN. C. Se vi trovano, se vi scoprono...

ARL. Gnente paura. Volto l'anello, e chi s'ha visto, s'ha visto.

GEN. C. Così è, l'anello potrà salvarvi. (Ma non lo possederai lungamente). (da sé)

ARL. Oh caro anello! oh caro spirito! oh che bella cossa!

GEN. C. Veramente è una cosa rara.

ARL. Cossa diseu? Nol darave per centomila milioni.

GEN. C. Come mai può rinchiudersi in un piccolo anello una virtù sì possente?

ARL. Mi nol so gnanca mi.

GEN. C. Lasciate un po' vedere per curiosità.

ARL. Oh sior no, sior no. No me lo cavo dal deo.

GEN. C. Non pretendo che lo caviate. Mi basta vederlo nel vostro dito.

ARL. Tolè, vardèlo; ma no sperè de cavarmelo dalle man.

GEN. C. Bellissima questa pietra. (tocca l'anello, e subito si spezza e cade per terra e sparisce)

ARL. El mio anello?

GEN. C. Eccolo, eccolo. Non v'inquietate. (finge di levarlo di terra e gliene dà un altro simile)

ARL. Caro el mio caro anello! no lo lasso più véder, né toccar da nissun. (se lo mette al dito)

GEN. C. (Compito è il disegno. La sua perdita è certa. Il suo cattivo genio trionfa). (da sé)

ARL. Chi xe quella zente? (verso la scena)

GEN. C. Oggi è giorno di solennità fra la gente turca. Le donne, scortate dagli eunuchi neri, vanno alla Moschea principale.

ARL. Oh quante donne! Ma le xe coverte.

GEN. C. Questo è l'uso della nazione.

ARL. Se scoverzirale?

GEN. C. Si scopriranno nella Moschea.

ARL. Volterò l'anello e anderò invisibile in te la Moschea.

GEN. C. È vero, lo potreste fare, ma non vi consiglio. Quantunque invisibile, non sarete meno palpabile, e in un luogo dove vi sarà molta gente, potreste cagionar dei disordini.

ARL. Come oggio donca da far? Moro da voggia de veder ste bellezze de Barbaria.

GEN. C. Il colore del vostro viso potrebbe farvi passar per un nero, e potreste entrare liberamente.

ARL. Ma co sto abito...

GEN. C. È vero; l'abito vi potrebbe tradire, vi ho pensato. Venite meco. Vi condurrò da un mercante di schiavi che io conosco. Comprerete un abito ed entrerete col seguito degli eunuchi.

ARL. Bravo, andemo subito: e se nasce qualcossa, volto l'anello, e bona notte patroni. (parte)

GEN. C. L'anello è inutile, e tu sarai la vittima della tua inclinazione. (parte)

SCENA SECONDA

Al suono di tamburini e trombette turche ed altri strumenti, vengono le Donne turche, coperte dai loro veli, scortate dagli Eunuchi neri che precedono e chiudono la marcia. Si aprono le porte della Moschea. Fanno il

giro del teatro ed entrano per ordine nella Moschea.

Nel tempo che fanno il giro, verso la fine, comparisce Arlecchino in abito di eunuco nero

con un tamburino. Seguita anch'egli la marcia, ed entra con gli altri nella Moschea.

SCENA TERZA

Entrati tutti, si chiudono le porte e cambia subito la sinfonia della marcia in un'altra sinfonia più dolce, al suono della quale discende una nuvola a terra, sparisce e vedesi

Corallina seduta ed addormentata sopra un sedile laterale di pietra.

COR. (Destandosi a poco a poco) Dove sono? dove mi trovo? Vedo due guardie turche. Sarebbe questa per avventura la città di Tripoli? Non ardisco di domandarlo, poiché quelle figure mi mettono in apprensione. Ma credo certamente di essere in Tripoli. Mi ricordo che in Londra stanca, affaticata e disperata di aver perduto il mio caro marito, mi addormentai. Mi ricordo che in sogno mi comparve un giovinetto, e mi disse: «Va in Tripoli, se vuoi esser contenta». So certo, e non m'inganno sicuramente, che risvegliatami mi parve il sogno stravagantissimo, che lo presi per una illusione, e che lontana dal voler passare in Turchia, mi raccomandai al cielo di cuore per ritrovare il mio caro, il mio adorato Arlecchino. Ma mi pare se non m'inganno, di essermi addormentata di nuovo con questo pensiere, e parmi di aver novamente sognato ed avermi sentito dire: «Se sei pentita, il cielo ti aiuterà; tuo marito è in Tripoli, va in Tripoli e lo ritroverai». Non so se svegliata o dormendo, parmi di aver voltato l'anello... Sì, eccolo ancor voltato. L'ho fatto dunque, o dormendo o vegliando, ed il pensiere che ha accompagnato l'azione, mi ha quivi condotta. Sono in Tripoli sicuramente. Ma qual ragione ho io di sperare di qui ritrovare Arlecchino? Qual avventura potria qui averlo condotto? Ah che il cuor mi ha tradito! Ho preso un'illusione per un consiglio, e trovomi sempre più lontana dal mio Arlecchino e dalla speranza di ritrovarlo. Che farò io qui, poverina, sola, abbandonata, in terra de' Turchi, esposta ai pericoli ed agl'insulti? E che! Mi scordo io del poter dell'anello? Non posso io voltarlo ed andar altrove? Sì, sì, voltiamolo e andiamo... Ma dove? dove? A Bergamo, all'antica mia abitazione, a rinvenire la pace, la quiete che ho abbandonata. Ma qual pace poss'io sperar senza mio marito? Mi saranno quei luoghi più orribili, più dolorosi. Ma qui non posso, qui non deggio restare. Sì, ecco un partito disperato, ma opportuno al mio caso. Voltisi l'anello, e che mi porti lo spirito in una selva disabitata dove finisca i miei giorni, piangendo la perdita del mio caro marito, dove pagar io possa la pena della mia debolezza passata e della mia cattiva condotta. Animo, coraggio, andiamo... Ma se qui fosse Arlecchino? Se qui si trovasse il mio caro marito? Oh cieli! son fuor di me. Non so a qual partito appigliarmi.

SCENA QUARTA

Pantalone e la suddetta.

PANT. Olà! una donna europea! sola! in sto liogo! come mai? che stravaganza, che novità!

COR. Chi è mai questo buon vecchio che mi guarda con attenzione? All'abito non mi par turco.

PANT. Patrona riverita.

COR. Serva devota.

PANT. La compatissa se m'avanzo troppo. La mia curiosità no xe senza rason.

COR. Favorite dirmi, signore, qual paese è questo.

PANT. No la lo sa?

COR. Non lo so.

PANT. Semo in Tripoli de Barbaria.

COR. (Non mi sono ingannata. Ho secondato il sogno senza volerlo). (da sé)

PANT. Ma come xela qua, senza saver dove che la sia?

COR. Favoritemi in grazia. Siete voi di questo paese?

PANT. No, la veda; son un mercante italian che navega in sti mari, e gh'ho qua el mio negozio e i mi magazzeni.

COR. Sono consolatissima d'incontrarmi in un italiano. Di qual paese siete, signore?

PANT. Venezian per servirla.

COR. Oh incontro per me fortunato! Io non son veneziana, ma ho avuta la fortuna di nascere sotto un sì dolce, sotto un sì glorioso governo.

PANT. In che paese, patrona?

COR. In una delle più belle e delle più feconde valli del Bergamasco.

PANT. Me ne consolo infinitamente. Semo, se pol dir patriotti. Se posso servirla, la me comanda. Son bon venezian; amigo de tutti, amigo delle donne principalmente, e amigo sviscerà delle patriote.

COR. Ditemi, per carità, avreste sentito per avventura in questo paese mentovar il nome di un certo Arlecchino delle vallate di Bergamo?

PANT. No, in verità, no l'ho mai sentio nominar.

COR. (Eh lo diceva, è inutile ch'io me ne lusinghi). (da sé)

PANT. Xelo qualche so parente?

COR. È mio marito, signore. (sospirando)

PANT. Coss'è stà? l'alo lassada? xelo andà per mar? xelo stà fatto schiavo?

COR. Con più comodo vi narrerò la serie delle mie sventure. Per ora vi supplico di procurarmi un asilo.

PANT. La vegnirà con mi, la starà con mi. Son cognossù, son respettà in sto paese, e no l'averà gnente da dubitar.

COR. Il cielo ricompensi la vostra bontà.

PANT. Ma la me compatissa, avanti che m'impegna per ela, xe ben giusto che la me diga chi la xe, come che la se trova in sto liogo, chi l'ha menada, chi l'ha conseggiada, e cossa che la pensa de far.

COR. È giusto quel che voi domandate. Sappiate, signore, ch'io sono... (si sente rumore nella Moschea)

PANT. Coss'è sto strepito?

COR. Che rumore è questo?

PANT. Andemo, retirémose qua in sta bottega. La me conterà la so istoria. Intanto vederemo cossa che nasce, e se el passo sarà libero, andaremo a casa da mi. (la prende per mano)

COR. Oh cieli! La mia disgrazia mi seguita per tutto. (partono)

SCENA QUINTA

Si spalancano le porte della Moschea, escono i Mori furiosi, due de' quali tengono per le braccia Arlecchino. Si uniscono le due Guardie ed accorrono al rumore. Altri Soldati da varie parti.

ARL. (Dimenandosi con forza, tenta di liberarsi dai Mori, ma questi lo tengono forte ed i Soldati minacciano di ammazzarlo. Lui vorrebbe avere le mani in libertà per girare l'anello, sperando che avrebbe la facoltà di farlo sparire) Mo via, feme sta grazia, lassème un momento in libertà. (Se podesse doperar l'anello, no i me vederave più). (da sé) Mo via, lassème. (i Soldati non vogliono lasciarlo, ed ei freme e si sforza)

SCENA SESTA

Alì con i Soldati, e detti.

ALÌ Cos'è questo? che cosa è accaduto?

MOR. Questo forastiere temerario ha avuto l'ardire di entrare travestito nella Moschea.

ALÌ Chi sei? Perché in quell'abito? Come e perché ti sei introdotto? Parla, rispondi, e avverti di non mentire.

ARL. Ho le parole ligade, no posso parlar. Ch'i me lassa un poco di libertà, e allora le se desligarà e dirò tutto.

ALÌ Lasciatelo, e ritornate nella Moschea. (ai Mori) E voi circondatelo, e badate che non vi fugga. (ai Soldati) (I Mori arrabbiati maltrattano Arlecchino, lo lasciano con dispetto, e partono)

ARL. (Adesso me la sbigno. Presto a Bergamo). (gira l'anello, e batte il piede)

ALÌ Presto, dimmi chi sei. (ad Arlecchino)

ARL. Sior sì, subito. (A Bergamo). (da sé, battendo il piede, e gira l'anello)

ALÌ Vuoi parlare? vuoi tu finirla?

ARL. Adesso, sior, un momento per carità. (torna a girar l'anello e a batter il piede) Ah poverettomi, l'anello no me vol ubbidir... Spirito maledetto, ti m'ha burlà... Genio malandrin, ti m'ha sassinà... (smaniando qua e là per la scena. Le Guardie, credendo che soglia fuggire, lo seguono)

ALÌ O parla, o ti faccio tagliar la testa.

ARL. Son desperà, no gh'è più remedio per mi. Prima ho perso quel poco de giudizio che aveva, po la muggier, po lo spirito dell'anello, e dopo tutto, la speranza. No gh'è più caso, bisogna perir. (al Cadì) La me impicca, la me impala, la me mazza, la me scòrtega, la fazza de mi un tamburo, vôi morir, ma no vôi parlar.

ALÌ S'arresti quel temerario. S'incateni, conducasi alla giustizia, e a forza di tormenti si costringa a parlare. (i Soldati incatenano Arlecchino)

SCENA SETTIMA

Corallina correndo affannata verso Arlecchino, Pantalone la seguita.

PANT. Fermève, cossa feu? Vegnì qua. (tentando di trattener Corallina)

COR. Arlecchino. (gridando con affanno, e procurando accostarsi)

ARL. Corallina. (con affanno e sorpresa)

PANT. Coss'è sta cossa? (sorpreso)

COR. Mio marito. (come sopra, e voltandosi a Pantalone)

ARL. Mia muggier. (come sopra, volgendosi ai Turchi)

ALÌ Arrestate costei. (ai Soldati che la circondano)

PANT. Sior Bassà, la prego...

ALÌ Conduceteli entrambi al Cadì. (parte) (I Soldati conducono a forza Arlecchino e Corallina, e partono)

PANT. Povera donna, povera zente! Presto: voggio andar; li voggio agiutar. (parte dietro agli altri)

SCENA OTTAVA

Si aprono le porte della Moschea. Escono le Donne custodite dai Mori,

colla marcia medesima come sono entrate; fanno il giro e partono.

SCENA NONA

Cortile del luogo di Giustizia con palo, palco, foco, e vari Ministri di esecuzione. La torre delle prigioni

da un lato, in fondo la scena, con una scalinata che scende dalla porta della torre al cortile.

Il Cadì e i Ministri di esecuzione, e Guardie; poi Arlecchino

CADÌ Fate venire quell'europeo. (alle Guardie le quali montano la scalinata, aprono la porta, e fanno scendere Arlecchino incatenato e sempre in agitazione e disperazione)

CADÌ Chi sei? (ad Arlecchino)

ARL. Mia muggier. (forte e con affanno)

CADÌ Come ti chiami?

ARL. Corallina. (chiamandola con disperazione)

CADÌ Corallina è il tuo nome?

ARL. Corallina xe mia muggier.

CADÌ E tu chi sei?

ARL. Maledetto spirito! maledetto mercante! maledetta curiosità!

CADÌ Parla, o ti faranno parlare i tormenti.

ARL. Feme impalar, feme scortegar.

CADÌ Perché t'introducesti nella Moschea?

ARL. El diavolo, el spirito, el Cattivo Genio.

CADÌ Qual era il tuo disegno?

ARL. Che dessegno? Son un povero contadin. Mi no so de dessegno.

CADÌ Perché sei qui venuto?

ARL. Perché el diavolo me gh'ha portà.

CADÌ Come venisti?

ARL. No so gnanca mi.

CADÌ Per mare?

ARL. Sior no.

CADÌ Per terra?

ARL. Sior no.

CADÌ Per aria dunque? (con sdegno)

ARL. Sior sì.

CADÌ (Non comprendo s'egli sia uno sciocco, o se sia un impostore). (da sé)

ARL. Lassème véder mia muggier. (con affanno)

CADÌ Tua moglie?

ARL. Lassè che la veda, e po feme impalar.

CADÌ Quella donna che hanno arrestato, è dunque tua moglie?

ARL. Sior sì, la xe mia muggier. (sempre con affanno)

CADÌ È venuta con te?

ARL. Sior no.

CADÌ Sei tu venuto solo?

ARL. Sior no.

CADÌ Chi ti ha condotto?

ARL. El diavolo.

CADÌ O parla e confessa la verità, o preparati di soffrire i tormenti.

ARL. Dov'ei sti tormenti? Animo, destrighève. Feme morir, feme tormentar. Presto, vegnì avanti. Corda, palo, fogo, chiodi, spade, spontoni. Son qua, no me movo. Son desperà.

CADÌ (Costui è sciocco senz'altro. Lo farò morire, ma non merita di essere tormentato). (da sé)

COR. Lasciatemi entrare, signor giudice, signor Cadì, scusate la mia temerità. Sono una povera moglie afflitta, che viene in traccia di suo marito. S'egli ha fallato, avrà fallato per ignoranza.

SCENA DECIMA

Corallina da una porta laterale sforzando le Guardie, e detti.

COR. Vengo a domandare grazia per lui, e s'egli non può sperarla, s'egli deve morire, voglio anch'io morire con lui.

ARL. (Si confonde e s'intenerisce)

CADÌ Chi siete voi? Chi è vostro marito? Qual ragione vi ha qui condotti?

COR. Noi siamo due poveri paesani, lusingati dall'ambizione, sedotti dal Genio maligno, e precipitati dalla mala condotta. Troppo lungo sarebbe il dirvi quali avventure abbiamo passate, e come qui ci troviamo.

SCENA UNDICESIMA

Pantalone dalla medesima porta laterale, e detti.

PANT. Sior Cadì, ghe domando scusa, se me togo la libertà de intrar.

CADÌ Ad un uomo come voi, non è impedito l'ingresso.

PANT. Son qua a pregarla de metter in libertà sta povera donna. So chi la xe, ho conossudo a Bergamo la so fameggia; la m'ha contà i so accidenti, e la merita compassion. No parlo de so mario; el xe un ignorante, el xe un sciocco. Quel che l'ha fatto, son seguro che nol l'ha fatto né per disprezzo del liogo dove che el s'ha introdotto, né con anemo de far del mal ma ciò non ostante l'ha fallà, el merita de esser castigà, e lo abbandono alla so giustizia e alla so pietà. Ghe domando la donna. La xe innocente. La xe protetta da mi, la xe nata sotto i auspici del mio glorioso Lion. Se la me la dà, la farà un atto de giustizia, la me farà una finezza a mi, e la farà cossa grata a tutta la mia nazion.

CADÌ Rispetto la vostra illustre nazione, ho tutta la stima per voi, desidero compiacervi, ma non posso farlo senza un ordine superiore. Per darvi un segno della mia amicizia, monto le scale in questo momento, vado a parlare per voi. Sarò io l'avvocato della vostra protetta, e saprete in brevi momenti la decisione del nostro Bey, che presiede al governo di questi stati.

PANT. La ringrazio, la prego, me raccomando.

CADÌ Resti qui la donna ben custodita, e conducete colui nella torre. (alle Guardie, e parte)

SCENA DODICESIMA

Pantalone, Corallina, Arlecchino, Ministri e Guardie.

COR. Vi ringrazio, signor Pantalone, della vostra bontà, ma non isperate ch'io di qui parta senza il mio caro marito.

PANT. Mi no so cossa dir...

ARL. No, Corallina, no te ustinar per mi. Son mi la causa de tutto. No merito la to compassion.

COR. Ma come sei in questo stato? Dimmi... l'anello... non ti ha servito l'anello?

ARL. Nol val più gnente. L'ho voltà cento volte; el diavolo xe tornà a casa soa.

COR. (Se potessi aiutarlo col mio!) (da sé) Dammi la mano. (vuol prendere Arlecchino per mano, le Guardie l'impediscono) Perché non volete ch'io tocchi la mano a mio marito? (le Guardie non vogliono)

PANT. Via, permettèghe almanco sta piccola consolazion. (alle Guardie le quali ricusano, e trascinano a forza Arlecchino verso la scalinata per condurlo nella torre)

COR. Voglio seguitarlo ancor io. (in atto di seguirlo)

PANT. Fermève. (arrestandola)

COR. Invano mi trattenete. Sappiate che, s'io volessi, potrei in un momento partire e liberarmi da ogni pericolo.

PANT. Lo so; m'avè dito che gh'avè un anello...

COR. Ma no, amo meglio morire con mio marito che vivere senza di lui. (le Guardie strascinando a forza Arlecchino sulla scalinata, arrivano alla porta della torre e l'aprono per metterlo dentro. Corallina monta anch'essa la scalinata)

PANT. Torna el Cadì. Guardie, fermève, e sentimo l'ordine del Bey. (forte alle Guardie)

SCENA TREDICESIMA

Il Cadì e detti.

PANT. E cussì, sior Cadì, che bone nove me pòrtela?

CADÌ Il Bey mio signore ha accettato le vostre suppliche, ed ecco quel ch'ei m'impone di dirvi. Rispetta egli la vostra illustre nazione, ammira lo zelo ond'ella s'interessa per i sudditi suoi, con cui favorisce il commercio, mantiene la tranquillità fra suoi popoli e la buona corrispondenza co' suoi alleati. Desidera egli conservare la sua amicizia, ed in prova di ciò, non solamente rende a voi la donna innocente, ma vi regala generosamente anche il colpevole.

PANT. Evviva! evviva! Son pien de giubilo e de consolazion. L'assicura el Bey della mia vera riconoscenza, e che scriverò al mio paese, e che in ogni occasion el sia seguro de trovar una simile corrispondenza.

CADÌ Lasciate il reo in libertà. (alle Guardie, le quali sciolgono Arlecchino e discendono)

PANT. Animo. Vegnì zoso, vegnì a ringraziar el sior Cadì, e mi farò el mio dover col Bey. (a Corallina ed Arlecchino)

ARL. Presto, andémoli a ringraziar. (vuol discendere)

COR. Fermati, Arlecchino, e dammi la mano. (lo prende per mano e parla forte dalla scalinata) Ringrazio il Bey, il Cadì, e il signor Pantalone. Ringrazio il cielo che ci ha salvati, che ci ha liberati. Domando scusa, se non discendo. Sono impaziente di riveder la mia patria. Mi servo ora, in compagnia di Arlecchino, di quel potere che senza di lui non curava. Addio, signor Pantalone. Venite a Bergamo, e ci rivedremo.

(Batte il piede. Attacca subito la sinfonia piena con trombe e timpani. La scena si cambia in porto di mare, e la torre delle prigioni si cangia in una fortezza che difende il porto. Si vedono vari bastimenti. Arlecchino e Corallina si vedono trasportati in una nave europea che a vele gonfie parte. Tutti attoniti e sorpresi, facendo maraviglie partono. Escono da varie parti dei Turchi ballando, e conducendo dei Schiavi e delle Schiave in catene con delle Guardie. Dopo qualche piccola danza, viene una Guardia turca a parlare all'orecchio dei Turchi ballerini. Essi corrono al porto. Osservano in mare e fanno maraviglie, come se vedessero un'armata, e mostrano qualche apprensione. Mandano la Guardia alla torre, e dalla torre si fanno alcuni tiri di cannone, e si espone bandiera bianca turca. I Turchi ballerini montano in una saicca turca e vanno in mare. Intanto gli Schiavi e le Schiave in catena ballano fra di loro, custoditi da Guardie. Torna poi la saicca turca, e sbarcano i Turchi che invitano i Veneziani armati a discendere. Discesi che sono, e bene accolti dai Turchi, fanno questi sciogliere gli Schiavi, e li presentano ai Veneziani. Segue il ballo allegro, e con questo)


ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Campagna rustica alla vista di un fiume picciolo, ma navigabile. Veduta al di là del fiume di monti scoscesi. Capanna da un lato ed un grosso battello nel fiume, legato alla riva. Tuoni e lampi, saette nell'aprirsi dell'Atto. Due Pastorelle corrono a serrarsi nella capanna. Terminato il temporale, l'aria si rasserena, le Pastorelle escono dalla capanna.

Agata e Lena.

AGA. Oh che orribile temporale!

LENA Io sono ancora nello spavento.

AGA. Tremo per la vita di mio fratello.

LENA Ed io per quella di mio marito.

AGA. Gran vita miserabile è quella de' pescatori!

LENA Esposti sempre ai pericoli.

AGA. Voglia il cielo che ritornino sani e salvi.

LENA Oh, ecco qui mio marito. Sia ringraziato il cielo!

SCENA SECONDA

Tognone e dette.

AGA. Dov'è mio fratello? (a Tognone con ansietà)

TOGN. Alla bocca del fiume.

LENA Avete avuto paura?

TOGN. Per noi altri non c'era pericolo, poiché per fortuna eravamo a terra a tirar la rete. Ma abbiamo veduto rompere una tartana ne' scogli e pericolare tutti quei che vi erano dentro.

LENA Povera gente!

AGA. Il mare è bello a vedere, ma alla lontana.

LENA Vuoi venirti a mutare? (a Tognone)

TOGN. No; i miei camerata mi aspettano. Abbiamo fatto una pesca abbondante; son venuto a prendere il battello grosso per trasportarla.

LENA Non vuoi nemmeno rinfrescarti un poco?

TOGN. No, no; quando torno. Verremo tutti insieme. Non tarderemo a venire. (va alla riva del fiume, entra nel battello, lo scioglie e remigando parte)

LENA Andiamo a preparare qualche cosa per quando vengono.

AGA. Andiamo. (entrano nella capanna)

SCENA TERZA

Corallina sola; poi Agata e Lena.

COR. Povera Corallina, povera donna, afflitta, vedova, disperata! Che farò in vita, ora che ho perduto il mio caro Arlecchino, il mio caro bene, il mio caro marito? Genio perfido che mi hai sedotta, tu sei la causa della mia disgrazia, tu mi hai condotta a precipitare. Sarai contento; son desolata, son precipitata, son morta. Oh Genio maladetto! Vecchiaccio indegno! Avessi ascoltato le voci di quel giovinetto prudente che mi consigliava al bene, che mi animava a resistere, e che con tanta carità ed amore mi ha fatto in uno specchio vedere tutti i malanni ai quali il Genio nemico volea condurmi! Ah sì, ecco verificato il prognostico del Genio Buono. La tempesta orribile ed il naufragio che ei mi ha dipinto fra l'ombre, s'è pur troppo verificato. Io salvata mi sono per il potere di questo anello fatale, ma non mi ha servito per salvare Arlecchino. Il povero sfortunato, perduto l'anello al gioco, è precipitato in mare, e si è miseramente perduto. Che farò io in vita senza di lui? A che mi serve ora questa gemma incantata? Che voglio far di questo spirito qui rinchiuso, se non ha avuto il potere di conservarmi il mio caro adorato marito? Maladetto spirito! Perduto Arlecchino, ho perduto tutto, non so più che fare di te, vattene all'inferno donde partisti. Vattene anello infame, ti seppellisco dove sepolto è il mio bene. (getta l'anello nel fiume) Ohimè! qual tremore mi assale? Mi sento ardere internamente. Il cor mi palpita, e par che voglia balzar fuori del petto. Mi suda la fronte... Mi si oscura il giorno... Parmi che il terreno vacilli... Oh cielo!... Mi sento morire... Non vi è nessuno che mi soccorra... non vi è chi riceva gli ultimi miei respiri... Oimè! gente, aiuto, soccorso.

AGA. Che avete, poverina?

LENA Cosa mai vi è accaduto?

COR. Soccorretemi per carità!

AGA. Venite con noi.

LENA Venite, venite nella capanna. (le due sostengono Corallina ed entrano)

SCENA QUARTA

Tognone, Medoro ed altri Pescatori vengono col grosso battello alla riva;

scaricano molti canestri di pesci, e all'ultimo tirano in terra una rete piena

e la lasciano senza aprirla.

TOGN. Oh la buona pesca che abbiamo fatto!

MED. In grazia del temporale, siamo stati oggi più fortunati del solito.

TOGN. Chiamiamo le nostre donne. Lena. (chiama forte)

MED. Agata. (chiama forte)

TOGN. Venite.

MED. Venite a vedere.

SCENA QUINTA

Agata, Lena, poi Corallina e detti.

LENA Oh quanto pesce!

AGA. Oh che buona pesca! (con allegria)

TOGN. Mi par di vedere... Chi ci è nella capanna?

LENA Una povera donna, che si è salvata dalla burrasca.

AGA. Venite venite anche voi. Venite a vedere quanto pesce. (alla capanna con allegria)

COR. Godo delle vostre consolazioni. (melanconica)

AGA. Cosa c'è nella rete?

MED. Del pesce grosso.

LENA Vediamolo.

TOGN. Lo vedremo con comodo. Andiamo a far colazione. (agli altri Pescatori)

MED. Ci avete preparato niente? (alle Donne)

LENA Sì, sì, venite. (Lena ed i Pescatori entrano tutti nella capanna)

AGA. Venite anche voi. (a Corallina)

COR. Vi ringrazio. Sto un poco meglio, e vi prego di lasciarmi sola.

AGA. Fate come volete. Io vado a far colazione con mio fratello. (entra)

SCENA SESTA

Corallina ed Arlecchino nello sturione che guizza di quando in quando.

COR. Donne felici! Vita deliziosa e beata! Goduta ho anch'io nella mia capanna una simile felicità. Oimè! strascinata dal Genio Nero l'ho sagrificata al capriccio, alla vanità; l'ho perduta per sempre! Non vi è più rimedio per me. Non vedrò più il mio caro Arlecchino, non vedrò più il mio nativo paese, non godrò più la mia pace. A che mi serve questo resto di vita misera, lagrimosa, dolente? Eh, finiscasi di penare una volta. Trionfi il Genio perfido intieramente di me. Se non ho saputo vivere in pace col mio caro marito, voglio terminare i miei giorni com'egli ha finito i suoi. Ah sì, vuò morire com'egli è morto. Voglio seppellirmi in quell'onde. Deh numi tutelari di queste spiaggie, raccogliete il mio spirito, e portate il mio corpo al mare, e unitelo a quello del mio adorato Arlecchino. Coraggio, Corallina, coraggio. Termina i tuoi tormenti colla tua vita, e serva il tuo triste fine d'esempio a chi si abbandona alle lusinghe del Genio seduttore, ribaldo. (corre per gettarsi nel fiume, dal quale esce in una conca marina il Genio Buono)

SCENA SETTIMA

Il Genio Buono e la suddetta; poi Arlecchino.

GEN. B. Che vuoi tu far, sconsigliata?

COR. Oh cieli! Voi venite ad accrescere la mia pena. Voi mi fate arrossire; non ho coraggio di sostenere la vostra vista.

GEN. B. Il rimorso che voi provate in veggendomi, non mi dispiace, e il pentimento vi potrebbe ancora render felice.

COR. No, andate. Non vi è più rimedio per me.

GEN. B. V'ingannate. La speranza non è perduta, ed il rimedio non è lontano.

COR. Perduto il mio caro Arlecchino, che mi resta a sperare? Che mi resta a desiderare?

GEN. B. Pentitevi di non avermi ascoltato, detestate il Genio da cui vi avete lasciata condurre, e può essere che ricuperiate quanto avete perduto.

COR. Posso sperare di ricuperar Arlecchino?

GEN. B. Questo ancora sperar potete.

COR. Ah giuro e prometto, che se ricupero il mio caro marito!...

GEN. B. Qual promessa? qual giuramento? Osate in faccia del Genio Buono patteggiar per la grazia e promettere con condizione? Riconoscete l'inganno vostro; e in luogo di promettere il pentimento, se ricevete da me il favore, pentitevi per meritarlo.

COR. Ah sì, confesso la mia ignoranza: protesto di sempre mai detestare il Cattivo Genio, e di abbandonarmi ai vostri saggi ed amorosi consigli.

GEN. B. Persuaso della vostra sincerità, eccovi la prima prova della mia sincera amicizia. (tocca la rete colla verga, e salta fuori Arlecchino vivo e snello e brillante)

 COR. Ah il mio caro marito!

ARL. Oh la mia cara muggier!

COR. Come qui? Come ti sei salvato dall'onde?

GEN. B. Io sono che l'ho salvato, io che malgrado i torti che fatti mi avete, non vi ho mai perduti di vista, non vi ho mai abbandonati del tutto.

ARL. Oh caro! oh benedetto!

COR. Quant'obbligo! Quanta riconoscenza!...

GEN. B. Siatemi fedeli, e vi prometto condurvi al Tempio della Felicità.

COR. Ah signore, non ci allontaneremo da voi un momento.

GEN. B. Seguitemi, e sarete di me contenti.

COR. Andiamo. (ad Arlecchino)

ARL. No lo lassémo mai più.

SCENA OTTAVA

Il Genio Cattivo esce dalle fiamme, preceduto da fiamme e detti.

GEN. C. Dove andate infelici?

COR. Aiuto! (al Genio Buono, accostandosi a lui)

ARL. Soccorso! (al Genio Buono, accostandosi a lui)

GEN. C. Credete voi che io non abbia il potere di riparare le vostre perdite e di rendervi ancor fortunati? Eccovi dell'altro oro, se ne volete, eccovi due altri anelli, due altri spiriti al vostro comando. Se seguitate il mio nemico, non sarete che poveri come nasceste; se seguitate il consiglio mio, goderete ancor dei piaceri di questo mondo.

COR. Oh cieli! Difendeteci voi, signore, dalle insidie di questo perfido. (al Genio Buono)

ARL. Se raccomandémo alla so protezion. (al Genio Buono)

GEN. B. (Ritirandosi un poco) Amici, io non posso aiutarvi che co' miei consigli, e non ho altre armi per combattere il mio nemico che le vostre medesime volontà. Tocca a voi a decidere, a determinarvi; se vi piace di seguir lui, sarò forzato mio malgrado ad abbandonarvi. Se me seguir volete, fate forza a voi stessi, rinunziate alle sue lusinghe, ed assicuratevi della mia assistenza.

COR. Per me lo detesto, lo abborrisco...

ARL. Che el vaga al diavolo.

COR. Non c'è più dubbio ch'io mi lasci sedurre.

ARL. No lo ascolto più, no ghe abbado più...

COR. Rinunzio a tutte le sue lusinghe.

ARL. Che el se petta el so oro e i so diavoli che lo porta.

COR. Ma osservate come ci guarda! (con timore al Genio Buono)

ARL. El me fa paura. (al Genio Buono)

COR. Difendeteci contro dell'ira sua. (al Genio Buono)

ARL. Per amor del cielo, no permettè che el ne fazza del mal. (al Genio Buono)

GEN. C. No, indegni, non temete di me. Se voi mi scacciate, sono costretto ad andarmene. Io regno sul cuore di quelli che mi credono, io regno sulle volontà di quelli che mi ascoltano; ho l'arte di persuadere, non ho il potere di forzare. Il mio nemico vi ha guadagnati: son vinto, sono avvilito. Non mi mancheranno nel tristo mondo nuovi oggetti a sedurre, nuove prede a contaminare. Guai a coloro che mi ascoltano, guai a coloro che mi credono! (si sprofonda accompagnato da fiamme)

ARL. L'è andà, l'è andà.

COR. Grazie al cielo, è partito.

GEN. B. Andiamo, amici, andiamo al Tempio della Felicità. (partono)

SCENA ULTIMA

Il Tempio della Felicità.

Vedesi in fondo l'ara accesa davanti le due statue rappresentanti la Giustizia e la Pace.

Genio Buono, Arlecchino, Corallina, Filidoro, Vanesia vestiti magnificamente

e Poligrafo vestito di nero.

GEN. B. Eccovi nel Tempio della Felicità, tempio che troverete in ogni luogo dove sarete, perché l'avrete dentro di voi. Chi lo cerca fuori di se medesimo, lo cerca invano. Osservate, udite, ed apprendete ad essere felici. Filidoro! Tu qui? Perché così mesto e dolente?

FIL. Mi manca la contentezza, e vengo a cercarla.

GEN. B. Eppure sei ricco di beni di fortuna!

FIL. Ma non bastano a tutto quello che vorrei.

GEN. B. Sei sano!

FIL. Ma la mia salute non regge ad ogni strapazzo.

GEN. B. Hai degli amici!

FIL. Ma mi constristano con i loro consigli.

GEN. B. Tu dunque brami amici che ti adulino; salute senza governo; ricchezza proporzionata ad ogni tua voglia, senza proporzionare le tue voglie al tuo stato! Gli adulatori ti renderanno ridicolo, lo scialacquo ti farà povero; e lo strapazzo della salute ti condurrà presto al sepolcro. Esci da questo tempio, o sii del tuo stato contento. (Filidoro resta sospeso) E tu, Vanesia, perché così inquieta?

VAN. Non sono contenta.

GEN. B. Eppure hai un marito che t'ama!

VAN. Ma non mi lascia in piena libertà.

GEN. B. Sei sana!

VAN. Ma vorrei essere bella e spiritosa.

GEN. B. Sei ricca e magnifica!

VAN. Ma non sono la sola.

GEN. B. Tu dunque vorresti essere sola nel possedimento del bene? Essere bella e spiritosa anzi che sana? Avere la libertà di vivere a capriccio, anzi che esser amata dal marito? La vita licenziosa ti coprirà di vergogna; gli anni ti renderanno deforme; lo spirito che brami è passeggiera follia, e la velenosa invidia fra mille beni ti farà infelice. Esci tu pure da questo tempio, o riforma il tuo cuore. (Vanesia resta pensosa) E tu, Poligrafo, perché sì agitato?

POL. L'ira mi rode.

GEN. B. Eppure sei filosofo!

POL. Ma li parti della mia filosofia o vengono proscritti, o condannati alle fiamme.

GEN. B. Tu passi per dotto ed erudito!

POL. Ma v'è chi osa contraddirmi.

GEN. B. Tu dunque vuoi tutti sottomessi alle tue opinioni? Tu pretendi che i deliri scandalosi della tua malinconica fantasia, atti a guastare i costumi e ad inquietare la società civile, siano tollerati? L'ambizione e la corruttela sono dunque i frutti degli studi tuoi e della tua filosofia? Esci da questo tempio, o impara a regolar te stesso.

POL. Ma se le passioni mi violentano, che colpa è la mia?

GEN. B. Filosofo alla moda! empio e protervo! Le passioni nel cuore umano sono come le vele in una nave. Se il piloto non le regola e non le fa servir all'intrapreso viaggio, ma le lascia in balìa del vento, conducono la nave errante pel vasto mare, e finalmente al naufragio fatale. (Poligrafo resta confuso)

COR. E di noi che sarà?

ARL. La ignoranza n'ha fatto fallar.

GEN. B. Che ignoranza! Cosa vi mancava pria che v'abbandonaste alle lusinghe del Genio Cattivo? E non v'ho io avvertiti de' suoi inganni? Non vi mancava che il modo d'esser infelici, ed il Genio Cattivo ve l'ha dato. Quel che avevate, vi bastava; quel che vi mancava, non vi era né necessario, né utile. Ritornate al vostro stato primiero; ivi sarete contenti. Possono gli uomini cangiar stato, ma non possono cangiare se stessi. La ragione indebolita com'ella è, non è atta quasi più a regolare i desideri. In ogni stato questi imperano sul cuore, e fanno stimar poco ciò che si ha, e moltissimo quel che non si possede. Beati coloro che godono di una situazione non atta a destare che a lunghe pause desideri tumultuosi! Voi nasceste in questa, l'abbandonaste colla lusinga di un'altra migliore, ma finalmente usciste dal vostro errore: siatene paghi. Non vi paragonate collo stato altrui se volete del vostro gustar le delizie. Tutti in diversi modi hanno i loro beni, ma non tutti ne sanno far uso. Specchiatevi in quei volontari infelici, di cui ascoltaste le indiscrete querele, ed imparate che la incontentabilità precipita nella disperazione. (sparisce sprofondandosi; Filidoro, Poligrafo e Vanesia fanno un atto di disperazione, e partono)

COR. Arlecchino!

ARL. Corallina!

COR. A Bergamo.

ARL. Alle vallade.

COR. Tu mio.

ARL. E tu mia.

COR. Contenti del nostro stato.

ARL. Della fortuna nostra contenti.

COR. Che mai furono le ricchezze ed i piaceri al confronto della quiete e della innocenza perduta! Grazie al Genio Buono che ci ha assistiti colla sua pietà e ci ha rimessi nel sentiere da cui eravamo sviati. I falsi beni del Genio Cattivo erano inganni della vanità e del lusso: beni grandi nella immaginazione e nell'aspettativa, ma in effetto pieni di amarezza; beni accompagnati dagli affanni, dai perigli e dal rimorso. Ritorniamo a godere la riacquistata contentezza ed a respirare l'aria felice, ove la libertà, la pace, la giustizia collegate insieme renderanno i nostri giorni tranquilli e sicuri.

Fine della Commedia