Il giuocatore

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IL GIUOCATORE

IL GIUOCATORE

di Carlo Goldoni

Commedia di tre atti in prosa rappresentata per la prima volta in Venezia

il Carnovale dell’Anno 1751.

ALL’ILLUSTRISSIMO SIG. CONTE

PARMENIONE TRISSINO

PATRIZIO VICENTINO

Niuno meglio di Lei, Illustriss. Sig. Conte, può giustificare, se sia vero che da un genio Comico sino ne’ primi mani dell’età mia trasportato io fossi; poiché avendo io l’onore di esser seco frequentemente fin d’allora, il nostro più geniale trastullo, i nostri fanciulleschi diporti, consistevano principalmente nell’abbozzare piccole Commediole per uso de’ Burattini, che dalle nostre mani medesime venivano poi regolati. Oh, dove sono eglino andati que’ felicissimi giorni, ne’ quali tanto piacere io provava nel passar l’ore colla di Lei amabilissima compagnia? I soli voti ch’io porgeva all’amorosa mia Madre erano questi, o di poter io frequentare la di Lei Casa, o impetrare ch’Ella si degnasse di passar nella mia. E tanto amore e tanta benignità avea per essa la nobilissima di Lei Genitrice, nata dalla illustre, eccelsa Famiglia degli Estensi Tassoni, che con generosa condescendenza non cessava di secondar le mie brame. Il Padre mio in quel tempo trovavasi dalla di lui Famiglia lontano; molti anni lasciò la Moglie e due Figli senza la di lui presenza e custodia, poiché vendutasi al pubblico incanto quella carica di Notaro al Magistrato Eccellentissimo de’ cinque Savi alla Mercanzia in Venezia, che per quarant’anni aveva esercitata per grazia e dono della pubblica beneficenza, non trovandosi in grado di soccombere il gravoso sborso, tentò di cercare altrove miglior destino, e stette in Roma parecchi anni ad imparare la Medicina, nella quale poscia si esercitò per tutto il tempo di vita sua, e morì Medico condotto nella grossa terra di Bagnacavallo, situata nel Ferrarese. Trovandomi io dunque senza l’educazione del Padre, con quella soltanto di una Madre amorosa e sollecita del bene de’ propri Figliuoli, avea io necessità certamente che io mi provvedesse de’ buoni esemplari, di ottime guide per battere il miglior cammino, in quella età in cui le buone e le cattive inclinazioni si vanno a poco a poco formando. Felicissimo non per tanto posso io chiamarmi, e lo riconosco per effetto della Provvidenza Divina, aver io in quel tempo della mia puerizia avuto dinanzi agli occhi lo specchio ammirabile della di Lei saviezza, e dietro la scorta di quelle virtù che in Lei superavano di gran lunga l’età, andava io formando il cuore ed apprendendo le migliori massime, affetto prendendo agli studi, alle lettere, ed ai meno pericolosi trattenimenti. Il destino poscia ci separò. Io nell’età di anni dodici chiamato dal Padre mio in Perugia colà feci il corso di quegli studi, che dalle Scuole dei venerabili ed al Mondo utilissimi Padri della Compagnia di Gesù con tanto profitto alla gioventù si offeriscono. Indi nel Collegio Ghislieri della città di Pavia studiai per tre anni la Legge, e poscia nell’Università di Padova presi la Laurea Dottorale per esercitare in Venezia, come feci per qualche tempo, la professione dell’Avvocato.

Ella, Illustriss. Sig. Conte, passò in Vicenza nobilissima Patria sua dove de più secoli l’antichissima di Lei Casa sostiene cospicuo grado ed infiniti onori. Colà aspettato da’ Nobilissimi Congiunti suoi  e dalla città tutta, che in Lei prevedeva un vero Erede de’ Trissini valorosi, onore della Patria lor non meno che di tutta la Repubblica Letteraria, e fu alla comune aspettazione seconda la mirabile di Lei condotta, la saviezza e prudenza sua, e le di Lei virtù corrispondono fedelmente a quelle illustri  e magnanime de’ suoi gloriosi Antenati.

Con qual contentezza non mirerà egli dal Cielo un sì degno Nipote, un così illustre posseditore de’ suoi talenti e saggio imitatore delle sue più belle virtù, quel Gio. Giorgio Trissino, che nel secolo XVI tanto splendore recò all’Italia tanto illustrò la Tragica Poesia colla Sofonisba, e l’Epica Poesia con l’Italia liberata da’ Goti, nelle quali Opere insigni fu egli il primo fra gl’Italiani, ed eccitò i più felici talenti ad imitarlo e seguirlo?

Ella ha perfettamente ereditato il suo genio, il suo merito e le sue inclinazioni, e nella cospicua carica di Bibliotecario, che in Vicenza sostiene, fa mirabilmente spiccare il di Lei talento felice, l’amore che serba alle lettere, e il desiderio vivissimo che la gloria si aumenti della Patria sua e della sua gloriosa Famiglia. Dio volesse che siccome studiai d’imitarla primi tempi, ne’ quali l’umano intelletto forze non ha bastanti per conoscere ed abbracciare le migliori scienze, avessi poi potuto coll’andar degli anni, mercè del chiaro esempio suo, seguirla, che ora non piangerei l’abbandonamento de’ migliori studi per seguir questo della Comica Poesia, da sì spine circondato, e sì malagevole. Solletica qualche fiata l’applauso popolare, che a qualche Comica rappresentazione si dona, ma non è questa bastevole compensazione alle fatiche incessanti dello spirito, che consumasi al tavolino, alle critiche sanguinose, alle quali soggette sono anche le Opere più fortunate, ed al rammarico tormentoso, allora quando alcune di esse veggonsi, malgrado lo studio e l’applicazione, dal Pubblico disapprovate. Il Padre ama egualmente tutti i di lui Figliuoli, non conosce í difetti loro, e sono tante ferite pel di lui animo le dicerie che contro di quelli vengono pronunziate. Due volte degg’io andare incontro colle Opere mie ad un sì incerto destino: l’una, quando le do al Pubblico dalle Scene; l’altra, allorché le rendo pubbliche colle stampe. La prima volta vanno elleno senza presidio alcuno abbandonate alla discrezione degli Uditori, i quali sono per la maggior parte a lacerarle inclinati; ma la seconda fiata, siccome durevole esser deve, qualunque siasi, la comparsa loro agli occhi dell’Universale, fo studio di provvedere ciascuna di esse di un autorevole Protettore.

Ecco dunque che questa, la quale ha per titolo IlGiuocatore, viene a V. S. Illustriss. da me utilmente raccomandata. Sarà essa indegna per certo della di Lei Protezione, ma non diffido almen per questo, che Ella non voglia coll’autorità sua difenderla e sostenerla; e mi anima ciò a sperare l’innata benignità del di Lei animo generoso, e quella antica parzialità ch’Ella ha avuto per me nel tempo della nostra puerizia, la quale so essersi in Lei a mio favore aumentata, non perché siasi in me accresciuto il merito, ma perché la di Lei bontà e gentilezza cresce nel di Lei animo ogni dì più, e si aumenta l’inclinazione che Ella ha sortito dalla grandezza de’ suoi natali di aggradire, proteggere e beneficare. All’interesse, a cui grandemente aspiro, d’onorare questa mia Commedia col prestantissimo di Lei Nome, aggiungesi ancora la brama ch’io nutro di render pubblica al Mondo 1’umilissima servitù mia verso un sì benigno, magnanimo Protettore e Padrone, a cui ho l’onore di protestarmi con profondissimo ossequio

Di V. S. Illustriss.

Umiliss. Divotiss. ed Obbligatiss. Serv.

Carlo Goldoni


L’AUTORE A CHI LEGGE

Non sarò io il primo che abbia al pubblico esposto in una Commedia il Giuocatore; ma tale Argomento è questo, che meriterebbe essere con più e più Commedie in varie guise trattato, fintanto che si estirpasse il vizio che, secondo me, lo credo il peggiore di tutti. Experto crede Roberto, dicesi per proverbio. Anch’io ho provato le pessime conseguenze di questo affannoso piacere. Il maggior benefizio ch’io abbia riportato dall’impegno di scrivere più Commedie in un anno è questo, che occupato quotidianamente in tale esercizio, poco tempo mi resta per divertirmi, e quelle ore che ho destinato al respiro, non le sagrifico ad un tavoliere, dove si perde il tempo, i denari, la salute, e talvolta pur troppo la riputazione. S’io avessi posto in iscena un Giuocator fortunato, brillante, allegro, generoso e felice, avrei formata una Commedia più viva, più gioconda, e forse assai più dall’Universale gradita, ma avrebbe ella servito a solleticare gli animi al vizio, ed avrei innamorato gli Ascoltatori di una lusinghiera e falsissima compiacenza. Il mio Giuocatore facendolo sfortunato, come per la maggior parte tali sono i Giuocatori viziosi, fa conoscere al Mondo i pregiudizi di una sì funesta passione, la quale a poco a poco conduce l’uomo ad uno stato miserabile, e a perdere di vista l’interesse, gl’impegni, le convenienze e l’onore.

Io non pretendo già che le mie Commedie abbiano ad essere la scuola degli uomini; ma questa sì vorrei che lo fosse, e in questa ho studiato di farla da Precettore, quanto mai ho potuto; perché avendone io nel tempo passato avuto bisogno, avrei desiderato mirar su le Scene un esemplare, che mi avesse svegliato e corretto. Ma all’incontro non ho veduto rappresentare che Giuocatori, i quali menando una vita commoda ed allegra per ragione delle vicende del giuoco, non facevano che lusingare la mia passione.

Non occorre adularsi: chi giuoca, giuoca per vincere, e il desiderio di vincere ha il suo principio o dall’avarizia, o dalla scostumatezza; nel primo caso cerca il Giuocatore di vincere per accumulare, nel secondo per appagare le sue voglie, non misurate colla sua condizione. Vi è un altro piccolo eccitamento al giuoco, proveniente dalla poca volontà del far bene. Arricchirsi, o satisfarsi almeno con poca fatica, senza studio e senza merito, è una cosa che agli oziosi piace infinitamente; ma siccome spesse volte accade loro di perdere il poco certo, per la speranza del molto incerto, ciò dovrebbe al fine disingannarli. Ed ecco perché ho scelto io nella mia Commedia un Giuocatore di tal carattere, il quale se non piacerà a molti, gioverà a pochi, ed io desidero che sia di profitto a tutti gli Amici miei.


Personaggi

PANTALONE de’ BISOGNOSI mercante veneziano;

ROSAURA sua figliuola, promessa sposa a Florindo;

FLORINDO giovine civile, giuocatore;

BEATRICE amante di Florindo;

LELIO giuocatore;

AGAPITO altro giuocatore;

TIBURZIO giuocatore di vantaggio;

GANDOLFA vecchia sorella di Pantalone;

PANCRAZIO vecchio amico di Gandolfa;

COLOMBINA cameriera di Rosaura;

BRIGHELLA custode del casino, ovvero delle stanze del giuoco;

ARLECCHINO servitore di Florindo;

Un SERVITORE del casino del giuoco;

MENICO servitore d’Agapito;

Un SERVITORE di Lelio;

Un SERVITORE di Tiburzio.

La Scena si rappresenta in Venezia.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera da giuoco nel casino

Florindo al tavolino da giuoco con lumi e carte, numerando denari; poi Brighella

FLOR. Chi è di là?

BRIGH. Illustrissimo.

FLOR. Che ora è?

BRIGH. Per dirghela, illustrissimo, me son indormenzà un pochetto, e no so che ora sia.

FLOR. Andate a vedere che ora è.

BRIGH. La servo. (Che bella vita! Da ieri a vintidò ore fina adesso, che l’è sentà al tavolin). (parte, poi torna)

FLOR. Cinquecento zecchini in una notte non è piccolo guadagno, ma poteva guadagnare assai più. Se teneva quel sette, quel maledetto sette, se lo teneva, era un gran colpo per me. Mi ha detto quel sette fra il dare e l’avere altri mille zecchini. Ho quel maledetto vizio di voler tenere i quartetti, e sempre li do, e sempre li pago. Ah, bisogna ch’io ascolti le suggestioni del cuore; quando li ho da tenere, mi sento proprio lo spirito che mi brilla nelle mani, e quando hanno a venir secondi, la mano mi trema; da qui avanti mi saprò regolare.

BRIGH. Sala che ora è? (torna di nuovo)

FLOR. Ebbene, che ora è?

BRIGH. L’è ora de smorzar i lumi, avrir le finestre, e gòder el sol.

FLOR. Come? È giorno?

BRIGH. Zorno chiaro, chiarissimo.

FLOR. Oh diavolo! Ho passata la notte senza che me ne sia accorto.

BRIGH. Mah, quando la va ben, se tira de longo senza abbadar all’ore.

FLOR. Oh maledetta la mia disgrazia!

BRIGH. Ala perso?

FLOR. Non ho perso. Ho vinto cinquecento zecchini, ma a che servono?

BRIGH. La ghe dise poco?

FLOR. Oh, se teneva un sette! Maledetto quel sette!

BRIGH. (Ecco qua, i zogadori no i se contenta mai. Se i perde i pianze, se i guadagna i se despera, perché no i ha guadagnà tutto quel che i voleva. Oh, che vita infelice l’è quella del zogador!) (da sé) Cossa vólela far? Un’altra volta.

FLOR. Oh, in quanto a questo poi, m’impegno che questi giuocatori li voglio spogliar tutti.

BRIGH. Lustrissimo patron, no bisogna fidarse tanto della fortuna.

FLOR. La fortuna mi vuol bene; fa a modo mio. Anche l’anno passato averò vinto altri mille zecchini.

BRIGH. Lo so benissimo; e la me permetta che diga, che so anca che la i ha spesi presto.

FLOR. Benissimo, li ho spesi, e per questo? Denari vinti al giuoco si possono spendere allegramente.

BRIGH. Za, quando i se vadagna, i se spende allegramente, e po co se perde, bisogna pagar, e s’intacca la cassa.

FLOR. Oh via! Mi farete voi cattivo augurio? Sono un giuocator fortunato, ma sono anche un giuocatore che sa regolarsi, e vinco perché ho prudenza.

BRIGH. Ma quel maledetto sette?

FLOR. Oh quel sette, quel sette! Mai più tengo il sette.

BRIGH. E l’altro zorno, che i l’ha sbancada do volte, che ponto avevela contrario?

FLOR. L’altro giorno li avevo tutti contrari.

BRIGH. Vedela, che no bisogna fidarse tanto della fortuna.

FLOR. Oh, non mi state a seccare.

BRIGH. No parlo più per cent’anni.

FLOR. Tenete questi quattro zecchini, ve li dono per l’incomodo della notte.

BRIGH. Grazie a vusustrissima.

FLOR. Oggi voglio dar da desinare in casino.

BRIGH. La sarà servida.

FLOR. Ma voglio sia un desinare magnifico.

BRIGH. Per quante persone?

FLOR. Dieci, dodici, quattordici, e che so io.

BRIGH. Quanti piatti?

FLOR. Ora non ho volontà di discorrere, il sonno principia a molestarmi. Per oggi fate voi da maestro di casa; spendete senza riguardo, ch’io pagherò.

BRIGH. Benissimo, la lassa far a mi, che la sarà servida pulito.

FLOR. Ho guadagnato, posso spendere. Mandatemi il mio servitore Arlecchino.

BRIGH. El dorme.

FLOR. Svegliatelo, e fate che venga qui.

BRIGH. E quei denari li portela via?

FLOR. No; voglio meglio riscontrarli, e poi li consegnerò a voi. Mandatemi Arlecchino. (sbadiglia)

BRIGH. (El casca dal sonno. Nol pol più; el pol dormir quieto e senza travaggio, per el zogo el patisse. Oh che bella vita!) (da sé, parte)

SCENA SECONDA

Florindo solo.

FLOR. Vi sono dei zecchini che calano almeno sei o sette grani l’uno. Li voglio separare, e metterli da parte. (sbadigliando)Se perderò questi, saranno i primi. Non posso tener gli occhi aperti. Quattro e due sei. Oh, questo è molto piccolo, sette e tre... (insonnato) dieci... Ora il sonno m’inquieta. Dieci... dieci... e due... dodici. (s’addormenta sul tavolino)

SCENA TERZA

Arlecchino e detto.

ARL. (Viene anch’egli assonnato) Gran vita miserabile xe questa, aver da servir un zogador, che fa patir la notte ai so poveri servitori. Eccolo là, el dorme a st’ora quando i altri se leva dal letto. Oh quanti bei quattrini su quel tavolin! Me vien squasi voia de far quel che non ho mai fatto. Un per de quei zecchinetti i me darave la vita. Me vôi provar. Ma no vorave che el se desmissiasse. (s’accosta bel bello, e fa diverse positure per osservare se dorme; allunga le mani, e Florindo dormendo si muove) Corpo de mi, el se sveia; ma nol se move più. El s’averà insunià. Pussibile che anca in sogno el me veda? Me vôi tornar a provar. (torna ad accostarsi bel bello al tavolino. Prende una manata di zecchini, li vuol nascondere, e non sa dove) Oh belli! oh cari! Veramente ghe n’è vegnù un po’ troppi; ma no so cossa dir. Quel che la sorte ha fatto, sia ben fatto. Vorave sconderli, acciò nol me li trovasse, ma no so dove metterli. Le scarselle le ho tutte rotte; i perderò. Farò cussì, li metterò per adesso in te le scarpe; e po col tempo li logarò in qualche altro logo. (li va mettendo nelle scarpe, ed in questo mentre Florindo si risveglia; Arlecchino s’intimorisce, e si lascia cadere due zecchini in terra. Prestamente s’alza diritto, per non dar ombra al padrone, e col piede cuopre li due zecchini cadutigli)

FLOR. Arlecchino, che cosa fai?

ARL. Son qua pronto per servirla. (senza muoversi dal suo posto)

FLOR. Vieni qui; accostati, che ti ho da parlare.

ARL. La parla pur. La comandi che, grazie al cielo, ghe sento anca da lontan.

FLOR. Ma voltati almeno verso di me, ascoltami.

ARL. Son qua, l’ascolto. (si volta un poco, senza levar il piede)

FLOR. Io non ho volontà di alzar la voce. Perché non ti avvicini qui al mio tavolino?

ARL. Ghe dirò signor, mi son un omo assae delicato. Gh’è quei denari sul tavolin. Se m’accosto... non vorria mai che se disesse... basta, son un servitor onorato.

FLOR. Eh, lascia queste scioccherie. Accostati, dico.

ARL. In verità, la prego a despensarme; la parla, la comandi, ma no me movo certo.

FLOR. Che pazienza ci vuole con costui! Hai ragione che ho vinto. Se avessi perso, ti bastonerei. M’alzerò io, e verrò da vossignoria gentilissima. (s’alza)

ARL. La me farà una grazia singolarissima.

FLOR. (Accostandosi ad Arlecchino) Vossignoria vada subito alla casa della signora Gandolfa, sorella del signor Pantalone de’ Bisognosi. Faccia sapere alla signora Rosaura, che io la riverisco, che desidero sapere come sta e mi porti subito la risposta.

ARL. La sarà servida.

FLOR. Animo, va subito a far quest’ambasciata.

ARL. Adesso anderò. Subito. (si confonde per ragione delli due zecchini che tiene sotto il piede)

FLOR. Ma fino che tu stai lì, non vai.

ARL. È verissimo.

FLOR. Dunque parti.

ARL. Partirò.

FLOR. Va subito.

ARL. Adessadesso.

FLOR. Va ora, che ti venga il malanno. (gli dà una spinta, lo fa muovere, e vede in terra li due zecchini)

ARL. (Timoroso per la scoperta)

FLOR. Amico, quei due zecchini come si trovano lì?

ARL. Mi no so niente da galantomo.

FLOR. Ora capisco, perché non ti potevi muovere.

ARL. Adesso la capisso anca mi; siccome la calamita tira el ferro, quell’oro el me tirava in t’una maniera che no me podeva mover de là.

FLOR. Bravo, spiritoso! Briccone, dammi que’ due zecchini.

ARL. Oh! un signor della so sorte, che ha tanti bei zecchini su quel tavolin, el se degna d’una freddura che se trova in terra?

FLOR. Dammeli, temerario.

ARL. Ah! pazenzia. (li leva da terra, e glieli dà)

FLOR. (Finalmente ho vinto, posso anche usare una generosità con costui, che per me ha patito la notte. Questi due zecchini mi saranno caduti in terra). (da sé) Tieni. (ad Arlecchino, dandogli i due zecchini)

ARL. A mi?

FLOR. Sì, a te. Tieni.

ARL. Cossa comandela che ghe ne fazza? (prendendoli)

FLOR. Te li dono.

ARL. Grazie alla so bontà. La me li dona veramente?

FLOR. Sì. Acciò che tu sii attento e fedele.

ARL. L’osserva. Per non saver dove metterli, i metto drento de sta scarpa.

FLOR. Non hai tasche da metterli?

ARL. Le son tutte rotte, li metto qua per no perderli. La favorissa. Me donela veramente i zecchini, che ho messi drento de sta scarpa?

FLOR. Sì. Te li dono.

ARL. Tutti?

FLOR. Tutti.

ARL. Grazie. (Cussì sti zecchini poderò dir che el me li ha donadi, e che no i ho robadi). (da sé, parte)

SCENA QUARTA

Florindo solo, che passeggia alquanto senza parlare, poi dice.

FLOR. Ah quel sette, quel sette! Ecco qui, se non era quel sette, avrei questo tavolino pieno d’oro. Ma quello che non ho fatto, lo farò. Se arrivo a vincere diecimila zecchini, non giuoco più. Dieci mila zecchini impiegarli al quattro per cento, fanno una rendita di quattrocento zecchini l’anno. Ma che cosa sono quattrocento zecchini? Ottocento filippi; una minuzia. Colla mia fortuna, colla mia buona regola posso vincere altro! Non potrei vincere trentamila zecchini? Centomila zecchini? Sì, facilmente. Mettiamo solamente ch’io vinca un giorno per l’altro cento zecchini il giorno, in un anno sono più di trentaseimila zecchini, ma dei giorni vincerò altro che cento zecchini! Basta; in un anno io mi posso far ricco. Voglio comprar un feudo, voglio acquistarmi un titolo, voglio fabbricar un palazzo magnifico e ammobiliarlo all’ultimo gusto; voglio farmi correr dietro tutte le femmine della città. Giuoco da uomo, conosco il mio quarto d’ora, ed è impossibile che a lungo andare io non vinca.

SCENA QUINTA

Brighella e detto.

BRIGH. Illustrissimo.

FLOR. Che c’è, caro Brighella?

BRIGH. Una maschera domanda de ella.

FLOR. Una maschera? Vuol giuocare?

BRIGH. L’è una maschera donna.

FLOR. Donna? È sola?

BRIGH. Veramente le son do: ma credo che una sia la padrona e l’altra la serva.

FLOR. Chi diavolo possono essere?

BRIGH. Mi credo che la sia la signora Rosaura colla so camariera.

FLOR. Bisognava dirle ch’io non ci sono.

BRIGH. Mo perché? No ela una, che ha da esser so muier?

FLOR. Sì, e per questo non voleva che mi ritrovasse al casino.

BRIGH. Za tutti sa che el zoga. Nol se pol sconder.

FLOR. Mah! Mi par impossibile che sia la signora Rosaura; a quest’ora in maschera una figlia savia e civile? Sua zia, alla quale l’ha data in custodia il signor Pantalone suo padre, non lo permetterebbe assolutissimamente. Può esser che sia la signora Beatrice.

BRIGH. Chi ela mo sta siora Beatrice?

FLOR. Non la conoscete?

BRIGH. Mi no, da galantomo.

FLOR. È quella virtuosa di musica, che è venuta a cantare nell’opera tre anni sono, e a mio riguardo ha tralasciata la professione.

BRIGH. Ah, l’è quella che ho sentido a dir tante volte che in tre anni averà costà a vusustrissima più de diesemille ducati.

FLOR. Se ho speso qualche cosa per lei, l’ho fatto perché è una donna assai propria.

BRIGH. Sento a chiamar; sarà le maschere. Vólela che le fazza vegnir?

FLOR. Fatele venire. Vedremo chi sono.

BRIGH. Vólela lassar quei bezzi sul tavolin?

FLOR. No, tenete. Questi cinquecento zecchini, in queste due borse, riponeteli; questi dugento li terrò io in tasca.

BRIGH. Quelli la li vol perder.

FLOR. Oh, questi hanno a servire per uccel da richiamo. Con questi dugento zecchini non passano tre mesi che ne faccio almen trentamila.

BRIGH. El ciel ghe daga la grazia; ma la guarda ben...

FLOR. Non mi fate cattivo augurio.

BRIGH. Oh, no digo gnente. (Castelli in aria). (da sé, parte)

SCENA SESTA

Florindo solo.

FLOR. M’impegnerei con dieci zecchini farmi ricco in brevissimo tempo. Basta andar sotto un banco grosso. Metter quattro soli zecchini. Fante a quattro zecchini; se me lo dà, paroli; subito paroli sono quattro, e quattro otto, e quattro dodici. Sulla seconda tutti ventidue e paroli; ma no, è troppo; alla pace, alla pace. Sì, alla pace, sono ventidue e ventidue quarantaquattro, e dodici cinquantasei. Sul terzo punto venti zecchini; e se me lo dà, e se il punto è in fortuna, tutti sul quarto taglio. Ma se me lo tiene? Oh, non lo può tenere; dice il proverbio: Si tertia venerit, de quarta non dubitabis. Sono regole infallibili.

SCENA SETTIMA

Rosaura e Colombina mascherate, e detto.

ROS. Si può riverire il signor Florindo? (si smaschera)

FLOR. Oh signora Rosaura, voi qui? E chi è quell’altra maschera?

COL. Colombina, per servirla. (si smaschera)

FLOR. Ma come a quest’ora? Che favori sono questi?

ROS. Sono tre giorni che da me non vi lasciate vedere, ed io, impaziente di rivedervi, vengo in traccia di voi.

COL. Guardate se è buona la mia padrona. Correr dietro ad un uomo! Se si principiasse a usare questa bella moda, povere noi! Oh sì, che si metterebbero gli uomini in una maledetta superbia.

FLOR. Signora Rosaura, io vi ringrazio infinitamente della bontà che avete per me, ma come avete fatto a uscir di casa a quest’ora?

ROS. Ho detto a mia zia, che andar voleva a visitare stamane una sua figliuola maritata, ed ella mi ha data la permissione di uscire, e di andar a mio bell’agio con Colombina.

COL. Signor sì, sotto la custodia mia. Di me si possono fidare, perché sanno che donna prudente ch’io sono.

ROS. Mia zia mi vuol bene, e sapete che vuol bene anche voi. Ella ha penato in questi tre giorni, egualmente che io. Vi nomina a ogni momento, e mi fa piangere sempre più.

FLOR. Povera signora Gandolfa! È una vecchia di buon cuore.

COL. Io credo sia innamorata di voi, più di sua nipote.

FLOR. Fatemi la finezza d’accomodarvi. (siedono)

ROS. Crudele! Star tre giorni senza venirmi a vedere!

FLOR. Credetemi, non ho potuto venire.

ROS. Ma per che causa?

FLOR. Gli affari miei me lo hanno impedito.

ROS. Caro signor Florindo, possibile che non vogliate lasciar il giuoco?

FLOR. Oh, l’ho lasciato, non giuoco più.

ROS. Mi è stato detto che tutta la scorsa notte avete giuocato.

FLOR. Ah! è stato un impegno. Ma sentite, ho guadagnato cinquecento zecchini; ma zitto, che nol sappia nessuno.

COL. Capperi! cinquecento zecchini?

ROS. Godo della vostra fortuna, ma non vorrei che giuocaste più.

FLOR. Oh, certamente non giuoco più.

COL. Orsù, la mia padrona è venuta qui per bere la cioccolata.

ROS. Oh, non badate...

FLOR. Sì, volentieri, subito. Ehi... (chiama)

COL. Lasciate, lasciate, anderò a ordinarla io.

ROS. Io non voglio cioccolata.

COL. Se non la volete voi, la beverò io. (parte)

SCENA OTTAVA

Rosaura e Florindo

ROS. Caro Florindo, mi parete di poco buon umore.

FLOR. No, anzi son allegro, ho vinto cinquecento zecchini.

ROS. Ma averete patito la mala notte; siete un poco pallido, siete abbattuto.

FLOR. Oibò, non è vero. (sbadiglia)

ROS. Voi avete sonno.

FLOR. No davvero. Prendiamo il tabacco. (prende il tabacco, e ne dà a Rosaura)

ROS. Buono assai questo rapè.

FLOR. Tenete. (le dà la scatola)

ROS. No, vi ringrazio.

FLOR. Tenete, vi dico.

ROS. Non ve ne private voi.

FLOR. Oh, che a me non mancano scatole. Ne ho ordinate due d’oro; ne darò una a voi. (sbadiglia)

ROS. Vi ringrazio; la prendo perché ho da essere vostra sposa; ma quando si concluderanno queste nozze?

FLOR. Presto. (sbadiglia)

ROS. Voi avete sonno.

FLOR. No. (strofinandosi gli occhi)

ROS. Mio padre bramerebbe due cose. La prima, che voi lasciaste il giuoco; la seconda, che si stabilisse il nostro matrimonio.

FLOR. Sì, si stabilirà. (appoggiandosi al tavolino)

ROS. E il giuoco lo lascerete?

FLOR. Sì. (si va addormentando)

ROS. Voi siete un giovane pieno d’ottime qualità, ma credetemi che il giuoco vi rovina. Tutti dicono che non abbadate alla vostra casa, che trascurate i vostri interessi, che perdete i denari ed il tempo, ed io certamente per causa del giuoco non posso lodarmi di voi... Signor Florindo... Oh meschina me! Si è addormentato. Poverino! Non avrà dormito la notte, non ho cuore di risvegliarlo.

FLOR. Sette. Non va altro. (dormendo e sognandosi)

ROS. Egli sogna.

FLOR. Sette, no, no. (come sopra)

ROS. Anche dormendo il giuoco lo tormenta.

SCENA NONA

Brighella e detti.

BRIGH. Signor...

ROS. Zitto. (sottovoce a Brighella)

BRIGH. Cossa vol dir? (sottovoce)

ROS. Florindo dorme. Poverino, non lo svegliate.

BRIGH. E pur bisognerà desmissiarlo.

ROS. Per qual causa?

BRIGH. Per causa soa de ella. Ho visto dal balcon vegnir verso de sto casin sior Pantalon so sior padre. Se el vien qua e che el la trova, la vede che desordene.

ROS. Oh povera me! Se mi trova, sono perduta.

BRIGH. Desmissiemolo.

ROS. No, no, lasciatelo dormire. Io partirò. E Colombina dov’è?

BRIGH. In camera de mia muier.

ROS. Presto, presto, vado via. Se l’incontro colla maschera, non mi conoscerà.

BRIGH. No la vol desmissiar sior Florindo?

ROS. No, non vi è tempo da perdere. Salutatelo da parte mia, e ditegli che, se mi vuol bene, venga da mia zia a ritrovarmi. (si pone la maschera, e parte)

BRIGH. Che putte de garbo! A torzio in maschera a trovar i morosi? Sior Pantalon crede de averla messa in seguro a metterla in casa d’una so zia, ma al dì d’ancuo le zie le son troppo caritatevoli per le ragazze.

SCENA DECIMA

Beatrice mascherata, e detti.

BRIGH. Come! Un’altra maschera?

BEAT. Galantuomo.

BRIGH. Signora?

BEAT. Dov’è il signor Florindo?

BRIGH. Eccolo là che el dorme.

BEAT. Non ha dormito la scorsa notte?

BRIGH. Oh, la se figura! L’ha studià tutta la notte.

BEAT. Come ha studiato?

BRIGH. Tutta la notte colle carte in man.

BEAT. E chi è quella maschera, che ora è partita da questa camera?

BRIGH. Mi no so gnente.

BEAT. Non sapete nulla? Mi maraviglio di voi, che tenete mano a questa sorta di contrabbandi.

BRIGH. Mi son un omo onorato, e quando la vol che ghe diga la verità, ghe la dirò, che no me ne importa un bezzo. Chi no vol che le se sappia, no le ha da far. Quella l’era una tal siora Rosaura Bisognosi, promessa co sior Florindo per muier.

BEAT. Promessa in moglie a Florindo?

BRIGH. Senz’altro; l’è cussì.

BEAT. (Ah traditore! Mi tiene nella speranza di sposarmi e poi m’inganna?) (da sé)

BRIGH. I me chiama. Bisogna che vaga; comandela andar ancor ella?

BEAT. Voglio parlar con Florindo.

BRIGH. Poverazzo! La lo lassa un poco dormir.

BEAT. Sì, lo lascierò dormire. Aspetterò che si svegli.

BRIGH. Se vien zente, no sta ben.

BEAT. Se verrà gente, me n’anderò.

BRIGH. No vorria che vegnisse sior Pantalon; anderò a veder, e se el vegnirà, l’avviserò. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Beatrice e Florindo che dorme.

BEAT. Anima scellerata! Così mi manca di fede? Meriterebbe che io lo facessi passar dal sonno alla morte. Ah, che ancor l’amo, ancor non posso credere ch’ei mi tradisca. Mi ha promesso, mi ha giurato. Voglio attendere ch’ei si risvegli, e mostrando non saper nulla, ricavare con arte da lui medesimo la verità. (siede)

SCENA DODICESIMA

Brighella e detti.

BRIGH. Signora, la vada via.

BEAT. Perché?

BRIGH. L’è qua el socero de sior Florindo.

BEAT. Il suocero?

BRIGH. Signora sì: quello che ha da esser so socero.

BEAT. Ah traditore! Non vo’ scoprirmi.

BRIGH. Sior Florindo, la se sveia.

FLOR. I miei denari, i miei denari. (svegliandosi)

BRIGH. Cossa è stà?

FLOR. Oimè, i miei denari.

BRIGH. Coss’è, s’insonielo?

FLOR. Sì, mi pareva che mi avessero sbancato, mi portavano via li denari.

BRIGH. La se desmissia, che vien el sior Pantalon.

FLOR. Il signor Pantalone?

BRIGH. Sior sì, la destriga sta maschera, che intanto procurerò de trattegnirlo. (parte)

FLOR. Presto, non sentite che è qui vostro padre? Ritiratevi in quella camera. (a Beatrice, credendola Rosaura)

BEAT. (L’indegno non mi conosce). (da sé)

FLOR. Sì, mia cara Rosaura, nascondetevi. Eccolo ch’egli viene.

BEAT. (Lo seconderò, per meglio rilevare la verità). (la chiude in una camera)

SCENA TREDICESIMA

Pantalone e Florindo

PANT. (Olà? Zogo e macchina? Ho trovà un bon zenero). (da sé) Servitor obbligatissimo, mio patron.

FLOR. Riverisco umilmente il signor Pantalone.

PANT. Chi la vol trovar, bisogna vegnir al casin.

FLOR. Perché? Io son qui per accidente.

PANT. Xe tre zorni, che a casa soa no i la vede.

FLOR. Sono stato in campagna.

PANT. In campagna? A mi me xe stà dito che l’è stà sempre al casin, e che l’ha zogà zorno e notte, e che l’ha vadagnà per disgrazia una bona somma de zecchini.

FLOR. Hanno detto male, non è vero; e poi non so chi sieno questi graziosi che misurano i miei passi, e vogliono entrare ne’ fatti miei.

PANT. Zente che ghe vol ben, zente alla qual preme la so reputazion, e ghe despiase che per causa del zogo el se rovina cussì miseramente.

FLOR. Ma io non giuoco più.

PANT. La senta, sior Florindo, mi son un omo che parla schietto, e no son capace né de simular, né de adular. Ella m’ha fatto domandar mia fia, ho avudo qualche difficoltà a dir de sì, no per la so casa, che la stimo e la venero infinitamente, ma per causa del so zogar. I nostri amici comuni, che ha trattà con mi per sto matrimonio, i m’ha assicurà che l’ha lassà assolutamente el zogo, e mi su sto riflesso me son lassà indur a sottoscriver el contratto, e a darghe mia fia, e a darghe quindesemille ducati de dota. Sta mattina per el fresco me xe stà dito: sior Florindo zoga, sior Florindo fa la so vita al casin, sior Florindo xe tornà quel che el giera. Mi non ho volesto cercar i amici, mi non ho volesto parlar co nissun. Vegno da ella a drettura, e ghe digo che son seguro che l’ha zogà, che non occorre sconderse e dir de no; e che se el gh’ha intenzion de seguitar a zogar, strazzeremo el contratto, e mia fia no la voggio precipitar, e i mi bezzi no li voggio buttar via.

FLOR. Signor Pantalone, anch’io son uomo sincero, e voglio dirvi la verità. Questa notte ho giocato, ma vi prometto che non gioco mai più.

PANT. Ste promesse, ste promesse la le ha fatte a centenera de volte, e sempre semo tornai da capo. El vizio xe in te le vissere; e nol se pol lassar, e se dise colla bocca no zogherò più, ma nol se dise col cuor. Za dei bezzi de zogo no se ghe ne cava costrutto; come che i vien, i va. Co se guadagna, i se butta via; co se perde, se suspira. I se tien per moltiplicarli, e in t’una sentada i se destruze. Quel che se guadagna in diese volte, se perde in una, e le vincite che fa i zogadori, le xe pezo assae delle perdite; perché le perdite le serve per disingannarli, e le vincite le serve per allettarli, per lusingarli e per incantarli sul zogo. Questo xe el destin solito dei zogadori: sempre inquieti, colla testa sempre confusa, pieni de speranze e pieni de vizi. Collerichi, bestemmiadori, odiosi co i venze, ridicoli co i perde senza amici, circondai da stoccadori e da magnoni, negligenti, malinconici, malsani, e finalmente distruttori della so casa e traditori de se stessi, del proprio sangue e della propria fameggia.

FLOR. Signor Pantalone, voi mi avete atterrito. Voi mi avete posto dinanzi agli occhi uno specchio, in cui vedo chiaramente lo stato miserabile del giuocatore. Vi protesto di non giuocar mai più; ora vi consegno li cinquecento zecchini, e non giuoco certamente mai più.

PANT. Voggia el cielo che el diga la verità. Se el lo farà sarà meggio per ello.

FLOR. Mi preme infinitamente la vostra buona grazia e quella della mia cara sposa.

PANT. A proposito della sposa. Sior Florindo caro, vegnimo a un altro tomo. Sè promesso con mia fia, disè de volerghe ben, la ve preme, e po tendè a delle frasche? Ve devertì colle donne al casin? Me maraveggio dei fatti vostri. Zogo e donne? Do bone prerogative per un putto che se vol maridar. El zogo xe mal, eppur me vorria lusingar, che volendo ben a mia fia, per amor lo lassessi, ma co gh’avè pratiche, a mia fia no ghe volè ben. Sè un busiaro, sè un cabalon, sè un omo scavezzo che no farà mai ben; e mi ve digo a averta ciera, che mia fia no xe più per vu.

FLOR. Ah signor Pantalone, voi mi avete in cattivo concetto, eppure non sono qual vi credete.

PANT. Cossa me vorressi dar da intender? Non ho visto mi coi mi occhi a sconder una donna in quella camera? Neghemelo, se podè.

FLOR. Non lo posso negare.

PANT. Donca sè un discolo, un cabalon.

FLOR. Se sapeste chi è quella maschera, non direste così.

PANT. Via, chi xela?

FLOR. Non lo posso dire.

PANT. Perché sè un busiaro.

FLOR. Voi m’incolpate a torto.

PANT. Povero fantolin! Metteghe el deo in bocca. Poveretto! A mi no se me struccola zeole in ti occhi, avè sconto la macchina. Godevela, e mi strazzo el contratto, e no ve voggio più cognosser gnanca per prossimo.

FLOR. Signor Pantalone, vi prego per amor del cielo.

PANT. Cossa me pregheu? Che ve tegna terzo a rovinar mia fia?

FLOR. Se non temessi la vostra collera, vi svelerei un arcano.

PANT. Coss’è? Qualche panchiana?

FLOR. Mi promettete da uomo d’onore di non andare in collera, se vi dico la verità?

PANT. Via, se me disè la verità, ve prometto non andar in collera.

FLOR. Giuratelo.

PANT. Zuro da omo onorato.

FLOR. Caro signor Pantalone, compatite un piccolo trasporto d’amore: quella maschera che è là dentro, è la signora Rosaura vostra figlia.

PANT. Mia fia? (alterato)

FLOR. Avete giurato di non andar in collera.

PANT. Come xela qua sta desgraziada?

FLOR. Sono tre giorni che non mi vede. È venuta per un momento con la cameriera. In quel punto siete arrivato voi, e la povera giovine per timor si è nascosta.

PANT. Ah frasconazza! Ma stimo mia sorella lassarla vegnir.

FLOR. Signor Pantalone, avete promesso non andar in collera.

PANT. Sentì; me la lasso passar, perché l’ha da esser vostra muggier; ma che no la fazza mai più de ste cosse. E vu no ghe dè motivo de farle; lassè el zogo e voggièghe ben.

FLOR. Oh, lo lascio assolutamente.

PANT. Fèla vegnir qua.

FLOR. Siete in collera?

PANT. Sior no.

FLOR. Le griderete?

PANT. Sior no.

FLOR. Avvertite.

PANT. Via, manco chiaccole, fèla vegnir qua.

FLOR. Compatitela. Ora la faccio venire. (va alla camera)

PANT. Vardè quella cara mia sorella. Credeva averla messa in t’un retiro, la sta retirada come va. La vôi tor colle bone e po a casa ghe dirò le parole.

SCENA QUATTORDICESIMA

Beatrice mascherata, condotta da Florindo, e detto.

FLOR. Via, signora Rosaura, fatevi animo. Il vostro signor padre non è in collera; vi perdona.

PANT. Via, siora, cavève quella maschera.

BEAT. Eccovi servito. (si smaschera)

FLOR. (Oh diavolo! Che cosa vedo?) (da sé)

PANT. Come! Chi seu vu, siora?

BEAT. Son una, a cui Florindo ha dato la fede di sposo.

PANT. Xela questa mia fia? (a Florindo)

FLOR. (Io non so che rispondere). (da sé)

PANT. Busiaro cabalon! Cussì ve burlè de mi? Cussì trattè un omo della mia sorte? Andè via, che ve scarto. A casa mia non abbiè ardir de vegnir. Mia fia no la stè a vardar, sier poco de bon, sier omo cattivo, zogador, discolo, malvivente, omo senza reputazion. (parte)

BEAT. Indegno, traditore, assassino. Ho scoperte le tue menzogne, i tuoi tradimenti. A tempo giunta sono per fare le mie vendette. Le ho solamente principiate, ma giuro di terminarle; e ti farò pentir d’avermi scelleratamente ingannata. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Florindo solo.

FLOR. Oh maledettissimo incontro! Come diavolo andò la faccenda? Frattanto ch’io dormiva, è partita Rosaura ed è venuta Beatrice? Oppresso dal sonno non l’ho riconosciuta; e poi quella veste nera e quel zendale mi ha fatto travedere. Me infelice! Che sarà mai? Piuttosto che ritrovarmi in un caso tale, vorrei aver persi tutti i denari al giuoco. Presto, convien rimediarvi. Andrò a ritrovar qualche amico. Farò parlare al signor Pantalone. Procurerò vedere la signora Rosaura, le scriverò una lettera, l’avviserò di tutto. Beatrice me la pagherà. Non doveva mai farmi quest’azione. Ma quello che si ha da fare, convien farlo presto. Subito, immediatamente, non voglio perdere un momento di tempo.

SCENA SEDICESIMA

Lelio, Tiburzioe detto.

LEL. Amico, vi sono schiavo.

FLOR. Padroni, vi riverisco.

LEL. Mi rallegro con voi.

FLOR. Di che?

LEL. Dei cinquecento zecchini.

FLOR. Eh bagattelle! Dite, avete saputo di quel maledetto sette?

LEL. Sì, l’ho saputo; gran disgrazia!

FLOR. Son veramente sfortunato.

LEL. Ehi, vedete quel signore? (a Florindo, accennando Tiburzio)

FLOR. (Chi è?)

LEL. (Un cavalier forastiere. Un gran giuocatore).

FLOR. (Ha denari?)

LEL. (Ha una borsa con quattro o cinquecento zecchini).

FLOR. (Mi dispiace che ora non posso; ho un affar di premura).

LEL. (Se perdete questa occasione, non vi capita mai più la vostra fortuna).

FLOR. (Fatelo venir questa sera).

LEL. (Dubito che questa sera vada via. Fate quattro tagli, e se va bene, piantatelo).

FLOR. (Volete che tagli io?)

LEL. (Sì, tagliate voi).

FLOR. (Via, ditegli qualche cosa). Brighella. (chiama)

SCENA DICIASSETTESIMA

Brighella e detti.

BRIGH. Signor.

FLOR. (Portate dei mazzi di carte). (sottovoce a Brighella)

BRIGH. (Gh’è dei gran sussurri). (a Florindo, piano)

FLOR. Animo; carte. (come sopra)

BRIGH. (Quando se tratta de zogar, nol s’arrecorda altro). (da sé, parte)

LEL. (Giuochiamo a metà?) (piano a Tiburzio)

TIB. (Sì, a metà).

BRIGH. Ecco le carte. (La procura de giustarla col sior Pantalon). (a Florindo)

FLOR. Non mi seccate.

BRIGH. Mi no lo seccherò più; sti siori ghe seccherà la scarsella. (parte)

FLOR. Signori, si vogliono divertire? Ecco un piccolo banco di dugento zecchini. (vuota la borsa in tavola)

LEL. Sì, divertiamoci un poco. Animo, volete puntare? (a Tiburzio)

TIB. Lo farò per compiacervi. Per accompagnarvi il punto. (siedono)

FLOR. Animo, signori, ecco fatto il taglio.

TIB. Sette, a due zecchini.

FLOR. Cari signori, so che è cattivo giuoco; ma vi prego per finezza di non mettere il sette.

TIB. Per qual ragione?

FLOR. Perché da ieri in qua il sette mi costa un tesoro.

TIB. Metterò un altro punto. Tre, a due zecchini.

LEL. Fante, a sei zecchini.

FLOR. Tre e fante. Tre ha vinto. Fante ha vinto. (paga, mescola, poi taglia)

TIB. Tre. (mettendo vari zecchini in tavola)

LEL. Fante. (facendo lo stesso)

FLOR. Capperi! Avete ben cresciuta la posta.

TIB. La nostra seconda.

FLOR. Ecco il tre, avete vinto. (sfogliando le carte)

TIB. Paroli.

FLOR. È andato. Fante ha vinto. Che diavolo ho in queste mani?

LEL. Paroli.

FLOR. Va subito. Oh maledetto fante! Or ora conteremo. Ecco il tre. Per dar i paroli son fatto a posta. Contiamo. Il tre venti zecchini, tre via venti sessanta; il fante trenta zecchini, tre via trenta novanta in un taglio cento cinquanta zecchini, è qualche cosa. Chi è di là?

BRIGH. La comandi.

FLOR. Portatemi una borsa di dugento zecchini. (mescolando le carte)

BRIGH. Subito. (Quel che vien de tinche tanche, se ne va da ninche nanche). (da sé, parte)

TIB. Tre al banco.

FLOR. (Fa il taglio)

LEL. Fante al banco.

FLOR. Maledettissimo fante! (straccia le carte, prende un altro mazzo)

LEL. (Tira il banco)

BRIGH. Son qua. (colla borsa)

FLOR. Presto denari.

BRIGH. (Poveri bezzi, i me fà peccà!) (da sé) La se ricorda del sior Pantalon. (piano a Florindo)

FLOR. Non mi rompete il capo.

BRIGH. (Magari che el perdesse anca la camisa). (da sé, parte)

FLOR. Animo; ecco tagliato.

LEL. Cinque.

TIB. Nove.

FLOR. Cinque e nove. (giuoca) Nove; il diavolo dorme, ne ho tirata una; cinque, eccolo qui; tutti i punti contrari. (mescola e taglia)

LEL. Cinque.

TIB. Sette.

FLOR. Il sette non lo tengo.

TIB. Se non tenete il sette, non giuoco più.

FLOR. Via, per questa volta lo terrò. (giuoca) Cinque. Oh diavolo, diavolo! Subito la seconda.

LEL. Paroli.

FLOR. Voglio perder la testa. (giuoca) Ecco il sette. Oh maledetto sette!

TIB. Alla pace.

FLOR. No, paroli.

TIB. Benissimo, paroli.

FLOR. Se do questi due paroli, mi voglio tagliar le mani. (giuoca) Oh sette, sette! Oh, diavolo, portati questo sette. Sudo tutto, non posso più; ecco il fante, ecco il fante; povero me! Li do tutti. Brighella, Brighella.

SCENA DICIOTTESIMA

Un servitore e detti.

SERV. Illustrissimo, messer Brighella non c’è.

FLOR. Dov’è andato?

SERV. A provvedere alcune cose per il pranzo di vossignoria illustrissima.

FLOR. Chi ha le chiavi del denaro?

SERV. Messer Brighella non dà le chiavi a nessuno.

FLOR. Presto, cercatelo... Ma no, fermate... Dove tiene i denari? Butterò giù la serratura.

SERV. Io non lo so dove tenga i denari.

FLOR. Presto, dico, a cercar Brighella subito. Se non lo trovi, ti rompo la testa con un bastone.

SERV. Vado subito. (Il giuoco fa diventar tutti diavoli). (da sé, parte)

FLOR. Quando viene Brighella, gli voglio dare dei calci. Se fosse qui, gli getterei un mazzo di carte nel viso.

LEL. Amico, non v’inquietate. Per ora basta così, giuocheremo un’altra volta.

FLOR. Aspettate un momento. Brighella. (chiama)

TIB. Verremo oggi a ritrovarvi.

FLOR. Venite a pranzo da me.

LEL. Via, verremo a pranzo con voi.

FLOR. Anche voi, signore. (a Tiburzio)

TIB. Riceverò le vostre grazie.

FLOR. Ma non mancate.

LEL. Vengo infallibilmente, e giuocheremo.

FLOR. Sì, giuocheremo fino a domani.

LEL. (Se anderà bene, giuocherò; se anderà male, mi contenterò di questi). (da sé, parte)

TIB. Signor Florindo, a buon riverirla.

FLOR. A pranzo v’aspetto, ma vi prego per grazia, non mettete il sette.

TIB. Non lo metterò. (Quando è riscaldato dal giuoco, tiene il sette, tiene tutto, perde come un disperato). (da sé, parte)

SCENA DICIANNOVESIMA

Florindo, poi Brighella

FLOR. (Va smaniando per la camera, battendo i piedi, stracciando le carte, buttandosi sul canapè e alzandosi, parlando come segue) Quattrocento zecchini, quattrocento zecchini in tre o quattro tagli? Tutti i punti? Tutti i paroli? Quel maledetto sette! Ma che dico del sette? Il fante! E il cinque! Tutti, tutti! Diavolo, portami; tutti!

BRIGH. Me domandavela?

FLOR. Ora venite?

BRIGH. Son andà a comprar della roba.

FLOR. Foste andato a farvi impiccare.

BRIGH. Cussì la parla con mi? Cossa gh’oio fatto?

FLOR. Per causa vostra ho perso quattrocento zecchini.

BRIGH. Per causa mia? Come?

FLOR. Sì, per causa vostra. Siete andato via; non ho potuto avere altri denari, non mi son potuto rimettere.

BRIGH. Se ghe ne dava dei altri, la perdeva anca quelli.

FLOR. Siete una bestia.

BRIGH. Ma lustrissimo, non posso più sopportar d’esser strapazzà. Son un galantomo. Oltre el mio debito, la servo da fattor e da mistro de casa, e anca se occorre da staffier, e la me maltratta cussì?

FLOR. Caro Brighella, compatitemi, la passione mi opprime, non so quello ch’io mi dica.

BRIGH. E la vol seguitar a zogar?

FLOR. Se posso rifarmi de’ miei quattrocento zecchini, non giuoco mai più.

BRIGH. E per refarse de quelli, la perderà quei altri.

FLOR. Non mi fate cattivo augurio. Voi mi avete detto così anche questa mattina, e per questo ho perso.

BRIGH. Sì ben, mali auguri, superstizion, tutte cosse da zogadori.

FLOR. Come anderà il pranzo?

BRIGH. L’anderà ben, averò speso diese zecchini; anzi, se la me i favorisse, la me farà una finezza.

FLOR. Ve li darò, avete paura che non ve li dia?

BRIGH. Ma ghe ne averia bisogno per un mio interesse. (Li vorria avanti che el li perda tutti). (da sé)

FLOR. Adesso non ne ho.

BRIGH. Comandela che li toga fora del sacchetto?

FLOR. Signor no. Il sacchetto dei trecento zecchini non si ha da toccare per ora.

BRIGH. Ah, la lo vol perder cussì bello e intiero.

FLOR. Non mi parlate di perdere, che vi venga il malanno.

BRIGH. Ecco qua, subito strapazza.

FLOR. Per oggi non mi tormentate.

BRIGH. La vada a trovar el sior Pantalon.

FLOR. Vada al diavolo anche Pantalone.

BRIGH. Siora Rosaura l’aspetta.

FLOR. Maledette anche le donne.

BRIGH. Tutte?

FLOR. Lasciatemi stare.

BRIGH. El zogo lo trasforma, e lo farà deventar matto.

FLOR. Petulante, insolente, se non avrete creanza, adoprerò il bastone. (parte)

BRIGH. El baston? Anca el baston? A sta sorte de eccessi arriva un omo scaldà dal zogo? El signor Florindo l’è stà sempre dolce de temperamento, onesto, proprio e civil, e per el zogo l’è deventà insoffribile. Aspetto che el fazza delle iniquità. Gran vizio l’è quello del zogo, gran vizio! Donne e zogo i è do brutti vizi. Però le donne, quando se vien vecchi, bisogna lassarle per forza, ma el zogo el se porta anca alla sepoltura.


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Strada con casa di Pantalone

Florindo e Brighella

FLOR. Caro Brighella, non mi abbandonate. Ho bisogno di voi.

BRIGH. La gh’ha bisogno de mi? La comandi. (sostenuto)

FLOR. Che c’è? Siete in collera?

BRIGH. Mi ghe son servitor. Cossa me comandela? (come sopra)

FLOR. Ma non volete compatire un povero galantuomo, che in un’ora perde quattrocento zecchini?

BRIGH. Se lo compatisso? E come!

FLOR. Nel vostro casino avrete pur vedute delle stravaganze dai giuocatori.

BRIGH. Oh, se ghe n’ho visto!

FLOR. Non vi ricordate di quello che l’altro giorno ha gettata la parrucca fuori della finestra?

BRIGH. Oh, quello el ghe n’ha fatte de belle. Un zorno l’ha taià un otto in bocconcini, e el l’ha bevudo in t’una chiccara da caffè.

FLOR. Io voglio bere il sette.

BRIGH. Mi ghe dago un conseio, da so bon servitor. La lassa star de zogar.

FLOR. Se posso rifarmi de’ miei zecchini, non giuoco mai più.

BRIGH. Dusento ghe n’ho dà, onde no ghe ne resta altro che tresento.

FLOR. E li ho in questa borsa per rifarmi.

BRIGH. Diseva ben quel padre: no me despiase che mio fio abbia perso, ma me despiase che el se vorrà refar.

FLOR. Per ora non penso al giuoco. Penso a riconciliarmi col signor Pantalone, a giustificarmi colla mia cara Rosaura.

BRIGH. Quel che è più difficile, l’è placar el sior Pantalon.

FLOR. Se potessi parlar alla signora Gandolfa, zia di Rosaura, spererei col suo mezzo di accomodarla. Ella mi vuol bene e vuol bene a Rosaura ancora, e sopra l’animo di suo fratello potrà più d’ogni altro.

BRIGH. Qua no gh’è altro che provarse d’andar in casa.

FLOR. E se vi è il signor Pantalone?

BRIGH. Se informeremo, e se el gh’è, volteremo bordo.

FLOR. E se viene, e mi trova?

BRIGH. Co siora Gandolfa dise dasseno, l’aggiusterà tutto.

FLOR. Via, proviamo d’entrare in casa.

BRIGH. La lassa far a mi, batterò, e procurerò de veder Colombina.

FLOR. Caro Brighella, a voi mi raccomando.

BRIGH. Vado subito.

FLOR. Dite, dite, come staremo di vino a pranzo?

BRIGH. A pasto ghe darò del Padoan prezioso, e po ghe sarà del vin marzemin, del vin de Cipro, e una bottiglia de Canarie.

FLOR. A quei due forestieri che mi hanno vinto, bisogna dar bene da bere, acciò si scaldino un poco la testa e giuochino con dell’allegria.

BRIGH. Cussì i guadagnerà più presto.

FLOR. Ma voi mi odiate, mi perseguitate, mi vorreste vedere in camicia.

BRIGH. Anzi parlo, perché gh’ho premura del so ben, e no vorria che el perdesse.

FLOR. Perdo forse qualche cosa del vostro?

BRIGH. La gh’ha rason. La zoga, la perda, mi no parlo mai più. Vólela che batta?

FLOR. Sì, battete e spicciamoci, perché non mi voglio far aspettare al casino.

BRIGH. (Nol gh’ha altro in tel cor che el zogo). (da sé) Oh de casa. (batte)

SCENA SECONDA

Colombina alla finestra, e detti.

COL. Chi batte?

BRIGH. Son mi, siora Colombina, se poderia dirghe una parola?

COL. Siete padrone.

BRIGH. Gh’è el sior Pantalon?

COL. Questa mattina non si è ancora veduto.

BRIGH. Se pol entrare?

COL. Se potete, entrate.

BRIGH. Ma se non ti averzi, non intrerò.

COL. Signor Florindo, vorrebbe entrar ancor ella? (a Florindo)

FLOR. Se potessi.

COL. Tutti due è troppo.

BRIGH. Via, prima uno e po l’altro.

COL. Così mi contento.

BRIGH. La fazza una cosa, la lassa che vaga mi. Parlerò con siora Rosaura, sentirò se la sa gnente del negozio de siora Beatrice e del sior Pantalon, e vederò de far che entra anche vossignoria. (a Florindo)

FLOR. Via, ci vorrà pazienza.

BRIGH. Siora Colombina, avèrzela?

COL. A voi?

BRIGH. A mi.

COL. Volentieri. Ora vi faccio entrare. Signor Florindo la riverisco.

FLOR. Ed io fuori? (a Colombina)

COL. E lei di fuori.

FLOR. Pazienza.

COL. Intanto vada a divertirsi a giuocare.

FLOR. Oh, non giuoco più!

COL. Che cosa mi dona, che io gli do un punto da vincere sicuramente?

FLOR. Oh il ciel volesse! Vi dono uno zecchino.

COL. Giuocate il sette.

FLOR. Maledetto il sette e anche chi lo nomina.

COL. La volpe lascia il pelo, ma non il vizio. (entra)

FLOR. Il diavolo sempre mi tormenta col sette.

BRIGH. Via, per ancuo no la pensa né al sette, né all’otto. La lassa star, la zogherà doman.

FLOR. Sì, dite bene. Per oggi non voglio giuocare. Il sabato mi è contrario.

BRIGH. La porta l’è averta, vado a parlar colla siora Rosaura.

FLOR. Sì, caro Brighella, procurate che io possa giustificarmi, prima che ella parli con suo padre.

BRIGH. La se ferma qua, e presto ghe darò la risposta. (entra)

FLOR. Di qui non mi muovo; mi preme infinitamente la mia cara Rosaura. L’amo con tutto il cuore, e il perderla mi costerebbe la vita. Spiacemi l’impegno con Beatrice, ma da questo procurerò liberarmi. Spiacemi ancora d’aver disgustato il signor Pantalone, ma spero placarlo. La mia Rosaura e la signora Gandolfa lo acquieteranno. Tutte due mi amano, tutte due s’impiegheranno per me.

SCENA TERZA

Agapito dal casino, e detto; poi Menico

AGAP. Oh maledetta fortuna!

FLOR. Che cosa c’è, signor Agapito?

AGAP. Li ho persi tutti.

FLOR. Dove?

AGAP. Qui, in questo casino.

FLOR. Qui vi è un casino da giuoco?

AGAP. Pur troppo, per mia disgrazia.

FLOR. Da quando in qua vi è questo casino?

AGAP. Sarà una settimana che l’hanno introdotto, e in una settimana mi costa un tesoro.

FLOR. Avete messo o tagliato?

AGAP. Ho tagliato. Tutte le banche perdono. Tutti i puntatori guadagnano.

FLOR. (Oh se potessi mettere anch’io!) (da sé) Vi sono banche grosse?

AGAP. Vi è una banca di più di mille zecchini.

FLOR. E perde?

AGAP. I puntatori vincono tutti.

FLOR. Mettono belle poste?

AGAP. Non sanno giuocare. Se fossero giuocatori, lo avrebbero sbancato.

FLOR. (Oh se giuocassi io! Lo sbancherei senz’altro). (da sé)

AGAP. Oh maledetta fortuna!

FLOR. (Se venisse Brighella, e mi dicesse che non si può entrare, vorrei vedere questo nuovo casino). (da sé)

AGAP. (Sempre perdere!) (da sé)

FLOR. (Quanto tarda a venir costui? Ma può darsi che siasi impegnato in un lungo discorso. Non verrà per adesso). (da sé)

AGAP. (Perder tagliando è una gran fatalità!) (da sé)

FLOR. Amico, vi trattenete qui?

AGAP. Sì, mi trattengo fino che il mio servitore mi porta denari. Prendo aria per farmi passare il caldo.

FLOR. Vi prego d’una grazia se vedete uscir da quella casa Brighella... Lo conoscete voi Brighella?

AGAP. Oh, se lo conosco! Anche il suo casino mi costa qualche cosa.

FLOR. Oh bene; se lo vedete uscire, fatemi il piacere di dirgli che l’aspetto in questo casino; che mi sono ritirato là dentro per non farmi vedere qui in istrada. Intenderà egli il perché.

AGAP. Volete giuocare?

FLOR. No, vado per vedere.

AGAP. E poi non vi potrete tenere.

FLOR. Chi sa? Se vedrò che vi sia il mio conto, arrischierò la mia sorte. Voi lo sapete; sono un giuocatore prudente. (parte)

AGAP. Con la sua prudenza ha perduto più oro che non pesa. Ma i galantuomini per lo più sono sfortunati.

MEN. Eccomi, signor padrone.

AGAP. Sei stato tanto a venire?

MEN. Non mi pare di aver tardato.

AGAP. Animo; hai preso il denaro?

MEN. Eccolo, cento filippi.

AGAP. Andiamo a perdere anche questi. (parte)

MEN. Cento filippi li perderà volentieri, e a me non ne donerebbe uno, se cascassi morto. (parte)

SCENA QUARTA

Brighella solo, che esce dalla casa di Rosaura

BRIGH. Oh son qua, sior Fiorindo, sior Florindo. Oh bella! Dov’elo andà? El s’ha stuffà e l’è andà via. Che el sia andà a zogar? No credo mai. El gh’ha tanta premura per la siora Rosaura, e po senza aspettarme el va via? Qualche cossa de grando bisogna che sia successo; mi no so dove andarlo a cercar, adesso in casa no gh’è nissun, l’occasion no podeva esser meio per abboccarse colla siora Rosaura. La lo aspetta lu, la me aspetta mi; bisogna che vada per civiltà a dirghe che nol gh’è più. Vardè, tanta premura de intrar in casa, e po el va via. Pazienza! Tornerò mi un’altra volta. (parte)

SCENA QUINTA

Camera di Rosaura

Rosaura e Colombina

ROS. Tu mi vai rompendo il capo, tu vuoi che Florindo giuochi, ed io ti dico che non giuoca più.

COL. Come potete assicurarvi che non giuochi più?

ROS. Me l’ha promesso, me l’ha giurato. Mi vuol bene e non giuocherà più.

COL. Eppure or ora mi voleva donare un zecchino, s’io gli davo un punto da vincere.

ROS. Non vedi, scioccherella, ch’ei scherza? Credi tu, se dicesse davvero, ch’ei ti volesse dare un zecchino per un punto che lo potrebbe far perdere?

COL. Basta, ve n’accorgerete voi.

ROS. Orsù, non mi star a parlare di queste cose.

COL. Io ne so un’altra, ma non ve la dico per non inquietarvi.

ROS. Che cosa sai? Cara Colombina, dimmela, ti prego.

COL. Già, se ve la dico, non la crederete.

ROS. Se me la dici tu, la crederò.

COL. Egli ha l’amicizia di una cantatrice.

ROS. Via, questo non può essere.

COL. Ve lo dico con fondamento.

ROS. Sei una pettegola, non può essere.

COL. Ecco qui, questo me l’aspettava.

ROS. Ma se dici cose che non si possono credere.

COL. È cosa strana che un uomo abbia un’amicizia?

ROS. L’amore che Florindo mostra avere per me, mi assicura ch’egli non l’abbia.

COL. Lo vedremo.

SCENA SESTA

Brighella e dette.

ROS. Bene, bene, lo vedremo.

BRIGH. Con grazia, posso vegnir?

ROS. Sì, sì, ecco qui il mio caro Florindo.

BRIGH. Servitor umilissimo...

ROS. Dov’è Florindo?

BRIGH. Ma...

ROS. Come?

BRIGH. L’è andà in fumo d’acquavita.

ROS. Ma dov’è andato?

BRIGH. Mi no so cossa dir, son andà in strada, l’ho cercà e no lo trovo.

ROS. Oh meschina me! Dove mai sarà andato?

COL. Io lo so dove sarà andato.

ROS. Via, dove?

COL. A trafficare il talento. (fa cenno con le mani, che giuocherà)

ROS. Questo non può essere. È vero, Brighella? Questo non può essere.

BRIGH. Mi crederia de no.

ROS. Ma dove mai sarà?

COL. Oh, se non è a giuocare, sarà in un altro luogo.

ROS. Dove?

COL. Dall’amica.

ROS. Via, mala lingua, non è possibile. È vero, Brighella? Non è possibile.

BRIGH. Certo me par difficile.

ROS. Può essere che abbia ritrovato Pantalone mio padre.

BRIGH. Pol esser.

ROS. Sì, avrà ritrovato mio padre e sarà andato con lui. Chi sa che ora non parlino del nostro sposalizio?

BRIGH. (Poverazza! Se la savesse tutto!) (da sé)

COL. In verità che ora la pensate bene. Chi sa che il signor Pantalone non gli abbia dato qualche denaro a conto di dote.

ROS. Potrebbe darsi.

COL. Ed egli sapete che cosa farà?

ROS. Che cosa farà?

COL. Subito anderà al casino a dire: vada il tre, vada il resto.

ROS. Tu sei una impertinente.

COL. Ho sentito battere.

ROS. Va a vedere chi è.

COL. (Povera ragazza, mi fa compassione: ella crede tutto al suo caro Florindo, ed io non gli credo una maledetta). (da sé, parte)

SCENA SETTIMA

Rosaura, Brighellae Colombina che torna.

ROS. Quanto mi dispiace che ora non sia venuto Florindo! Miglior occasione di questa non si poteva sperare per dirgli quattro parole con libertà. Mia zia è fuori di casa, mio padre quando viene a vedermi, viene assai tardi, e mi premeva moltissimo di dire a Florindo tre o quattro cose essenziali.

BRIGH. Donca stamattina no la l’ha visto so sior padre?

ROS. No, non è ancora venuto a ritrovarmi. L’ho fuggito, come sapete, dal casino, e non l’ho più veduto.

BRIGH. (No la pol saver gnente né del zogo, né della macchina). (da sé)

ROS. Non mi so dar pace, come Florindo non sia venuto.

COL. Via via, non piangete. È qui il signor Florindo.

ROS. Vedi, mala lingua? Tu dicevi, sarà al giuoco, sarà coll’amica.

COL. Chi sa dove sia stato sinora?

ROS. Non vuoi lasciar questo vizio di mormorare. Dov’è? Viene di sopra?

COL. Io non gli ho aperto.

ROS. Perché non gli hai aperto?

COL. Or ora viene vostra zia.

ROS. Mia zia è una buona donna, vuol bene a me, e vuol bene a Florindo; non dirà niente.

COL. E se vien vostro padre?

ROS. Per ora non v’è pericolo. Sai che egli viene dopo mezzogiorno. Presto, presto, aprigli e fa che egli venga.

COL. Basta; ci penserete voi. (parte)

ROS. Costei vuol sempre far la dottora.

BRIGH. Se mantienla ben la so siora zia?

ROS. È prosperosa quanto una giovine.

BRIGH. L’è stada una donna de bon gusto. No la s’ha mai maridà, ma gh’ha piasso sempre esser servida.

ROS. Le piace anche adesso.

BRIGH. Anca adesso?

ROS. E come!

BRIGH. Ma in sta età no la troverà più nissun.

ROS. Fra tanti adoratori che aveva, se n’è conservato uno, il quale si è invecchiato con lei, e ancora si voglion bene.

BRIGH. L’è molto che una donna se sappia conservar per tanti anni un servente. Ma chi elo sto bon omo?

ROS. Un certo signor Pancrazio... ma ecco Florindo.

BRIGH. (El me par stralunà. Ho in testa che l’abbia zogà). (da sé)

SCENA OTTAVA

Florindo, Rosaurae Brighella; poi Colombina.

FLOR. Riverisco la signora Rosaura.

ROS. Ben venuto il mio caro Florindo. Mi avete fatto fare de’ cattivi giudizi.

FLOR. (Fortuna indegna!) (da sé) Eccomi, son qua da voi.

ROS. Mi parete turbato.

FLOR. Oibò, non è vero. (Povero me! Non ho più un soldo). (da sé)

BRIGH. (Come ela? L’ha zogà?) (piano a Florindo)

FLOR. (Pur troppo). (piano a Brighella)

ROS. Eppure vi vedo agitato. (a Florindo)

FLOR. Ho paura di vostro padre.

BRIGH. (Eli andadi tutti?) (piano a Florindo)

FLOR. (Sii maledetto, sarai contento). (piano a Brighella)

BRIGH. (L’è meio che vaga via, perché debotto no me posso tegnir). (parte)

ROS. Mio padre non viene per ora.

FLOR. No? Quando viene?

ROS. Dopo il mezzogiorno.

FLOR. (Gran sette, gran sette! Anche a puntare l’ho contrario). (ha un sette nascosto nelle mani)

ROS. Badate a parlar da voi solo, e non parlate con me.

FLOR. Eccomi da voi. Cara la mia Rosaura! (Cinque volte in faccia). (da sé)

ROS. Ditemi, avete voi parlato con mio padre?

FLOR. Sì.

ROS. Che cosa vi ha egli detto?

FLOR. Che... circa la dote ci aggiusteremo. Che per il tempo, faremo le cose con ordine... Gli abiti e le gioje mi pare... che... sì, dice che si faranno. (va stracciando con i denti una carta da giuoco)

ROS. Ma questo tempo quando sarà?

FLOR. Figuratevi... sarà... (Oh maladetto!) (da sè)

ROS. Tempo lungo?

FLOR. Oibò.

ROS. Corto?

FLOR. Sì.

ROS. In questo mese?

FLOR. (Questo mese ho perduto de’ bei danari). (da sé)

ROS. In questo mese?

FLOR. Sì, in questo mese.

ROS. Da qui a quanti giorni?

FLOR. (Oh che seccatura!) (da sé)

ROS. Da qui a sei o sette...

FLOR. O sette, o sette! Come c’entra il sette?

ROS. Via, non andate in collera. (arriva Colombina)

COL. Signora, è venuta vostra zia.

ROS. È sola?

COL. È col signor Pancrazio.

ROS. Già il suo vecchio non la lascia mai. Vorrei parlare a mia zia del nostro matrimonio; vorrei che le parlaste anche voi, ma quel vecchio mi dà soggezione.

FLOR. Anch’io avrei volontà di parlare colla signora Gandolfa. (Per vedere se le potessi cavare qualche cosa di mano. Non sarebbe la prima volta). (da sé)

ROS. Come dobbiamo fare?

FLOR. Il vecchio resta qui?

ROS. Alcune volte ci sta, alcune volte se ne va.

FLOR. Ritiriamoci, se vi contentate, e stiamo a vedere se parte presto.

ROS. Sì, ritiriamoci in quest’altro appartamento. Colombina, vieni con noi. (parte)

COL. Oh vengo, vengo, non vi lascio soli. Com’è andata? (a Florindo)

FLOR. Di che?

COL. Avete giuocato?

FLOR. Eh, lasciami stare.

COL. Va cinque, va sette. (parte)

FLOR. Venga la peste al sette. (parte)

SCENA NONA

Gandolfa e Pancrazio

GAND. In verità, signor Pancrazio, che questa mattina sto meglio.

PANC. Ah, che ne dite? Vi hanno fatto bene quelle pillolette?

GAND. Certo che mi hanno fatto bene, e dopo che le ho prese, non sento più quella doglia che mi tormentava questa coscia.

PANC. Anch’io con quelle pillole son guarito da tre o quattro mali.

GAND. E il vostro catarro come vi tratta la notte?

PANC. Non mi lascia dormire.

GAND. Oh ancor io, vedete, sto le ore intere senza potere chiuder un occhio; ho un affanno di petto, che mi sento morire.

PANC. Prendete le pillole.

GAND. Mi faranno bene?

PANC. E come! Hanno fatto bene anche a me.

GAND. La gotta vi tormenta più?

PANC. Ah, non vedete? Sono stroppiato. Non mi posso muovere.

GAND. Prendete le pillole.

PANC. Perché non vi andate a spogliare?

GAND. Sono un poco stanca, non posso salire le scale per andare nella mia camera; quando sarò riposata, anderò. Sediamo un pochino. (siedono)

PANC. Non so se oggi sia freddo, o se mi venga la febbre.

GAND. La febbre! Oh poverina me! Vi sentite male?

PANC. Ho un certo non so che per la vita...

GAND. Vedete? Dovevate prendere le pillole. Lasciate che senta, se siete freddo; no, no, mi pare che piuttosto siate caldetto.

PANC. Sì? Via, via, non sarà nulla.

GAND. In verità che siete caldo.

PANC. Sì, non ho ancora perduti i calori.

GAND. Nemmen io, vedete; ho i miei anni, ma mi conservo.

PANC. Mi parete quella di trent’anni sono.

GAND. E voi non diventate mai vecchio.

PANC. I capelli canuti li avevo di venticinque anni.

GAND. Ed io ho perduti i denti per causa delle flussioni.

PANC. Vi ricordate, eh? trent’anni sono?

GAND. Ah! Già trent’anni? chi ci poteva tener dietro?

PANC. Che ricreazioni, che divertimenti, che gustosi spassi ci siamo presi!

GAND. Vi ricordate? A tutte le feste, a tutti i teatri, noi eravamo i primi, e in que’ balletti nessuno ci poteva star a petto.

PANC. Oh, dove sono andati que’ tempi!

GAND. Eh, sebbene son vecchia, ancora di quando in quando il cuor mi brilla, e mi vien voglia di maritarmi.

PANC. Sentite, signora Gandolfa, io vi ho sempre voluto bene e sempre ve ne vorrò.

GAND. Caro il mio vecchietto, se non ci foste voi, io morirei.

PANC. Mi ricordo quanto mi avete fatto sospirare.

GAND. Sospirare? Per qual cagione?

PANC. Per gelosia.

GAND. E adesso siete più geloso?

PANC. E adesso.. Basta, se vedessi... Chi sa?

GAND. Ancora patite di questo male?

PAN. Ne patisco ancora.

GAND. Prendete le pillole, che guarirete.

PANC. Eh furbetta!

GAND. Oh! Io furba?

PANC. Carina! La grazia poi non l’avete mai perduta.

GAND. Dite davvero?

PANC. Sì, davvero.

GAND. Eh il mio vecchietto!

PANC. Oh la mia mamma!

GAND. Mi fate tornar giovine.

PANC. Oh dieci anni di meno!

SCENA DECIMA

Florindo e detti.

FLOR. (Non ho più sofferenza; questi vecchi mi fanno venire il vomito). (da sé)

GAND. Via, state saldo.

PANC. Son vecchio.

GAND. Io non cerco se siete vecchio.

PANC. Ho male.

GAND. Che male avete?

PANC. Mal d’amore.

FLOR. Riverisco umilmente lor signori.

PANC. (Oh diavolo! Ci avrà egli sentito?) (da sé)

GAND. Oh signor Florindo bello, buon giorno a vossignoria. Che fate? State bene, caro?

PANC. (Caro?) (da sé)

FLOR. Signora, sto bene a’ vostri comandi, e sono qui per incomodarvi con due parole, se vi contentate.

GAND. Sì, figlio, sì, parlate che v’ascolto. Compatitemi, signor Pancrazio, questo giovine l’ho veduto nascere, gli voglio bene.

PANC. Sì, l’avete veduto nascere, ma ora è grande e grosso.

GAND. E per questo? non posso fargli delle finezze? Potrebbe esser mio figlio. Venite qua, caro, venite qua.

PANC. (Ho una rabbia che mi sento rodere). (da sé)

FLOR. (Cara signora Gandolfa, vorrei segretamente parlarvi fra voi e me, senza che sentisse quel vecchio). (piano)

GAND. (Aspettate, vita mia, farò che vada via). Signor Pancrazio.

PANC. Signora?

GAND. Siete molto pallido in viso. Vi vien la febbre?

PANC. Oimè, ho paura di sì.

GAND. Che cosa avete, che avete gli occhi incantati? Oh che labbri smorti! Guardate che vi trema la bocca; poverino, non vorrei che vi venisse qualche accidente. (a Pancrazio)

PANC. Oimè! mi par che mi venga male.

GAND. Presto, andate a prendere qualche cosa, non perdete tempo.

PANC. Ma voi restate...

GAND. Or ora mi cadete in terra.

PANC. Con quel giovinotto...

GAND. Siete geloso?

PANC. (Ahi! ho paura. Mi sento tremar le gambe. Vorrei andare... Vorrei restare... Sudo da capo a piè. Presto le pillole. Io prenderò le pillole dallo speziale, ed ella le prenderà da quel giovinotto). (da sé, parte)

SCENA UNDICESIMA

Florindo e Gandolfa.

FLOR. Finalmente è andato.

GAND. Il vecchierello è andato. Venite qua, il mio caro Florindo, sedete vicino a me. Quando vi vedo, mi consolo; sono un poco vecchia, ma mi piace la gioventù.

FLOR. Siete stata sempre briosa, e lo sarete sino che viverete.

GAND. Oh figlio mio, se mi aveste conosciuta trent’anni sono! Se mi aveste veduta! Non vi dico altro.

FLOR. Ancora vi conservate bene.

GAND. Sono avanzata negli anni, ma in certe cose non la cedo ad una giovane.

FLOR. E quali sono queste cose?

GAND. Eh furbettaccio, vorreste che vi facessi ridere.

FLOR. Fatemi il piacere, spiegatevi.

GAND. Via, non mi fate venir rossa.

FLOR. Orsù, per non farvi arrossire, mutiamo discorso. Io ho bisogno di voi, signora Gandolfa.

GAND. Che cosa volete da me, caro Florindo?

FLOR. Ho bisogno di un favor grande.

GAND. Sì, figlio mio, quel che posso, lo farò volentieri.

FLOR. Ho bisogno di cinquanta zecchini.

GAND. Uh, uh, dove ho io tanti denari? Cinquanta zecchini? Dove volete che io li trovi?

FLOR. Via, cara signora Gandolfa, so che ne avete.

GAND. Vi replico che non ne ho.

FLOR. Avete tremila ducati l’anno d’entrata. Voi non ne spendete nemmeno mille.

GAND. Sì, tremila ducati, ma non riscuoto le pigioni delle case, i poderi non fruttano, non posso riscuotere i censi e non si tira un soldo.

FLOR. Dunque non avete denari?

GAND. Non ne ho, figlio mio, non ne ho.

FLOR. Pazienza! Perdonate l’incomodo. (s’alza)

GAND. Così presto partite?

FLOR. Bisogna ch’io vada in qualch’altro luogo a procurarmi questi cinquanta zecchini.

GAND. Dove anderete?

FLOR. Anderò dalla signora Pasquella, la quale è una buona vecchietta amorosa, che mi vuol bene, e se le farò quattro finezze, mi darà i cinquanta zecchini.

GAND. Vi darà i cinquanta zecchini?

FLOR. Sicuramente.

GAND. Ma le farete quattro finezze.

FLOR. Oh, è giusto.

GAND. A me, per altro, non le avete fatte.

FLOR. Se credessi che le gradiste, ve le farei.

GAND. Da voi, figlio mio, prendo tutto.

FLOR. Cara la mia nonnina.

GAND. Nonna mi dite?

FLOR. Per finezza.

GAND. Oh che finezza magra! Non ne sapete fare delle migliori?

FLOR. Ma io perdo il tempo, ed ho premura dei cinquanta zecchini; signora Gandolfa, vi riverisco.

GAND. Aspettate, aspettate; sentite, figlio mio, cinquanta zecchini non li ho, ma se vi premono, li troverò.

FLOR. Oh il ciel volesse! Mi fareste il maggior piacere del mondo.

GAND. E poi mi vorrete bene?

FLOR. Tanto.

GAND. Andrete dalla signora Pasquella?

FLOR. Non vi è pericolo.

GAND. Le vostre finezze di chi saranno?

FLOR. Tutte vostre.

GAND. Ah furbetto! mi burlerete.

FLOR. No, cara signora Gandolfa, non vi burlerò. (Mi sento che non posso più). (da sé)

GAND. Volete li cinquanta zecchini?

FLOR. Non vedo l’ora d’averli.

GAND. Che cosa poi ne farete?

FLOR. Ho da depositarli per una lite.

GAND. Ah, voi li giuocherete.

FLOR. Non vi è pericolo.

GAND. Voi li giuocherete.

FLOR. Orsù, vado via.

GAND. Fermatevi, aspettate, prendete; per voi mi cavo un gallone. (si leva dal fianco un rotolo, con dentro delli zecchini) (Ah, mi piange il cuore, mi porta via le viscere. Ma Florindo è tanto leggiadro, che non posso far a meno di consolarlo). (da sé)

FLOR. (La vecchina ci è cascata. Non vedo l’ora di poter giuocare e rifarmi). (da sé)

GAND. Florindo. (con qualche mestizia)

FLOR. Signora.

GAND. Ah! Questi sono li cinquanta zecchini.

FLOR. Oh cara mamma!

GAND. Prendete. (Mi vien voglia di piangere). (da sé)

FLOR. Vi sono tanto obbligato.

GAND. Via, mi fate una finezza?

FLOR. Volentieri. Oh, ecco vostra nipote.

GAND. Dove?

FLOR. Ecco la signora Rosaura.

GAND. Venite qua, sentite.

FLOR. Un’altra volta.

GAND. Venite qua, cane, venite qua.

FLOR. Un’altra volta, un’altra volta. (Eppure è vero, il giuocatore trova sempre denaro). (da sé, parte)

GAND. Come! Così mi pianta? Nel più bello va via? Ah poveri miei zecchini!

SCENA DODICESIMA

Rosaura e detta.

ROS. Serva, signora zia.

GAND. Buon giorno, nipote, buon giorno.

ROS. Mi ha detto il signor Florindo che l’avete consolato.

GAND. Vi ha forse raccontato tutto?

ROS. Si, in due parole mi ha detto il tutto.

GAND. (Che ciarlone!) (da sé)

ROS. Egli è consolato e sono consolata anch’io.

GAND. Voi, come ci entrate?

ROS. C’entro, perché quello che fate per il signor Florindo, s’intende anche fatto per me.

GAND. Come? Per voi?

ROS. Non ha egli a essere mio sposo?

GAND. Vostro sposo? Può darsi che sia, e anche che non sia.

ROS. Col vostro mezzo spero di conseguirlo.

GAND. In queste cose non ci voglio entrare. Sono anch’io fanciulla, e le fanciulle non c’entrano.

ROS. Ma egli mi ha detto che l’avete consolato.

GAND. Sì bene, l’ho consolato.

ROS. Dunque avete promesso di parlare per noi a mio padre.

GAND. Ah v’ingannate, signora, v’ingannate.

ROS. M’inganno? Come dunque l’avete consolato?

GAND. Come? Oh se sapeste come!

ROS. Via, ditemi, come?

GAND. Meno ciarle, non avete da saper altro.

ROS. Non ho da saper altro? Florindo è il mio sposo.

GAND. Questa volta penso che potrete spazzarvi la bocca.

ROS. Vi è qualche novità?

GAND. Certo che sì.

ROS. Egli è venuto qui per assicurarmi della sua fede.

GAND. In questa casa non vi sono altre fanciulle che voi?

ROS. Chi v’è: Colombina?

GAND. Non ve ne sono altre?

ROS. Non so che ve ne sieno.

GAND. Io, che cosa sono?

ROS. Voi?

GAND. Signora sì, io.

ROS. Voi?

GAND. Io.

ROS. Sapete chi siete?

GAND. Chi sono?

ROS. Una vecchia senza giudizio. (parte)

GAND. Fraschettuola! Mi voglio maritare per darti dispetto: se ho degli anni assai, ho anche assai denari: i giovani che hanno giudizio, pensano ai danari e non pensano alla gioventù. Oh, mi dirà qualcheduno, se il marito vi prende per i denari, vi strapazzerà. Son vecchia, ma non son poi decrepita. Sono ancora colorita in faccia, ho della carne su le ossa, e poi per istar meglio, se avrò qualche incomodo, prenderò le pillole, e guarirò. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Camera da giuoco nel casino

Florindo solo, poi Lelio, Tiburzioe servitore

FLOR. Fino che non mi sono rifatto della mia perdita, è impossibile ch’io ritrovi quiete. Amo Rosaura, ma questa volta la passione del giuoco supera quella dell’amore. Con questi cinquanta zecchini mi posso riscattare, se la fortuna lo vuole; e quella buona vecchia che me li ha dati, può essere che sia la mia redentrice. Se guadagno, se mi rifaccio, a quella povera vecchia voglio fare due finezze per gratitudine.

LEL. Signor Florindo, vedete se siamo di parola?

FLOR. Bravi, bravissimi.

TIB. Siamo qui a godere delle vostre grazie.

FLOR. Mi avete fatto piacere. Aspetto degli altri amici, ma non li vedo ancora arrivare. Frattanto che vengono e si mette in tavola, potremmo far due tagli.

LEL. Si potrebbono fare.

FLOR. Ehi, chi è di là? (chiama)

SERV. Comandi?

FLOR. Non si è veduto nessuno di quelli che ho mandato a invitare?

SERV. Sono venuti tutti; hanno aspettato un pezzo, e vedendo che ella non veniva, sono andati via.

FLOR. Sono andati via? Ma è tardi molto?

SERV. Anzi tardissimo.

LEL. Anche noi siamo andati e tornati.

FLOR. Compatitemi; basta, se non vi è nessuno, mangeremo da noi.

SERV. Comanda che si bagni la zuppa?

FLOR. Sì, bagnatela bel bello, e frattanto che la zuppa si prepara, noi faremo due tagli. Portate un mazzo di carte.

SERV. Io non ho le chiavi, e messer Brighella è in cantina.

FLOR. Grand’asino è quel Brighella!

TIB. Se volete far due tagli, vi darò io un mazzo di carte.

FLOR. Sì, sì, date qua. Va via, e quando è in tavola avvisaci. (al Servitore)

SERV. (Giuocherebbe la sua parte del sole). (da sé, parte)

FLOR. Animo, in piedi, in piedi. Ecco qui venti o trenta zecchini; puntate. (fa il taglio)

LEL. Fante.

TIB. Sette.

FLOR. Per carità, non mettete il sette.

TIB. Via, voglio compiacervi. Tre.

LEL. Fante, ho vinto; paroli.

FLOR. Va subito.

TIB. Tre; ho vinto. Tre al resto della banca.

FLOR. Vada. Oh maledetto tre! Eccolo subito! in seconda.

SCENA QUATTORDICESIMA

Brighella e detti.

BRIGH. (Oh caro, oh bello!) Co la comanda, è in tavola.

FLOR. Dove siete stato sinora? Che siate maledetto!

BRIGH. In caneva, a tor i fiaschi.

FLOR. Per causa vostra ho perduto i denari.

BRIGH. Anca adesso per causa mia?

FLOR. Sì, per causa vostra non ho potuto aver carte; ho giuocato con queste, e qualche diavolo hanno dentro.

TIB. Come? Che dite? Sono carte onorate. Io sono un galantuomo, e mi maraviglio di voi. (si scosta dal tavoliere)

FLOR. Compatitemi: non ho detto per offendervi. Dico che io sono sfortunato. Venite qua, un altro taglio.

TIB. Non voglio giuocar altro.

FLOR. Dieci zecchini soli. (Voglio vedere se posso vincere il pranzo). (da sé)

BRIGH. La zuppa se giazza; la roba va de mal.

FLOR. Ecco qui dieci soli zecchini. (Brighella ora taglio per voi). (piano a Brighella)

BRIGH. (Prego el ciel che la vaga ben). (da sé)

FLOR. Animo, da bravi.

LEL. Fante, alla banca.

TIB. Tre e sette, alla prima che viene.

FLOR. Mi pareva impossibile che non v’entrasse il sette. (taglia) Eccolo quel maledetto sette; eccolo quel sette di casa del diavolo. Sette cancheri, che mi mangino il cuore; sette forche, che mi appicchino; sette diavoli, che mi strascinino all’inferno.

LEL. Via, quietatevi; andiamo a pranzo.

FLOR. Andate, che ora vengo.

TIB. Fatemi la strada. (a Florindo)

FLOR. Andate, che vengo.

LEL. Signor Florindo...

FLOR. Favorite: accomodatevi, che ora sono con voi.

LEL. Benissimo. (Se non vuol venire, non importa, mangeremo noi). (a Tiburzio, e parte)

TIB. (Egli smania, ed io mangerò col maggior gusto del mondo). (da sé, parte)

SCENA QUINDICESIMA

Florindo e Brighella.

BRIGH. Sior Florindo, vala a desinar?

FLOR. Non ho appetito.

BRIGH. Eh via, la vada, no la se fazza burlar.

FLOR. Andate, che ora vengo.

BRIGH. Cossa vólela che diga quei signori?

FLOR. Andate in malora e in mal punto.

BRIGH. Vado... (E me vien voia de darghe cinquanta pugni. Tolè, de là i magna e i beve alle so spalle, e lu l’è qua che el sospira e el bestemmia. Ecco qua i spassi dei zogadori). (da sé, parte)

SCENA SEDICESIMA

Florindo, poi Lelio e Tiburzio.

FLOR. Voglio vedere quanto ho perso. (siede, cava la borsa e conta) Gran disgrazia! Se non mi rifaccio oggi, non mi rifaccio mai più.

LEL. Signor Florindo, alla vostra salute. (di dentro)

FLOR. (Che tu possa crepare!)

TIB. E viva il sette. (di dentro)

FLOR. (Sette corni che vi sbudellino).

LEL. Signor Florindo, oh che pasticcio! Venite a sentirlo, che è una cosa prodigiosa. (esce, ed entra subito)

FLOR. Vengo, vengo, per non mostrar passione mi sforzerò a mangiare. Dopo pranzo con questi pochi mi rifarò. (entra)

SCENA DICIASSETTESIMA

Arlecchino, il servo del casino, e due servitori de’ giuocatori

PRIMO SERV. Figliuoli, venite qui, fintanto che i padroni pranzano, divertiamoci un poco. Arlecchino, avete denari?

ARL. Se gh’ho quattrini? E come! Cossa penseu, che sippia qualche mamalucco? Vardè mo, coss’eli questi?

SECONDO SERV. Capperi, sono zecchini. Come avete fatto tanti denari?

ARL. Me li ha donadi el me patron.

TERZO SERV. Ve li ha donati, o li avete rubati?

ARL. Qua su sto proposito ghe saria da discorrer un pochettin. Per quel che dis el me patron, el me li ha donadi, ma mi che son un omo sincero, posso dir in conscienza che li ho sgraffignadi.

PRIMO SERV. Orsù, giuochiamo.

SECONDO SERV. Son qui, giuochiamo pure.

TERZO SERV. Via, tagliate, fate la banca. (al primo Servitore)

PRIMO SERV. Tenete; due zecchini d’oro, e diciotto o venti lire di moneta.

ARL. Come se fa a zogar?

SECONDO SERV. V’insegnerò io. Quattro, a due lire. (punta)

TERZO SERV. Otto, a tre lire.

ARL. Quattordese, a cinque soldi.

PRIMO SERV. Oh via, giuocate come va. (ad Arlecchino)

SECONDO SERV. Mettete i punti che ci sono, e non il quattordici.

ARL. Va un zecchin, a un ponto.

PRIMO SERV. A che punto?

ARL. A che ponto che volì vu.

PRIMO SERV. Volete che vada al cinque, al sei?

ARL. Sì, al cinque e al sie.

PRIMO SERV. Mezzo per parte?

ARL. Mezzo per parte.

PRIMO SERV. (Oh che babbuino! Quei denari son miei sicuramente). (da sé, taglia e sfoglia)

SCENA DICIOTTESIMA

Florindo e detti.

FLOR. Via di qua. (ad Arlecchino) (I due Servi che puntano, si scostano dal tavolino)

ARL. Me devertisso. (a Florindo)

PRIMO SERV. Perdoni, illustrissimo, anderemo via.

FLOR. No, no; voi fermatevi. Andate via di qua, vi dico. (Li due Servitori partono)

ARL. La me lassa veder sto ponto.

FLOR. Animo, pezzo d’asino. Bella cosa! Il vizio del giuoco? Se giuocherai, ti licenzierò. Un servitore che giuoca, non bada al servizio e ruba al padrone.

ARL. E un patron che zoga, el strapazza el povero servitor, e qualche volta el ghe roba el salario. (parte)

SCENA DICIANNOVESIMA

Florindo, il servitore del casino, poi Lelio e Tiburzio.

SERV. Illustrissimo, anderò via.

FLOR. No. Vada un punto.

SERV. Oh, vuol degnarsi di giuocar con me?

FLOR. Il dieci, a uno zecchino.

SERV. Come comanda. Dieci, a un zecchino. (taglia)

FLOR. Presto, avanti che venga gente.

SERV. Dieci, ella ha vinto. Ecco un zecchino.

FLOR. Rivada il dieci.

SERV. Vada pure. (giuocando)

FLOR. Eccolo, ho vinto.

SERV. Ah, pazienza! Mi ha rovinato.

FLOR. Il tre al banco.

SERV. Vada.

LEL. (Osservate il vizioso, giuoca coi servitori). (piano a Tiburzio)

TIB. (Leviamolo, che non perdesse i denari con colui). (piano a Lelio)

FLOR. Tre, ho vinto.

SERV. Oh povero me! Mi ha sbancato.

LEL. Signor Florindo.

FLOR. Oh amico.

LEL. Che diavolo fate? Non vi vergognate a giuocare co’ servitori?

FLOR. Stavo così provando.

SERV. Ha provato a sbancarmi, e mi ha sbancato.

LEL. Non è vostro decoro. (a Florindo)

FLOR. Dite bene, ma quando vedo giuocare, non posso fare a meno. Va via di qua. (al Servitore)

SERV. Ora mi caccia via? Doveva farlo prima.

FLOR. Va via, ti dico.

SERV. Mi ha vinto vicino a tre zecchini.

FLOR. Hai avuto l’onore di giuocare con me.

SERV. Maledetto quest’onore. (Ma mi rifarò, gli metterò in conto tante carte di più, fino che sarò venuto sul mio). (da sé, parte)

TIB. Caro signor Florindo, voi mi scandalizzate a giuocar con quella sorta di gente. Non avete paura che vi rubino?

FLOR. Oh, a me è difficile.

TIB. (È furbo l’amico!) (da sé, deridendolo)

LEL. E poi arrischiare il vostro denaro contro un piccolo banco?

FLOR. Avete ragione. Ma il desiderio di giuocare qualche volta mi fa fare degli spropositi.

LEL. Se volete giuocare, giuocate con noi. Noi vi serviremo.

TIB. Almeno giuocherete con galantuomini.

FLOR. Oh via, vogliamo fare un taglietto?

LEL. Facciamolo.

FLOR. Ma io non voglio tagliare.

TIB. Taglierò io.

FLOR. Benissimo. (Oggi sono più fortunato a mettere, che a tagliare). (da sé)

LEL. Facciamo portar le carte.

FLOR. Dopo pranzo in questa camera ci si vede poco; andiamo in quell’altra.

LEL. Sì, dove volete.

TIB. Io vi servo per tutto.

FLOR. Andiamo.

SCENA VENTESIMA

Brighella e detti.

FLOR. Preparateci da giuocare in quell’altra camera. (a Brighella)

BRIGH. La favorissa una parola. (a Florindo)

FLOR. Che cosa c’è?

BRIGH. (L’è qua un’altra volta siora Rosaura in maschera). (piano a Florindo)

FLOR. (Per amor del cielo, ditele che vada via). (piano a Brighella)

BRIGH. (Ghe l’ho dito, ma ella tutta lagreme la protesta averghe da dir una cossa de somma premura, che decide del so amor, del so onor e della so vita).

FLOR. (Che diavolo sarà mai! Io non vorrei presso di questa gente dar sospetto. Fate una cosa, introducetela nella vostra camera, e ditele che aspetti un poco, che or ora verrò. Intanto procurerò che gli amici vadano nell’altra camera).

BRIGH. (Sia maledetto el diavolo! Ho rabbia a trovarme in sta sorte d’imbroi). (da sé, parte)

LEL. Signor Florindo, il tempo passa; volete che andiamo?

FLOR. Andate innanzi, che fra poco verrò.

TIB. Se non venite voi, non andiamo.

FLOR. Principiate a giuocar voi due, già io non taglio.

TIB. A solo a solo io non giuoco.

FLOR. Lasciatemi in libertà mezz’ora, ho una cosa da fare.

LEL. Facciamo quattro tagli, e poi ce ne andiamo.

TIB. Se non volete giuocar voi, io vado in un altro casino.

FLOR. (Rosaura mi aspetta, sono ansioso di sapere che cosa ha da dirmi). (da sé)

LEL. Via, vi fate pregare? Oggi vincerete senz’altro: rogatus lude.

TIB. Ma io non prego altro. Schiavo, signori.

FLOR. Fermatevi.

TIB. Andiamo, o non andiamo?

FLOR. Via, per due tagli andiamo. (Rosaura mi aspetterà). (da sé, parte)

LEL. Oggi facciamo del resto. (parte)

TIB. Colle carte in mano non ho paura. (parte)

FLOR. Rosaura è una buona ragazza; aspetterà. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Florindo, poi Brighella.

FLOR. Oh cospetto, cospetto! Oh sorte indegna! Oh fortuna crudele! Oh diavolo, perché non vieni a portarmi via? Li ho persi tutti, non ho più un soldo. Son disperato. Non so più come fare a giuocare; non so più come rifarmi. Dov’è un laccio, che m’appicchi? Dov’è un coltello, che mi passi il cuore? Che dirà la povera sventurata Rosaura?

BRIGH. La diga, comandela che fazza vegnir la siora Rosaura?

FLOR. (Passeggia, e non risponde)

BRIGH. La diga, com’ela andada?

FLOR. Datemi un bicchier d’acqua, per carità.

BRIGH. (Ho inteso, l’è sciutto affatto). (da sé) Vólela che la vegna, o che la vaga?

FLOR. Non so...

BRIGH. La senta sta gran cossa che la gh’ha da dir.

FLOR. Via, fatela venire. (sospirando)

BRIGH. (Oh, gh’è del mal assae). (da sé, parte)

FLOR. Con che cuore ho da parlare a Rosaura? Ah, se mi potessi rifare! La notte è per me favorevole: se aspettavo a giuocar di notte, felice me! Ma li ho persi tutti di giorno. Se per questa sera sapessi dove ritrovar denari, spererei avanti domani ricuperare i perduti.

SCENA SECONDA

Rosaura e detto, poi Lelio di dentro.

ROS. Caro Florindo, voi vi prendete spasso di vedermi penare.

FLOR. (Non so se Brighella le abbia detto che ho giuocato). (da sé) Compatitemi, dove credete voi che ora sia stato?

ROS. Mi ha detto Brighella, che eravate a pranzo con degli amici. Mi pare che si poteva, in grazia mia, terminare più presto.

FLOR. (Brighella è un uomo di garbo). (da sé) Compatitemi. Siamo andati a pranzo tardi; ho avuto degli affari di rimarco. Non crediate già ch’io abbia giuocato.

ROS. Non mi cade nemmeno in pensiere, che dopo le proteste di questa mattina abbiate giuocato più.

FLOR. (Così non lo avessi fatto!) (da sé) Ma, cara signora Rosaura, qual è il motivo che vi conduce nuovamente a favorirmi?

ROS. Un eccesso d’amore che ho per voi. Mio padre è venuto, dopo che siete partito voi, a ritrovarmi, mi ha parlato di voi, e mi ha detto assolutamente che non vuole che io pensi alle vostre nozze.

FLOR. Per qual ragione?

ROS. Perché essendo voi giuocatore, teme precipitarmi.

FLOR. Ma come può esser questo? Se egli sa ch’io non giuoco più, e siamo già fra di noi convenuti?

ROS. Dice che è stato ingannato, che sperava che aveste lasciato il giuoco, ma sa che poco dopo avete nuovamente giuocato. Onde, caro Florindo, vengo a dirvi che io son disperata, che il mio alimento sono le lagrime, e che morirò quanto prima, se non ci trovate rimedio.

FLOR. (Gente infame! Si sa tutto quello ch’io faccio; sarà stato quel briccone di Brighella). (da sé)

ROS. Oh cielo! Non mi rispondete?

FLOR. Rimango attonito, sentendo un discorso simile. Come il signor Pantalone si cambia da un momento all’altro? Abbiamo fra di noi stabilito, che nella settimana ventura seguiranno i nostri sponsali. Qualche mala lingua mi avrà rovinato.

ROS. Bisogna trovar rimedio.

FLOR. Sì, assolutamente, cercherò di veder il signor Pantalone, mi giustificherò, lo placherò, gli farò toccare con mano che non è vero ch’io giuochi, e tutto sarà accomodato.

ROS. Oh cielo! Voi mi consolate. Speriamo che mio padre si placherà?

FLOR. Certamente, e poi pregatelo ancor voi, fatelo pregare dalla vostra signora zia.

ROS. Appunto quella cara signora zia ha delle pretensioni sopra di voi.

FLOR. È ridicola la poverina. Io mi prendo qualche poco di spasso.

ROS. Ha confidato a Colombina, che vi ha imprestati cinquanta zecchini.

FLOR. (Oh vecchia balorda!) (da sé) Sì, le ho fatta una burla.

ROS. In che consiste questa burla?

FLOR. Voglio che ella vi paghi un gioiello al suo marcio dispetto.

ROS. Ma come?

FLOR. Ne ho ordinato uno assai più bello di quello che avete al collo, e a poco per volta la signora Gandolfa lo deve pagare.

ROS. Se se ne accorge, povera me!

FLOR. Fatemi un piacere, lasciatemi vedere quel gioiello, che in questo punto lo voglio confrontare.

ROS. Ma dove?

FLOR. Presto, presto, prima che il gioielliere vada via.

ROS. Dov’è il gioielliere?

FLOR. Qui, in un’altra camera.

LEL. Signor Florindo, venite o non venite? (di dentro)

FLOR. Vengo, vengo; sentite? Il gioielliere mi chiama.

ROS. Tenete, ma fate presto.

FLOR. Vengo subito.

ROS. Non mi lasciate qui lungamente.

FLOR. Vengo subito. (Se vinco trenta zecchini, le porto subito il suo gioiello). (da sé, parte)

SCENA TERZA

Rosaura, poi Brighella.

ROS. Non vedo l’ora che si concludano queste nozze. Finito avrò allora di penare.

BRIGH. Signora.

ROS. Che cosa c’è?

BRIGH. Dov’è el signor Florindo?

ROS. Or ora viene.

BRIGH. Presto, l’è qua el sior Pantalon.

ROS. Oh me infelice! Mio padre oggi mi perseguita.

BRIGH. Che la se sconda, per amor del cielo.

ROS. Dove?

BRIGH. Andemo in sta camera, e la serrerò drento.

ROS. Oh me sventurata! Che ho fatto? Mai più mi pongo ad un simile rischio. (entra, e Brighella chiude)

BRIGH. Gran frasconazze che son ste putte. Per amor no le guarda a precipitarse.

SCENA QUARTA

Pantalone e detto, poi Lelio e Tiburzio

PANT. Missier Brighella, dove xe sior Florindo?

BRIGH. Mi non lo so in verità.

PANT. Saralo forse a zogar?

BRIGH. No ghe so dir: in casin no credo che el ghe sia.

PANT. Vardè se lo trovè, diseghe che ghe vôi parlar.

BRIGH. La servo subito. (E intanto siora Rosaura sta in preson). (da sé, parte)

PANT. Poco de bon! Tocco de desgrazià! El me promette de no zogar, e po el zoga a rotta de collo? Zogo e donne! Donne e zogo! Ghe darò quindesemille ducati, acciò che el li zoga in t’una notte? No, no, voggio licenziarlo de fatto, e mia fia nol la gh’averà più.

TIB. (Dove diavolo il signor Florindo ha ritrovata questa gioja?) (piano a Lelio)

LEL. (Chi sa! L’avrà avuta da qualche innamorata). (a Tiburzio)

TIB. (Ma chi sa se varrà cento zecchini?)

LEL. (Per quello che ci costa, la possiamo prendere).

TIB. (La farei veder volentieri).

LEL. Aspettate; la sorte ci favorisce. Quello è un mercante che negozia di gioje; facciamola vedere a lui.

TIB. È galantuomo?

LEL. Sì, è onorato. Signor Pantalone.

PANT. Patron mio reverito.

LEL. Vorrei supplicarla d’una grazia.

PANT. La comandi. Mi non ho l’onor de cognosserla.

LEL. Conosco io vossignoria, e so essere un mercante onorato e di credito.

PANT. Tutta so bontà.

LEL. Ella s’intende perfettamente di gioje.

PANT. Le zoggie xe uno dei mi mazori capitali.

LEL. Questo cavaliere ha una pioggia da vendere, e vorrebbe che vossignoria facesse grazia di stimarla.

PANT. Lo servirò volentiera, e ghe dirò sinceramente la mia opinion.

TIB. Eccola, signore, favorisca dirmi la sua opinione.

PANT. (Oimè, cossa vedo! La pioggia de mia fia? Oh poveretto mi! Coss’è sta cossa?) (da sé)

LEL. Signore, perché fa tante ammirazioni?

PANT. La diga, sior conte, da chi ala abuo sta pioggia?

TIB. Ciò a voi non deve premere; stimatela, e non cercate di più.

PANT. Anzi voggio saver da chi la l’ha avuda.

LEL. (Sta a vedere che la pioggia è rubata). (da sé)

TIB. Io l’ho comprata per cento zecchini.

PANT. Da chi l’ala comprada?

TIB. Da uno che non conosco.

PANT. La sappia, patron reverito, che sta pioggia la xe roba mia.

TIB. Come roba vostra?

PANT. Sior sì, roba mia. La giera della felice memoria de mia muggier, e adesso la portava mia fia. La cognosso, perché sarà cinquant’anni che la gh’ho in casa; la sarà stada robada. O la diga chi è stà che ghe l’ha vendua, o farò i mi passi, e la sarà obbligà a render conto de sto latrocinio.

LEL. (Amico, la cosa va male; non entriamo in impegni). (piano a Tiburzio)

TIB. (Ma ho da perder la pioggia?) (piano a Lelio)

LEL. (Piuttosto perder la pioggia, che perder la libertà).

TIB. (Non dite male).

PANT. Voggio saver da chi l’ha avudo sta zoggia, o se no... Basta, la vederà cossa ghe succederà.

TIB. Signor Pantalone, per dirvi il vero, non l’ho comprata, ma l’ho vinta al giuoco.

PANT. E a chi l’ala venza?

TIB. Al signor Florindo Aretusi.

PANT. Come! A sior Florindo? Oh poveretto mi! Che el sia stà a casa de mia fia? Che el gh’abbia tolto le zoggie? Che quella desgraziada lo abbia recevesto? Che mia sorella gh’abbia dà libertà? Son in t’un mar de confusion; no so in che mondo che sia.

TIB. Io sono un uomo onorato, signor Pantalone; ho arrischiato il mio denaro, e ho vinto. Non voglio perder cento zecchini; se la pioggia è vostra, datemi li cento zecchini, e ve la lascio.

PANT. No ve daria gnanca un bezzo, e non so chi me tegna che no vaga a denunziarve, e no ve fazza cazzar in t’una preson.

LEL. (Andiamo via). (piano a Tiburzio)

TIB. Questa è una prepotenza.

LEL. (Andiamo via). (come sopra, a Tiburzio)

PANT. E la vostra la xe una baronada. Sè ladri, sè furbazzi.

LEL. (Ma andiamo via, mi sento i birri alle spalle). (a Tiburzio)

TIB. (Maledetto Florindo! Egli me la pagherà). (parte)

LEL. Signor Pantalone, voi siete un galantuomo, siete un uomo onesto. Tenete la vostra pioggia, e vi prego di non parlare di noi, e di me specialmente, che vedete non c’entro per nulla. (Ho una paura d’andar prigione, che tremo. Ecco il bel frutto delle vincite che si fanno malamente al giuoco. Si trema sempre, si ha timore di tutti, non si ha coraggio di dire la sua ragione, si vive una vita infame, e si fa spesse volte una morte ignominiosa). (da sé, parte)

PANT. Son fora de mi. Fazzo cento pensieri, uno pezo de l’altro. Che el sia stà da mia fia? Ma quando? Che el gh’abbia tolte le zoggie? Ma come? Che ella ghe le abbia dae? Ma per cossa? El vegnirà sto desgrazià, saverò da ello... Ma da Florindo cerco la verità de sto fatto, e no da mia fia? Xe più facile saverlo da ella, che da lu. Subito vôi andar da Rosaura, e prima colle bone e po colle cattive, voggio che la me diga la verità. (parte)

SCENA QUINTA

Florindo e Brighella

FLOR. Ma dov’è il signor Pantalone?

BRIGH. Sior Pantalon no gh’è più, l’è andà via.

FLOR. E la signora Rosaura?

BRIGH. L’è ancora serrada in quella camera.

FLOR. Vado via, non ho cuor di vederla.

BRIGH. Ma perché ghe vòlela usar sto atto de crudeltà?

FLOR. Senza la pioggia di diamanti, non so come presentarmi.

BRIGH. No diselo che la ghe l’ha dada co le so man?

FLOR. Sì, è vero, ma sono in impegno di restituirla.

BRIGH. Cossa vólela far? Qua no gh’è remedio. Bisogna dirghe la verità e domandarghe scusa.

FLOR. Ah, non vorrei che ella sapesse la cosa com’è.

BRIGH. A st’ora za la sa tutto: da quella camera l’ha sentido tutto, e sa el cielo cossa averà fatto el dolor in quella povera innamorada.

FLOR. Oh cielo! Presto, aprite quella camera. Voglio gettarmi a’ suoi piedi, le voglio chieder perdono.

BRIGH. La diga, ala perso tutti i zecchini?

FLOR. Sì, tutti; non me ne restano che otto soli.

BRIGH. E i me diese che ho speso in tel disnar?

FLOR. Non mi tormentate.

BRIGH. Me par che el tormento sia mio, se li ho da perder cussì miseramente.

FLOR. Ah maledetto giuoco!

BRIGH. (Lu l’è desperà, e mi ho da perder diese zecchini). (da sé)

FLOR. Via, aprite quella stanza, non tormentate più quella povera ragazza.

BRIGH. La se ferma qua. La farò vegnir fora; là drento no voggio che se ghe vada.

FLOR. Farò come volete.

BRIGH. (No vorria che la desperazion ghe fasse far qualche sproposito colla morosa). (da sé, va ad aprire la camera)

FLOR. Come sosterrò io la presenza di una donzella giustamente irritata? Quali addurrò discolpe delle mie menzogne, delle mie infedeltà?

BRIGH. Siora Rosaura, la favorissa, la vegna fora.

SCENA SESTA

Rosaura e detti, poi Beatrice.

ROS. Oimè! Soccorretemi, ch’io mi sento morire.

FLOR. Non ho coraggio di mirarla in viso.

BRIGH. La se fazza animo; a tutto gh’è rimedio.

ROS. Florindo traditore! Dov’è la mia pioggia?

BEAT. Si può entrare? (di dentro)

FLOR. (Oh diavolo! Ecco Beatrice). (da sé)

BRIGH. Vien zente; la torna in camera. (a Rosaura)

ROS. Una donna?

BRIGH. Presto, la no se lassa véder.

ROS. Andiamo, andiamo a morire. (entra in camera)

BRIGH. (Ste donne le mor e le ressuscita presto; per mi me la batto). (da sé, parte)

SCENA SETTIMA

Florindo, poi Beatrice.

FLOR. Ora mi converrà soffrire quest’altro tormento. Ma non voglio che Rosaura senta. Fermerò Beatrice in quest’altra camera. (va per partire, e Beatrice lo ferma)

BEAT. Dove, signor Florindo?

FLOR. Veniva ad incontrarvi.

BEAT. Obbligatissima; dopo d’avermi fatto fare un’ora d’anticamera?

FLOR. Andiamo in quest’altra stanza.

BEAT. Vi sono delle persone che giuocano. Voglio parlarvi che nessuno mi senta.

FLOR. Giuocano?

BEAT. Sì, giuocano, traditore! Così m’ingannate?

FLOR. Io non v’inganno. Vi dirò tutto. Zitta per amor del cielo, non mi fate svergognare al casino. Ditemi, vi è un bel banco?

BEAT. Ho veduto dell’oro assai.

FLOR. Il banco vince, o perde?

BEAT. I puntatori vincono.

FLOR. E io, quando metto, perdo sempre. Vi sono de’ bravi puntatori?

BEAT. Non ci perdiamo in simili bagattelle. Giustificatevi, se potete. Provatemi non esser vero che abbiate ad altra donna promesso.

FLOR. (Ora se giuocassi, sarebbe la mia fortuna! Se vincessi cento zecchini, potrei ricuperare la pioggia). (da sé)

BEAT. Voi non mi rispondete?

FLOR. (L’onor mio vuole ch’io arrischi tutto, per comparir galantuomo). (da sé)

BEAT. La vostra confusione m’assicura della vostra reità.

FLOR. Trattenetevi per brev’ora, e vi farò vedere che la mia confusione non procede per avervi mancato di fede. (parte)

SCENA OTTAVA

Beatrice, poi Rosaura

BEAT. Chi sa dirmi qual senso abbiano le parole di questo perfido?

ROS. (Non posso più trattenermi; la gelosia mi trasporta. Finalmente è una donna, posso arrischiarmi di parlar seco). (esce mascherata dalla camera, dove erasi ritirata)

BEAT. Chi è mai questa maschera?

ROS. Signora, perdonate l’ardire: sapete voi dirmi dove sia andato il signor Florindo?

BEAT. Or ora deve qui ritornare. Ma ditemi, il signor Florindo è qualche cosa di vostro?

ROS. Acciò non facciate sinistro concetto di me, sappiate che egli deve essere mio sposo.

BEAT. Vostro sposo?

ROS. Sì, signora: perché di ciò vi maravigliate?

BEAT. A ragione mi maraviglio, poiché Florindo ha impegnata a me la sua fede.

ROS. Possibile che ciò sia vero?

BEAT. Eccovi la sicurezza di quanto vi dico. Conoscete il carattere di Florindo?

ROS. Ah perfido! Lo conosco pur troppo.

BEAT. Osservate, questa è la scrittura di sua mano formata.

ROS. Ah indegno! Permettetemi ch’io me ne assicuri, e la legga.

BEAT. Leggetela pure quanto v’aggrada.

ROS. Prometto con mio giuramento di sposare la signora Beatrice Anselmi... Oh menzognero! Così mi tradisci? Così inganni una povera sventurata? Anima perfida! Anima scellerata! Potessi lacerare quel cuore infame... (straccia la scrittura)

BEAT. Ehi, che cosa fate?

ROS. Sono accesa di collera; se mi venisse colui davanti, lo vorrei sbranare colle mie mani. (straccia il resto della scrittura)

BEAT. Voi avete lacerata la mia scrittura.

ROS. Compatitemi, la collera mi ha trasportata.

BEAT. Se credessi che potesse esser malizioso il vostro trasporto; se immaginar mi potessi che aveste voluto levarmi di mano la ragione di pretendere sopra il cuor di Florindo, vi farei pentire di un sì temerario attentato.

ROS. No, v’ingannate. Amai Florindo quanto me stessa, l’amai col più tenero amore che amar si possa, ma poiché lo conosco bugiardo, infedele, l’amor mio si è convertito in fierissimo sdegno, e per darvi una riprova della verità, ecco la scrittura di quel perfido mentitore, ridotta in pezzi come la vostra. (straccia la sua scrittura)

BEAT. Vendichiamoci dunque della sua infedeltà coll’abbandonarlo.

ROS. Per me non lo amerò più certamente.

BEAT. Né io sarò più sì debole per credere ad un mendace.

ROS. Eccolo ch’ei ritorna.

BEAT. Batte i piedi e si morde le dita.

ROS. Il perfido avrà giuocato.

BEAT. Se ha perduto i denari, ha perduto quanto aveva di buono.

ROS. Ritiriamoci, ed osserviamo che cosa sa fare. (si ritirano)

SCENA NONA

Florindo e le suddette, ritirate.

FLOR. Perché non viene un fulmine a incenerirmi? Perché non viene il carnefice a strozzarmi? Anche gli otto zecchini sono andati, e quel ch’è peggio, venti ne ho persi sulla parola: e questi come li pagherò?

BEAT. Signor Florindo...

FLOR. Maledetta voi, per causa vostra ho giuocato, per causa vostra ho perduto.

BEAT. Per causa mia?

FLOR. Sì, voi mi avete detto che giuocavano...

ROS. Povero signor Florindo, lo fanno giuocare per forza.

FLOR. (Oh diavolo!) Signora Rosaura, la vostra pioggia... Il gioielliere... oggi la porterà.

ROS. Non v’è bisogno che il gioielliere s’incomodi, poiché l’ha ricuperata mio padre. Ecco, signor Florindo, svelate tutte le vostre belle virtù. Mi avete promesso di non giuocare, e mi avete mantenuta esattamente la vostra parola; mi avete data la fede di sposo, senza ricordarvi dell’impegno che avete colla signora Beatrice. Mi avete carpita dalle mani una gioja, e l’avete sagrificata al vostro dilettissimo giuoco: siete un indegno, siete un perfido, un mancatore. Confesso avervi amato, e l’amor mio pur troppo mi ha fatto far dei passi falsi, sino a venire due volte in un giorno a ritrovarvi al casino. Ci venni, sperando in voi un uomo onorato, uno sposo fedele, ma poiché siete un’anima scellerata, vi abbandono, v’odio; e assicuratevi che a voi più non penso. Mi avete stamane regalata una tabacchiera, tenetela, ch’io non voglio di voi memoria. (la getta in terra) Vergognatevi dei vostri inganni, arrossite delle vostre infedeltà, e imparate ad essere più onorato, se non volete terminare i giorni vostri con una sì grande infamia. Perfido, scellerato, impostore, vi odio quanto v’amai, e vi abborrirò fin che io viva. (parte)

BEAT. (Ora che si è sfogata Rosaura, tocca a me dirgli l’animo mio). (da sé)

FLOR. (Prende da terra la scatola)

BEAT. Dopo aver formata scrittura meco, avete ardire di promettere fede ad un’altra? Rispondetemi. Con qual faccia avete potuto farlo?

FLOR. (Questa scatola potrebbe essere la mia fortuna). (da sé, parte)

BEAT. Indegno! Così mi lascia? Ma il rossor lo ha fatto partire. Non ha coraggio di sostenere i miei giusti rimproveri. Poco però m’importa. Già di lui io era oramai nauseata. L’amavo perché era ricco, amavo l’onore di divenire sposa d’un uomo di conto, ma poiché il giuoco l’ha rovinato, poiché divenuto è miserabile, di lui non mi curo, ed incomincio da questo momento a figurarmi di non averlo mai conosciuto. (parte)

SCENA DECIMA

Florindo, inseguito da Agapito

AGAP. Voglio i miei denari.

FLOR. Son galantuomo, vi pagherò.

AGAP. Io non voglio aspettare. Quando perdo, pago; e quando vinco, voglio esser pagato.

FLOR. Datemi tempo sino a domani. Dentro le ventiquattro ore pagherò.

AGAP. Signor no, prima di giuocare avete detto di pagar subito, e io ho giuocato con questo patto.

FLOR. Venite qui, facciamo altri due tagli. Guadagnatemi sino a cinquanta zecchini, e vi pagherò.

AGAP. Datemi prima li venti, e poi taglierò.

FLOR. Mantenetemi giuoco.

AGAP. Fuori denari, e ve lo manterrò.

FLOR. Denari ora non ne ho.

AGAP. Se non avete denari, assicurate il mio credito con della roba.

FLOR. Che roba volete che io vi dia? Ho perso anche la tabacchiera.

AGAP. Quella non l’avete persa con me. Al mio banco non si giuoca che coi denari.

FLOR. Domani vi pagherò.

AGAP. Siete un uomo senza fede e senza parola.

FLOR. Mi maraviglio, son un uomo d’onore.

AGAP. Siete un uomo indegno. Avete giuocato per vincere, senza poter pagare perdendo. Chi giuoca in questa maniera, può dirsi un ladro. Meritereste ch’io vi facessi spogliare; ma sono un galantuomo, e non lo voglio fare. Vi do tempo sino a domani, e se domani non mi pagate, vi fo romper l’ossa con un bastone. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Florindo solo.

FLOR. Questo ci mancherebbe per coronare la mia buona fortuna. Ma che diavolo ho io in queste mani? Sempre perdere, sempre perdere? Che fogli son questi? Paiono di mio carattere. (trova le scritture stracciate) Questa è la scrittura ch’io ho fatto a Beatrice: stracciata? Questa è quella ch’io ho fatto a Rosaura: anche questa in pezzi? Rosaura mi piacerebbe, le volevo bene; ma ora che ha scoperte le mie debolezze, è meglio che mi abbia fatto il regalo della scrittura stracciata. Qualche cosa bisognerà pensare per rimediare alle mie piaghe. Ricorrerò a quella buona vecchia di Gandolfa. Mi preme pagar il debito de’ venti zecchini. Procurerò di andar in casa, senza che la signora Rosaura lo sappia.

SCENA DODICESIMA

Tiburzio e detto.

TIB. Una parola, signor Florindo.

FLOR. Che cosa comandate?

TIB. Favorite di pagarmi cento zecchini.

FLOR. A che motivo vi ho da dare cento zecchini?

TIB. Io ho arrischiato il mio denaro. La pioggia non era vostra, si è trovato il padrone, ho dovuto restituirla, e voi mi siete debitore di cento zecchini.

FLOR. Chi v’ha detto, che deste via la pioggia che mi avete vinto? Ella era roba mia, e non si doveva dare senza di me.

TIB. Orsù meno ciarle, voi sapete la cosa com’è; ed io voglio i miei cento zecchini. O roba, o denaro.

FLOR. Come? Siamo noi alla strada?

TIB. Che strada? Sono un galantuomo, ho vinto, e voglio esser pagato.

FLOR. Contentatevi di quello che avete portato via.

TIB. Ho arrischiato il mio sangue. Se perdevo, pagavo. Ho vinto, mi avete dato una gioja che non è vostra; o pagatemi, o mi pagherò colle mie mani.

FLOR. Che prepotenza è questa? Così si tratta con gli uomini onorati?

TIB. Siete un truffatore.

FLOR. Voi siete un ladro.

TIB. A me ladro! Ah giuro al cielo, ti caverò il cuore. (mette mano alla spada)

FLOR. Ah traditore! coll’armi alla mano? (si difende colla spada)

TIB. O pagami coi denari, o mi pagherai col tuo sangue. (battendosi partono)

SCENA TREDICESIMA

Strada

Pantalone e Brighella

PANT. Brighella, son desperà, Brighella, son morto. Brighella, no posso più.

BRIGH. Cos’è stà, sior Pantalon?

PANT. Non trovo in nessun logo mia fia. Da mia sorella no la xe più tornada; a casa mia no la xe vegnua; da so zermana no la xe mai stada, xe do ore che la manca co quella desgraziada de Colombina; no se sa dove che le sia andae, no se pol saver dove che le sia. Poveretto mi! Rosaura, fia mia, dove xestu, anema mia? Ah, che daria per recuperarla el mio sangue, el mio scrigno, el mio cuor.

BRIGH. Sior Pantalon, me maraveio che la daga in tutte ste smanie. Adesso in sto ponto vegno mi da casa de siora Gandolfa, e la siora Rosaura l’è in casa, e l’ho vista mi coi mi occhi.

PANT. Diseu dasseno? Oh cielo, te rengrazio! Ma la sarà vegnua a casa, dopo che mi son andà via.

BRIGH. Oh giusto! l’è stada sempre in casa.

PANT. Ma dove gierela, che non l’ho trovada in nissun logo?

BRIGH. L’era in soffitta.

PANT. Cossa favela?

BRIGH. Mi no so gnente. Le donne gh’ha delle ore, che no le vol che se sappia cossa che le fazza.

PANT. E Colombina?

BRIGH. L’era in compagnia della so patrona.

PANT. Ho chiamà, e no le m’ha sentìo?

BRIGH. Le ha sentido.

PANT. Mo perché non ale resposo?

BRIGH. Perché le no doveva poder responder.

PANT. Vu me mettè in qualche sospetto.

BRIGH. Vólela so fia?

PANT. La voggio certo.

BRIGH. La vada a casa, che la la troverà.

PANT. Ma disè...

BRIGH. Servitor umilissimo.

PANT. Vegnì qua, respondème.

BRIGH. La reverisso devotamente. (parte)

PANT. Vardè che sesti! Cussì el me impianta? Basta, se mia fia xe a casa, son contento. Pol esser che la se sia sconta per paura della pioggia; non ho gnancora podesto saver come che la sia. Quella alocca de mia sorella no xe bona da gnente. Mia fia no ghe la voi più lassar. Vago subito a veder se posso rilevar...

SCENA QUATTORDICESIMA

Lelio e detto.

LEL. Di lei appunto, signor Pantalone, andavo in traccia.

PANT. Coss’è, patron? Gh’ala qualch’altro zogiello da far stimar?

LEL. Voi avete fatto metter prigione il signor Tiburzio.

PANT. Sior sì; gh’elo in cottego? Gh’ho piaser.

LEL. Vi è pur troppo; i birri lo hanno preso in questo momento, e senz’altro anderà in galera. Io per mia disgrazia sono stato in sua compagnia. Sono un uomo d’onore, e per sua cagione ho fatta una trista figura. Abbiamo giuocato a metà; abbiamo vinto al signor Florindo trecento cinquanta zecchini per uno. Tiburzio l’ha ingannato, ed io ora solamente ho saputo esser egli un giuocator di vantaggio, ed arrossisco per essermi accompagnato con lui. Egli proverà la pena, ed io provo il pentimento. In questa borsa vi sono li trecento cinquanta zecchini; a voi li ritorno, che siete per essere il suocero del signor Florindo, come poc’anzi solamente ho saputo. Spero che gradirete quest’atto di mia onestà, che contro di me non farete passo nessuno, e mi permetterete ch’io parta da questa città, dove non avrò coraggio di presentarmi mai più.

PANT. Sior Lelio, sto atto de giustizia che ella fa, prova che ella non ha operà mal per costume, ma per accidente. Le male pratiche le conduse al precipizio, e l’esempio cattivo fa cattivi anca i boni. Accetto i tresento cinquanta zecchini. La ringrazio ancora in nome del sior Florindo, al quale darò sti bezzi, anca sibben che no l’è mio zenero. La vaga senza paura, che el cielo la benediga. Ma la diga, cara ella, la pioggia l’ha veramente persa el sior Florindo?

LEL. Sì, ve lo giuro sull’onor mio.

PANT. Furbazzo! e el sostegniva de no.

LEL. Niuno confessa volentieri aver commesso un delitto; anzi non vi è reo, per isfacciato ch’egli sia, il quale non procurasse, potendo, di celar la sua colpa. Per questa parte dovete compatirlo, e stabilire la massima, che il giuocatore vizioso impara facilmente ad essere mancatore e bugiardo. (parte)

PANT. Ah, pur troppo el dise la verità; e sto desgrazià de Florindo per el zogo el s’ha precipità. Sti tresento cinquanta zecchini ghe li darò, perché mi no i posso tegnir, ma ghe li darò malvolentiera, perché za el li tornerà a zogar. Chi gh’ha sto vizio in ti ossi, difficilmente lo pol lassar. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Camera

Gandolfa e Pancrazio

GAND. Venite qua, signor Pancrazio, so che mi volete bene; venite qua, che voglio confidarvi una cosa in segreto.

PANC. Sì, signora Gandolfa, son qui ad ascoltarvi. Confidatevi in me; sapete che vi voglio bene.

GAND. State bene? Avete prese le pillole?

PANC. Sì, le ho prese questa mattina, e mi pare di star meglio.

GAND. Ancor io da questa mattina in qua sto meglio assai.

PANC. Voi le avete prese?

GAND. Non le ho prese, ma le prenderò.

PANC. Prendete le pillole, che vi sentirete ringiovinire.

GAND. Oh signor Pancrazio, ho una pillola nel cuore, che mi fa diventar giovane di vent’anni.

PANC. Una pilloletta? Chi l’ha fatta?

GAND. Un bravo speziale.

PANC. Come si chiama?

GAND. Si chiama il signor Cupido.

PANC. Il signor Cupido?

GAND. Sì, il signor Cupido, che vuol dire quel furbettello d’Amore, mi ha data una pillola da inghiottire, che m’ha riempita di fuoco, e mi ha messa in brio, e bisogna ch’io mi mariti.

PANC. Oh caro speziale! Onorato signor Cupido! Le sue pillole non mi dispiacciono, e anch’io sono in grado di ricorrere alla sua spezieria per una di queste pillole prodigiose.

GAND. Anche voi volete che vi venga voglia di maritarvi?

PANC. Per volontà non ho bisogno di pillole, ma bensì per l’effetto che dite voi di provare.

GAND. Ditemi, per qual cagione?

PANC. Per mettermi in brio.

GAND. Oh che caro vecchietto!

PANC. Oh che graziosa sposina!

GAND. Vi dirò, ho pensato che non ho veruno amico di cuore, e che quando sarò vecchia, non avrò alcuno che mi governi, e per questo ho risoluto di maritarmi.

PANC. Sì, fate benissimo.

GAND. Io ho della dote; sapete che avrò quasi tremila ducati d’entrata. Quando morirò, non so a chi lasciare la mia roba; se potessi aver un figlio, avrei la maggior consolazione del mondo.

PANC. Chi sa? Lo potete sperare.

GAND. Non sono poi in età tanto avanzata, che non lo possa avere.

PANC. E poi, se volete prole, vi è il suo rimedio.

GAND. Come?

PANC. Prendete le pillole.

GAND. Sì, non dite male, le prenderò.

PANC. E le prenderò ancor io, e le cose anderanno bene.

GAND. Eh, per voi dubito che le pillole non gioveranno più.

PANC. Perché?

GAND. Perché la lucerna è vicina a spegnersi.

PANC. Sentite, se è vicina a spegnersi la mia, è vicina a spegnersi anco la vostra.

GAND. Che cosa dite? Da voi a me c’è una bella differenza.

PANC. Che differenza c’è? Siamo nati quasi insieme, e siamo sempre stati insieme, e tanti sono i miei, quanti i vostri.

GAND. Eh via, che siete pazzo. Io era fanciulla, eravate un asino grande e grosso.

PANC. Io son nato dell’anno mille seicento ottanta, e voi di che anno siete nata?

GAND. Oh, vedete quanto son più giovine di voi. Io son nata del mille seicento settantaquattro.

PANC. Buono! Avete sei anni più di me.

GAND. Come sei anni più di voi? Non è vero.

PANC. Settantaquattro e sei ottanta, il conto non falla.

GAND. Voi non sapete niente.

PANC. Orsù, lasciamo andare questo discorso. Voi per maritarvi siete al caso, ed io son qui, forte e lesto come un paladino.

GAND. Oh, voi per maritarvi non siete più in tempo.

PANC. No? Perché?

GAND. Perché siete vecchio e pieno di malanni.

PANC. E voi?

GAND. Eh io mi mariterò.

PANC. Voi sì, ed io no?

GAND. Certo, guardate che maraviglie!

PANC. E chi avete intenzion di volere?

GAND. Un giovinotto di primo pelo.

PANC. Un giovinotto?

GAND. Signor sì, e per confidarvi tutto, sappiate che questi è il signor Florindo.

PANC. Eh via, che burlate!

GAND. Dico davvero.

PANC. E non vi vergognate? Una vecchia di settantasei anni prendere un giovinotto?

GAND. Settantasei diavoli che vi portino; signor sì, voglio un giovinotto.

PANC. Vi prenderà per la dote.

GAND. Certo! Per la dote?

PANC. Dunque perché?

GAND. Per le mie bellezze.

PANC. Oh bellina!

GAND. Avete invidia? Crepate.

PANC. Vi mangerà tutto, e poi vi pianterà.

GAND. Ho io delle maniere, che quando un uomo le conosce, non mi lascia più.

PANC. Voi mi fate ridere.

GAND. Vi fo ridere? Guardate se voi in tanti anni mi avete mai potuto lasciare!

PANC. Vi ho sofferta.

GAND. Sofferta? Bene, bene, parlate per gelosia.

PANC. Vi ho sempre creduta una donna savia.

GAND. E adesso che cosa sono?

PANC. Siete... quasi, quasi ve lo direi.

GAND. Andate a prendere le pillole.

PANC. Maritarsi di quell’età?

GAND. Signor sì.

PANC. Prender un giovinotto?

GAND. Signor sì.

PANC. Un giuocatore che manderà in rovina la casa?

GAND. Giuocatore? Florindo è giuocatore?

PANC. E come! Si è precipitato a causa del giuoco.

GAND. Non è vero, la gelosia vi fa parlar così.

PANC. Certo che io vi volevo bene.

GAND. Via, caro signor Pancrazio, contuttociò potrete venir da me.

PANC. Sì, ma il signor Florindo...

GAND. Temete ch’ei sia geloso, è vero? Basta, mi regolerò con prudenza.

PANC. Più tosto, se volevate maritarvi... mi sarei offerto io.

GAND. Per me siete troppo vecchio.

SCENA SEDICESIMA

Colombina e detti.

COL. Signora Gandolfa.

GAND. Che cosa volete?

COL. Vi è il signor Florindo...

GAND. Florindo! Oh caro, oh vita mia!

COL. È venuto in casa di nascosto a tutti, e mi ha pregata ch’io l’introduca da voi: volete che lo faccia venire?

GAND. Sì, subito, fatelo venire. Presto, presto, che venga.

COL. (Vorrà mangiar qualche cosa a questa vecchia, mi ha promesso un filippo, se lo fo passare). (da sé, parte)

GAND. Se avete da fare qualche cosa, potete andare.

PANC. Mi cacciate via, eh?

GAND. Ma, caro voi, che cosa volete far qui?

PANC. Pazienza. (si asciuga gli occhi)

GAND. Poverino! Non piangete, che già vi vorrò bene.

PANC. Non credeva mai...

GAND. Via, che fate piangere ancor me.

PANC. Basta.

GAND. Povero vecchio!

PANC. Se mi voleste bene!...

GAND. È qui il signor Florindo; andate via.

PANC. Io certamente...

GAND. Andate via.

PANC. Non vi avrei mai lasciata.

GAND. Andate via, che siate maledetto.

PANC. A me?

GAND. Andate, che il diavolo vi porti.

PANC. Vado... (Andatevi a fidar delle donne. Non si può sperar fedeltà nemmeno di settantasei anni). (da sé, parte)

GAND. Oh che vecchio minchione! Vorrebbe ch’io prendessi lui, invece di un giovane? Oh, non fo di questi spropositi!

SCENA DICIASSETTESIMA

Florindo con un braccio al collo, e detta.

FLOR. Riverisco la signora Gandolfa.

GAND. Che c’è, figlio mio? Che cosa avete? Vi siete fatto male?

FLOR. Son caduto e mi sono slogato un braccio.

GAND. Poverino! Quanto mi dispiace!

FLOR. (Non voglio che ella sappia che sono stato ferito). (da sé)

GAND. Vi duole assai?

FLOR. Oh, non è niente. (Scellerato Tiburzio! Egli è in carcere a pagare il fio). (da sé)

GAND. Mi parete sbattuto, avete avuto paura?

FLOR. Sono agitatissimo.

GAND. Per qual cagione? Confidatevi in me, vita mia, che vi consolerò.

FLOR. Per causa della mia lite ho tutti i miei effetti sequestrati. Ho dei debiti, e se non pago, mi vogliono cacciar prigione.

GAND. Oh povero giovine! Non vi mancherebbe altro.

FLOR. Voi mi potreste aiutare.

GAND. Di quanto avreste bisogno?

FLOR. In circa cento zecchini.

GAND. Ah Florindo, se voleste, io rimedierei a tutto.

FLOR. Oh me felice! Voi mi consolate; ditemi, che far deggio per meritarmi la vostra grazia?

GAND. Volermi bene.

FLOR. Io vi amo teneramente.

GAND. Se ciò fosse vero, stareste bene voi e starei bene anch’io.

FLOR. Io dico la verità, vi voglio bene assai.

GAND. Caro figlio, mettete da parte il rossore, e ditemi se avreste difficoltà di sposarmi.

FLOR. Sposarvi?

GAND. Sentite, vi assegnerò mille ducati l’anno d’entrata, e mille ve ne sborserò subito, acciocché possiate fare i fatti vostri.

FLOR. (Eppure per causa del giuoco mi converrà sposare una vecchia). (da sé)

GAND. Via, che cosa rispondete?

FLOR. Signora, quanti anni avete?

GAND. Veramente sono un poco avanzata, saranno ormai quarantaotto.

FLOR. (Oh maledetta! Credo ne abbia ottanta). (da sé)

GAND. Se volete, facciamo presto.

FLOR. (Che cosa farò?) (da sé)

GAND. Malanni io non ne ho; avevo qualche piccolo incomodo, ma ho preso le pillole e son perfettamente guarita.

FLOR. (Finalmente creperà presto). (da sé) Signora Gandolfa, voi siete una donna assai ben conservata, vi amo teneramente, e se volete, vi sposerò.

GAND. Oh caro! Siate benedetto! Mi sento consolata tutta.

FLOR. Ma con patto che dei mille ducati l’anno, e dei mille che mi date subito, m’abbiate a far donazione.

GAND. Sì, sì, ve la farò, ve la farò.

FLOR. (Oh giuoco indegno! Per causa tua ho da sposar un cadavere?) (da sé)

GAND. Quando faremo le nozze?

FLOR. Quando volete.

GAND. Io sono all’ordine anche adesso.

FLOR. E i denari?

GAND. Datemi la mano di sposo, e ve li do subito.

FLOR. La mano?... Sì, ecco la mano.

SCENA DICIOTTESIMA

Rosaura e detti.

ROS. Signora zia, mi rallegro con lei.

GAND. Che cosa c’è, signora, avete invidia?

FLOR. Signora Rosaura, la vostra crudeltà mi fa fare una simile risoluzione; voi m’avete scacciato, ed io mi sposo per disperazione.

GAND. Non gli credete, vedete; ei mi sposa perché mi vuol bene.

ROS. Oh, so benissimo perché la sposate. Perché il giuoco vi ha rovinato, perché il giuoco vi ha reso miserabile; avete giuocato tutto, siete pieno di debiti, non avete più il modo di giuocare, e voi venite ad ingannare questa povera vecchia, lusingandovi con i suoi denari poter continuare ne’ vostri scelleratissimi vizi.

GAND. Che cosa sento! Siete un giuocatore? Vi siete giuocato tutto? Siete pieno di debiti? Mi volete assassinare? Non vi voglio più per isposo.

FLOR. Cara signora Gandolfa, non mi abbandonate per carità; ho giuocato, è vero, ma non vi è pericolo che io giuochi più.

GAND. Non giuocherete più?

ROS. Non gli credete; anche a me l’ha promesso, e poi ha mancato.

FLOR. Sono disingannato. Conosco che non posso vincere. Per causa del giuoco ho avuto mille disgrazie; vedete questo braccio? Per causa del giuoco ho avuto una ferita.

GAND. Oh poverino! Siete stato ferito a causa del giuoco? Non giuocherete più?

FLOR. No certamente.

GAND. Ma non mi fido.

FLOR. Ve lo giuro sull’onor mio.

ROS. Qual onore, perfido, qual onore! L’avete villanamente macchiato.

GAND. Via, signora, non lo strapazzate.

FLOR. Signora Gandolfa, a voi mi raccomando. Eccovi la mia mano, se la volete.

GAND. Date qua, caro.

FLOR. E il denaro?

GAND. Ci penserò.

SCENA DICIANNOVESIMA

Pantalone e detti.

PANT. Cossa feu qua, sior? (a Florindo)

FLOR. Perdonatemi...

GAND. Via, signore, è in casa mia, voi non c’entrate. (a Pantalone)

PANT. Gh’intro, perché ghe xe mia fia.

GAND. Vostra figlia conducetevela a casa vostra.

PANT. Siora sì, siora sì, la menerò a casa mia. Sior Florindo caro, za se semo intesi, co mia fia no ve n’avè più da impazzar.

FLOR. Pazienza.

ROS. (Ancora provo della pena, ancora internamente io l’amo). (da sé)

PANT. Un tal sior Lelio, che xe uno de quelli che i v’ha barà, m’ha dà sti tresento cinquanta zecchini, confessando averveli robai, e pregandome che ve li daga. Tolè e andeli a zogar. (a Florindo)

FLOR. Signore, certamente io non giuoco più.

PANT. La solita canzonetta: non giuoco più.

FLOR. Questa volta il proponimento è immancabile.

GAND. Signor no, signor no, non giuoca più; lo ha promesso a me, e non giuocherà più.

PANT. Promesse da zogadori. Tolè sti bezzi, e quanto scomettemo che doman no ghe n’è più?

FLOR. Signor Pantalone, giacché avete avuta tanta bontà per me, vi prego di una grazia. Tenete questi trecento cinquanta zecchini, vi darò la nota di alcuni miei debiti, vi pregherò di pagarli, non mi date che quanto può bastarmi a vivere, poiché io certamente non voglio giuocar mai più.

PANT. (Se nol vol bezzi in te le man, se pol sperar ch’el diga dasseno de no zogar più). (da sé) Basta, i tegnirò per farve servizio.

ROS. (Florindo pare rassegnato). (da sé)

GAND. Vedete se egli è un buon giovane? Venite qua, Florindo; alla presenza di mio fratello, datemi la mano.

PANT. Coss’è? Mia sorella deventa matta?

FLOR. Signora Gandolfa, da voi non voglio altro: mi era ridotto a sposarvi per una estrema disperazione. Ora che il cielo m’ha provveduto, e posso sperare col tempo di rimediare alle mie disgrazie, non voglio sagrificare la mia gioventù ad un cadavere puzzolente.

GAND. Che cos’è questo cadavere puzzolente? Io non puzzo né punto, né poco; ma credo che voi burliate, e so che mi volete bene.

FLOR. Vi rispetto, ma non vi amo. Siete vecchia, e non fate per me. Signor Pantalone, favorite darle cinquanta zecchini, che ella mi ha prestati.

PANT. Volentiera, ve li darò, siora, ve li darò. E no ve vergognè de sta etae...

SCENA VENTESIMA

Pancrazio e detti.

PANC. Riverisco lor signori. Signora Gandolfa, sono fatte queste nozze?

GAND. (Oh caro il mio vecchietto, non ho cuore d’abbandonarvi. Vi voglio troppo bene, e se mi volete, io sposerò voi). (piano a Pancrazio)

PANC. Questa sera prenderò le pillole, e domani vi darò risposta.

FLOR. Signora Rosaura, voi mi avete con ragione scacciato, ma non credeva che l’amor vostro potesse tutt’ad un tratto in odio cangiarsi.

ROS. Ah signor Florindo, lo dico alla presenza del mio genitore: il labbro vi sprezza, ma il cuore ancor vi ama, e se potessi lusingarmi che foste per cambiar vita non sarei lontana dal ridonarvi la fede.

PANT. Anca mi v’ho volesto ben, e ve ne vorria ancora se muessi vita, se lassessi el zogo.

FLOR. Prometto al cielo, prometto a voi, di non giuocar mai più.

PANT. Staremo a véder. Un anno de tempo ve dago per far prova del vostro proponimento, e se sarè costante, mia fia sarà vostra muggier.

FLOR. Voi mi consolate: che dice la signora Rosaura?

ROS. Siatemi fedele, ed io non amerò altri che voi.

GAND. Volete aspettare un anno a sposarvi? Nipote mia, i miei confetti si mangieranno prima dei vostri. È egli vero, signor Pancrazio?

PANC. Dopo le pillole, ci parleremo.

FLOR. Chiedo nuovamente perdono alla mia cara Rosaura e all’amorosissimo signor Pantalone de’ miei passati trascorsi. Spero che in quest’anno vedrete il mio cambiamento, e quale sarà quest’anno, saranno in appresso tutti gli altri della mia vita. Lascierò sicuramente il giuoco, giacché il giuoco è la fonte di tutti i vizi peggiori, e non si dà vita più miserabile al mondo di quella del Giuocatore vizioso.

Fine della Commedia.