Il maestro

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Il maestro

di

Giuseppe Manfridi

Una sera sul far dell’estate. C’è di quell’aria che si potrebbe dire: scintilla. Tanto tersa che i suoni e le voci sembrano trasmettersi con eccezionale velocità.

In uno striminzito giardinetto che allude all’appartamento di cui è la prosecuzione.

Né vento né afa. Una serata perfetta per ritrovarsi a conversare tra amici.

Una tavola con su i resti di una cena per quattro. Tanti sono gli intuibili coperti senza più ordine nella mescolanza dei piatti, delle bottiglie semivuote e dei bicchieri semipieni. Pallottole di tovagliolini di carta e croste d’anguria. Torsi di frutta spolpata e un’insalatiera di plastica trasparente con più niente dentro se non tracce d’unto. Da filamenti elettrici che terminano aggrovigliati tra rami sparuti, l’affanno mite di piccole luci. Suoni soffici da fuori, anche di musiche lontane, e ronzii che scendono dai piani alti.

Sono in tre attorno alla tavola. Tre giovani uomini. Legati tra loro da pochissimo affetto. Ma non per dei motivi detti, bensì perché così, nella vita di chi realmente vive, è normale che sia. Costoro hanno condiviso poche cose insieme, e quelle poche non per loro volontà e sono ormai lontanissime. Gli anni di scuola. Alcuni anni di scuola.

Stanno masticando i loro ultimi bocconi e attardandosi in qualche sorso ancora.

Sapremo di uno che si chiama Marco, e di un altro che si chiama Luca.

L’altro, poiché mai càpita che venga chiamato, non è mai nominato.

Da ultimo sopraggiungerà anche il personaggio che, in qualche modo, dà titolo alla storia. Diciamo: l’uomo. Pure di lui non si sa il nome. Si sa solo chi è.

La battute dei quattro personaggi vengono specificate da simboli che sono:

§, per colui che viene chiamato Marco;

&, per colui che viene chiamato Luca;

X, per colui che non viene chiamato mai;

@, per l’uomo.

Questo perché le cose dette mantengano anche al colpo d’occhio tutta la loro superiorità su chi le dice. I nomi propri raramente intarsiati nelle battute sono, qui, un fatto che appartiene a chi li pronuncia e non a coloro che, tramite questi nomi, vengono, apparentemente, chiamati.

Le prime battute provengono come da una lunga pausa.

Nessuno dei tre sembra smaniare per parlare con l’altro.

......................................................................

&: Ma per telefono, esattamente, cosa ti ha detto?

X: Che era d’accordo. Poteva. E che gli faceva anche molto piacere.

&: Dunque, sicuro.

X: Sicurissimo.

§: E la voce?

X: La sua. Non stanca.

&: Forse si poteva proporgli di passarlo a prendere.

§: Mica è un vecchio. Ne avesse avuto bisogno lo avrebbe chiesto. Non ha mai nascosto le sue necessità.

&: Non sarà vecchio, ma l’hanno ridotto a fare una vita da vecchio.

X: Non credo che l’abbiano obbligato a smettere.

&: Di fatto, però.

X: A quanto sapevo io, l’ha voluto lui.

§: Possibile, ce lo vedo.

&: Io no. Magari la decisone sarà anche stata sua, ma va’ a sapere cos’era successo.

§: Semplice, che non gli andava più.

&: Mah.

(Uno di loro esce per tornare con una bottiglia di liquore. Si è già servito e sta bevendo. Lascia la bottiglia sul tavolo per gli altri. Dice: "Di fresco non c’è più niente. Solo acqua di rubinetto". Prende una caraffa quasi vuota dal tavolo e, centellinandone il liquido residuo, annaffia qualche pianta.

Quello chiamato Marco approfitta del liquore appena portato. Sempre che non sia stato lui ad alzarsi)

§: Ah, non ve l’ho detto. L’ho cercato tempo addietro per proporgli una lezione all’Università.

X: Da te, a Legge? E che c’entrava?

§: Col Diritto moltissimo. Dal mio punto di vista, almeno, moltissimo.

&: E allora?

§: M’ha risposto che sarebbe stato disposto a venire, ma solo per sentirla non per farla. Confesso, non l’ho presa bene. Ce ne ho messo un po’ per convincermi che non lo aveva detto in modo sarcastico.

&: Logico. Una tua lezione che fosse specchio di una sua: questo avrebbe voluto sentire.

§: L’avrei deluso. Meglio per tutti e due che sia finita lì. Ma stasera, francamente, ci tenevo.

X: Tu, ad esempio, cosa gli devi? Ci hai mai... ci avete mai riflettuto bene? Noi tutti: cosa gli dobbiamo?

&: A me ha aiutato, ma è una risposta in chiave del tutto personale, a superare una crisi.

X: Va bene, ma seppure il tuo problema era personale, e non ne dubito, l’utilità ti è venuta da un rapporto non personale. In pratica: quello che diceva a te lo diceva anche a noi.

&: Sì, ma io gli davo il senso necessario alla mia crisi personale. La chiave è nella premessa di ogni sua lezione: "Parlo a tutti, ma solo ognuno di voi m’ascolta. Ciascuno di voi, perciò, faccia - come lo sentissi adesso - buon uso di me."

X: "Io non mi interpreto: voi mi interpretate." - Questo mi ricordo io.

§: A me qualche volta stordiva. Confesso, non mi ha lasciato molto.

X: E come mai sei stato proprio tu a volerlo qui con noi stasera?

§: Non in aggiunta a noi. Dì bene: a volere noi qui con lui stasera. Per questo. Per riaverlo di fronte. E non l’ho voluto più di voi.

&: Diciamo che sei quello che ha lanciato il sasso.

§: Non più di voi.

X: Addirittura una sassaiola.

§: O lo stesso sasso lanciato a tre mani.

&: Qualcuno prende ancora qualcosa?

X: Non mi sembra sia rimasto molto.

&: Del vino sì.

X: No, grazie.

&: Tu?

§: Ne ho, mi basta.

&: Che in fondo, se ci pensate, è quasi impossibile recuperare il momento vero e proprio, dico l’istante esatto, di un primo incontro fra noi. Intendo: fra noi tutti della nostra classe, e lui. Quasi neanche fosse mai successo. Nessuno che se ne ricordi. Cioè, come di un fatto tanto importante quanto poi si è rivelato.

§: Che elucubrazioni. Se ti sentisse, t’applaudirebbe.

&: No, davvero. Il primo giorno del primo anno, quando entrò che ancora non lo conoscevamo, in fondo chi entrò? Uno qualsiasi. E tale rimase a lungo. Per me, come per tutti. Vero o no? D’altronde è una sensazione che ci siamo già confidati reciprocamente e che ha trovato riscontri puntualissimi dall’uno all’altro. Tanto per cominciare, pure tra noi. Non è così?

X: Sì, effettivamente.

&: E questo fin quando lui ha cominciato, non è un termine che uso a caso, ad apparire in noi. Separatamente per ciascuno, in modi e in tempi diversi, ma ad apparire. Ecco come stanno le cose. Per questo gli restiamo così legati. Vero o no?

(Silenzio. Gli altri due bevono)

&: E’ una domanda che vi rivolgo seriamente: vero o no?

§: Sei famelico di conferme. D’accordo, vero.

&: Lui è apparso in noi come il nostro maestro. Non subito. Perciò è accaduto. Ovviamente non è stato, almeno per me ma ritengo anche per te e per te, il ‘coup de foudre’ della fanciullina per il suo professore. No, dopo. Nella distanza. Tanto che tu un giorno mi hai chiamato, e io proprio quel giorno avevo chiamato lui - (l’altro) dico te - per la stessa identica ragione ma senza trovarti. E pochi giorni appresso, come per telepatia, abbiamo ricevuto entrambi una tua lettera in cui la proposta era messa per iscritto.

X: Non avevo francamente intenzione di scrivere solo a voi, ma eravate gli unici di cui avessi ancora gli indirizzi.

&: Da quant’è che ci pensavi?

X: Molto. Sono un nostalgico. Io mi volto spesso indietro per cercare di rimettere al passo le truppe del passato.

&: E tu, perché mi hai chiamato?

§: Mi andava di rivederlo ma non da solo.

&: Trovi stonato quello che ho detto?

§: E’ una metafora. Dà l’idea ma non il fatto.

&: E te?

X: Sì, mi ci ritrovo. Ora non so se con tutto il tuo entusiasmo, ma neppure con tutta la sua accidia. A ogni modo sì. Ne avevo bisogno. Era un po’ che volevo farlo ma non da solo.

§: No, aspetta un attimo. Accidia di chi? Mia?

X: Ormai è leggenda. Tientela e vanne fiero.

&: Nel mio caso considerate che io non ho seguito, come voi, le stesse ombre. Io non trasmetto ad altri. Non ho cattedre. Né scolastiche né universitarie. Solo qualche supplenza a suo tempo che non è certo bastata a verificarmi in tal senso. No. Io ingerisco. Ho fatto di me la mia classe. Quel che tento di capire me lo insegno. Scrivendo. Finora solo due libri, che m’hanno dato un grande successo, il primo, e un grande insuccesso, il secondo.

X: Sì, abbiamo saputo di entrambi.

§: Non li ho potuti leggere. Il tuo primo l’ho chiesto due volte e due volte l’ho trovato esaurito. Per il secondo sono arrivato che già lo avevano ritirato dalle librerie.

&: Se lui avesse mai scritto qualcosa, foss’anche poco ma indicativo del suo pensiero, oggi sarebbero in molti a vedere in me solo un epigono. Per mio buona fortuna, la sua fonte è d’acqua magica. Disseta solo lì dov’è. A trasportarla svanisce. Per il mondo non esiste.

X: Ma per noi sì. Ti abbiamo in pugno. Sta’ attento a te.

&: E tu mi hai letto?

X: Solo il primo, che mi è parso invece un corpo a corpo con i mostri della sua logica. Sì, lui c’è. E’ presente, eccome. Pervade tutto. Ma come un nemico.

&: Un nemico a cui, nel mio secondo, ho restituito la palma della vittoria. Ed è andata come è andata.

§: Tale e quale alla nostra serata. Abbandonati a noi stessi. Riflesso eufemistico di ciò che è avvenuto qualche annetto fa.

X: Parecchi anni fa.

§: Evitiamo di contarli.

&: Io provo a richiamarlo.

§: Ormai non troverebbe neanche più nulla da mangiare.

&: Per stare tranquilli.

(Va)

X: E non a dire che ci fossero dubbi. Mi sembra molto strano.

(Un silenzio che è tempo di attesa. Viene versato e bevuto vino. Finché l’altro torna)

X: Novità?

&: Zero.

§: Diciamolo. Ci ha mandato in bianco.

X: Almeno ci siamo rivisti noi.

&: Si rifarà?

§: Per me, purché rimanga una cosa nostra, sì.

&: Ma riprovando a coinvolgere anche lui?

X: Innanzitutto ci sarebbe da capire che diavolo è successo stasera.

§: Io non ci ho parlato, ma se l’aveva dato per certo.

&: A me ha detto sì al cento per cento. Si è pure offerto di portare un dolce.

§: Che, difatti, ci è mancato.

X: Si può sempre uscire. Chiudere la cena andando a prendere qualcosa fuori.

&: Direi di no. Potrebbero arrivare notizie.

§: Voi cosa avete saputo di lui in questi anni?

&: Io niente di niente.

X: Quell’uomo fa parlare di sé solo quando è presente. Altrimenti sembra che il mondo nemmeno lo contempli.

§: Ora, però, stiamo parlando di lui.

&: In ragione della sua assenza, in quanto presenza irrealizzata.

§: Ma ne avrete pur sempre parlato qualche volta a qualcuno. Tu?

X: Poco. Direi più no che sì. No.

§: E tu?

&: Se sì, vagamente. Cioè, non ho, in questo senso, ricordi particolari. E non che non ci abbia pensato. Perché tu, invece?

§: Ne ho fatto, una volta, argomento di una lezione. Ma senza citarlo.

X: Come mai?

§: Sarebbe rimasto ugualmente anonimo, ma con meno suggestione. E, dato quel che avevo da dire, la soggezione doveva avere una gran parte.

(Da oltre la grata che dà sulla strada , velato dalle fronde scure dei rampicanti, compare l’ospite atteso ma ormai impreveduto. Sottile come una lisca di pesce e limpido come la luna. Ha con sé una scatola di pasticceria confezionata a cupola. Una volta entrato la poggerà su un angolo del tavolo dimenticandola lì)

@: Allora? Come mi avete ripescato, birbanti?

&: Professore!

&: Non pensavamo più, oramai. Che piacere!

X: Venga, entri. E’ aperto.

(L’uomo si porta all’interno del giardino. Scruta per bene i tre, uno alla volta)

@: Tu sei Marco o ricordo male?

§: No, benissimo. Buonasera, Professore.

@: Con te, invece, ho parlato per telefono.

X: Difatti stavo giusto dicendo... eravamo, capisce, un po’ preoccupati.

@: E tu?... Ah, la mia testa.

&: Luca.

@: Luca, è vero. Ho letto di te.

&: O forse proprio che mi ha letto? Può essere.

@: No. Ti ho, ma non ti ho letto. Grazie, a proposito, per avermi fatto avere i tuoi scritti. Ma io non leggo più. Ciò non significa che non mi abbia fatto piacere riceverli. Né, tanto meno, che la mia libreria non sia in continua crescita. Altroché. La carta è importante possederla. Che ci sia. Ma leggere, no. Basta. Non posso, mi spiace. Comunque i tuoi volumi sono lì in prima fila. Traspirano. Prima o poi ne capirò qualcosa, e senza bisogno di leggerli. Dunque. Come mi avete ripescato? Ma scusate, intanto mi siedo.

X: Facile. Dalla scuola. Hanno registrato tutti i suoi cambi d’indirizzo.

@: Anche dopo che ho smesso?

X: Già. Vede? Non smettono di interessarsi a lei.

@: E’ odioso.

&: L’avranno fatto per la comodità di chi vuol fare altrettanto.

@: Ancora più odioso.

&: Direi affettuoso, piuttosto.

@: E voi? Rimasti sempre in contatto?

&: A distanza. E non solo noi tre. Lei ha sfornato una classe di pensatori, lo sa?

@: Temo più di una.

X: La nostra di sicuro. Siamo quasi costretti a rubarci il lavoro l’un l’altro.

@: Pure se ho saputo di qualche sciagura.

X: Eh, purtroppo.

@: E di altri destini un po’ sviati. Mentre voi, invece: i migliori prima e adesso. Io fumo, tanto siamo all’aperto. Lo dico perché fumo pesante.

(E fuma. Sigari)

§: Pensavamo che non avrebbe smesso mai di insegnare. Perché ha voluto farlo tanto presto?

@: Da quando ho smesso di leggere. Il che ha coinciso con la mia impossibilità di restituire ciò che assorbivo. Vale a dire: non davo più. Il grave non era tanto per chi non riceveva. Questo, ancora ancora, pur se censurabile l’avrei potuto sopportare e far sopportare - ma per me, che non eliminavo. E tutto, dentro, cresceva. Niente veniva assorbito né espulso. I pensieri avevano cessato di replicarsi e ramificavano. Se parlavo dicevo cose nuove senza più ripetere le vecchie. Orrendo. Non potevo evitarlo ma dovevo evitarlo. Io, lo sapete, mi sono sempre rinfrancato nel riazzerare i miei discorsi. Bene: non mi accadeva più. Una somma continua. Ero come colui che fosse arrivato prossimo al numero delle parole apprendibili. A me è accaduto con le connessioni. Nessuna che ripiegasse più sulla precedente invertendo la rotta. Esteriormente, una crisi. Per me, una falla a cui metter mano al più presto. Così ho preferito ritirarmi in buon ordine, badare a me, e rimettermi in sesto. Ma veniamo a noi. Poi, con calma, vi spiegherò tutto. Ma prima voi.

&: Siamo qui. Felicissimi di rivederla.

@: Oh... con chi è che ho parlato?... Con te. Purché non sia, gli ho detto, una rimpatriata. Vero o no?

X: Verissimo.

@: Rimpatriate, mai.

X: Gliel’ho promesso sul mio onore.

@: Niente misture sentimentali. Qualsiasi cosa, ma inchiodata al presente. Tu, Marco: a occhio e croce, se ho buona memoria, sei quello che più di tutti dovrebbe essere d’accordo.

§: Non so a che pensa. Forse ricorda qualcosa che mi sfugge.

@: Niente in particolare. Gli impulsi del tuo carattere. A dirlo in una parola: refrattario. Ti ci ritrovi?

§: Più oggi che allora.

@: Era un punto in cui mi somigliavi, perciò non l’ho dimenticato. E da certe posizioni, sta’ tranquillo, non si recede più.

§: Ma è che a me sono accadute certe cose. Sono queste che mi hanno fatto così.

@: Gravi? Mi spiace.

§: Determinanti.

@: E io che ho detto? Un punto in cui ci somigliamo. Sarà un punto in cui, evidentemente, si somiglieranno anche le nostre vite. Fra le cose c’è attinenza. Ma inutile indagare. Perché mostrarsi la biancheria a vicenda? Meglio lasciar perdere - E voi?

X: Come ci vede.

&: C’era una gran voglia di rincontrarla. E’ bastato farsi un fischio, poi cercarla, e non mi pare vero: riaverla qui.

@: Quel che si si vuole, accade. Ma non chiedetemi troppo, la delusione sarebbe certa. Se poi, addirittura, a te basta solo che mi mostri: a tua disposizione.

&: Sa che vorrei, Professore? Confrontarci su quello che è rimasto di quanto ci ha insegnato.

@: Vuoi che scappi? Ti prego, non pensarci nemmeno. Io per anni vi ho parlato di tutto. Anche di troppo. Per dirla col poeta: del troppo pieno che simula il vuoto. Ma mai, mai!, ho usato la parola ‘insegnare’. Smentitemi, se potete.

X: Vero, altroché. O almeno solo per negarla. Ogni lezione la finiva così: "Vi ho insegnato qualcosa? Speriamo di no."

@: Io vi ho solo dato risposte a domande che vi costringevo a formulare, dopo, da soli. La risposta era una, le domande tante. Una per ciascuno di voi. Una per te, una per te, una per te. Se questo sia insegnare francamente non lo so.

&: Non mi è mai sembrato che fosse questo il suo metodo. Perlomeno, non l’ha mai dichiarato.

@: L’insieme delle mie risposte era , in sé, risposta alla domanda che molti dei tuoi compagni, invece, sono sicuro, dopo e da soli si sono posti. Prova a dirla tu, provaci adesso: che domanda?

(Un silenzio)

&: Quale il suo metodo? - Ho detto bene? E’ giusto?

@: Quale il mio metodo. Perfettamente.

§: Mi dispiace, a me è sfuggita. Sarò più tardo di comprendonio. Almeno questa potrà essere una discriminante o no?

@: Affatto. La mia dialettica apparentemente inversa, dalla risposta la domanda e così via, non è un sistema che si aggiunga ai precedenti, e che perciò vada capito. Tutt’altro. E’ un modo di perseguire l’istinto umano. Non di manipolarlo, ma di scrutarlo. - Che dire? Un cane sotto padrone abbaia perché, mettiamo, vuole essere portato fuori. In questo caso, essochiede. Se abbaiasse dopo che fosse stato portato fuori, lo farebbe per ringraziare. Ringraziare per ciò che non si è chiesto è come porsi la domanda per ciò che si è già saputo.

X: Difatti non è nell’istinto del cane abbaiare dopo.

@: Sì, che lo è: nell’istinto del cane migliore.

§: E se io non intendessi diventare migliore?

@: Ma tu non devi diventarlo. Tu già lo sei: prima di diventarlo. Se vuoi evitare te stesso, fa’ pure. E’ a te che resisti, non a me.

§: Facile.

@: La mia risposta sì, quel che ti tocca meno.

§: Che mi tocca perché?

@: Per sceglierti. E per scegliere nel nugolo che ti si affolla dentro il migliore che c’è. Il cane non abbaia per ringraziare, è vero, ma potrebbe farlo. Se non lo fa è solo perché non si fida abbastanza di se stesso finendo anch’esso, in tal modo, con l’evitarsi. Peccato per lui, spero non per te. Potrei avere un goccio di vino, per cortesia?

(Luca gliene versa e dice)

&: Ti ha messo a tappeto.

§: Non pensavo fosse un duello.

@: Difatti Luca ha detto una sciocchezza. Giustificata dalla lietezza della serata.

&: Per carità, era solo una battuta.

@: Che, difatti, è cosa lieta.

§: Benvenuto sul tappeto.

X: Com’è che ha fatto così tardi, Professore?

&: Davvero non vuole che le si vada a prendere qualcosa? Non è rimasto molto ma qualcosa sì.

@: Non potrei mandar giù un boccone, credimi.

X: Dicevo del ritardo.

@: Ho avuto un incidente.

X: Dio mio, grave?

@: L’ho causato, e dunque l’ho avuto.

&: Già, ha del sangue lì sulla mano. Me ne accorgo solo adesso.

@: Ho sangue, ma non ferite. Questo sangue non è mio.

X: E anche lì, sulla scarpa.

@: Già, l’ho visto. Sulla scarpa non è grave, sui vestiti di più.

(L’uomo beve, e con grande godimento. Sino a vuotare il bicchiere. Schiocca la lingua. Li guarda che lo guardano in attesa)

@: Com’è difficile essere nel presente. Ma che beatitudine a riuscirvi. Raggiungendovi mi tormentava l’idea se dirvelo o no. Stavo malissimo. Naturale. Fuggivo il presente. Venendo, io non pensavo al mio venire da voi, ma al mio stare qui. Ragionavo con la testa di chi viene presumendo di capire la natura di chi sta. Errore gravissimo. Motivo per cui si è trattato di una pessima passeggiata. Lo prova il fatto che avevo deciso per il no. Ma ora, qui, con voi, tutto aderisce: il presente di ciò che è, al presente di ciò che vivo. E il mettervi a parte del mio incidente ne è la prova lampante.

§: Ci ha detto solo che l’ha avuto, ma non di che si è trattato.

@: Ah. Già. - Ho massacrato mia moglie e mia figlia. Non era previsto. Perciò ho tardato.

X: Massacrato nel senso che avete avuto una discussione?

@: No. Col ferro da stiro. Ma non è questo che importa. Un altro goccio, per piacere.

§: E cos’è che importa?

@: Un altro goccio.

X: Ah, sì. M’ero distratto.

(E il bicchiere viene riempito di nuovo)

§: Cos’è che importa?

@: La domanda. La domanda che prendeva sostanza nel mio massacrarle: "Voi mi amate?". La domanda a cui loro hanno risposto per anni senza che io mai la formulassi. Inevitabilmente, quando lo avessi fatto, come stasera è accaduto, non avrebbe più potuto avere prosecuzione quel fragile legame su cui il nostro piccolo nucleo si fondava. - Vi vedo un po’ vuoti. Ne vogliamo discutere insieme?

§: Capiamoci. E’ un gioco.

@: Se tu lo vuoi, sì.

§: Non se io lo voglio. La storia del massacro: un ‘absurdum’.

@: Sì.

§: Ah, ecco.

@: In quanto esemplificazione di un punto di vanità.

§: Insomma: loro non sono morte.

@: Questo non è importante.

§: Ma è importantissimo, invece! Sapere se si tratta di parlarne in teoria o nel concreto.

@: Nel qual caso ne parleresti comunque?

§: No, agirei.

@: Cioè?

§: Chiamerei qualcuno. Per forza. Non potrei non farlo.

@: Mi faresti arrestare?

§: Ma certo. Anzi, più che certo.

@: E tu?

&: Sì, pur io credo di sì.

@: E tu?

X: Quantomeno, se ne avessi il coraggio, andrei a vedere se sono ancora vive. Sì, questo lo farei. Coraggio o no.

@: Nel primo caso, invece, ne parlereste.

X: Ovvio.

@: Ma se io vi proponessi la questione in teoria , per una mia reale esigenza di approfondimento, e quindi sobbarcandomi ‘in toto’ la certezza della teoria come un fatto compiuto, voi perché non dovreste fare altrettanto? La questione che pongo è più che legittima, e lo è dal momento che in quel caso, l’avete detto, voi simulereste. Tanto da poterne parlare. E mi tradireste nella mia richiesta di aiuto. Vi prego di non deludermi così. Accettare in teoria vuol dire accettare in pratica. Ragion per cui, se vi dicessi: "Mia moglie e mia figlia sono state massacrate teoricamente ma a me serve, come presupposto, che ciò sia avvenuto realmente. Lo accettate questo?... Non vi costa nulla.", voi senz’altro lo accettereste. Ma, allora, se avete detto che agireste, perché in questo caso non agireste?

(Un tempo di sbandamento)

§: Lei non ha massacrato sua moglie e sua figlia.

@: Questo non è importante.

&: Ma come? Due vite umane.

@: Se sostengo di averlo già fatto ciò significherebbe che non ci sarebbe più nulla da fare. Perciò, comunque, si tratterebbe di due vite teoriche. Non più ipotizzabili se non come ipotizzabili e basta. Ovvero, come materia di discussione. Se l’argomento, piuttosto, fosse: "Io le massacrerò!", - sentite il ‘rò’: futuro, ‘rò’ - allora sì avrebbe senso parlare di ‘vite umane’ con quello slancio che hai avuto tu prima.

§: Professore, ora forse mi è chiaro il punto per cui tante volte ho avuto ripugnanza per i suoi discorsi.

@: Oh, finalmente. Dì.

§: Lei non riesce ad avere un’immaginazione etica. Mai.

@: Mai?

§: Mai.

@: Non ci riesco?

§: No, non ci riesce.

@: Ti sembra che ci provi? Ch’io passi le mie giornate a provarci?

§: Io non le conosco le sue giornate.

@: Meglio. Presumile. Io ho saputo presumerti.

§: Sapendo che tanto non riuscirebbe ad averla, avrà anche smesso di provarci.

@: Ahimè, che brutti momenti debbo aver passato deludendomi sino a tal punto.

§: Probabilmente.

@: Se io ti dico: tu non riesci a cavalcare un bufalo impazzito, non lo dico perché ti abbia mai visto provarci e non riuscirci, ma perché, appunto, lo presumo. Avendo una certa idea di te e avendo una certa idea di quello che può essere un bufalo impazzito posso formulare una terza idea che mi mostra l’assoluta improponibilità di te su quello. Ma il mio dirtelo non ti cambia. A te non serve cavalcare un bufalo impazzito. Né, ritengo, ti piacerebbe. In più: essendo cosa del tutto al di là dei tuoi interessi nemmeno t’interesserebbe replicare: "Chi gliel’ha detto?". D’un lampo il tuo ragionamento coinciderebbe col mio e capiresti che nessuno me l’ha detto, e che ovviamente lo so come lo sanno tutti. Te compreso.

§: Questo senz’altro. Ma forse le domanderei: "Perché me l’ha detto?"

@: E tu perché mi hai detto: lei non riesce ad avere un’immaginazione etica?

§: Perché è così.

@: E questa sarebbe pure la mia risposta a te.

X: Ma, alle strette, per dire che?

@: Quello che ho già detto. Che la volontà d’avere una fantasia etica sta a me, quanto a lui, a Marco, quella di cavalcare un bufalo impazzito.

&: Insomma, per lei la pietà non è nulla?

@: La pietà è segreta.

&: Ma è o no? E’ qualcosa o no?

X: Anzi, ancor meglio - scusami, Luca, se specifico - : la pietà può qualcosa o no?

@: La pietà può ed è. Può/essere. E può essere cosa? Un segreto.

§: Non giochi con le parole. Risponda, una volta tanto!

@: Stupido.

§: Ora perché?

@: Per non giocare con le parole. Quello che mi urgeva ho detto.

§: Pur di non rispondere, certo.

@: Tu vuoi, impudicamente, che io ti dica quanto ho sofferto e se ho sofferto nel massacrare quelle due poverette. Quanto prima, quanto durante, e quanto dopo. Tu mi dici: Professore, si spogli. Per cosa? Per una sciocchezza. Perché sei curioso di una sciocchezza. Di sapere quanto soffro.

§: No. Di sapere quanto hanno sofferto loro.

@: Bene. Vuoi nudi anche i miei defunti.

§: E quanto, mi faccia terminare, il pensiero della loro sofferenza avrebbe potuto condizionarla. Ecco quello che vorrei sapere. Insomma: quanto e quale, per lei, il potere della pietà?

@: Immenso, ma non sui fatti. E tanto meno sui fatti compiuti. La mia pietà era immensa, ma questi sono i fatti.

X: Ma allora dov’è che si affettuerebbe il suo potere?

@: Nella manipolazione che essa opera sul nostro tempo presente. La pietà di ciascuno, sul tempo di ciascuno. Dunque, sulle nostre singole vite. Perciò il suo potere è immenso. Voi, ad esempio, state parlando con un uomo che vi si offre nel pieno di uno stato di pietà. Ogni sillaba che ci scambiamo ne è condizionata. Ne è condizionata la nostra comunicazione e quel che ne porteremo via. Perciò, infine, ne saremo condizionati in futuro, e nella misura in cui questa comunicazione che qui ci lega saprà pesare sui nostri rispettivi futuri.

X: Lei provava pietà, e le ha uccise lo stesso?

§: Non ‘lo stesso’. Diversamente, anzi. Diversamente da come l’avrei fatto se non avessi provato pietà.

&: E cioè?

@: Le avrei uccise senza pietà.

§: Bella questa. Con un ferro da stiro, invece! Ci sarebbe stato da augurarglielo che non ne avesse provata.

@: Un ferro da stiro è un ferro da stiro per chi lo usa come tale. Per una testa che lo riceva addosso è solo un colpo. A te, ammettilo, raccapriccia soprattutto la traslitterazione del codice. Un bastone avrebbe fatto meno effetto, perché non avrei dovuto sottrarlo a un’altra sua funzione come col ferro da stiro ho fatto usandolo per quello che, sostanzialmente, è: un peso pesante al massimo grado. Tanto che si dice: uccidere a bastonate. Plurale. O: con un colpo di ferro da stiro. Singolare. La barbarie inerente al ferro è, in definitiva, un tuo preconcetto. Di te in quanto depositario in differita del mio gesto. Lo scandalo, insomma, tu lo trovi essenzialmente nel linguaggio. Posso assicurarti che, nel darsi del mio gesto, una volta risolutomi per il ferro, né il ferro si è in alcun modo opposto a essere soprattutto peso, né mia moglie né la mia piccola hanno gemuto: "No, proprio col ferro da stiro, no!"

§: Non ne avranno avuto il tempo.

@: Non nego che abbiano gemuto, questo sì. Ma nego che lo abbiano fatto in ragione del ferro da stiro. L’avessero fatto per questo ma allora l’interezza della loro esclamazione - quandomai avessero avuto il tempo di svilupparla in discorso - avrebbe potuto essere: "No, col ferro da stiro, no! Con quello, se proprio devi, al massimo stiraci!"

X: Sta di fatto che quel ferro da stiro le ha ammazzate.

@: Per piacere, vediamo di non perdere il terreno conquistato. Siamo precisi: quel peso le ha ammazzate. Il ferro da stiro, s’è detto - addirittura l’ho fatto artificiosamente dire a quelle sciagurate per compiacervi - poteva solo stirarmele. Ma, grazie a Dio, nell’oggetto la funzione non è naturale. Se così fosse, pur volendo io colpirle quello me le avrebbe comunque, per l’appunto, stirate. Invece, con l’istantanea e plurime intelligenza che solo gli oggetti hanno, quel ferro da stiro, tra i più sofisticati e costosi, si è d’un lampo trasformato in puro peso senza valore. Io l’ho solo dovuto sostenere, e sollevare. Dopodiché, l’andar giù è stata tutta opera sua. La direzione della caduta ha specificato il colpo. I due colpi.

&: Ma quella direzione era voluta da lei.

@: Certo, essendo io il richiedente e, quello, solo un complice.

X: In termini cinematografici, si direbbe una soggettiva del ferro da stiro. Come vista da lui.

@: No, casomai dal peso.

X: Già, dal peso. Come vista dal peso. In avvicinamento rapido.

@: Rapidissimo.

§: E le ha massacrate.

@: Ormai sì, inevitabilmente.

§: Inevitabile che? L’averlo fatto o l’averlo dovuto fare?

@: La risposta è nel nesso fra queste due proposizioni: ‘farlo’ e ‘averlo dovuto’.

§: E’ troppo chiederle la compiacenza di tradurre?

@: Semplice. Io non volevo farlo, ma se dovevo ho voluto, e ho così esaudito il mio dovere che, in quanto dovere, è già un assurdo dichiararlo ‘mio’. Se debbo pentirmi, è l’Etica che deve pentirsi.

§: L’ha frantumata, Professore. Lei ci ha messo a parte di un delitto inutile.

@: Ma questo è stato un’ora fa. Tutto ciò che è stato un’ora fa argomenta l’ora presente che, se avesse voce, direbbe: per essere come sono, quel delitto mi è utile. Anzi, indispensabile.

X: Ma se lei non l’avesse commesso, l’ora presente sarebbe comunque giunta.

@: Non così com’è.

X: E che opportunità ha l’ora presente ad essere così com’è?

@: Di esistere. Essendo così essa è, ed è se stessa e non un’altra.

X: E che opportunità ha il mondo per il fatto che l’ora sia questa e non un’altra?

@: Quella che hai tu nell’essere castano.

X: Mi creda, non ucciderei nessuno per rinascere biondo.

@: Ma può essere che tu sia castano perché qualcuno, ‘ab origine’, abbia ucciso qualcun altro. E oggi tu non rinunceresti più a essere nato castano.

§: Ma questo è un inferno tautologico. Nulla dice nulla.

@: E allora perché vi accalorate per un delitto che non può dirsi nulla? Voi avete l’umana tendenza, e queste sono scorie delle quali mi dolgo di non avervi a suo tempo spurgato, ad allestire teatrini emotivi. Avete dato, insomma, per implicito che dicendovi: "Ho fatto questo e questo" io avessi intenzione di sfogare. Voi avete dato corso a una situazione inerente a me che non mi contempla affatto. E perché mai? Perché voi, forse, avreste sfogato. Certo: vi sembra naturale e giusto che in simili circostanze ci si sfoghi. Che tristezza! Io ho solo pronunciato le parole che pronunciano l’accaduto. E basta. Ricapitolando. Ho massacrato mia moglie e mia figlia: A. Ho preso il mio pacco e il mio cappello: B. Sono venuto da voi: C. - Ma A, B e C costituiscono un’assemblea democratica. Nessuno vale più dell’altro. O dove trovate che C sia meglio di A? La questione è vostra. Per me non c’è questione. Io sto sulle cose: evidente come esse.

X: Se io l’ammazzassi?

@: A me?

X: Sì, a lei.

@: Morirei.

X: Non si difenderebbe?

@: Senz’altro sì.

X: Linguisticamente?

@: Nient’affatto, con le mani. Per quanto posso.

X: Dunque, avrebbe paura?

@: Anche tu, probabilmente, ma non sarebbe la mia.

X: E la sua paura di che sarebbe il frutto?

@: Immagino del mio sistema nervoso.

X: Che, dunque, ha un valore.

@: Ma anche il tuo ha un valore.

X: E con ciò?

@: E’ dal tuo che viene il tuo impulso ad uccidermi.

X: Che lei non troverebbe ingiusto?

@: Io moltissimo. Mentre tu, se lo persegui, significa che lo trovi giusto.

X: E, quindi, meritevole di compimento?

@: Oggettivamente per te, sì.

X: Mi dia il senso di tutto questo?

@: E’ nel tuo errore. Tu prescindi puntualmente dal fatto che io e te siamo creature separate. Con due legislazioni, una mia e una tua. Solo per caso coincidenti in qualche punto.

X: Sicché il suo sopravvivere o meno dipenderebbe unicamente dalla sua capacità fisica di contrastarmi?

@: A meno che qualcuno non sia nei pressi e mi soccorra. Sempre che non intenda soccorrere te.

§: Ecco il nodo. Lei nega le Leggi.

@: Tutti le neghiamo. Possiamo, al più, averne spavento. Anche qui: esse interferiscono con noi solo quando interferiscono col nostro sistema nervoso.

&: Ma sì. Sì, certo!

§: Certo che?

&: Professore, lei dà conferma a un mio rovello cruciale! Dio la benedica. E’ questo, proprio questo, che sta scritto nel mio libro. Nel secondo, il meno compreso. La moltitudine è una mescolanza di libertà, anche se inapparenti. Io debbo obbedire alle mie norme, poiché le mie norme dicono ciò che voglio, e ciò che voglio sono io. E’ questo? Lo dica: è così?

@: Anzi, replicando con un’esclamazione a un’esclamazione, ti dirò di più: beato chi riesce a sentire le voci delle proprie norme. Ecco cosa ti dico.

&: Ma a lei, stasera, è questo quello che è accaduto. Lei le ha sentite.

@: Io, forse, non dovevo fare quello che ho fatto. Ma se lo volevo ho dovuto.

&: (Agli altri) A me, ora, è chiarissimo. Possibile a voi no? A me del tutto.

§: Buon per te. Divulga.

&: In pratica questo: la Società è una sottostruttura. E’ la moltitudine che organizza la vita. E com’è che lo può? Così: col suo intrecciarsi di legislazioni avverse (Indicandolo) Eccone la prova. Qui, lui. E lei me lo dica se sbaglio.

@: Hai ripetuto quel che ho detto. Come potrei risponderti di no?

&: Ripeterla è il mio orgoglio. Ma ripeterla capendola è il mio massimo orgoglio. Sapevo che, in realtà, il mio libro risolutivo non era il primo ma il secondo. Deve solo aspettare il suo tempo.

@: Quel tuo libro, se buono, non lo sta aspettando, se lo sta costruendo.

§: Io, invece, non avevo ancora colto che fosse una sorta di bieco anarchismo l’intento dei suoi progetti sociali.

&: Io sì. A parte il bieco.

@: L’intento dei miei progetti sociali, che pessimo italiano, è solo la non interruzione del pensiero. Vorrei due dita di bianco, se possibile.

Un lunghissimo silenzio fatto di piccolissime azioni. Mani che spostano cose dal tavolo, che scacciano zanzare, che misurano distanze sui volti; gambe che si stirano; schiene che si accomodano; gole che si schiariscono e residui, sul tavolo, che fermentano. Qualcuno, chissà, vorrebbe libri da consultare o carta su cui scrivere. Altri, invece, ha ancora il desiderio di addentare qualcosa e si prova a farlo recuperando resti di cibo dai margini di un piatto. Alcuni gesti vengono compiuti all’unisono, come, ad esempio, l’ascoltare la notte; o come, ad esempio, il cercare di non darlo a vedere. E la notte si sente. Si sentono le falene allo sbaraglio, dirottate da luci incerte e vibranti, come di candele; si sente il muschio che raggriccia, le gomme dei pneumatici tese dall’afa, il cicaleccio di lontane oasi umane. I lumi, vaghi e sparpagliati, dilatano albume a chiazze scontornate. Vengono intesi da occhi che, ancora, non vogliono dichiarare i loro sguardi.

L’uomo accavalla e scavalla le gambe fra le quali, a tratti, si tocca. Come per un reale fastidio fisico.

Marco si alza e si allontana. La sua assenza fomenta l’imbarazzo. Viene atteso. Infine torna. Non si siede. Porge all’uomo un fazzoletto bagnato.)

§: La prego di pulirsi. Glielo chiedo per favore.

(L’uomo prende il fazzoletto, ma lo usa per detergersi la fronte, poi lo poggia d’un lato)

@: Insomma, quale può essere il tuo massimo rimprovero? Che ho un’anima vuota. E’ vero. Ma il tuo è un rimprovero all’umanità. Per qualcosa che scovi in essa e non ti piace. A te infastidisce che io abbia verificato il vuoto della mia anima poiché temi di leggervi una verifica che riguarda la tua. E’ così. Io ho un’anima; l’ho messa alla prova. Perciò ti dico: quando l’anima agisce, agisce il vuoto. Che è vuoto linguistico. Mentre i gesti compongono la realtà. E l’addensano. Il mio gesto, nel reale, corrisponde a un punto nel vuoto dell’anima. Dunque, alla sua interezza. Non potevo agire altrimenti.

§: Perché non si decide a pulirsi quel sangue di dosso? Ormai il suo scopo l’ha raggiunto. Lo vede: stiamo al gioco. Non serve più.

@: Non pesa. Per cortesia, non restartene in piedi. Te lo chiedo per favore.

(Marco si siede. Ma solo un istante per rialzarsi subito poi)

@: Io bevo ancora.

(Si versa e beve)

&: Mangiare, davvero niente? Non c’è molto ma.

@: Niente, niente. Davvero. Ho solo sete.

§: Ho già dedicato buona parte della mia vita allo studio del Diritto. Anzi: al Diritto e basta. Imparandolo prima e insegnandolo adesso. Circonvoluzioni a parte: le pare davvero così sorprendente che io possa turbarmi, e molto, dinanzi all’ipotesi che sia stato commesso un delitto tanto raccapricciante?

@: Per carità, mi sarei sorpreso del contrario. Tant’è vero che non mi turba. Curioso: la mia assenza di turbamento dinanzi al tuo ti fa credere che quest’ultimo mi sorprenda. Lo vedi da te: è illogico..

§: Ma a me quello che turba è la sua assenza di turbamento dinanzi al delitto.

@: Marco, ragiona. Io ho cominciato col dire: tutto è stato in ragione di una domanda che ha partorito un desiderio. Bada: la domanda non era in sé richiesta della cosa desiderata. Assolutamente. La domanda risolveva un processo di comprensione a seguito del quale è come se un uomo nuovo m’avesse sottoposto il senso della sua fame e della sua sete. Nuove entrambe. Come se m’avesse detto: "Di questo m’alimento e di questo mi disseto. E io, da ora, sono te. Se vuoi vivere, fammi vivere. Se vuoi proseguire, fammi proseguire. Sfamami e dissetami.". Questo mi ha detto. Ed è al chiarirsi d’ogni domanda che s’aggiunge in noi, sempre, un uomo nuovo. E, ciascuno, con nuova fame e nuova sete. Ebbene, col suo avvento tutti gli altri di prima debbono mettersi in riga. Da quel momento, sino a un nuovo avvento, a dettare legge sarà lui. A meno che non lo si voglia sottrarre a quelle leggi, e dunque al suo mondo. Dunque, alla sua vita. Che, peraltro, è la nostra.

X: E saremmo così in balia di avventi tanto perentori?

@: Perentori come queste sedie. Com’è perentorio l’essere dal momento in cui è. L’uomo nuovo, che al presente noi già siamo, è demandato a costruire il proprio successore, e in ciò lo aiutano, in gerarchia a scalare, i suoi predecessori. Sì, è davvero così: come se fosse in noi un officina a noi segreta e in lavorìo perenne. Il desiderio futuro, anche se nostro, è imprevedibile. E il desiderio consiste sempre nel determinarsi di una domanda relativa a un desiderio il cui esaudirsi è già in atto. Mi seguite? Già in atto. In pratica, io stavo esaudendo già da tempo la mia ansia di dare quei due colpi di ferro. Ma, diamine, non lo sapevo. Ero io a farlo, e non lo sapevo. Quell’ansia era, in me, come un fiume sotterraneo nascosto alla vista, finché la sua emersione ha coinciso col chiarirsi del desiderio stesso. Ovvero, con la domanda. Il che, in definitiva, ha coinciso col gesto. Nell’intera vicenda del mio desiderio vedete bene come esso non fosse la risposta ma, giustappunto, -

X: La domanda!

@: La domanda.

&: Sicché le domande sono sempre conclusive.

@: Come un punto qualsiasi conclude il cerchio in qualsiasi punto, e qualsiasi punto esso sia.

§: Dica: quelle due le lascerà lì così? O deve auscultare il suo desiderio in proposito finché non sbocci la domanda: "Voglio dar loro sepoltura?". Faranno i vermi.

@: Nulla è in atto a questo proposito. Se lo farò sarà un gesto di carità. Donato. Non si sa a chi, ma donato.

§: Comunque dovrà prendere una decisione.

@: Bel tema. La cosa ti riguarda.

§: Me?

@: Sicuro. Poiché il tuo impeto rivela che il problema è in atto proprio in te. Hai saputo di due morte abbandonate e ti preoccupi per loro. Non andrai a dormire in pace. E a poco varrà dirti: "Ma perché non vuole farlo?". In realtà penserai: "Perché non lo faccio io?". Dunque, non: ’deve farlo’, ma: ’debbo farlo’. Tieni, queste sono le chiavi di casa mia. Va’.

(E un mazzo di chiavi ricasca sul tavolo tra croste di anguria. Marco, che non ha potuto starsene seduto, le guarda e non fa. Gli altri intendono distrarsi da lui che guarda)

X: Professore, parlava di carità. Potrebbe, dunque, avere un ruolo?

@: Se volessi compiacere me stesso abbellendomi ai miei stessi occhi, sì. Purtroppo per la morale comune la mia vanità è minima.

&: Non posso sperare che leggerà mai il mio libro?

@: Il libro c’è, io pure. La lettura, dunque, è connessione possibile. Speralo.

&: Ma con quante possibilità?

@: Pochissime.

X: E perché? Ci spieghi. Davvero non la interessa affatto?

@: Io sono uno, i libri no. Pensate a quante connessioni possibili si diano. E questo sempre presupponendo che la lettura sia una connessione inevitabile solo per il fatto che esisto io e che esistono i libri. Assurdo. Ad esempio. Io ho denti per masticare ed esiste la corteccia che è masticabile, ma non perciò la mastico.

(Marco, infine, prende le chiavi ed esce)

&: E lei può accettare che lui vada così? Che invada tanto brutalmente il suo gesto?

@: Quel ragazzo sta compiendo un atto veramente filosofico.

(Rumore di un motore che si accende e si allontana)

@: Vuole toccare il fondo di un’idea. Lui va a vedere, non a fare. Ma, con umiltà, si è convinto di andare per questo e non per quello. Veramente un gesto da buon filosofo. Anche se egli non si ritiene tale. Non sarà, però, un percorso facile. Si può fallire. Per cominciare: sa dove abito?

&: Dovrebbe. E’ lui che si è procurato il suo indirizzo.

@: Per quanto ne sapete, ha una vita soddisfacente?

&: Ci siamo raccontati poco l’uno dell’altro. Io sono quello che ha detto di più.

X: Ne ho qualche notizia io. So che è apprezzato. Se poi la cosa lo soddisfi abbastanza questo non posso dirlo. La sua posizione, certo, è invidiabile. Perlomeno da me, su questo non c’è dubbio. Io sono ancora in attesa di una cattedra definitiva. E nemmeno all’Università. Nelle scuole.

&: Quello che ho provato a fare pur io. Fortunatamente avevo altre inclinazioni.

(Rumore di un motore che si avvicina. E che si spegne. Un’attesa. Rientra Marco. Butta le chiavi sul tavolo fra le stoviglie che ne tremano)

§: Non spetta a me.

(Qui l’azione può sospendersi per un breve intervallo

Quando riprenderà, troveremo i personaggi come stavano. Marco in piedi, l’uomo lo guarda. Gli altri due guardano prima lui, poi, non all’unisono, il loro compagno.

L’uomo recupera le chiavi. Le offre ai due seduti, come a dire: "Per caso vuole andare uno di voi?". Ma entrambi non sembrano averne la minima intenzione.

L’uomo, infine, rivolgendosi a Marco, si rimette le chiavi in tasca)

@: Allora siediti.

§: Ha capito che ho detto? Non spetta a me.

@: Il fatto che non spetti a te non implica che spetti, per forza, a qualcun altro.

(Marco stavolta si siede e resta seduto. Come stanchissimo)

@: Ah, come questa serata potrebbe essere solamente fresca!

§: Lei sa che non possiamo distrarci da quello che ci ha detto. Che questa serata sia fresca o meno non fa più per noi. E non credo di parlare solo a nome mio. (Volgendosi ai compagni) O forse sì?

X: Siamo qui per stabilirlo. La questione è affascinante.

§: A me sembra più che altro macabra.

&: Tempo al tempo.

@: Signori, ma, insomma, è tanto difficile capirlo? Quello che vi ho detto prosegue proprio in questa freschezza. Per questo la noto. E se io la noto, e la noto con forza, è perché provengo da dove vi ho detto.

§: Ed è proprio da questo che non possiamo distrarci. Perlomeno io.

@: Mi è incomprensibile perché tu sia sempre lì pronto, dio sa per quale motivo, a cogliere in ogni mio atteggiamento tracce di superficialità. Per me questa serata è estremamente fresca. E senza alcun disagio. E mi riferisco a disagi che di questo periodo, in genere, patisco molto. Le zanzare, tanto per dirne una.

§: Ce ne sono.

@: E pungono, altroché. Ma non mi danno fastidio. Io vorrei parlarvi solo della freschezza di questa serata. Senza il vostro invito sarebbe andata persa. Ho cominciato a godermela avvicinandomi qui. A voi.

§: Lei sa che durerà pochissimo.

@: Per adesso ci sto dentro.

§: Lei sa cosa l’aspetta dopo.

@: Quello che so è debole. Non prende il posto di quel che sento. Siete voi che volete distrarre me, non viceversa. E tu soprattutto. Ma se c’è una cosa che è davvero impossibile, ebbene questa è nel tentativo di distrarre un corpo da se stesso. Follia assoluta. Nel caso di due amanti quel che dico apparirebbe di tutta evidenza. O nel caso di un corpo sottoposto a sevizie. Provate a dirgli: "Distraiti!" mentre ha un ferro rovente nelle carni. Ho usato gli esempi più rozzi e banali perché mi sembrate molto disattenti.

§: Non siamo in classe, Professore.

@: Mi fai torto. Come se io, quando eravamo in classe, ve l’avessi mai fatto pesare.

X: Dica: aveva mai supposto di poter uccidere?

@: Come no. Mi ci sono addestrato.

X: A supporlo?

@: A farlo. Tutto sta a prender pratica nel compiere un gesto, il che non è molto, e nel capire che cosa significhi, il che è già più difficile.

&: Ma nel concreto?

(L’uomo, con una violenta manata, schiaccia una zanzara sul tavolo).

@: Ecco un gesto che ho commesso molte volte.

§: Come, credo, chiunque.

@: Fortunatamente per il mondo non proprio allo stesso modo.

(Mostra il palmo della mano come se vi fosse su una stimmata. La impone allo sguardo degli altri che ancora non sanno decifrare)

@: Fateci caso: è tutta una questione di quantità. Di mole. Di mole fisica. Io, con la mia manata, ho spazzato via dalla faccia della terra una minima quantità di vita. E non una parte, bensì un tutto. Eppure tanto minimo che non metterebbe neanche conto di essere riferito. Né che esisteva, né che è stato ucciso. Però, insisto, questa vita, minima, era in sé completa. Non poteva essere di più. Era grande per se stessa quanto un elefante è per se stesso grande. Non di meno. E il mondo, per essa, era normale così com’era. Non assurdo perché tanto gigantesco, ma normale. Questa zanzara ci si trovava bene. Se, d’un tratto, il mondo si fosse fatto più piccolo, le sarebbe sembrato addirittura troppo piccolo. Lei aveva mercati con esso. Come noi, ma d’un tipo che noi non conosceremo mai. Io non so se, in assoluto, mi sia capitato d’uccidere più o meno zanzare di voi, ma ogni volta che lo faccio questo che vi ho detto io lo penso. Ogni volta. E’ cosa a cui mi obbligo. Il che mi ha addestrato. A che? A non soffrire più il razzismo della quantità. Che è il più tenace e subdolo fra tutti i razzismi. In pratica: io sento di aver commesso, a questo tavolo, un autentico delitto.

§: Di questo passo finirà come certi bonzi a girare con la retina sul viso per evitare di ingurgitare microbi.

@: Di questo passo ho ammazzato mia moglie e mia figlia.

(Si pulisce la mano)

@: E le ho lasciate insepolte. Come questa zanzara.

(Nessuno, per un po’, dice nulla)

X: Io, avevo più o meno diecianni, ho passato un anno della mia vita, diciamo un intero inverno, nella certezza di aver ucciso uno. Già. Si trattava di un compagno, data l’età: di un compagnuccio, che era abitudine per me ritrovare ogni stagione, tutte le estati in vacanza, sin da quando ero piccolissimo. No, avevo un po’ più di diecianni. Comunque. L’ultimo giorno di quell’anno in cui successe il fatto io e lui ce ne stavamo fuori a giocare tra di noi e senza nessun altro finché, insomma, mi capitò di dargli tipo uno spintone che lo fece ruzzolare in fondo a una specie di fosso. Rimase lì senza muoversi. Presi a chiamarlo. Niente. Allora mi spostai lì dal ciglio del fosso, e senza nemmeno pensare per un attimo a scendere giù. Me ne andai a sedere su un masso poco distante chiudendo gli occhi e tappandomi le orecchie. Imposi al tempo di passare il più possibile. Non in fretta, ma il più possibile. Poi tornai al fosso. A vedere. Il mio compagno stava sempre laggiù. Immobile. Lo feci altre volte. Andavo al masso e mi sedevo, con le mani così e gli occhi chiusi. Stavo un po’, poi tornavo a vedere. E lo ritrovavo sempre lì. Ogni volta lì, e immobile. Questo fino a che, da casa, non mi sentii chiamare. Erano i miei che mi cercavano. Quella sera stessa si doveva ripartire. Beh. Me ne andai con la certezza di averlo lasciato morto. Nei mesi successivi mi fu chiaro che il mio restare e controllare non era stato nella speranza, che so, di ritrovarlo sveglio o di non ritrovarlo più. Anzi, nel timore che questo potesse avvenire: che egli si risollevasse e andasse a dire che lo avevo ucciso. Non ferito o spinto, proprio ucciso. Anche si fosse alzato senza un graffio addosso, io sapevo che questo sarebbe andato a dire: "Lo vedete? Mi ammazzato". Insomma, io ero rimasto per vegliare il mio morto, e, soprattutto, per evitare che facesse danni. Nella piena consapevolezza che egli fosse morto. Il che equivale alla consapevolezza del mio averlo potuto uccidere. Mi comportai così, e con molta intelligenza, per tutto il tempo in cui mi sapevo ancora a rischio. Vale a dire per il tempo della mia contiguità con lui. Chiaro che dico? Della compartecipazione di un medesimo spazio. Dopodiché, nella promessa della lontananza, abbandonai il campo. E’ superfluo aggiungere che l’anno dopo lo ritrovai vivo e sbeffeggiante per lo scherzo che aveva avuto la determinazione di farmi. L’orrore che mi aveva animato sul finire di quell’estate precedente si inverava allora: l’anno appresso. Ma inefficace. Laddove era cessata, col nostro rincontrarci, la lontananza nello spazio, a difendermi c’era però quella nel tempo. Nessun pericolo. La mia carriera di assassino si era comunque conclusa impunemente.

@: Cosa ricordi della serata in cui partisti? Innanzitutto, ne ricordi qualcosa?

X: Sì.

@: Che?

X: Il suo tepore. Ne godevo a ogni sosta dai finestrini abbassati.

@: Quali abbracci possono darsi tra un’età e l’altra! Fossi tu qui adesso al termine di quella giornata lì, io e te avremmo di che confidarci all’infinito.

§: Santiddio, non può, tutto questo, trasformarsi addirittura in un idillio.

@: A te di non consentirlo.

(Gli lancia un torso di mela. L’altro l’afferra e, schifato, lo getta via lontano. Ma il gioco non termina qui. L’uomo sembra diverticisi. Prende una crosta d’anguria e nuovamente gliela lancia e l’altro nuovamente la getta via)

§: Ma la smetta! Che fa?

@: Ti chiamo in causa, ecco che faccio.

(E si intestardisce a lanciargli contro tovagliolini appallottolati, croste di pane e chissà che altro. L’altro schiva o getta via)

§: Non mi tengo da parte. Quello penso glielo dico. Per piacere, la pianti!

@: Non dai fondo a una briciola di te. Speravo, prima, che arrivassi sino in fondo, non l’hai fatto. Quando hai preso le chiavi. Ecco, mi son detto, un uomo che va a concludere un percorso. Un mio antico allievo capace di darmi questa bella prova. Era come se tu mi avessi dichiarato a pieni polmoni: "Così penso, e così penso sino all’ultimo." - Macché. Niente. Non mi stavi dicendo niente. Né stavi dicendo niente a te stesso. Peggio che se non ti fossi alzato. Tu sei uscito per la strada e non ti sei trovato più. Pensavi d’esserci e non c’eri. E’ penoso dover usare un luogo comune ma mi tocca: sei tornato, come suol dirsi, con la coda tra le gambe. Che figura barbina. Meglio per me, ma mi hai deluso. E hai deluso anche loro. Ci hai deluso tutti. A cominciare da te stesso. Per non dire della notte spaventosa che t’aspetta. Implorerai per riavere queste chiavi. Te la sei cercata. Sei andato a petto nudo contro la tua mediocrità, e ha vinto lei.

(Marco non ne può più, gli getta addosso il vino del primo bicchiere che si trova a portata di mano. Ma il suo gesto è tanto scomposto che l’altro non viene centrato nemmeno da una goccia, e senza neppure bisogno di scansarsi più di tanto)

@: Non è questione di pessima mira. Ma hai fatto una cosa che non volevi fare. Perciò il farla ha partorito il non farla. Ti sei dato ascolto senza esserti capito.

(Si volta a guardare dietro)

@: Comunque le piante ringraziano. Avevano bisogno di essere annaffiate un po’.

(Marco riempie il bicchiere che ha vuotato e lo svuota nuovamente, ma stavolta bevendo)

X: Senta, Professore, lei però, ha iniziato col dire: ho avuto un incidente.

@: Non avrei altrimenti ritardato. In genere io sono puntualissimo.

X: Ma dov’è, in tutto ciò, la natura incidentale? Forse che, stasera, sua moglie o sua figlia avrebbero fatto qualcosa che non avrebbero dovuto?

(Un lungo silenzio)

@: Scusatemi, il bagno?...

&: Di là.

(L’uomo si allontana)

§: Che si fa?

&: Io, confesso, ancora non ne sono venuto a capo.

X: Per me l’ha fatto.

§: Per me no.

X: Ma come? Proprio tu, il più aggressivo?

§: Appunto. Gli piace tirare la corda. Anche in assenza di corde. E’ insultante.

X: Dio sa cosa vuole dimostrarci.

&: Nulla. Non hai mai inteso dimostrare nulla. Lui vuole darsi solo come continua conferma dell’evidenza e vocazione ad essa.

X: Cioè, lui vocazione all’evidenza?

&: Come dire: guardate me: non esiste nulla che non sia normale. Io nemmeno.

§: Quindi?

&: Non ha fini. Tutto qui.

X: Nel senso che non ha secondi fini?

&: Sì, neanche quelli.

X: A ogni modo si aspetta qualcosa. Non so che, ma qualcosa di sicuro.

§: Non lo saprà nemmeno lui.

X: Oh, invece sì che lo sa, e benissimo.

&: Dubito. Se non sa è perché non c’è nulla da sapere. Oltretutto l’ha detto chiaro e tondo: la parola vale l’istante in cui sta, non uno di più.

§: Chiaro e tondo? E quando?

&: Prima; più volte.

§: T’avrà parlato in un orecchio. Non me lo ricordo per niente.

&: Giuro. E’ stato molto preciso.

§: Con queste parole esatte?

&: Insomma, più o meno.

X: Comunque io dico che s’aspetta qualcosa da noi.

§: Se è così, se la prenderà da sé. Mestiere suo.

X: Ma se l’aspetta perché poi serva a noi, non per sé.

§: Ci metteresti la mano sul fuoco?

X: Scherzi? Senza pensarci un attimo.

(L’uomo torna. Sembra rinfrancato. Respira profondo)

@: E’ da quando sono arrivato che avevo un’erezione. ( a X) La tua domanda, carissimo, è stata decisiva e, curiosamente, mi ha fatto eiaculare. Ho dovuto pulirmi.

(Si siede. Ha un’espressione beata. Scrolla le gambe a saggiare il disagio scomparso)

@: Ah, sì. Ora va bene. E’ da parecchio che soffro di un certo priapismo. Perciò m’è sempre toccato usare indumenti intimi molto compressivi. E repressivi. Ne soffrivo di già ai tempi nostri: anche in classe con voi. Ma mai sino a sfogare. Vi assicuro che per quanto sia un disturbo esposto o ogni genere di fescennino, per chi lo patisce è davvero insopportabile. Dunque, di nuovo a noi. Il punto è sempre quello: se la felicità varia da un individuo all’altro, potrà mai essere un intento sociale oppure no?

X: La mia domanda, veramente, era...

@: Me la ricordo la tua domanda. Altri ne hanno altre?

§: Per adesso ci basterebbe una risposta a questa: dove l’incidente in tutto ciò?

@: Se anche tu ti senti di rivolgermela, dovresti ormai saperlo come la penso, è perché evidentemente ti ho già risposto.

§: Perdoni, ma questa perspicacia a ritroso non è che sia il mio forte. Qua pare che tutti ne siano grandi esperti tranne me.

@: Diciamo che non vi ho risposto aneddoticamente. Vi ho detto solo, e non è poco, di un tributo d’amore a cui è stato messo fine dal momento in cui s’è capito che avrebbe dovuto essere richiesto. Da me, a loro. A mia moglie e a mia figlia. Compresa la richiesta, terminata l’offerta. Vi avessi riferito in modo più pedestre gli eventi ne avreste più facilmente colto la natura incidentale. Sempre che sia incidente il fatto, che so, che un vulcano erutti. Ma hai voglia a dire: se mai dovesse eruttare domani alle cinque e io domani alle cinque dovessi trovarmi lì, il suo coprirmi di lava sarà tanto incidentale per me quanto per la lava il mio trovarmi sul suo cammino. Certo, io posso sempre sperare che il vulcano, il quale prima o poi erutterà senz’altro, non erutti finché mi trovi nei suoi pressi; o che il mondo, che prima o poi finirà senz’altro, non finisca fintanto che sono vivo io. Ebbene, allo stesso modo, l’attesa del punto di rottura all’interno della mia famiglia avrebbe potuto protrarsi anche oltre il termine della mia vita e io, col mio morire, avrei di fatto estinto sia l’attesa che il senso dell’attesa. E questo sarebbe stato un caso fortunato. Anzi: il caso fortunato. Ma è altrettanto vero che l’attesa avrebbe potuto cogliermi ancora in forze, assai reattivo, e, per soprammercato, con un ferro da stiro a portata di mano. Ed è quel che è successo. Da cui i due colpi. Tutto qui. Spero, finalmente, di essere stato, se non conciso, chiaro. Vino! Vino! Stasera, chissà perché, mi va di bere.

X: Un po’ di dolce?

@: Solo vino, grazie.

(Se ne fa versare e beve)

@: Ma, poiché tanto vi preme, veniamo anche all’aneddoto. Ovverosia al dettaglio di quello che è successo. Mi stavo preparando per venire qua. Mia moglie, ginocchioni, si stava, per contro, adoperando per placare un mio empito priapico.

X: Per carità, non le chiediamo di raccontarci tanto.

@: Invece è proprio quello che avete fatto.

§: Anche per rispetto della povera signora.

@: V’assicuro: si sentirebbe rispettata eccome pure se sapesse di questo mio racconto. Dunque. Non potendo, per la sua postura, darmi repliche, se ne stava intenta al duplice atto del fare e dell’ascoltare. Come io a quello del farmi fare e del parlare. Cose che avvengono spesso mercè una dislocazione di cervelli nei nostri corpi. Praticamente eravamo in quattro. Lei che m’ascoltava, io che l’invadevo, lei che mi suggeva, io che le parlavo. A questo punto però sopraggiunge, nel nostro gruppo, un quinto. Vale a dire: un terzo ‘me’. Un terzo ‘me’ che la guarda, e che non ascolta quello che il ‘me’ parlante dice. E che nemmeno partecipa a quello di cui il ‘me’ più eretto gode. Un terzo che la guarda e basta. Dall’alto. Perché io ero sempre in piedi, mentre lei no, lei ce l’avevo abbassata di fronte.

§: Sì, capito, capito.

@: E, quel terzo ‘me’, vede la nuca che si muove flemmatica avanti e indietro. Le guance ingombre e gonfie. Gli angoli delle labbra tesi e umidi di saliva che un pochino cola giù, ma non bene: appena appena. Il terzo ‘me’ è estremamente elaborativo. Fuori dalla porta del bagno la mia piccola aspetta di entrare per fare la pipì. So che più o meno sa che, lì dentro, ogni tanto, si fa qualcosa.. Il terzo ‘me’ guarda la porta, poi la donna che fa e che ascolta. S’accorge che tra le mani, tra ambo le mani, lei ha qualcosa. Un mestolino nell’una, e nell’altra qualcos’altro. Una ciotola colma di una pasta chiara. Alché varie cose si sono composte in un attimo. Il linguaggio, a posteriori, è sempre assai analitico. Lei stava preparando una crema. Per tutti e tre. Certo, non le avevo detto che sarei uscito. E quando gliel’ho detto nemmeno mi ha detto: non me l’avevi detto. E quando dal bagno, chiamandola, le ho detto: "Vieni, facciamo", mestolino e ciotola, lei, non li ha mica lasciati ma li ha portati con sé. Già. Poiché lei veniva solo per me e neanche un po’ per sé. Come se io avessi, in realtà, detto: "Vieni, aiutami". Il terzo ‘me’ allora esclama: "Neanche un po’ per sé? E tutte le volte per lei è: neanche un po’? Se non tutte le volte, quando: almeno un po’? Mai? Mai almeno un po’?" - Era esplosa, insomma, la domanda. E ormai definitiva. Inarginabile. Come inarginabile e implicita da tempo la risposta: mai. Non smetto di fissare dall’alto in giù quella povera donna. La fisso a mò di trafittura che lei non sente. Guardo la sua nuca. Non ha occhi la sua nuca. Né ha sorriso. Tanta assenza d’occhi e di sorrisi mi permette, o gli permette: al terzo ‘me’, di progettare perciò qualcosa. Perché il progetto venisse interrotto sarebbe bastato che mia figlia avesse dato un piccolo segno di impazienza, non di più. In genere, quando c’è uno solo di noi due nel bagno e lei ha bisogno di entrare subito, lo fa. Invece, ora, nulla. So che aspetta. E sta, zitta. Come quando, in visita da un parente malato, le si chiede: "Ora, da brava, fa’ silenzio". Ma lì, in quel caso, sono io a dirglielo, o sua madre, o noi due insieme. Ma ora, perché stia zitta adesso, chi è che gliel’ha detto? Altra domanda che s’accorpa alle precedenti, e capisco. Sono io il parente malato. La mia bambina, vagamente, sa quel che accade. Che la sua mamma si sta prendendo cura del suo papà. Che il suo papà è così e bisogna fare così. E se esce e non lo dice, non bisogna dirgli nulla. E siamo così al dunque. Nella vasca lì affianco, la nostra casa non ha molti spazi, c’è la tavola da stiro con su il ferro. Dico a mia moglie: smetti. Lei non capisce. E’ zelante. Sa che non ha finito, perciò non capisce. Ma il mio terzo ‘me’ ha molta più fretta di quell’altro ‘me’ periferico e bisognoso. Poggio la mano destra sulla sua fronte e le spingo indietro la testa. Lei, automaticamente, alza gli occhi sgomenta a guardarmi e, all’unisono, riavvalendosi della sua più consona natura, si rimette a sbattere la crema dentro al bricco. Ma smette all’istante. Gli occhi, già sollevati, li rovescia ancora più sù e più all’indietro. Forse per vedersi almeno un attimo riflessa nel piatto del ferro. E strilla: ‘No!’. Da questo momento il tempo ha la brutalità di un rogo. Di un rogo in pieno vento. La mia bambina ha fretta. Io stesso ho fretta. I pensieri si affastellano con tale densità che neanche un bisturi potrebbe sceverarli l’uno dall’altro. Neppure al ‘no’ strillato di sua madre mi giunge da fuori una reazione. Apro. La vedo. La mia mano, per prima cosa, la stringe al viso. Così. Come una cavezza. Perché non veda nulla, per questo la stringe. Poi la volta di spalle. Lei ha un risolino rapido, nel risolino mormora: "Meglio, papà?". E il mio ferro, lì, si fa peso per la seconda volta. Qualcosa d’animale si è allora mosso in me, ma dopo. Appena dopo. La convenzione della paura. Il miserabile spavento che induce all’istinto del rimettere ordine, ordine, ordine. Ma non per nascondere. Perché sia chiaro, invece, come niente d’eccezionale possa mai avvenire e che ogni cosa è sempre naturale. Anche in me, dunque, si è scatenato un simile istinto, ma concentrandosi tutto e solo in un solo progetto: sottrarre alla vista del mondo il più nero responsabile di ciò che era accaduto: quel peso che mai più avrebbe potuto farsi ferro. Gemeva, denaturato, pendendo dal mio braccio, pesantissimo. Così, venendo, me ne sono liberato. Ecco a chi ho dato sepoltura. Ma a loro due no. Non me la chiedevano. Perché farlo? Stanno lì. Sacre a sufficienza come stanno. Conformi perfette all’ultimo slancio delle loro vite. Che fu, in mia moglie, quello per difendersi da me. E nella mia bambina, per lo sforzo di trattenere la pipì.

(E tace, fra gli altri che già tacevano)

&: Lei, Professore, non ci aveva mai detto di essere sposato, né di avere figli.

@: Vi ho mai detto, per caso, se ho fratelli e sorelle?

§: Li avesse, mi auguro per loro che non stia formulando domande che li riguardino.

@: Chi può dirlo.

§: Sa qual è la cosa che più di tutte mi preoccupa?

@: Dì.

§: La totale assenza di ironia del suo racconto.

(L’altro gli dà uno schiaffo. Se c’è da alzarsi per farlo, lo fa)

@: Ecco l’ironia. Portatela a casa.

(Marco si alza feroce. Uno degli altri due lo trattiene. Più probabile che a farlo non sia quello che viene chiamato Luca il quale, invece, riprende a dire)

&: In effetti, non vedo dove avrebbe potuto esserci.

§: Ma come dove? Cioè, vogliamo credere che questo non volesse essere un racconto umoristico? Lo è. Solo, piccolo difetto: è un racconto umoristico fallito.

@: Questo racconto, Marco, non racconta niente attorno a cui vi abbia chiamato a banchettare. Né te, né voi. A ogni modo tu dici ‘umoristico’. Per cosa? Per l’atto sessuale? Per il bricco? Per l’esuberante disfunzione di cui soffre il mio pene? Ma questo, allora, sarebbe comico. L’umorismo è nell’intenzione del narrante. La comicità nel narrato.

X: Ecco, questo forse sì. Non fosse vero sarebbe comico.

@: Mentre se vero?

X: Direi tragico.

@: (A quello che viene chiamato Luca) Sottoscrivi anche tu? Il giudizio è unanime?

&: In qualche modo. Perché no? - Se c’intendiamo sulle parole comico e tragico.

@: Non sono loro il problema. Nessuno dubita del loro significato. Il problema è altrove: nel fatto che voi, miei poveri ingenui, ricascate puntualmente nella fissazione che avete di scindere il vero dal falso. Se falso è comico, se vero è tragico. Se mia moglie stesse davvero stecchita sul pavimento di un bagno tanto piccolo che bisogna tenere la tavola da stiro nella vasca, allora tutto si farebbe lugubre: la crema, la donna ginocchioni, il suo sgrufolare, la pipì della bambina, il ferro da stiro. Se io invece avessi una casa comoda e grande e nessuna moglie e nessuna figlia, allora tutto, per prodigio, diventerebbe buffo: la crema, la donna ginocchioni, il suo sgrufolare, la pipì della bambina, il ferro da stiro. Attenti a duplicare la realtà: fra le due facce di un doppio si danno crepacci stracolmi d’ossa.

§: Bene. Deciso. Io, per me, il caso l’ho risolto. La denuncio.

@: Ti sei convinto di sì? Che l’ho fatto davvero?

&: Discutiamone, però. Vorrei che la decisione venisse presa insieme.

@: Fammi sentire che dice. (All’altro) Sicché ti sei convinto.

§: Mi sono convinto che tutta la vicenda meriti che io la denunci.

@: Sii chiaro: tu non dici quella da cui provengo, vero?

§: No, per niente.

@: Ma questa nostra di noi quattro adesso.

§: Proprio. Esattamente questa.

@: Bravo, Marco. Meglio di così non potevi esprimerti. Per usare un gergo poliziesco: hai davvero risolto il caso. Anche davanti ai miei occhi. Bravo davvero, e senza ironia. Hai toccato con mano il senso delle mie responsabilità e il senso che tu le attribuisci. A questo punto, che io abbia massacrato o meno, anche per te è di nessunissima importanza. Come per me. Uguale. Quel che più conta è la mia colpa nei tuoi confronti. Carissimi, ora è a tutti voi che mi rivolgo. Mi sembra che vi sia sfuggito, comunque, un dato basilare. Ovverosia, il mio essere venuto qui. D’altronde è la prima cosa che ho sottolineato raggiungendovi: il valore del mio raggiungervi. Avrei dovuto venire prima del massacro, prima di sapere che l’avrei compiuto, e sono comunque venuto anche dopo averlo compiuto. A prescindere dall’intento di parlarvene o no. Se peraltro, come previsto, fossi venuto prima, non avrei avuto nulla da dirvi a questo proposito. E sarei venuto comunque. Ecco, questa è la cosa veramente importante. La mia assoluta istanza di obiettività. E’ importante che, per il mio venire qui, non fosse importante il massacrare o meno mia moglie e mia figlia.

&: Ma ormai, anche se non importante, è imprescindibile.

@: Per le cronache. Che sono cose piccine e pedanti. E, soprattutto, transeunti.

§: Anche il finire i suoi giorni in galera sarebbe cosa piccina o pedante?

@: Non ho progetti alternativi. Il sostituire le pareti della mia casa con le pareti di una cella non significherà dover sostituire anche i miei pensieri.

§: Ah, lo dovrà per forza.

@: Vieni a abitarci dentro e lo saprai.

§: Le garantisco: come se l’avessi già fatto.

@: Tu nei miei pensieri non ci sei mai stato, t’avrei sentito.

§: Come se, come se.

@: Non ingannarti con quelli tuoi posticci rifatti a mia misura. Già valgono poco i miei, mi figuro i loro derivati. Ma bando alle metafore, che ci fanno dire le peggiori cretinate: il fatto è che tutto in una vita si può sostituire - una città, una famiglia, una donna, un padre, tutto - ma non un flusso di pensieri con un altro.

§: E se in galera la picchiassero? O la violentassero?

@: Sarebbe una temporanea e brusca interruzione del mio pensare, ma non un suo dover cessare. Né, soprattutto, un suo dover cambiare.

X: Possibile? Ha tanto poco rispetto di sé?

@: Tutt’altro. Ho pazienza.

&: Ma l’istinto animale: non era da questo che voleva salvarla?

@: Da nulla che non fosse lì presente. Lì a casa, lì nel bagno. Dall’idea del caos. Da questo e basta. Confermarmi che era solo un’apparenza, ma nient’affatto la realtà.

X: E basta?

@: Assolutamente.

§: Sia pure. Fosse vero il massacro e noi non la denunciassimo. Poi le conseguenze sarebbero anche nostre. Non ci vuole la mia esperienza in materia per saperlo.

@: Fallo!

§: Può starne certo.

@: Cosa t’aspetti? Che te l’impedisca? Ma nemmeno per idea. Il mio orgoglio, però, sarebbe se tu lo facessi anche nella piena certezza che non ho massacrato nessuno; che lo facessi solo per aver aderito in partenza all’ipotesi data: cioè, che io l’abbia fatto, ma che l’abbia fatto in teoria. Questa sì sarebbe un’autentica presa di dominio sulla realtà.

X: Oppure l’incontrario: una presa di dominio della realtà su di noi.

@: Bravo, l’hai detto.

&: Oppure, e ancor meglio, il contrario nell’altro senso!

X: Che contrario?

&: Non denunciarlo, ma nella certezza che l’abbia fatto. E non in teoria: realmente.

@: Bravissimo anche tu.

X: Non capisco. Che significherebbe?

&: Una scelta di campo che mi coinvolgerebbe in maniera totale. Mi spiego: sarebbe come se lui l’avesse fatto e noi alla fine ce ne fossimo convinti, ma avendo accettato in partenza di parlarne teoricamente questo bastasse a non farci agire. Perlomeno non contro di lui. Non è escluso, difatti, che, io stesso poi, spinto dai rimorsi, possa sentirmi obbligato a costituirmi. A denunciarmi. Da me. E magari a denunciare anche voi. Ma voi, non lui.

X: Allora perché non farlo tutti insieme?

&: Tutti e tre, certo. Avrebbe una sua logica. Perciò lo proponevo.

@: O tutti e quattro. Io stesso potrei denunciarmi da me.

&: Ah, certo. Così sì.

§: E questo cosa risolverebbe?

&: Ma come ‘cosa’? Effettuerebbe un miracolo. Trasformando un dato di cronaca in un concetto.

X: Sì, carnalizzandolo.

§: E ci copriremmo di ridicolo.

@: Non più di quanto stia accadendo a me con voi. Ditemelo voi: quanto?

&: E’ vero. Ha perfettamente ragione. Che differenza ci sarebbe?

@: Ho trovato il mio discepolo prediletto.

§: No, no, no, no. Altolà. Tutti questi abbracci e baci non mi convincono per niente. (All’uomo) Una volta per tutte, voglio saperlo: ci ha mai parlato sinceramente stasera?

@: Ti risponderò come un oracolo, ovvero non per bocca mia: ogni vera emozione ha un’espressione falsa. Esprimersi è dire ciò che non si sente.

§: (Esasperato, gli va quasi contro) Mi risponda, invece, per bocca sua.

@: Sì, molto. No, poco.

§: Di nuovo? Ma la finisca! - Cosa vuole da me? Si può sapere che accidenti vuole da me?

(E stavolta non regge oltre. Dicendo, lo prende per il bavero, lo tira su e lo scuote. Gli altri due intervengono immediatamente. La colluttazione è rapida e vivace. Senza parole, né gemiti, né esclamazioni. Marco viene trascinato dai suoi compagni in un angolo del giardino e tenuto fermo fino a che non appaia meno congestionato. L’uomo si preoccupa infinitamente per il proprio vestito. Lo alliscia, lo rassetta, e si massaggia il collo sofferente)

@: Io vi ho detto quello che dovevo. Quello che mi premeva. Non esiste un vento che sia sincero o insincero. Al massimo, gradevole o sgradevole.

§: Ha massacrato o no?

@: (Ai due che ancora lo tengono stretto) Potete lasciarlo. Mi sembra padrone di sé.

(E i due si scostano, ma tenendolo d’occhio con molta apprensione)

§: Ha massacrato o no?

@: Mi pare di averti già detto di sì. E, sempre a conferma delle mie opinioni, te l’ho detto prima che tu lo domandassi. E’ la tua domanda, dunque, a chiudere il cerchio, non la mia affermazione. Esattamente quel che sostengo. Quando una donna, ad esempio, s’accorge come d’improvviso di qualcosa che non funziona e si domanda: "Questo rapporto vale la pena di essere vissuto?", eccolo lì che il rapporto, da quell’istante, è già finito. Chiuso il cerchio e buonanotte. Non mi sembra che ci voglia molto per capirlo.

§: E, nel caso specifico, chi sarebbe la donna? Io?

&: Ma è ovvio. Sì, tu. Per forza.

§: Che dunque, lei dice, domandando avrei già risolto il mio enigma.

@: Deo Gratias. L’hai capita.

§: Ha massacrato o no?

X: E dài, Marco, te l’ha detto.

@: Non avrei potuto essere più chiaro.

§: Ha massacrato o no?

@: Se ti ripeto per l’ennesima volta ‘sì’, tu che rispondi?

§: Che non le credo.

@: Vedi? Il mio ‘sì’ non ti serviva a nulla. Le vere domande, quelle ultime e definitive, sono sempre un po’ isteriche.

§: Sta il fatto che io non le credo sul serio.

@: Plausibile. Dire implica il rischio di essere rifiutati. Ma, come vedi, tutto ciò non mi ha impedito di onorare il mio impegno con voi e di venire a trovarvi.

§: Lei è venuto per sfruttarci.

@: Lo so, questo è il tuo punto di ‘doleance’.

§: E non dico solo oggi. Ma per tutti gli anni passati insieme. Ci ha sfruttati. Eravamo il suo quaderno d’appunti. Lei che in altro non fissa quel che dice se non nelle orecchie di chi l’ascolta. Per fare di costoro la sua carta vivente, di carne e sangue, sparpagliata per il mondo. Bell’utopia: trasformare chi la conosce in libri, e il mondo nella sua biblioteca. Vivesse tanto a lungo, potrebbe anche riuscirci.

@: Strana bibloteca: riempita da scritti senza firma. Di chi il guadagno?

§: Sempre suo. E secondo una misura che è nota solo a lei. Magari potessi accusarla di vanità. Saremmo tra umani.

@: Ti dibatti in questo dialogo come un puledro in un recinto. Ma allora salta lo steccato e scappa. Non ti manca l’agilità per farlo.

§: Lei per poter non essere malato dovrebbe solo essere un santo. Allora sì. Ma non credo che lo sia. Perciò m’accanisco. Dei fogli: ecco cosa eravamo noi al suo appello. Lo ammetta. Puri e semplici fogli. A malapena in diritto di correggere qualche errore d’ortografia che poteva averci lasciato addosso. Tutto qui. O aggiungiamoci, se vuole, le sue erezioni da circo equestre. Fogli per scrivere, e fogli per pulirsi.

@: Difatti stavo per chiedervi un’ultima volta il bagno. Poi vado. So la strada, scusatemi un attimo.

(Si allontana di nuovo)

X: Non esagerare. Hai esagerato.

§: Non quanto avrei voluto.

X: Comunque hai esagerato.

&: La sua testa lo sai come funziona. Per questo è stato tanto importante, e per tutti noi. Intendo che non mi riferisco solo a noi tre.

§: Appunto. E’ noi che ha massacrato. E pur io non mi riferisco solo a noi che siamo qui. La nostra classe ha partorito destini catastrofici. Come mai?

&: Non per colpa sua.

§: E la mia di adesso minaccia la stessa sorte. Come mai?

&: Non per colpa tua.

§: Che ne sai? Mi hai mai visto mentre parlo? Li hai mai visti mentre mi ascoltano? Vieni, controlla.

X: A scuola da me invece no. Ed è giusto più il mio esempio del tuo che stai all’Università. I miei hanno la stessa età nostra di allora, i tuoi no. L’età, in queste cose, è cruciale. I miei ragazzi seguono con passione. E non a dire che io mi sia lasciato influenzare meno di te, o di te. Eppure, credimi, se ne può davvero cavare qualcosa di propositivo.

&: Sì, certo, sono d’accordo anch’io. Fare ‘tabula rasa’. Questa è la base. Non è poco. E a me l’ha insegnato bene. Mai temere quello che tutti temono: lì è la forza. Mai temere la vanità delle cose, ad esempio, poiché la vanità è chiarezza. Mai temere la contraddizione che regola i comportamenti umani, poiché se la conosci ti metterà in vantaggio su tutti gli altri.

§: Ma vi rendete conto che ora è andato di là a masturbarsi?

&: Già, ma supponiamo per assurdo che lui abbia veramente fatto quello che ha detto.

X: Ecco, per assurdo.

&: In tal caso come negare che egli sia stato capace, comunque, di spogliare di carne un evento tanto spaventoso per farne un puro supporto logico? E questo è un fatto concreto, che si è consumato sotto i nostri occhi. Hai voglia a dire no.

§: Spogliare di carne? Ma è l’inverso esatto di quello che ti attraeva prima: carnalizzarlo, un concetto. L’hai detto tu.

X: No, veramente io.

§: Come che sia. Facevate un bel coro. Ora cos’è, avete cambiato idea? Oppure ogni strada vi si fa buona purché il dito che ve la indichi sia il suo? Ma quello, ci scommetto, ha moncherini al posto delle mani e non indica un bel niente.

&: Insomma, che diavolo pretendiamo dalla vita? Che sia nelle nostre mani o no?

X: Io, a questo punto, vi confesso, lo denuncerei solo se fossi certo, come peraltro sono, che non ha fatto nulla. Altrimenti no.

&: Ah, pur io.

§: Meno male. Ben contento che siate d’accordo.

X: Ma solo se siete certi che.

&: Ah, io sì. Ormai sì. Tu?

§: Io? Figurarsi. Non lo dico da adesso.

X: Allora, d’accordo?

&: D’accordissimo.

§: Per me non c’è bisogno che ve lo stia a ripetere.

X: E quando?

&: Direi appena se ne va.

X: Sarà orgoglioso di noi.

§: Ma tu davvero credi che sia venuto a chiederci una prova? Possibile?

X: Sì, per me sì. Senza il minimo dubbio.

&: Me lo auguro. Perché a me va, e moltissimo, di essere degno di lui.

X: Però, pensiamoci. Un nostro ex-professore viene a proporci un raccontino dimostrativo e noi lo denunciamo. Rischiamo davvero di coprirci tutti di ridicolo.

&: Non ai suoi occhi.

§: Poi non sarebbe affatto dimostrativo se non arrivasse a nessuna dimostrazione.

&: Sì, è lui che ce lo chiede.

(L’uomo rientra. Si sta nettando le mani con un fazzoletto di carta)

@: Ragazzi, vi saluto. Si è fatto tardi. Buona prosecuzione. Io mi sento un po’ stremato.

§: Comprensibile.

@: Considerate, in ultima analisi, come spesso frasi elaborate raggiungano un assioma e lì si critallizzino.

&: Del tipo?

@: Qualsiasi.

&: Uno che le viene in mente! Il primo.

(Un breve silenzio di voci, ma non di ronzii e di foglie)

@: Ecco. Tutti gli uomini si pentono.

&: Non è solo un esempio fatto a caso, vero?

@: E’ un esempio e un assioma.

&: Ma avrebbe anche potuto sceglierne un altro?

@: Abbiamo talmente parlato di colpa.

§: Perché la disgusta tanto rispondere con un ‘sì’ o con un ‘no’? Non lo fa mai.

@: Perché la tua frase non potrà mai essere la mia. A meno di non usare il ‘no’ e il ‘sì’ in modo stonato. Nel qual caso li accetto.

X: Ad esempio?

@: Sì.

X: Allora?

@: L’ho appena fatto. Punto. Vado davvero. Crollo.

X: Arrivederci, Professore.

&: Arrivederci.

§: Lei sa come la penso. E pure loro la pensano come me.

@: Sicuramente.

§: Ce lo siamo detto.

@: Lo so, lo so. Vedremo i risultati. -E verificheremo. Buonanotte.

(E va. Non passa poco prima che i tre riprendano a parlare. Forse per essere certi che lui sia lontano, o forse perché una notte tanto sonora induce a molte premure prima di immettervi una qualsiasi voce.

Quello fra i tre che non viene mai chiamato per nome corre a sbirciare tra le foglie oltre la grata. E’ evidente che la strada si è rifatta vuota)

X: Allora che faccio? Vado a chiamare?

&: Abbiamo detto d’accordo.

§: Vorrei, però, che poi ci confrontassimo su cosa significhi per noi essere degni di lui. L’abbiamo lasciato un po’ in sospeso, invece merita.

&: Tu non ci tieni ad esserlo?

(La replica si fa aspettare)

§: Se per questo, sì. E tanto. Dovessi dirvi perché non lo so.

&: Quell’uomo ne ha il diritto. E ha il diritto che gli venga dimostrato. Prima che diventi del tutto invisibile. Le idee gli stanno sciogliendo le carni.

§: (All’altro, che è rimasto trepidante in piedi) Ci pensi tu a telefonare?

X: Sì, vado.

(E va)

&: Che pensi? Avrà mai sofferto di solitudine?

§: Dio, quanto sei patetico! Ma come ti viene in mente?

&: Casomai banale, non patetico. Chiunque lo conosca il problema se lo pone. Insomma, dimmi che pensi.

§: Ho sempre ritenuto di sì, ma stasera ho cambiato idea. La solitudine gli è vitale. A sottrargliela morirebbe. Inutile tentare di somigliargli troppo. Se non nasci pesce, potrai solo sforzarti di allungare le tue apnee ma nell’acqua non potrai abitarci mai. Te lo prendi un po’ di dolce?

&: Sì, un po’.

(Marco avvicina a sé il dolce ancora confezionato. Tira via gli spicchi di cartone chiusi a cupola. Fatto il che, si blocca)

§: Forse ci siamo ingannati l’un l’altro. Corri, digli di non chiamare. Se lo denunciassimo dimostreremmo di non aver capito nulla.

X: Perché?

§: E’ molto probabile che quelle due siano esistite davvero.

(E tira fuori dal cartone aperto a corolla un ferro da stiro insanguinato.)