Il mago moderno

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IL MAGO MODERNO

Illusione in un atto

di LUCIANO FOLGORE

PERSONAGGI

Il professor RANI

SAMUE­LE, suo servo

L'AGENTE

La signora ANZIT

GIUN­CHINO

I FIDANZATI

LA VECCHIA SIGNORA

Commedia formattata da

 (Studio del pro­fessor Rani. Nudo. Semplice. A sinistra un mobile qualun­que con sopra uno

specchio, una caraffa d'acqua, un bicchie­re. Nel mezzo una poltrona dallo schie­nale inclinabile co­me quella dei den­tisti. Porta, nel fondo, a destra).

Rani                              - (davanti allo specchio, togliendosi la barba fin­ta) Questa barba mi tiene caldo in modo straordinario. E' meglio che me la tolga per cinque minuti. (Al servo) Faccio bene, Samuele, non è vero?

Samuele                        - (con aria assente) Sì, professore.

Rani                              - Sei sempre ipnotizzato, tu?

Samuele                        - Lo debbo essere.

Rani                              - Giusto. Dimenticavo. Se la gente che bussa alla mia porta non s'accorge che in casa c'è un'aria di magnetismo, la fiducia è subito scossa. Ancora nessun cliente di là?

Samuele                        - Nessuno.

Rani                              - E le buste col biglietto di banca dentro?

Samuele                        - Le ho in tasca.

Rani                              - Quante?

Samuele                        - Otto, come lei ha comandato.

Rani                              - Bene. Non più di otto clienti oggi. Il sistema va. Che ne pensi, Samuele?

Samuele                        - Io non penso.

Rani                              - Per una volta tanto puoi pensare.

Samuele                        - Perché? Sono alloggiato, nutrito, vestito, calzato. Prendo inoltre mille lire al mese... Non so perché dovrei pensare! Del resto i pensieri, quando occorre, me li fornisce lei, professore.

Rani                              - Che effetto ti faccio senza barba? Brutto, non è vero?

Samuele                        - Non so.

Rani                              - Di' brutto, stupido. Te lo ordino.

Samuele                        - Sì, brutto... stupido...

Rani                              - Proprio così. La gente fin dalle antiche età non è capace di immaginarsi un mago senza barba. Ti ricordi i libri delle favole, Samuele?

Samuele                        - (come ripetendo una lezione) Il mago Merlino aveva una barba lunga fino a terra. Il mago delle Sette leghe possedeva un barbone magnifico. Bar­bablù... Giove Olimpico...

 

Rani                              - Sai tutte queste cose?

Samuele                        - Non le so. E' lei che me le suggerisce.

Rani                              - Già, già! Me ne scordavo. L'uomo in se stesso è un idiota. C'è qualcuno che gli suggerisce pensieri, sentimenti e allora l'uomo diventa intelligente. Anche la donna. Benché quella sua smania di prendere l'ini­ziativa le faccia commettere grosse stupidaggini. Ti ricordi Eva?

Samuele                        - (con un certo entusiasmo) Sì, la Genesi...

Rani                              - (corrucciato) La Genesi... che cosa c'entra? Perché hai pensato alla Bibbia senza il mio permesso?

Samuele                        - (giustificandosi) Professore, mi chiamo Samuele...

(Rani alza le spalle. Suono di campanello).

Rani                              - Dev'essere una donna anziana e paurosa. II suono è timido, discreto. Va a vedere. Intanto io mi rimetto la barba. Puoi fare entrare subito la visitatrice. (Samuele esce senza fretta. Rani si aggiusta la barba intorno al volto. Poi se la liscia con visibile compiacenza) Serica, maestosa, imponente. (Passeggia. Si guarda allo specchio. Si allontana un po' per goderne l'effetto. Entra una signora di quarantacinque anni. Vestita mo­destamente. Aspetta titubante sulla soglia).

Rani                              - (si volta. La scruta. Con voce profonda e sug­gestiva, da ipnotizzatore) Venga avanti. Lei signora si chiama...

La Signora                    - Anzù, professore.

Rani                              - Anzù. La conosco. Abita nella casa verde sulla piazza, accanto alla farmacia?

La Signora                    - Abito lì.

Rani                              - Viene da me perché il suo figliuolo la fa soffrire?

La Signora                    - Tutto il paese conosce le mie disgrazie.

Rani                              - Sì. Ma nessuno è stato capace di guarirla di questa sua sofferenza. Io la guarirò.

La Signora                    - Sarà una cura lunga, non è vero? Quante sedute, professore?

Rani                              - Quante ne occorreranno.

La Signora                    - (ansiosa) Almeno dieci, spero? Il male è grave...

Rani                              - (indicando la poltrona. Imperioso) Segga. (La signora siede). Abbandoni la testa sulla spalliera.

La Signora                    - (incerta, prima di obbedire) E per il pagamento delle visite?

Rani                              - Lei sa già che io dò cento lire a seduta. Il mio servitore le rimetterà la busta quando lei uscirà di qui.

La Signora                    - Grazie, grazie.. Non sarei venuta se non fosse il bisogno.

Rani                              - Ci si rivolge sempre a chi ci può aiutare. E quando la necessità spinge ai supplica, si prega, si chiede. Ma queste sono cose che nulla hanno a che vedere con la sua malattia. (Mettendosi a un passo dalla poltrona su cui la signora sì è abbandonata) A me gli occhi! (Tende le mani) Ecco. Va bene. Non pensi. Le sugge­rirò io qualche idea. Dimentichi che suo figlio la tra­scura, non le scrive più, si disinteressa di lei. Dimen­tichi. Adesso speri. Voglio che lei speri intensamente. Deve sperare che tutto ritorni come tre anni fa, quando il suo ragazzo non conosceva ancora quella donna. Ob­bedisca. Così... Sento che lei obbedisce. Per oggi basta. Si alzi. Torni domani. (La signora si alza imbambolata).

La Signora                    - (riprendendosi) Come ha detto, pro­fessore?

Rani                              - Torni domani. Vada. Si ricordi di farsi dare! a busta dal servitore.

La Signora                    - (sorridendo) Ah, la busta! Mi sento già meglio... Grazie (s'inchina).

                                      - (Rani saluta con un gesto. La signora esce).

Rani                              - (chiamando) Samuele?

Samuele                        - (comparendo sulla porta) Professore.

Rani                              - Altri clienti?

Samuele                        - Sì.

Rani                              - Fa entrare.

                                      - (Samuele si ritira).

Giunchino                     - (male in arnese. Testa arruffata. Aria spa­valda) Permesso? Posso? Non disturbo?

Rani                              - (lo guarda con cipiglio) Inoltrati, giovanotto.

Giunchino                     - (sghignazzando) E se non volessi inol­trarmi?

Rani                              - Te lo comando. Vieni qui.

Giunchino                     - (come soggiogato avanza di qualche passo. Poi con un tono di chi vuol farsi scusare la propria audacia e la propria irriverenza) Professore, io sono il matto del paese.

Rani                              - Vuoi che non lo sappia?

Giunchino                     - Ho sentito che c'era da guadagnare un bel biglietto.

Rani                              - Sì, un bel biglietto. Ti servirà per entrare nel regno della gente perbene. La tua pazzia è una posa.

Giunchino                     - Vuole che sfasci tutto qua dentro? Un calcio alla poltrona, un pugno nello specchio. Il paese intero riderà. O come riderà!

Rani                              - Non riderà. Vedi, gli altri li faccio sedere lì per facilitare la suggestione. Con te non serve. Ti cu­rerò in piedi. A me gli occhi. (Più forte) A me gli occhi!

Giunchino                     - Sono strabico, io.

Rani                              - Non importa. Sarà la tua coscienza che guar­derà diritto innanzi a sé. La tua coscienza ha la sciocca presunzione di poter divertire il prossimo con le buf­fonate. Di guadagnare la vita in questo modo. La tua coscienza deve dire: « Non lo farò più ».

Giunchino                     - (traballando) Ma...

Rani                              - Avanti. Di' «non lo farò più».

Giunchino                     - (si sforza dì resistere, poi sillaba suo mal­grado) Non - lo - f a - rò più.

Rani                              - (suggerendo) « E domani andrò da mio pa­dre... ». (Breve pausa). Ripeti.

Giunchino                     - E domani andrò da mio padre.

Rani                              - «... gli dirò: Fino ad oggi sono stato una bestia... ».

Giunchino                     - Una bestia.

Rani                              - « ... ora, però, voglio lavorare. Molto. Tanto. Tu sei vecchio e stanco. Riposerai ». (Avvicinando il proprio viso a quello di Giunchino. In tono perentorio) Tu dirai tutto questo, non è vero?

Giunchino                     - (ipnotizzato) Lo dirò.

Rani                              - E lo farai anche?

Giunchino                     - Lo farò.

Rani                              - > Svegliati - (gli passa una mano leggera a breve distanza dal viso).

Giunchino                     - (trasognato) Auf! Che c'è?

Rani                              - Esci. Vai. Ricorda. (Giunchino si aggiusta la cravatta. Si ravvia i capelli. Vuol sembrare il meno1 trasandato possibile). Non dimenticare il bel biglietto. Servirà per comprarti un vestito nuovo. (Giunchino esce con passo da automa. Rani beve un sorso d'acqua. Si asciuga la fronte). Che fatica rimettere a posto il mondo!

                                      - (La porta s'apre e compare un giovanotto, Anselmo, spinto da una graziosa ragazza, Lina).

Lina                               - Non aver paura. Il professore è buono, è generoso.

Anselmo                        - Io non ci sarei voluto venire. Ho altre idee, io!

Rani                              - (squadrandolo) Quali idee, giovanotto? Deb­bono essere illusioni le tue.

Lina                               - Sostiene che sua madre vuol fargli sposare per forza la brutta figliuola del pasticciere.

Rani                              - Hai detto bene. La brutta figliuola del pa­sticciere. Brutta di viso non è. Ma dentro!

Lina                               - Così ci dovremmo lasciare. L'altra è ricca e io non ho neppure il corredo.

Anselmo                        - I nostri affari riguardano noi soltanto. Io me ne vado (fa per uscire. La ragazza lo afferra per la giacca).

Rani                              - Lascialo. Non se ne andrà. Basta che io lo guardi. (Lo fissa) Ecco, diventa un agnellino. Siedi in quella poltrona. Immediatamente. (Anselmo impaurito obbedisce. Alla ragazza) Tu avrai il corredo. Quanto a lui gli mostrerò chi è la figlia del pasticciere. (Ad Anselmo) E' una ragazza egoista. Non ti ama. Non ti amerà mai. Capace di qualunque tradimento. Non pen­serai più a lei. Neppure alla sua grossa dote. Con quel denaro compreresti la tua infelicità. Ho detto. Propo­niti di sposare questa ragazza. Lo voglio. Nemmeno lei è una perla. Ma le perle non esistono. Tra i mali biso­gna scegliere sempre il minore. Alzati. E' fatto (gli sof­fia sul viso). Via di qui. (Batte due volte le mani. Sa­muele compare). Samuele, tre buste a questi bravi fi­gliuoli che sposeranno fra un mese. Faranno il possi­bile per sopportarsi a vicenda per tutta la vita. (I due si avviano. In quell'istante entra un uomo mingherlino e deciso).

L'Agente                       - Un momento. Fermatevi.

Rani                              - (risentito) Fermarsi?! Perché? Hanno da compiere un lungo cammino. Chi è lei? Desidera par­lare con me?

L'Agente                       - (meno sicuro) Sì.

Rani                              - Sono a sua disposizione. Ma che gli altri va­dano. Samuele, accompagnali. (La coppia esce preceduta dal servitore). Eccoci soli. Dica pure. Che vuole? Un consulto?

L'Agente                       - Sono un agente.

Rani                              - Un agente? Misera cosa. La sua autorità non vale il mio potere.

L'Agente                       - Lo vedremo.

Rani                              - Lo vedremo.

L'Agente                       - Lei esercita illegalmente la medicina. E' dottore, lei?

Rani                              - No, sono filantropo. Quanto all'esercizio ille­gale della medicina lei si sbaglia, agente numero tremilasettecentoottantotto.

L'Agente                       - Come sa il mio numero?

Rani                              - Uno scherzo da principianti. Le ho detto mentalmente: «Pensi un numero ». E lei ha subito pen­sato il suo numero di matricola. Torniamo alla medici­na. Speculo io? No. Pretendo di curare le malattie fi­siche? No. Io curo e guarisco le malattie morali. Inoltre pago i miei clienti. Li pago. Capisce? Anche quando non vorrebbero.

L'Agente                       - So anche questo. Ma con che li paga?

Rani                              - Cori biglietti da cento.

L'Agente                       - Falsi o buoni?

Rani                              - Non lo so. Tutti li spendono e tutti li accet­tano. Fino ad ora non c'è stato alcun reclamo.

L'Agente                       - E' vero. Però abbiamo indagato. Lei non è stato mai ricco.

Rani                              - Son cose che non si riescono mai a sapere con precisione. Al mondo molte ricchezze hanno una origine inspiegabile, misteriosa.

L'Agente                       - Del resto il suo nome è finto. Lei non si chiama Rani. Lei è Antonio Gruspi di anni quarantadue, nato a Scaramuccia Marittima.

Rani                              - Falso anche questo. Per esigenze di vita e di professione ho comperato da un vagabondo uno stato civile che non è il mio. Il mio nome è antichissimo. Così antico che non me lo ricordo nemmeno. Quarantadue anni?! Vuol farmi ridere. Io ho l'età della civilizza­zione.

L'Agente                       - Della civilizzazione?! Non capisco.

Rani                              - E' una cosa lunga a spiegare al numero tremilasettecentottantotto. Ma ci proverò. S'accomodi. In quella poltrona. Non si abbandoni sullo schienale. Si farebbe ipnotizzare facilmente.

L'Agente                       - Oh, io non sono del paese!

Rani                              - Tutto il mondo è paese. Sembra un luogo comune, eppure è la sacrosanta verità. Parliamo della mia età. L'ho ereditata.

L'Agente                       - L'età non si eredita.

Rani                              - In generale no. Ma vi sono esseri eccezio­nali che si trasmettono secoli di potenza, millenni di fede l'uno con l'altro. Questo da quando l'uomo ha as­saggiato il progresso. (L'agente ride). Rida pure. Però il progresso è una polverina impalpabile, una specie di stupefacente. E' da tempi immemorabili che circola nell'aria. Tutti la annusano, la respirano e credono di ve­dere e di vivere cose sempre nuove e magari più per­fette. Macchine, congegni, sistemi, dottrine che sembra diano una maggiore latitudine alla vita. « La civiltà come ebbrezza e suggestione ». La polverina fa gridare a un esaltato: «Ho creato questo! Ho scoperto questo! Ho inventato questo! ».

L'Agente                       - Bene. Ma chi ci crede?

Rani                              - Tutti. Lei non pensa di andare in treno, in piroscafo, in aeroplano?

L'Agente                       - Non lo penso mica! Quando capita ci vado.

Rani                              - Ebbene, lei ci va e non ci va!

L'Agente                       - Come sarebbe a dire?

Rani                              - La fantasia. La suggestione collettiva. Le mac­chine, e tanti altri ritrovati, esistono solo nello spirito. L'uomo se li immagina e li ritiene veri. Forse sono real­mente veri. Un'intelligenza superiore li suggerisce, pro­babilmente perché sono necessari alla esistenza umana. Può darsi che, se il suggerimento cessasse, il genere uma­no si inaridirebbe, finirebbe.

L'Agente                       - (si gratta la testa) Non riesco a compren­dere.

Rani                              - Lo so. Non importa. Ad ogni modo questo progresso è la superficie, ,la scorza, l'apparenza varia e multicolore della vita. Ciò che conta è il dentro. Quello è rimasto primordiale.

L'Agente                       - Senta, io non sono venuto qui per le chiacchiere. Lei chi è? L'autorità ha bisogno di saperlo.

Rani                              - Ma se glielo sto spiegando! Non mi lascia finire! Sono il vero filantropo. Cerco di regolare i sen­timenti. Far prevalere le qualità sui difetti. Con l'ipno­tismo?! Oh, l'ipnotismo è una parola come un'altra. L'uo­mo è pieno di miserie e di guai. Io procuro di eliminarli. Persino in quelli che non hanno fede.

L'Agente                       - Lei abolisce miserie e guai? Sa, anche io ne ho tanti.

Rani                              - Mi guardi.

L'Agente                       - Perché?

Rani                              - (più perentorio) Mi guardi fisso negli occhi. Ci siamo. Lei desidera fare carriera, diventare ispettore?

L'Agente                       - Sì, è vero. Però non vedo come, non saprei...

Rani                              - Ci pensi sempre. Pensandoci dalla mattina alla sera, troverà il modo di realizzare il suo desiderio. (Suggestivo, insinuante) Sì, lo realizzerai, poveruomo, perché la tua è una aspirazione onesta. Su, scuotiti.

L'Agente                       - (si riscuote. Si passa una mano sulla fronte) Che cosa è successo?

Rani                              - Nulla.

L'Agente                       - Strano... Mi sento più energico! Sa, mi avevano detto: «Indagate, e se occorre arrestatelo». Ma io non l'arresto. Sarebbe mal fatto. Non so come spie­garlo, ma sento che sarebbe proprio mal fatto. Gli errori iniziali rovinano la carriera. A rivederla, professore.

Rani                              - (voltandogli le spalle) Addio.

L'Agente                       - (si arresta sulla soglia. Indeciso. Ha paura di domandare) Scusi, professore...

Rani                              - Che c'è? .

L'Agente                       - Visto che la mia missione non ha avuto luogo potrebbe... potrebbe considerarmi come cliente?

Rani                              - Incontentabile. Anche il bigliettone! Vedia­mo, che numero di matricola ha lei?

L'Agente                       - (pronto) Io? Subito. Numero... numero. Che numero ho? Accidenti. Non riesco a ricordarmelo. (Con rammarico) Allora niente, non è vero?

Rani                              - Tutto. Senza numero, lei non è più un agente. E' un individuo qualunque per me. (Chiamando) Sa­muele?

Samuele                        - Comandi?

Rani                              - Una busta anche al signore. Fai entrare altri clienti. (Samuele e l'agente escono).

La vecchia Signora       - (irrompendo nello studio, minac­ciosa, con l'ombrello in pugno) Vi ho trovato, final­mente, razza di impostore! Avete suggestionato mio ma­rito. Gli avete suggerito di comandare in casa. Ma io vi rompo la testa, ciarlatano.

Rani                              - (fissandola) Si calmi, vecchia signora.

La vecchia Signora       - (meno inquieta, lascia ricadere l'ombrello) Che calma e calma! Io mi sento capace...

Rani                              - (aggredendola quasi) Di cosa, vecchia si­gnora? Segga. Là  (indica la poltrona).

La signora retrocede lentamente. Si lascia cadere sulla poltrona. Abbandona l'ombrello. Si afferra ai bracciuoli. Il professore si avvicina lentamente, si curva sulla nuova cliente...

FINE