Il marinaio Flip

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IL MARINAIO FLIP

Commedia in tre atti

di MARIO LUCIANI

PERSONAGGI

ENRICO FLIP

EDOARDO FLIP

CLOTILDE LIESEN-THAL

ATENAIDE LIESEN-THAL

Il dottor PROCUS

Il capostazione BALDENBACK

Il sindaco WALDENSHEE

IL VECCHIO LUPO

IL DE­LEGATO

ZOLAKAY

BENA

L'OSTE

IL CAPOBANDA

FRITZ

A Tirpitz, paese di marinai.

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

In prospetto - a grandezza di bocca­scena - la stazione di Tirpitz. Sui muri scritte con la dicitura: « Viva il Mari­naio E. Flip! » « Flip, salute! » « Viva Flip!». Il tetto è spiovente. Al­la tettoia sono ap­pesi due lumi antiquati. Tardo pome­riggio che degrada in una bellissima se­ra d'estate.

 (Quando si apre il velario è in scena il solo dottor Procus. Attraverso un cannocchiale guarda in alto, oltre la ribalta. (Fissa il loggione, per intenderci!. Tenue ronzio d'aeroplano, che subito finisce. Entra il capostazione).

Il Capostazione                  - (guardando anche lui verso l’alto) E' il postale Bucarest-Venezia... Come fila, eh? Pensare che a bordo c'è tutto: bar, ristorante, biblioteca, vista incantevole attraverso gli oblò.

Procus                                - (togliendosi il cannocchiale dagli occhi, con into­nazione antitetica) Molto interessante... Ma questo treno, arriva o non arriva?...

Il Capostazione                  - Fra mezz'ora sarà qui.

Procus                                - (levando l'orologio) Mezz'ora?!... Allora è in ritardo!

Il Capostazione                  - Ma che ritardo... Cioè: ritardo... sì, ma il solito. Tutti i giorni il treno ritarda dieci minuti.

Procus                                - Allora se è deciso che il treno debba ritar­dare tutti i giorni tanto varrebbe variare la tabella!

Il Capostazione                  - Bravo!... E se - per quale raro caso non saprei - una volta il treno arrivasse in orario?... Allora?...

Procus                                - Questo non si deve essere ancora verificato dal giorno in cui un ramo delle Ferrovie del Sud è stato biforcato sino a Tirpitz, stazione sotto la vostra giurisdi­zione, caro Baldenback!

 Il Capostazione                 - Oh, oh... quante storie... come la fate lunga!... Sempre il solito pignolo, voi!...

Procus                                - lo sono un uomo che ama la precisione: mia ed altrui. E sono un semplice privato. Tanto più dovrebbero essere precisi gli individui preposti al servizio del pubblico.

Il Capostazione                  - Ma sì, sappiamo che la precisione è la vostra mania! Come per l'affare del cannone di mez­zogiorno... buffonerie!...

Procus                                - Buffonerie?!... Ma non capite che se non fossi intervenuto io, con il mio cronometro comprato a Lubiana, il cannone di mezzogiorno - a lungo andare - avrebbe finito per sparare alle tredici e tutta la vita cittadina avrebbe visto ritardare il proprio ritmo di un'ora?!... Nascite e morti avvenute in ritardo... avveni­menti posticipati di minuti e minuti... Buffonerie?!... A me pareva cosa d'importanza capitale, tanto che ho cre­duto bene intervenire. E che discussione ho dovuto so­stenere con il sergente preposto allo sparo del cannone!... Non voleva persuadersi che il suo orologio andasse male! Me l'ha regalato mio nonno! » urlava «e non ha mai fallato!». Abbiamo dovuto telefonare a Ergovitz, a spese mie - ben inteso - , perché si persuadesse che il suo era una cipolla e non un orologio su cui regolare la vita di un'intera cittadinanza... Adesso, però, su quel punto, sono soddisfatto. Bisognerà che intervenga anche per il ritardo del treno...

Il Capostazione                  - Ma non avete altro da fare, voi, che occuparvi di questioni estranee?... Il ritardo del treno!... Ma se è già un onore che lo Stato fa a Tirpitz nell'avergli concesso un proprio tronco ferroviario... Per quei quattro viaggiatori che vi partono e vi arrivano gior-nalmente!... Tanto, a Tirpitz, sarà sempre inutile parlare di ferrovia. Sono tutti troppo abituati a servirsi del mare... (Entra Atenaide trascinando per un braccio la figlia Clotilde).

Atenaide                            - E' arrivato?... Dio, che corsa! E ancora un po' di cipria, e un ultimo colpo di pettine... Non la finiva più!

Clotilde                              - Chi, mamma?... Io o tu?...

Atenaide                            - In me sarebbe anche scusabile. Ho qualche annetto e qualche ruga da nascondere. Ma tu che hai ancora il latte sulle labbra... Ma questo treno?...

Procus                                - C'è ancora tempo, signora Liesenthal.

Atenaide                            - Abbiamo fatto una corsa! (A Clotilde) Per il tuo Flip. Quale, poi? Se ancora non sappiamo quale dei due cugini sia l'eroe...

Clotilde                              - Che cose assurde, mamma! Quale dei due vuoi che sia? Ma certamente Edoardo, il mio fidanzato...

Atenaide                            - Fidanzato, fidanzato... Una volta, quando tutto il mondo non l'aveva esaltato... Ma adesso... Ti vorrà sempre?

Clotilde                              - . Ne sono certa, mamma! Come sono certa che è per me che torna cosi presto a Tirpitz. Non credi?

Atenaide                            - Può darsi... Sé è lui! Ma la certezza che il reduce sia Edoardo, anziché Enrico, chi te l'ha data?... In tutti i giornali abbiamo letto le gesta del marinaio Flip. Del marinaio E. Flip. Nessun foglio - che io sappia - ha mai pubblicato il nome di battesimo per intero.

Il Capostazione                  - Questo è vero. Ed è strano.

Procus                                - Strano?... No!... Quello che conta è il co­gnome. A meno che uno non possieda un nome - diciamo così - esclusivo: come Napoleone, come Michelangelo. Ma Edoardo ed Enrico sono nomi troppo comuni per diventare parti integranti del personaggio esaltato. (Indica le scritte murali) Suonerebbe male anche lì: «Viva il marinaio Edoardo o Enrico Flip! ». Troppo lungo. In­vece molto più sonoro: «Viva il marinaio Flip! ».

Atenaide                            - Però, eh? Chi l'avrebbe detto che sotto la scorza di Flip si nascondesse un'anima di eroe. Io lo conosco da bambino...

Procus                                - Quale?

Atenaide                            - Come, quale?

Procus i                              - Sono due i Flip. Edoardo ed Enrico. Lo stiamo cantando da mezz'ora.

Atenaide                            - Ma tutt'e due li conosco da bambini. Edoardo è maggiore del cugino di qualche anno. Sono figli di due fratelli ed entrambi sono orfani e soli al mondo. Sono gli ultimi rimasti della famiglia Flip, oriunda - credo - della Romania. Voi li conoscete, signor Baldenback?

Il Capostazione                  - No. Sono a Tirpitz da due mesi soltanto ed al mio arrivo qui essi erano già partiti. Ma un poco mi pare di conoscerli. In paese - da qualche tempo a questa parte - non si discorre che di loro. Ed anch'io spesso mi chiedo: quale dei due sarà l'eroe, quale dei due sarà il reduce di questa sera?...

Procus                                - Come la signorina Liesenthal, anch'io esclu­do Enrico. L'eroe non può essere lui. Troppo infingardo per saper compiere l'atto che ne ha esaltato il cognome nel mondo!

Atenaide                            - Allora se l'eroe è Edoardo, Enrico è morto.

Il Capostazione                  - Morto?

Procus                                - Eh, già, questo è ovvio! Delle 427 persone - tra equipaggio e passeggeri - che portava il « Caledonia », 426 sono annegate. L'unico che si sia salvato dal naufragio è un Flip. Noi crediamo Edoardo. Tutto, infatti, lo lascia supporre. Ma allora è matematico che Enrico - che era imbarcato col cugino - sia perito.

Atenaide                            - (E se invece fosse perito Edoardo?... La­sciatemi insistere in quest'ipotesi...

 Clotilde                             - E tu puoi pensare, mamma, che Enrico Flip sia stato capace di quell'atto eroico?!... Avrei ca­pito salvarsi, ma preoccuparsi - prima di gettarsi in mare - di porre in salvo quell'incartamento contenente documenti di valore internazionale - smarriti i quali - avrebbero causato chissà quale scompiglio nella poli­tica europea?... No, no!... Escludo assolutamente Enrico Flip capace di guardare un millimetro più in là della propria salvezza personale.

Atenaide                            - Adesso tu esageri, Clotilde.

Clotilde                              - Mamma, non te lo rammenti? E' sempre stato un egoista, un arido, incapace di un sentimento.

Atenaide                            - Proprio tu questo non lo dovresti dire. Enrico Flip ti ha confessato almeno dieci volte di essere innamorato di te... E l'amore è puro sentimento, cheio sappia

Clotilde                              - E tu credi che sentisse quello che diceva? Voleva soltanto rubarmi al cugino... Già, anche questo, non lo consideri?... Gli unici due rimasti della famiglia Flip non si potevano soffrire a vicenda. E chi fomentava continuamente questa avversione reciproca? Enrico, uni­camente Enrico. A furia di continui pungenti colpi di spillo!

Atenaide                            - Però, nel fisico, che diversità fra i due!... Enrico faccia aperta, chiara. Edoardo, invece, sempre immusonito. E sempre curvo come sotto chissà quale tremenda avversità... Ah, è certo che fisicamente Enrico vince sul cugino di cento lunghezze... L'uno muscoloso, aitante; l'altro macilento, emaciato, dalla pelle gialla... No?...

Clotilde                              - Mi pare proprio che tu esageri...

Atenaide                            - Esagero?... Ma sei proprio cieca, figlia mia! Se stanno uno all'altro come i tartufi alle patate lesse!...

Procus                                - Le patate lesse chi sarebbero?

Atenaide                            - Ma... Edoardo...

Procus                                - Allora voi preferite Edoardo.

Atenaide                            - Ma no: le patate lesse...

Procus                                - Io, ad esempio, le patate lesse - una goc­cia d'olio, un pizzico di sale - le preferisco cento volte ai tartufi!

Il Capostazione                  - E da capo, voi, con le pignolate! Quando uno adopera una metafora, la cerca nella gene­ralità... Fareste ridere un cammello...

Procus                                - Il cammello non sa ridere. E' la bestia più triste dell'universo. Sempre solitario. Sabbia e sole...

Il Capostazione                  - (mettendosi le mani nei capelli) Madonna, Madonna! Sabbia e sole...

Il Sindaco                          - (giungendo trafelato) E' arrivato il treno?

Il Capostazione                  - (al quale era rivolta la domanda, non gli bada e va verso il fondo).

Il Sindaco                          - (afferrando il capostazione per un brac­cio) E' arrivato il treno?

Il Capostazione                  - (con un urlo) No!

Il Sindaco                          - Be'?... Cosa sono questi modi inur­bani?... Al postutto io sono il sindaco!

Il Capostazione                  - E con questo? No, il treno non è arrivato, forse non arriverà nemmeno, perché per giun­gere a Tirpitz deve passare sopra un fiume e c'è caso vi precipiti dentro! Al postutto... al postutto... (esce brontolando).

Il Sindaco                          - Ma che ha?

Procus                                - Chi lo sa?... Avrà i nervi, il tempo è umido. Lo sento dal mio callo...

Il Sindaco                          - Già, il tempo è umido... (Breve pausa).

Procus                                - Bisogna stare coperti... non fidarsi dell'aria calda...

Il Sindaco                          - Già. (Altra pausa. Quindi rivolto alle due donne) Buona sera, bellissime!

Atenaide                            - Bellissime?!... Lei! (accennando a Clo­tilde). Io, un tempo! Ora - eh, no - purtroppo!

Il Sindaco                          - Io vi vedo sempre con gli occhi di al­lora. Di quando non ero sindaco, a Tirpitz non arri­vava il treno, non avevamo fra i piedi un capostazione bisbetico... e voi mi diceste di no... (A Clotilde) Pen­sare che se - a quel tempo - vostra madre mi avesse detto di sì, io sarei stato capace di cose grandi. Ma­gari d'inventare la radio.

Procus                                - Voi, invece di Marconi?

Il Sindaco                          - E chi può dire dove sappia arrivare un uomo, anche non eccezionale, per gli occhi di una don­na!?... A cose grandi, spesso più grandi di lui!

Procus                                - Invece siete diventato sindaco, ed in luogo della radio avete inventato la tassa sulle uova che supe­rino i sessanta grammi. Be', in fondo è già meglio che niente!

Atenaide                            - Il signor Waldenshee è degno della più alta considerazione, anche se non ha inventato la radio. Egli è l'uomo più probo, più retto di Tirpitz. Non fuma, non beve, non gioca, non prende caffè. E' per questi meriti eccezionali che è stato creato sindaco, cioè primo cittadino...

Il Sindaco                          - Per carità! Mi hanno fatto sindaco perché sono uno di quegli uomini a cui si possono sempre chie­dere cinquanta fiorini in prestito, sicuri che non dicono di no. (Non fumo e non bevo perché soffro di cardio­palma. Non gioco perché il gioco mi fa addormentare...

Il Maresciallo                     - (entra, compunto, cerimonioso, tutto d'un pezzo, baffi unti di sego. Al sindaco) Mi sono messo la decorazione. Ho creduto di far bene per dare un po' di solennità al ricevimento dell'eroe paesano...

Il Sindaco                          - Avete fatto benissimo!

Il Maresciallo                     - (batte i tacchi, saluta, si allontana e si mette a passeggiare in su e in giù, lungo il fondo, come un fantoccio meccanico).

Il Sindaco                          - Oh, a proposito, vi voglio far sentire... (Si fruga nelle tasche) Maledizione! L'ho dimenticato...

Atenaide                            - Cosa?

Il Sindaco                          - (continuando a frugarsi disperatamente nelle tasche) Maledizione! L'ho dimenticato sulla scrivania, o in camera da letto, o al Caffè. Comunque non lo trovo più. Darei la testa nel muro. Sempre così: anche l'ul­tima volta, all'inaugurazione del monumento a Matteo Pordowitz! Tocca a me, metto le mani in tasca: niente: le cartelle erano rimaste... (A furia di cercare final­mente le ha trovate) Ma no, questa volta sono qui! Vo­lete sentire? (Inforca gli occhiali, si schiarisce la voce) Marinaio Flip! (La sua voce è stentorea. Tutti si ammic­cano fra loro, annoiati) A nome della città di Tirpitz vi dò il benvenuto. Tutto il mondo pronuncia il vostro nome levandosi il cappello...

Procus                                - Scusate: io metterei « il vostro cognome »; perché se realmente tutto il mondo pronunciasse il suonome, lo sapremmo anche noi, e non staremmo qui a sfogliare le margheritine per sapere quale dei due cugini sia l'eroe.

Il Sindaco                          - (accondiscendente) Dite? E allora met­tiamo il cognome... Avete un lapis?... Grazie. (Corregge, restituisce il lapis a Procus che gliel'aveva prestato e riprende) (Dunque... ahm... ahm... il vostro cognome, le­vandosi il cappello. La nave filava sulle onde azzurre quando...

Clotilde                              - Io credo che le onde siano azzurre solo sulle cartoline illustrate. Io metterei: «La nave filava sul mare agitato... ».

Atenaide                            - E se poi non fosse stato agitato...

Clotilde                              - E' per dare colore alla frase. Che importa? Tanto nessuno di noi c'era.

Atenaide                            - Di noi no, ma c'era lui - Flip - al quale il discorso è rivolto... e lui, altro che se c'era...

Il Sindaco                          - Allora come mettiamo?...

Procus                                - Io metterei: «La nave filava », e basta!

Il Sindaco                          - Mi ridate il lapis? Grazie. (Cancella). La nave filava...

Procus                                - Si chiama Pietro...

Il Sindaco                          - Chi?

Procus                                - Il mio lapis.

Il Sindaco                          - (rendendoglielo) Ah, scusate! Dunque, la nave 'filava, quando, un bel giorno...

Procus                                - lo metterei «Un brutto giorno». Ecco il lapis.

Il Sindaco                          - (corregge, paziente come un certosino e continua) ... Un brutto giorno - ecco il vostro lapis! uno scoppio alle caldaie inabissa la nave nell'oceano. Tutti vengono inghiottiti dai flutti: tutti, meno voi! Voi, marinaio Flip, in quell'istante, toccato certamente da Dio, riuscite a salvarvi. Ma prima di gettarvi in acqua pensate ai documenti...

Atenaide                            - Scusate, signor sindaco, perché gli volete raccontare tutta quella roba, quasi non la sapesse! Una bella stretta di mano, magari un abbraccio, mi pare sa­rebbe molto più significativo Ad esempio: « Marinaio Flip, vi abbraccio a nome di tutta Tirpitz... ».

Il Sindaco                          - (rimasto male) Questo, secondo voi, basta? Non è un po' poco?

Atenaide                            - Ma no; anzi! Sentite come suona bene! (Parodiando la voce del sindaco) « Marinaio Flip, vi ab­braccio a nome di tutta Tirpitz »... e lo abbracciate, così! (abbraccia il sindaco). Ma se anche questo vi tornasse difficile, dite semplicemente: «Vi abbraccio!», senza aggiungere altro.

Il Maresciallo                     - (riavvicinandosi al sindaco) Ho messo la decorazione perché ho pensato che sarebbe stato bello dare un carattere ufficiale al ricevimento dell'eroe paesano.

Il Sindaco                          - Certo, certo.

Il Maresciallo                     - (saluta, batte i tacchi e ritorna a pas­seggiare in su e in giù lungo il fondo).

Il Vecchio Lupo                - (barba fluente, corta pipetta, panta­loni scuri, maglione blu con ancora bianca sul petto. En­trando, agli astanti) Oh, signori, siete già qui? Bravi! E' bella questa accoglienza che preparate ad un eroe del mare! E' degna dei tempi che furono! Anche a me al­lora... quando salvai a forza il mio capitano... Povero Talvis! (Con voce di pianto) Adesso è morto! PoveroTalvis! Quello era un uomo! Tutto d'un pezzo con la sua pipa di radica. E che bestemmiatore! Inventava certe bestemmie che sapevano calmare le onde infuriate. Non che fosse un eretico. Tutt'altro! Diceva: « Dio non se la prende se ogni tanto gliene dico qualcuna. Io e lui siamo amici », diceva. (Adesso singhiozza) Povero Tal­vis... Ora è morto...

Il Sindaco                          - Ma non è mica morto oggi!

Il Vecchio Lupo                - (con voce tornata normalissima) No, quindici anni fa.

Il Sindaco                          - E allora cosa ci affliggete sempre con il vostro capitano bestemmiatore...

Il Vecchio Lupo                - Vigliacco, vigliacco...

Il Sindaco                          - Eh? A me?!...

Il Vecchio Lupo                - Sì, a voi... (Fissa il sindaco e scop­pia in una rumorosa risata di scherno) Vecchio feni­cottero... .

Il Sindaco                          - Be'? Mi prendete in giro?

Il Vecchio Lupo                - Spelacchiato gabbiano di Magel­lano... Se non foste il sindaco e non dovessi rispetto alla vostra carica, vi sputerei in un occhio la saliva di sei ore di pipa!

Il Sindaco                          - Ohi, dico...

Il Vecchio Lupo                - Ma via, ci conosciamo...

Il Sindaco                          - (esplodendo) Ma insomma, basta! Cos'è sta roba? Il capostazione non risponde mai alla prima, voi mi chiamate fenicottero e gabbiano spelacchiato e mi ridete sul muso... Basta! Voglio rispetto! Al postutto io sono il sindaco! Perché non sono un'aquila? Perché non ho la Croce di Ferro? Oh ma anch'io una volta... ebbene sì: anch'io una volta ho compiuto un atto eroico...

Aienaide                            - Voi?

Il Sindaco                          - (con voce in cui quasi affiora il pianto) Vi sembra strano e forse impossibile, vero?

Atenaide                            - Non dico questo...

Il Sindaco                          - (Sì, certo... non ho la sagoma dell'eroe. Ho la pancia, baffi ispidi, il cuore non funziona a do­vere... ma anch'io... (Si concentra) Fu il 3 agosto 1912. In Cracovia. Nevicava.

Peocus                               - D'agosto?

li Sindaco                           - Cosa?

Procus                                - Nevica d'agosto?

Il Sindaco                          - Sì, certo, iena maledetta, sui monti, a 350O metri, nevicava... Eravamo ad una partita di caccia al camoscio io, il barone Wilma, il conte Erbowitz. In tre. Ah, no. In quattro. C'era anche il capitano Dekessteil. Ad un tratto si scatena una bufera che non vi dico. Una di quelle bufere che sembrano la fine del mondo... (Pian piano tutti si allontanano e lo lasciano raccontare al vento le proprie gesta. Il dott. Procus esce a destra. Le due donne ed il vecchio lupo vanno a parlare fra loro sul limite estremo del boccascena, a destra. Ma il sindaco subito non si è accorto dell'esodo. Continua a narrare) Ad un tratto il barone Wilma scivola. Un grande urlo, un rotolio di sassi, poi più nulla. Allora io....

Il Maresciallo                     - (interrompendo la sua passeggiata mec­canica al fondo della scena, rivolgendosi al sindaco) Oltre alla decorazione ho messo anche l'alta uniforme. Ho pensalo bene di dare un po' di pompa al ricevimento del nostro eroe paesano...

Il Sindaco                          - Ma che barba, voi ed il ricevimento... (Si accorge di essere rimasto a parlare all'aria. Con vocein cui affiora il pianto) Ah, la mia storia non v'in­teressa?... E" giusto! Io sono un povero vecchio babbeo... (Afferrando il vecchio lupo al petto, con veemenza, e tra­scinandolo in mezzo alla scena) Voi non avete voluto ascoltare la mia storia?... Nemmeno io, del resto, ho voluto ascoltare la vostra... (i due si fissano, prima truci, quindi scoppiano in una grande risata e si gettano le braccia al collo) In fondo ci scappa di raccontarcela a vicenda... No? Ma sì... diciamo pane al pane! Noi, quali soddisfazioni abbiamo oltre a questa? Nessuna! Vita grigia oggi come domani, domani come ieri. Se non ci distraessimo ogni tanto col raccontarci le nostre vicende di un tempo... sarebbe l'asfissia. E tanto io come voi ne abbiamo una che ci sta sul cuore. Voi sapete a me­moria la mia, io so a memoria la vostra. Sono quindici anni che ce la raccontiamo, in media tre volte la set­timana. Ma non importa! E' una gioia quando siamo lì ad ascoltarci reciprocamente a bocca aperta... Ma sì, amico, venite... Sediamoci su quella panchina... (al fondo, contro parete) e narratemi del vostro capitano Talvis. (Con estremo interesse, quasi anelante) Com'è andata, eh? Dunque il mare era nero come... Come era nero il vostro mare?...

Il Vecchio Lupo                - (tira quattro pipate, si raccoglie e, serissimo, quasi che il preludio semiburlesco del sin­daco non contasse, dopo una pausa, con voce cavernosa) Il mare era nero come l'anima di certa gente... Talvis, il mio vecchio capitano Talvis... adesso è morto... (Siedono sulla panchina ove si narrano le loro storie, uno verso l’altro apparentemente attentissimi).

Atenaide                            - Li vedi, Clotilde? Sono felici! Tu credi che il sindaco ascolti il vecchio lupo e viceversa? Neanche per idea. Mentre uno parla, l'altro rimugina entro di sé la propria storia che attaccherà appena il primo avrà finito la sua. Ma, li vedi? Fingono di ascoltarsi atten­tissimi... E sono felici perché tornano con la fantasia a quell'unico quarto d'ora della loro vita in cui sono stati qualcuno...

Clotilde                              - Mamma, non m'interessa. Penso piuttosto al caso in cui veramente, invece di Edoardo, tornasse Enrico. Non si sa mai... Tutto è possibile...

Atenaide                            - Ebbene?

Clotilde                              - Se invece di Edoardo tornasse Enrico, che contegno dovrei tenere?

Atenaide                            - Se tornasse Enrico è segno che Edoardo, il tuo fidanzato, è morto. E allora... ma non spetta a me il dirlo... insomma: tu amavi Edoardo?

Clotilde                              - Tornerà Edoardo?

Atenaide                            - E da capo con questi interrogativi! Cosa vuoi ne sappia io?!...

Clotilde                              - Perché se Edoardo fosse morto...

Atenaide                            - Insomma, lo amavi?

Clotilde                              - « Lo amavi!... ». Tu lo dai già per sepolto... Lo amo, mamma!

Atenaide                            - Supponi per un momento che sia morto.

Clotilde                              - Perché?

Atenaide                            - Supponilo. Fammi sto' favore...

Clotilde                              - Lo suppongo. Avanti!

Atenaide                            - E allora, ecco: tu lo amavi... se è morto posso ben dire « lo amavi » - e allora fa un po' di esame di coscienza, ma sincero: perché lo amavi?

Clotilde                              - Sono cose a cui non si può rispondere... Perché le ciliege sono rosse? Per la stessa ragione!

Atenaide                            - Lascia in pace le ciliege. Tu amavi Edoardo perché era qualcosa più del cugino. Semplicemente per questo. Tu sei una ragazza che guarda al concreto. Come tua madre. Che non sì lascia abbacinare da uno sguardo bruciante o da un paio di baffetti rubacuori. Specie quando c'è come mèta il matrimonio. Dunque: tu avevi posato gli occhi sopra Edoardo, invece che sopra En­rico, semplicemente perché Edoardo era più serio, più sensato... più... ecco, più «tutto» del cugino. No? Ma se l'eroe di cui parla il mondo fosse invece Enrico, « il più tutto » sarebbe lui, e non ci sarebbe quindi ragione per cui tu non lo dovessi accogliere affettuosamente...

Clotilde                              - Tu sei logica, mamma, spaventosamente logica... ma non sempre, purtroppo, la logica è ragio­nevole...

Atenaide                            - Sbagli. La logica finisce, presto o tardi, per diventare ragionevole e, soprattutto, per vincere. Stammi a sentire: tu amavi un Flip. Non era però il tuo - che io sapessi - uno di quegli amori che scon­volgono, che ottenebrano, che accecano; bensì un amore calmo, pacato, fatto appunto di logica... No?

Clotilde                              - E’ vero. Per Edoardo non mi sono mai strappata i capelli, né ho passato notti insonni. Vedevo in lui un buon marito, nient'altro. Un buon marito - però - al quale avrei voluto molto bene.

Atenaide                            - Certo, molto bene, ma per quelle ragioni che ti ho elencato e che te lo hanno fatto preferire al cugino. Ma, continuo: se torna Edoardo, quello è il tuo fidanzato e... buona notte. Se invece torna Enrico, quello ti ha detto cento volte di amarti... e buona notte... ancora! Mi capisci? Capisci dove voglio arrivare? Chiunque ar­rivi tu sei vicina a realizzare il tuo sogno. Che è anche il mio. Maritarti, avere dei figli, andare alla Messa con in testa il velo nero anziché bianco... No?...

Il Sindaco                          - (che era intento a raccontare la propria storia al vecchio lupo, urlando al maresciallo che gli si era avvicinato) Ma basta, ho capito, basta!

Il Maresciallo                     - (calmissimo) Ma via, non vi ar­rabbiate!

Il Sindaco                          - Siete ossessionante con il vostro ri­tornello!

Il Capostazione                  - (entrando trafelato) Arriva il treno!

                                           - (Il vecchio lupo ed il sindaco vengono in primo piano).

li. Vecchio Lupo                - In quale binario?

Il Capostazione                  - Cominciamo a prendere in giro?!....

Il Vecchio Lupo                - In giro, perché?

Il Capostazione                  - In quale binario... in quale bi­nario... se ce n'è uno solo!

Il Sindaco                          - (chiamando a lato) Capobanda!

Il Capobanda                     - (entra da destra. E' un vecchio cadente, sui 90 anni).

Il Sindaco                          - Mi raccomando, ragazzi, una suonatina marziale!

Il Capobanda                     - (con voce fiochissima) Sissignore, si­gnor sindaco! Lasciate fare a noi!

Il Sindaco                          - E senza stecche. Poi si beve!

Il Capobanda                     - Uh, che bellezza, si beve, si beve!

Il Sindaco                          - Quando il treno appare laggiù (indica a sinistra, oltre la ribalta) zum, zum, zum...

Il Capobanda                     - Bene, signore, zum zum... (via a destra).

 Il Capostazione                 - (urlando come un dannato) Via dal binario, via dal binario!

Il Vecchio Lupo                - Perché urlate a quel modo se sul binario non c'è nessuno?

Il Capostazione                  - E' la forza dell'abitudine!

Procus                                - (rientrando da destra) Totalizzatore! Gio­cate! Arriva Edoardo o Enrico Flip? Dò Edoardo alla pari. Enrico a tre contro uno.

Il Sindaco                          - lo gioco venti sopra Edoardo.

Procus                                - Accettato. (A Clotilde) E voi?

Clotilde                              - Io non gioco. Vero mamma, non sta bene che io...

Atenaide                            - E' vero. Tu devi restare completamente neutrale, in attesa... Io invece gioco dieci fiorini su Enrico.

Il Vecchio Lupo                - Ed io cinque fiorini sopra Edoardo e quindici sopra Enrico. Così mi diverto gratis.

Il Sindaco                          - (dando un colpetto sulla pancia al vecchio lupo) Sempre furbo, voi.

Procus                                - E voi, capostazione, non giocate su chi arriva?

Il Capostazione                  - Uh! Uh! (Emette una specie di ululato).

Procus                                - Che vi prende?

Il Capostazione                  - Giocare su chi arriva? Mi volete prendere in giro?

Procus                                - Siete fissato, sapete! Non pensate ad altro che tutta la gente vi voglia prendere in giro!

Il Capostazione                  - Certo. E' il mio incubo. Ma ne ho ben d'onde. Uno che perde il treno, mi chiede: « Quando parte il successivo? », e sa benissimo che esiste un solo treno nella giornata. Costui      - (indica il vecchio lupo) mi chiede in che binario arriva, e sa benissimo che esiste un solo binario. Un altro: « In ritardo, eh? ». Quasi fosse colpa mia. Mi chiamano capostazione e in tutta la stazione sono l'unico impiegato. Ho dovuto spen­dere una somma in berretti! Da scambista, da guarda­sala, da bigliettinaio, da capostazione. Ogni tanto devo scappare a cambiare berretto... Sono qui a Tirpitz per punizione, perché giocavo, e voi mi tentate sapendo il mio debole, rischiando di farmi perdere anche questo posto... eh, ho ben ragione, mi pare, di essere sempre sul chi va là!...

Il Maresciallo                     - Già, già... a proposito... voi avete giocato e a Tirpitz il gioco non è permesso. Vi dichiaro tutti in contravvenzione. Mi spiace per voi, signor sin­daco... ma capirete, la legge è uguale per tutti!

Il Sindaco                          - E' giusto. Era tale l'ansia dell'attesa che non ho pensato che almeno io, quale primo cittadino... (Implorante, al maresciallo) E' stata la prima volta in vita mia, maresciallo, che mi sono lasciato tentare dal dèmone del gioco!

                                           - (/ personaggi che avevano giocato si danno un'occhiata d'intesa. Conoscono il debole del maresciallo).

Atenaide                            - Ma che bella medaglia! Dove l'avete gua­dagnata?

Il Maresciallo                     - (facendo le fusa e mangiandosi i baffi) Ehm... ehm...

Atenaide                            - Su, via, non fate il modesto: per quale atto eroico vi hanno conferito questa bella medaglia? (E in così dire accarezza la medaglia appuntata sul petto del maresciallo).

Il Maresciallo                     - (apprestandosi a raccontare una storia interminabile) Ecco: eravamo in sei. Io, il vice-briga­diere Rotenberg, il... accidenti, come si chiamava il maresciallo?... allora ero semplice brigadiere!

Il Capostazione                  - (urlando) Eccolo!

Il Vecchio Lupo                - Chi?

Il Capostazione                  - Il treno!

                                           - (Lo banda suona e stona. Il treno si finge che passi oltre la ribalta, venendo da sinistra e fermandosi oltre il lato destro del boccascena. Del treno, quindi, il pub­blico non dovrà percepire che il rumore. I personaggi sono in fila e « guardano » passare il treno).

Tutti                                   - (poiché l'hanno « veduto » affacciato al fine­strino) Il marinaio Flip è Enrico, è Enrico..., è Enrico...

Il Sindaco                          - Accidenti, era la prima volta che gio­cavo in vita mia ed ho perso!

                                           - (Do destra entra il marinaio Enrico Flip).

Il Sindaco                          - (parlando a lato) Basta con quella musica! (Va incontro al marinaio Flip) Per il marinaio Hip... accidenti!... Per il marinaio Tip... accidenti, non mi viene... per il marinaio...

Il Vecchio Lupo                - Ma sì, va bene lo stesso! (A Flip) Qua! E' un vecchio lupo che vi stringe al petto. Bravo, bravo!

Procus                                - Mi congratulo vivamente!

Il Capostazione                  - La stazioncina è modesta, ma pulita!

Atenaide                            - Come state, Enrico?... Enrico... questa è Clotilde... Clotilde che...

Enrico                                - (si guarda in giro confuso) Aspettate che mi orizzonti. Dunque voi siete qui per ricevere me? Quelle scritte son per me?... Oh, ma che ho fatto io per meri­tare tutto questo?...

Procus                                - Ma come!?... Non siete voi l'unico super­stite del « Caledonia »? Non siete voi colui che, prima di gettarsi in mare, ultimo fra gli ultimi, ha pensato a mettere in salvo un importantissimo incartamento conte­nente documenti di valore internazionale!?... Infine, non siete voi il marinaio Flip?

Enrico                                - Sono infatti il marinaio Flip.

Atenaide                            - E' un modesto! (Ad Enrico) Eravate mal giudicato a Tirpitz. Ma ora tutti si ricrederanno, prima fra tutti Clotilde...

Enrico                                - Che bei capelli hai, Clotilde! Sapevano di fieno, un tempo...

Clotilde                              - Ricordate il profumo dei miei capelli?...

Enrico                                - Di fieno e di mare. E lisci... da carezzarsi per ore... Ma tu non volevi...

Clotilde                              - Non dite...

Enrico                                - Tu preferivi mio cugino...

Atenaide                            - Ma ora vostro cugino è morto. (Senza con­vinzione) Povero Edoardo!

Enrico                                - (sinceramente stupito) Morto!?...

Procus                                - Per forza. Se voi siete l'unico superstite della nave su cui eravate imbarcati assieme...

Enrico                                - Un momento, un momento, vi prego. (Si copre gli occhi con le mani e rimane alcuni istanti in silenzio).

Il Sindaco                          - (a mezza voce) Piange.

Procus                                - Ma che piange. Pensa!

Enrico                                - (levandosi le mani dagli occhi) Già! Edoardo è morto! M'illudevo che non fosse vero... che non potesse essere vero... Un miracolo, non si sa mai... Ma a quest'ora, qui a Tirpitz voi l'avreste saputo... (Pausa). Una terribile ondata se lo portò via. Tutti, ad uno ad uno, furono inghiottiti dal mare... meno io, che sono qui, che resterò qui... oh, per poco, perché presto dovrò ripartire. (Altra pausa). Ma prima di ripartire, vorrei...

Il Sindaco                          - Noi ce ne andiamo. Domani ci sarà il ricevimento ufficiale.

Enrico                                - Il ricevimento ufficiale... A domani, allora. (Stringe la mano a tutti) Grazie... a domani... grazie... (Ad Atenaide) Signora! vorrei chiedervi un favore: mi lasciate Clotilde per pochi minuti? Le devo dire una cosa in grande confidenza. Fra mezz'ora ve la riconduco a casa. Vi potete fidare...

Atenaide                            - Mi fido, figliolo. A fra poco: vi attendo alzata.

Enrico                                - A fra poco. (Tutti se ne vanno, meno Clo­tilde, Enrico ed il capostazione. Al capostazione) Ci sono altri treni, stasera?

Il Capostazione                  - Anche voi?

Enrico                                - Anch'io, cosa?

Il Capostazione                  - Anche voi con questa storia degli altri treni... Ma no; quello con cui siete arrivato è l'unico treno della giornata.

Enrico                                - Bene. Allora, senti, Clotilde: t'invito a fare una passeggiata lungo le rotaie. Come tu facevi con Edoardo. Ti voglio dire una cosa, ma in grande segreto. E non devi temere. Tu mi hai sempre mal giudicato, ma io non sono come tu mi pensavi... Vieni; cammineremo cento metri, poi sederemo sui binari, in mezzo alle erbe selvatiche...

Clotilde                              - No. Non ancora con te, laggiù... Qui, se vuoi, qui su questa panchina.

Enrico                                - Allora qui. (Siedono sulla panchina).

Il Capostazione                  - A voi non importa se spengo qual­che lume? La luce costa... Voi potete discorrere anche al buio, no?

Enrico                                - Fate pure. (Il capostazione esce. La luce diminuisce. A tempo il capostazione rientra, in maniche di camicia, con un berretto da manovale e una scopa in mano con la quale pulisce i marciapiedi della stazione). Clotilde: questa notte forse non tornerà più. Perciò ho voluto essere solo con te. Appena giunto. Senza nessuno. Io e te. Questa notte, in fretta, prima che sia troppo tardi, voglio vivere con te, rivivere con te. Vivere il presente ed il futuro.

Clotilde                              - E poi?...

Enrico                                - E poi rivivere... diversamente il nostro pas­sato...

Clotilde                              - Nostro?

Enrico                                - Sì, tuo e mio. Anche due persone avverse, anche due creature vissute sempre lontane, possono avere un passato in comune... di sogni, di sofferenze, di pati­menti... di attese... (Pausa). Io per te sono sempre stato un estraneo...

Clotilde .                            - Io ho sempre amato Edoardo... Non po­tevo amare te...

Enrico                                - E perché hai amato Edoardo?

Clotilde i                            - Anche tu, come la mamma prima del tuo arrivo, stasera, questa domanda... Perché si sceglie e si ama un uomo in mezzo a centomila, anche se questi non è il migliore?

Enrico                                - Ma noi non eravamo centomila. Eravamodue. Io ed Edoardo. Cerca di pensare: perché lo hai preferito a me? E non aver paura della risposta, non badare se parli a me: fingi di essere sola e di parlare a te stessa.

Clotilde                              - Mi proverò. (Pausa). Bisogna però tornare molto indietro: a quando eravamo ragazzi...

Enrico                                - Questo non c'entra. Dopo... quando diven­tasti donna.

Clotilde                              - No... prima... allora. Lasciami dire. Quando avevo dodici anni e si giocava sulle calate del porto. Una sera - era di settembre - tu, Edoardo ed io gio­cavamo a rincorrerci. Tu ti mettesti a correre, lontano, lontano... ed io rinunciai ad inseguirti... invece Edoardo si nascose in un barcone lì presso... io mi precipitai dentro, lo toccai su una spalla e dissi: «preso! ». Allora lui mi guardò - prima mi guardò - , poi mi afferrò una mano e mi fece sedere accanto a se. Finalmente distolse lo sguardo e mi carezzò i capelli...

Enrico                                - Allora... fino da allora?

Clotilde                              - Sì. La notte me lo sognai. Poi ogni notte. Fino a che diventammo grandi. L'anno scorso, egli, sem­pre una sera di settembre, mi disse: «Ti ricordi quando ti carezzai i capelli? Te li vorrei carezzare ancora. Ti ho vista crescere accanto a me. Vorrei che assieme vives­simo il resto della vita, perché quella carezza, perché la morbidezza dei tuoi capelli non la ritroverei in nessun'altra donna...». Io gli risposi: «Anch'io non ho saputo scordare quella sera... quel primo turbamento... al quale allora non seppi dare un nome, ma che mi accorsi più tardi chiamarsi amore... ». Ecco, forse per questo l'ho preferito a te. Forse perché è stato il primo a carezzarmi i capelli... Invece tu non ti sei curato di me sino al giorno in cui non hai saputo che Edoardo ed io ci saremmo dovuti sposare. Troppo tardi.

Enrico                                - Ma ora che Edoardo è morto?

Clotilde                              - Ora... non so...

Enrico                                - Volevo dire: ora non una lagrima, niente... come se fosse partito con un « cargo » e dovesse ritornare fra tre mesi...

Clotilde                              - E' stato un colpo duro, lo confesso... Ma a che prò avere lacrime, urli, disperazioni?... D'altra parte noi - mogli, fidanzate di marinai - dobbiamo essere preparate che un giorno o l'altro il mare ci porti via i nostri uomini... Il mare è quello che ci dà da vivere, è il nostro padrone. E' lui che comanda: dob­biamo inchinarci alla sua volontà.

Enrico                                - Storie... storie... ho visto donne gettarsi dagli scogli perché il loro uomo non aveva risposto all'appello dopo un naufragio... Sai com'è?... Tu credevi di amarlo... forse perché non hai mai saputo cosa fosse l'amore...

Clotilde                              - L'amore per me è il matrimonio... E' il sapere che in casa c'è un uomo per il quale si deve preparare la cena... L'altro amore non lo conosco, né mi interessa... Poi, ti ho detto: io credo e m'inchino al destino!

Enrico                                - Allora stammi a sentire: tu eri fidanzata con Edoardo. Ora Edoardo è morto. Sul libro del de­stino - in cui dici di credere - era scritto che un giorno tu dovessi chiamarti Clotilde Flip... La morte di Edoardo non deve cambiare le cose...

Clotilde                              - (quasi assente) Povero Edoardo... Tu l'hai visto quando il mare se l'è portato via?

 Enrico                               - Sì. E' stato un attimo. Però non deve aver sofferto. Come gli altri, del resto. Che spettacolo, che cosa orribile! Tutti quei corpi che il risucchio inghiottiva come turaccioli di bottiglia... in quel buio pesto rotto di tanto in tanto dai lampi... Vivessi centomila anni non potrei dimenticare quelle ore... Saranno il mio incubo tutta la vita!

iClotilde                             - E tu come hai fatto a salvarti?

Enrico                                - Ti dirò dopo: prima la risposta alla mia domanda... vuoi essere egualmente Clotilde Flip?... (Essa non risponde, china la testa). Allora un bacio?... Non una carezza in un barca - di sera, a dodici anni... ma un bacio, ora, al principio della vita?... Perché la vita comincia da questa notte... (L'afferra e la bacia lungamente sulla bocca).

Clotilde                              - (si ricompone, lieve pausa, quindi) Ora però raccontami come sei riuscito a salvarti.

Enrico                                - Quando avvenne lo scoppio alle caldaie mi trovavo nella cabina del comandante che mi aveva chia­mato per riparare una maniglia... Nella cabina c'era anche il « secondo » al quale il comandante ordinava di riporre nella cassaforte un cofanetto preziosissimo... Un boato! ... Il capitano gridò: « E' finita! ». Corremmo tutti e tre sul ponte, il capitano sempre con il cofanetto in mano. La nave era già semi-capovolta... Allora il coman­dante si rivolse a me. Mi disse: « Io ed il secondo siamo vecchi. Affido a te che sei giovane questo incartamento. Gettati in mare, afferrati ad un rottame e che Dio ti assista! ». Il cofanetto aveva una cinghia. Me la passai intorno al collo e saltai in acqua. Ci rimasi sedici ore, aggrappato ad una scialuppa capovolta fino a che venni raccolto - più morto che vivo - da una nave olandese. Chiesi dei miei compagni. Tutti spariti. Io ero l'unico superstite. Appena rinvenuto dalla spossatezza m'inginocchiai e ringraziai il Cielo.

Il Capostazione                  - (rientrando) Figlioli, è tardi... vor­rei andare a dormire. Domattina mi debbo alzare per tempo: ho promesso a mio zio Ermete, che sta in cam­pagna, di andarlo a trovare...

Enrico                                - Ce ne andiamo, capo: ma non a dormire. Io e Clotilde dobbiamo ancora parlare. Andremo laggiù, sui binari, sotto la luna. (La luce della luna non costa, vero capo?

Il Capostazione                  - Laggiù, andate?

Enrico                                - Sì. Vero, Clotilde?

Clotilde                              - Ora sì, Enrico.

Enrico                                - Buona notte, capo. Andiamo, Clotilde? (Si avviano ed escono a destra).

Il Capostazione                  - (rimasto solo, scuote la testa) Mi piace poco, sui miei binari!... (Finisce di spazzare. Ri­mette a posto le tabelle della stazione. Si ode il rombo di una motocicletta).

Una voce                           - (dal di fuori) C'è nessuno, qui?

Il Capostazione                  - (si precipita a rimettersi il berretto da capostazione e la giacca, quindi) Ci sono io, il capostazione.

Edoardo                             - (entrando, sotto la tettoia da destra) Ho perso il treno per pochi secondi. Allora ho noleggiato una motocicletta.

Il Capostazione                  - Siete un parente?

Edoardo                             - Un parente di chi?

Il Capostazione                  - Del marinaio Flip!

Edoardo                             - Che dite!...

Il Capostazione                  - Ah, credevo, perché poco fa, col treno, è giunto il famoso marinaio Flip, l'eroe del « Caledonia ».

Edoardo                             - Non è possibile!

Il Capostazione                  - Come, non è possibile? Io non lo conoscevo perché sono qui da appena due mesi, ma tatti i suoi compaesani lo hanno riconosciuto.

Edoardo                             - Ma allora è Enrico...

Il Capostazione                  - Già, Enrico.

Edoardo                             - E dov'è adesso?

Il Capostazione                  - Laggiù, sui binari, con la signorina Clotilde Liesenthal.

Edoardo                             - Laggiù con Clotilde... Laggiù con Clotilde... (Afferrando il capostazione per il bavero della giacca) Maledizione! E voi l'avete permesso?

Il Capostazione                  - (impaurito) Io non so mai dire di no...

Edoardo                             - Maledizione! (Si mette a passeggiare in su ed in giù furiosamente).

Il Capostazione                  - Ma voi, se è lecito, chi siete?

Edoardo                             - Chi sono? Voi non lo sapete chi sono io!?

Il Capostazione                  - Non ne ho la minima idea!

Edoardo                             - Meglio così. Addio. Adesso vado anch'io laggiù sui binari.

Il Capostazione                  - (mellifluo) A spiare...

Edoardo                             - Può darsi.

Il Capostazione                  - Non è bello!

Edoardo                             - E' bello, forse, quello che consumano quei due laggiù?

Il Capostazione                  - No, ma che ci volete fare? Gio­ventù!

Edoardo                             - Gliela darò io la gioventù! Oh, a propo­sito: ho lasciato la motocicletta appoggiata al muro esterno. Ci volete ogni tanto dare un'occhiata? Grazie.

Il Capostazione                  - Di nulla.

Edoardo                             - (fa per andare, quindi ritornando sui propri passi) Capo: guardate che notte, che aria ferma! Che notte deliziosa per legare qualcuno attraverso i binari, accovacciarsi lì presso, aspettare il passaggio del treno, vedere il corpo divelto, la testa saltare a destra, le gambe a sinistra, eh... che ne dite?... Un bello spettacolo, no?...

Il Capostazione                  - Certo, bello. (Illustrando con i gesti) Pirotecnico!

Edoardo                             - Appunto. Come quando eravamo ragazzi ed ai fuochi della Sagra si battevano le mani per la gioia... Ridete, eh!

Il Capostazione                  - Rido, perché stanotte non passe­ranno altri treni e potete legare chi vi pare attraverso i binari...

Edoardo                             - Non si sa mai! Il caso... tante volte, il fa­moso caso... quello che i vecchi chiamano destino... Ma ora arrivederci, capo. Vi raccomando la mia motoci­cletta. (Avviandosi) Laggiù, avete detto?

Il Capostazione                  - Sì, sempre diritto.

Edoardo                             - Grazie. (Via, in fretta da sinistra).

Il Capostazione                  - (a sé) II caso... quello che i vecchi chiamano destino... E' un pazzo... è un pazzo... Ma in­tanto che lui è laggiù, ne approfitto per fare un giretto in motocicletta... E' sempre stata la mia passione la mo­tocicletta...

                                              

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

Una stanza da letto in casa di Atenaide Liesenthal. Notte. Due mesi dopo.

 (Quando si apre il velario sono in scena Clotilde ed Atenaide. Clotilde è sdraiata attraverso il letto. Le brac­cia e la testa da una parte, i piedi dall'altra toccano il pavimento. Atenaide invece, seduta accanto ad un lume, .sta agucchiando una maglia).

Atenaide                            - Insomma, comincia a non andare. Non ti pare? Comincia a non andare. (Dalla strada giunge una canzone marinara cantata in coro da alcune voci d'uomo. La canzone presto si affievolisce, quindi muore del tutto) I soliti malcreati che la notte girano per distur­bare la gente. (Torna all'argomento di prima) Capisci? Comincia a non andare!... Ma rispondi... e sta su di lì: ti andrà il sangue al cervello...

Clotilde                              - (si alza dalla posizione inconsueta, si stira, quindi si risdraia: questa volta bocconi sul letto, la fac­cia affondata nel cuscino. Sempre senza rispondere alla madre).

Atenaide                            - Ti senti male? (Nessuna risposta). Ti senti male? Madonna santa, rispondi: sei muta? Ti senti male?

Clotilde                              - (appena intelligibile) No.

Atenaide                            - Però c'è qualche cosa che non va...

Clotilde                              - (c. s.) Già...

Atenaide                            - E che cosa?

Clotilde                              - Lasciami stare!

Atenaide                            - Lasciami stare... lasciami stare... voglio sa­pere!

Clotilde                              - Cose mie.

Atenaide                            - Quali cose tue? Voglio sapere, ti dico, la ragione...

Clotilde                              - La ragione? (Finalmente si alza, scende dal letto, va allo specchio. Con le dita nervosamente si segna gli occhi pesti) Ecco la ragione... (Si avvicina alla madre) Sono molto sciupata, vero, mamma?

Atenaide                            - E' appunto per questo che ti chiedo...

Clotilde                              - Sì, guarda qui... (Mostra il viso) Guarda che pelle gialla! Mamma... (Le si inginocchia accanto) Mamma, dimmi, ma senza guardarmi negli occhi... dimmi, mamma...

Enrico                                - (di dentro) Si può?

Atenaide                            - Avanti!

Enrico                                - (entrando) Scusate. Sapevo che eravate qui con Clotilde, perciò mi sono permesso. Vi dovrei dire una cosa...

Atenaide                            - Dite.

Enrico                                - Mi è stato offerto un imbarco a buone con­dizioni. Non ho più un soldo. Bisogna che parta.

Clotilde                              - (impetuosa) Ah no! Ora no! Non è più possibile!

Enrico                                - Perché?

Clotilde                              - Perché no.

Atenaide                            - Clotilde... Clotilde... Vieni qui... (credendo d'indovinare) la pelle gialla... sì, come quella del mio

Enrico                                - (ridendo) Io? Capisco cosa intendete! Cre­dete che io... No! Clotilde ve lo può dire...

Clotilde                              - (si getta violentemente sul letto e scoppia in laceranti singhiozzi).

Atenaide                            - (indicando Clotilde) Ecco la risposta! E qui, sotto il mio tetto, nella mia casa. Avete abusato della mia ospitalità! Che essere, che essere siete!

Enrico                                - Vi giuro... Vi giuro su quello che ho di più sacro... Vi giuro che non è vero!

Atenaide                            - Non vi credo: siete uno spergiuro. (Sem­pre indicando Clotilde che singhiozza) Ecco la conferma! E adesso vorreste partire, lasciare quella povera figliola sola, abbandonata...

Enrico                                - Oh, ma insomma... (Scuotendo violentemente Clotilde) Ma, Clotilde, insomma... di' a tua madre... (Clo­tilde tace) Qui finirà per darmi di volta il cervello. (Ad Atenaide) Questo è un imbroglio combinato d'accordo fra voi due.

Atenaide                            - Un imbroglio... Ah, farabutto! (Schiaffeg­gia violentemente Enrico).

Enrico                                - (facendosi scudo) Sì, un imbroglio! Ma io me ne infischio! Parto. Tante cose! Adesso non vi posso pagare, ma quando ritornerò - se non creperò in viaggio- quando ritornerò mi direte quanto vi debbo per due mesi di vitto e alloggio in casa vostra.

Clotilde                              - (salta dal letto, afferra Enrico alle spalle e lo scuote violentemente) Tu non te ne andrai. O, comun­que, prima di andartene, mi sposerai. Del resto me lo hai promesso...

Enrico                                - Un tempo, quando tutto era diverso. Ma poi molte cose sono cambiate. Un tempo avrei dato fuoco al mondo per una tua carezza. Oggi non più. Oggi mi sono accorto chi sei!

Clotilde                              - (veemente) Chi sono?

Enrico                                - Una qualunque, una di quelle che s'incon­trano nei porti e ci mangiano in una notte le fatiche di sei mesi di bordo.

Atenaide                            - Ah, sì, Clotilde è una di quelle?... Perché voi vi siete rovinato per lei!... Se sono due mesi che vivete a sbafo in casa nostra!

Enrico                                - La solita storia! Uno lo s'invita, si insiste perché accetti l'ospitalità, poi, un bel giorno, quest'ospi­talità gliela si rinfaccia come un furto... Ma già, forse il paragone non calza del tutto. Non volevo dire una di quelle perché mi avesse asciugato, no: ma per il tempe­ramento, per l'indole... di dentro è come quelle... la dimostrazione? Che ora mi vorrebbe far credere di essere incinta di me, quando io... ma è pazzesco!... La stessa storia toccata a Martino Winkler... con una di quelle cui lei assomiglia. (Parodiando una voce di donna) « Sono incinta di te, caro! ». Ma quello, senza far tante storie, ha levato il coltello e l'ha sgozzata! Son cose che non s'inventano, via!

Clotilde                              - (voce ferma, fredda, che non ammette replica)Mamma: io sono stata sua parecchie volte.

Atenaide                            - Ah, Clotilde, Clotilde, perché?...

Clotilde                              - « Tanto - dicevo - presto o tardi mi spo­serà, me l'ha promesso».

Atenaide                            - Clotilde, povera bambina mia, forse non avrò più il coraggio di guardarti in faccia. Vieni qui! (Se la stringe al seno) Povera bimba mia, non più bimba... per colpa di quel farabutto... (Altra voce, alzando i pugni su Enrico) Lo ammazzerei... lo ammazzerei!... Male­detto! (Altro tono) Sentite: una delle due: o la sposate o da questa casa non uscite vivo.

Enrico                                - (si mette a camminare in su ed in giù dandosi dei pugni in testa) Ma io divento matto... io divento matto... (Si ferma d'un tratto e si volge verso Atenaide) Voi sapete che ho due morti al cimitero, mio padre e mia madre... Ebbene, vi giuro sulla loro tomba, sulla loro memoria... che non ho mai avuto nulla con vostra figlia... che essa mente spudoratamente a me, a voi... sì, (perché ora m'accorgo che voi dovete essere in buona fede... ci vuole incantare... incantare come serpenti... (Attende una risposta che non viene, affermativo) Non mi credete!

Atenaide                            - Credo all'evidenza. Mia figlia è in quello stato. Ora, con chi volete abbia avuto relazione, se non con voi? Voi siete l'unico uomo che le sia stato vicino in questi ultimi due mesi.

Enrico                                - Il giorno... ma la notte?

Atenaide                            - La notte?...

Enrico                                - Già, la notte...

Atenaide                            - E idi dove volete sia passato quest'altro ?! ... Di là c'è la vostra stanza... Di là c'è la mia...

Enrico                                - C'è la finestra che è bassissima sull'orto...

Atenaide                            - Clotilde, hai udito?

Clotilde                              - Non mi meraviglia che neghi, che inventi... ti basti questo; sa inventare così bene le cose, che si è fatto passare per l'eroe del « Caledonia » mentre l'eroe vero è invece Edoardo. (Stupore di Atenaide) Ah, non lo sapevi, non te lo avevo mai detto ?! ... Lui, Enrico, non era nemmeno salito a bordo! L'unico Flip salvatosi è Edoardo, essendo il solo dei due che si fosse imbarcato... Tutto questo tu lo ignoravi?...

Atenaide                            - E tu lo sapevi?

Clotilde                              - Sì. Me lo disse lui la sera stessa del suo arrivo. Ha sempre mentito: su tutto e con tutti! Mentire è un suo istinto, una sua seconda natura. Se tu gli chie­dessi di che colore sono quelle lenzuola, lui ti risponde­rebbe che sono nere. E se tu gli obiettassi: «No, sono bianche », lui, per persuaderti del contrario, spegnerebbe la luce...

Enrico                                - (a Clotilde) E' più facile che quelle lenzuola siano nere, che io sia l'autore del tuo stato!

Clotilde                              - (rimane un attimo sopra pensiero, quindi alla madre) Mamma, ho capito; mente perché ci sei tu. Lasciaci soli. Vedrai che a tu per tu con me, ammet­terà... (Ad Enrico, quasi ilare) Eh?... Non è così?...

Atenaide                            - Lasciarvi soli... ho paura, Clotilde...

Clotilde                              - Di che, mamma? Tanto, più di quello che è stato...

Atenaide                            - (seguendo un altro pensiero, fissando il letto) Quando ci penso... mi pare impossibile...

Clotilde                              - Va, mamma!

Atenaide                            - Povera bambina mia! (La bacia) In te rivedo me, allora! La stessa vicenda. Ma poi tuo padre ha dovuto chinare il capo. (Alterandosi) Per forza, altri­menti l'avrei ammazzato!

Clotilde                              - (ora è lei tenera, affettuosa, protettrice) Va, mamma!

Atenaide                            - (esce, dopo aver stretto una ultima volta la mano e accarezzato il viso della figlia).

Clotilde                              - (fissa Enrico lungamente immobile, in silenzio. Quindi scoppia in una risata nervosa) Anche ora neghi, anche ora che siamo soli io e te?

Enrico                                - (ha un gesto di sterile violenza contro il de­stino. Percuote l'aria con i pugni. Poi scoppia a piangere, fermo, immobile, le mani lungo la persona, fissando Clo­tilde come allucinato).

Clotilde                              - (gli si avvicina, lo prende sottobraccio e lo fa sedere accanto a se sull'orlo del letto) Povero caro! Lui non si rammenta più di nulla! Eppure le notti sono state molte e belle... tutto dimenticato? Capisco: è il segno ?

Enrico                                - (suo malgrado, in un soffio) Quale segno?

Clotilde                              - Il segno, la soglia, varcata la quale, c'è il buio ad occhi aperti, a luce accesa... il buio tremendo... (Lo bacia su una guancia, quindi posandogli l'indice in mezzo alla fronte) Qui dentro ormai c'è la nebbia. Deve essere stato un colpo di sole. Spesso il sole provoca la nebbia. Povero Enrico!

Enrico                                - (urlando come un forsennato) Clotilde, Clo­tilde... non mi far diventar pazzo del tutto... ti uccido, maledetta, ti uccido!...

Clotilde                              - (calmissima, continua a carezzarlo) Povero Enrico!

Enrico                                - No, no, no... non c'è da dire: « Povero En­rico »! Perché: « Povero Enrico » ?

Clotilde                              - Povero Enrico!

Enrico                                - Ma insomma...

Clotilde                              - Insomma, senti: tu dici di ignorare. Ma non puoi... ora, che siamo soli, io e te... i complici di quelle notti indimenticabili... come puoi? Devi ricordare!

Enrico                                - Ma ricordare, cosa? Io non posso ricordare quello che non è stato... né d'altra parte, certe cose, si possono dimenticare! Mio Dio! Quando si prende una donna, qualcosa di lei resta dentro di noi... magari un segno impercettibile che non si vede, ma che si sente... che si deve sentire! No?... Non è così?... Io m'intendo poco di queste cose, perché, di tutte le donne che ho avuto fino ad oggi, di nessuna ricordo il colore dei capelli ed il nome. Però ricordo che tutte avevano delle bocche troppo rosse. Questo lo ricordo! Di loro, sulla pelle, non mi è rimasto nulla all'infuori di qualche virgola di ros­setto. Ma vedi? Le loro bocche e quelle virgole, uh, che schifo! (sputa), le rammento pure... (Altra voce) Non ho mai capito perché anche certe donne pretendano che le si baci... E' una mania!

Clotilde                              - Perché il loro cuore - talvolta - , anche se ridono con grandi bocche dilatate, il loro cuore è spesso a mezz'asta... Tu, Enrico, non sai leggere dietro due pupille accese...

Enrico                                - No. (Una pausa) Ma capirai che è noioso arrivare a bordo e farsi sfottere da tutti perché hai la faccia impiastricciata di rossetto.

Clotilde                              - Ma tu, di me, neanche un po' di rossetto ti sei portato via?

Enrico                                - (con un dito le tocca le labbra. Poi strofina il dito sul dorso della sua mano sinistra) Tu ti tingi così poco. (Agitandosi ad un tratto) Ma nell'anima, ma nell'anima, se non sulla pelle, mi dovrebbe pur essere ri­masto qualcosa.

Clotilde                              - Invece nulla?

Enrico                                - Nulla... Però aspetta...

Clotilde                              - Aspetta che cosa?

 Enrico                               - Sarebbe bello... cioè, bello no... Grande. Unico! Veramente!

Clotilde                              - Ma cosa, cosa?

Enrico                                - Un gioco! Quello dei pipistrelli!... Sai, i pipistrelli? Di notte rincorrono la propria ombra rasente ai muri. Ad un certo punto, ciac! Picchiano nel muro e cadono a terra storditi...

Clotilde                              - Chi?

Enrico                                - Come, chi? I pipistrelli!

Clotilde                              - Che c'entrano i pipistrelli?...

Enrico                                - C'è chi li imita... per gioco, per burla o per fare del male... In Cina, ad esempio, il gioco dei pipi­strelli è molto in voga. E' un gioco a due. Uno fa il muro, l'altro fa il pipistrello... Il gioco va avanti, fino a che... è un gioco di parole, s'intende!

Clotilde                              - Ma è un gioco stupido.

Enrico                                - Tutt'altro. E' spesso interessantissimo.

Clotilde                              - Ma va. Un gioco è bello - specie .un gioco a due - se entrambi i giocatori hanno le stesse probabilità di vittoria. Invece qui sarà sempre il pipi­strello che perde...

Enrico                                - A meno che il muro non sia di carta...

Clotilde                              - Un muro di carta... dove s'è mai visto?

Enrico                                - In Cina... in Cina i muri sono spesso di carta... belli, con su dipinti fiori enormi e grandi anitre dai colli neri e gli occhi fosforescenti... come i tuoi... (Sornione) Vedi: anche noi possiamo giocare al pipi­strello... io farò il pipistrello, tu il muro... Se riuscirai a persuadermi, a portarmi degli argomenti... alla fine, ciac, cascherò a terra stordito, ma se il tuo muro è di carta...

Clotilde                              - Argomenti? Il mio muro non è di carta! Ma quali argomenti più di questi?... Rifai la vicenda con me. La prima notte... è stata il 24 agosto. Poi il 25 e poi il 26, il 27... altrettante notti dolcissime passate con te.

Enrico                                - (con voce estranea, mormora) Il 24 agosto...

Clotilde                              - Sì. il 24 agosto... la prima volta... tu mi hai afferrata al collo, così - (eseguisce) mi hai inchiodato la bocca con la tua bocca, fino a soffocarmi, così - (ese­guisce) ...poi mi hai spogliata piano piano, come si fa con una bimba, d'inverno, e temessi toccarmi la pelle con le tue mani fredde... poi l'ebbrezza, poi tu sei tor­nato di là, nella tua stanza, ed io sono rimasta qui, esau­sta. (Carezzandolo dolcemente) Povero amore mio che ha tutto dimenticato... povero mio grande bambino a cui voglio tanto bene!

Enrico                                - Ti giuro, non rammento...

Clotilde                              - E ancora giuri. Sempre giuri... Perché?... Tu hai trascorso la vita a giurare. Non giurare più! Credi! Credi alle cose che ti si dicono!

Enrico                                - Credere... tu dici « credere »... sta bene... crederei se ne avessi la certezza...

Clotilde                              - La certezza viene appunto dal « credere ». Si crea, ce la creano gli altri. Tu, con gli altri: non hai persuaso tutti di essere l'eroe del «Caledonia »? Io con te? Si crea a parole. Io con te di essere il padre della creaturina che vive dentro di me...

Enrico                                - Io?...

Clotilde                              - Tu!

Enrico                                - Allora ti dovrei sposare. (Infantile) Ma io non voglio!

Clotilde                              - Ma perché?

Enrico                                - Perché non potrei più. Una volta sì, con l'anima qui... (Indica le palme aperte, protese) ora non più. Non ti sento più! Una volta per una tua carezza avrei ammazzato un uomo. Ora... più. Ora ti sono vicino, ti tocco, tu mi parli di quelle notti d'agosto       - sarà an­che vero se tu lo affermi - ma ora, sposarti, non po­trei più. (Piagnucoloso) Via, Clotilde, lasciami andare.

Clotilde                              - Via, lontano, senza sposarmi?

Enrico                                - Sì, lontano, subito.

Clotilde                              - Senza sposarmi, senza dare un nome al bimbo...

Enrico                                - Ma sì, guarda: se mi prometti di lasciarmi poi andare, ti sposerò anche. Ma subito dopo partirò e non tornerò più.

Clotilde                              - E dove andrai?

Enrico                                - Per ora a Sidney, con un cinque alberi ca­rico di legname. Poi non so...

Clotilde                              - E questo cinque alberi quando dovrebbe salpare?

Enrico                                - Dopodomani.

Clotilde                              - Allora domani tu mi sposerai.

Enrico                                - Domani?

Clotilde                              - Domattina.

Enrico                                - (pausa) E tu dici essere stato io... Una, due, tre volte?... Proprio non ricordo!

Clotilde                              - La prima volta, la prima notte, il 24 ago­sto, tu tornasti a casa allegro, canticchiando a bocca chiusa una canzone.

Enrico                                - Quale canzone?

Clotilde                              - Quella che fa... (accenna brevemente una canzone sud-americana). Poi questo motivo te l'ho sen­tito spesso.

Enrico                                - E' una canzone che viene da Cuba. La can­tavano a bordo del «Caledonia ».

Clotilde                              - Ma se non sei mai stato a bordo del « Ca­ledonia ».

Enrico                                - Ah, già, che non ci sono mai stato... non me ne rammentavo più! Mi pareva veramente di esserci stato.

Clotilde                              - E di essere l'unico superstite del naufragio. Vedi le parole che potenza? A furia di narrare una cosa agli altri, si finisce per crederla noi stessi... E la cosa prende consistenza, diventa viva...

Enrico                                - (semplicissimo) Comunque quella canzone viene da Cuba...

Clotilde                              - Ed il tuo cervello è partito per una mon­tagna lontana con due ali rosse attaccate ai lati... Ha volato, come un falco, su, su...

Enrico                                - Un falco rosso?

Clotilde                              - Un falco rosso! Poi è sparito dalla no­stra vista e, soprattutto, dalla tua percezione... Prova a toccarti lì, pigia sulla testa! E' come toccare un grovi­glio di vipere... Senti il caos! Ed è questo caos che ti fa inventare le cose che non sono state e che, soprattutto, ti fa dimenticare quelle cui ha partecipato...

Enrico                                - Per esempio le notti d'agosto... (Si tocca la testa) Forse hai ragione: infatti sento qualche cosa che non è al suo posto, dei corpi che si muovono...

Clotilde                              - Sono le vipere che qualche volta germo­gliano lì...

Enrico                                - Allora?

Clotilde                              - Allora cominci ad ammettere?

 Enrico                               - Ti ho affermato per primo io, quella notte sulle rotaie, non essere necessario che una cosa sia: ba­sta la si creda. E credendo in una cosa, io, tu, gli altri, essa prende consistenza.

Clotilde                              - Insomma credi che durante quelle notti d'agosto?...

Enrico                                - Mi ci hai quasi persuaso, Clotilde. Però ancora non mi orizzonto bene! Le notti d'agosto... asfis­sianti, che fanno sudare... (Lunghissima pausa). Clotilde: sai anche perché voglio andare a Sidney, poi più lon­tano ancora, magari dove il mare finisce in un burrone, saltarci dentro e sparire per sempre? Sì, come ti dissi, perché non ti « sento » più, ma soprattutto, sai perché?

Clotilde                              - No.

Enrico                                - Perché... perché... ma è una cosa strana...

Clotilde                              - Parla.

Enrico I                              - Perché una notte mi è parso, forse nell'in-cubo del sonno o di un sogno, mi è parso di sentire qui, attraverso quella parete sottile, la tua voce confondersi con la « sua ». Allora è subentrata in me una volontà pazza di scappare, perché quella voce, la sua voce, « quella di Edoardo », mi gettò sulle spalle un peso, un peso... (S'interrompe).

Clotilde                              - Avanti parla...

Enrico                                - Allora, quella notte, che mi parve di sen­tire la sua voce qui, confondersi con la tua, interrotta da silenzi che forse erano baci, allora ho visto buio. Forse tu non mi puoi capire. Io sono sempre stato un debole. Ho sempre avuto spalle che mal hanno soppor­tato cose fuori del senso normale... e, tutto ad un tratto, mi è capitato addosso il peso di un eroismo compiuto, la necessità di una donna da amare, l'incubo di un de­litto di cui ero stato la vittima... comprendimi e non sorridere, Clotilde! Per me, che avevo sempre mal sop­portato anche le cose più naturali, il trovarmi ad un tratto sotto quel triplice peso... triplice? Di più, di più... ora tu mi parli delle notti d'agosto... No, no!... avrei fatto bene a partire senza nemmeno avvisarti, come era mia prima intenzione, così non avrei saputo quest'altra storia... avrei evitato quest'altro macigno... non mi ri­cordo - bada! di questo. Perché questo non è an­cora diventato incubo. A me le cose soffocano quando ci rifletto sopra e me le rimugino dentro. Qui... qui... le vipere... (si tocca la testa). Prima? Oh, prima le sol­levo con due dita!... Ma anche questa storia delle notti d'agosto diventerà pesante e - unita alle altre - mi atterrerà e non mi permetterà di rialzarmi più. Tu ora mi vuoi gettare al collo una catena... no, no... tu non sei una donna per me! Del resto nessuna donna è per me. Me lo predisse una chiromante a Buenos Aires: « Guar­dati sempre dalle donne vere. Accontentati di quelle che puoi avere per pochi soldi nelle taverne dei porti... ». Così mi disse quella donna, e mi accorgo ora quanto avesse ragione. (Pausa. Vede appeso ad un attaccapanni un berretto blu, da marinaio) Oh, e quello?

Clotilde                              - Cosa?

Enrico                                - Quel berretto?

Clotilde                              - (dopo un attimo di esitazione) E' tuo, non rammenti?... L'hai lasciato qui, tempo fa, sul letto... Allora, poiché un berretto sul letto porta disgrazia, l'ho appeso a quell'attaccapanni...

Enrico                                - (non risponde subito. Va all'attaccapanni, ne toglie il berretto, se lo pone in testa. Gli è grandissimo. Gli entra sino alla bocca) Questo berretto non è mio.

Clotilde                              - Non è tuo?...

Enrico                                - Non è mio. (Fissa un istante Clotilde, getta il berretto a terra, poi, d'un balzo, le è al collo. Ur­lando) Il tuo muro era di carta! Il gioco è stato bello, interessante, alterno, ma alla fine ho vinto io. Sei una abile giocatrice, ma hai commesso un imperdonabile er­rore. Hai dimenticato lì il «suo» berretto... Bisogna stare bene attenti quando - nel gioco del pipistrello - preme la vittoria. (Stringendole il collo) Guarda! Ba­sterebbe che stringessi un poco e avresti per sempre finito di fare le fusa... (La respinge violentemente da se) Va, va... finiscila!

Clotilde                              - Finiscila tu...

Enrico                                - Io? (Gira attorno alla stanza come una belva in gabbia) Pagherei sapere la ragione di tutta que­sta storia... Ma di' un po': sei incinta veramente?

Clotilde                              - (flebile, ormai ha perso quasi tutta la sua improntitudine) Di te...

Enrico                                - Finiscila! Non di me... di lui! (Indica il berretto a terra) Del proprietario di quel berretto... di Edoardo! Perché quel berretto è suo. Guarda qui. (Lo raccoglie e mostra a Clotilde l'interno) A lapis copia­tivo ci sono le sue iniziali: E. F., Edoardo Flip.

Clotilde                              - E significano anche Enrico Flip, il tuo nome.

Enrico                                - Finiscila, Clotilde, finiscila! Non giocare con la mia pazienza. Questo berretto è di Edoardo, le notti d'agosto riguardano Edoardo... il tuo stato è do­vuto ad Edoardo... Ormai tutto è troppo chiaro... no?

Clotilde                              - Sì.

Enrico                                - Ah, ammetti? E allora perché tutta questa storia? Pretendevi che io domani ti sposassi... se non mi fosse venuto sott'occhio quel berretto forse domat­tina ti avrei sposata!

Clotilde                              - Sì.

Enrico                                - Smettila di dire sì. Spiegami.

Clotilde                              - (indicando l'orologio sopra il comò che se­gna le due) Zitto, le due, vattene.

Enrico                                - Andarmene?... Perché?...

Clotilde                              - Sono le due. E' l'ora. Comprendi...

Enrico                                - Infatti comprendo. E' l'ora solita in cui viene lui. Questa notte -come ogni «notte.

Clotilde                              - Sì.

Enrico                                - Sì?... Ma stavolta non me ne vado.

Clotilde                              - Ti prego, Enrico. Per te sarebbe perico­loso restare. (Si bussa ai vetri della finestra) Hai sen­tito? Vattene! Può succedere qualche cosa di brutto.

Enrico                                - Non ho paura!... Poi non ho vinto anche al gioco del pipistrello?... E pensare che quasi stavi per battermi!... Eh, per forza!... Eri così persuasiva! E poi, sai? Una notte avevo sognato veramente che tu eri stata mia... un sogno! Ma le tue parole avevano finito per dare vita a quel sogno e a trasformarne il ricordo in una cosa reale e vissuta. Guai se uno ci afferma di essere stati i protagonisti veri di una cosa che abbiamo sognato! Per­ciò eri quasi riuscita ad incantarmi... e forse senza la sco­perta di quel berretto... (si bussa nuovamente ai vetri della finestra) che venga, che entri! Io in sogno, lui inrealtà... e non è detto che il sogno conti di meno... tu sei la donna d'entrambi! Che entri, su, via... Digli che venga... che non tema. Su... apri quella finestra... (Clotilde resta immobile. Con un urlo) Apri! (Clotilde si avvicina alla finestra. Enrico si piazza in mezzo alla stanza in attesa. Clotilde esita ancora) Svelta! (Allora Clotilde apre la finestra. Edoardo entra scavalcando il davanzale. E' emaciato, sporco, la barba lunga, incolta).

Clotilde                              - (in un soffio) Di là c'è mamma...

Edoardo                             - Non me ne importa... Non m'importa di nulla! Sono due mesi che giro come una bestia ran­dagia, ricercato dalla polizia, accusato di un delitto or­rendo... Non ne posso più...

Enrico                                - Accusato, ma non a torto. Tu ci hai legati sulle rotaie per farci stritolare dal treno!

Edoardo                             - Macché treno!... Io sapevo benissimo che da Tirpitz, la notte, non passano treni... volevo sempli­cemente spaventarvi.

Enrico                                - Ma il treno è passato realmente...

Edoardo                             - Per caso, quello del Gran Duca, un de­stino... Il treno personale del Gran Duca che veniva per una partita di caccia...

Enrico                                - Un destino che, per poco, ci costava la vita, se non arrivava il capostazione...

Edoardo                             - Sì, anche con quello voglio fare i conti... idiota! Quando gli dissi che volevo legarvi sulle rotaie, urlando forte, esaltato com'ero, e per esaltarmi di più - lui, l'idiota! poteva ben dirmi che proprio quella notte passava il treno del Gran Duca...

Enrico                                - Se n'era scordato!

Edoardo                             - Già... ma perché allora mi ha denunciato alla polizia senza premettere che si trattava di una burla?

Enrico                                - Per scrollare dalle proprie spalle ogni re­sponsabilità. Questo è umano. Forse non generoso, ma umano.

Edoardo                             - E così, la polizia, persuasa che io fossi a conoscenza che quella notte passava il treno del Gran Duca e che per farvi stritolare io vi avessi legati sulle rotaie... ha emesso a mio nome una accusa di duplice tentato omicidio. La forca, se mi prendono o, nella mi­gliore delle ipotesi, la galera a vita... E' da allora che giro come un orso... il giorno lo passo nei fossati...

Enrico                                - E la notte vieni qui da lei!

Edoardo                             - (pausa. Lo fissa, quindi ammette) Sì, da lei, che mi sfama con gli avanzi della vostra cena...

Enrico                                - E poi ti corichi nel suo letto, accanto a lei!

Clotilde                              - Non è vero!

Enrico                                - (a Clotilde) Oh, ti risvegli!

Clotilde                              - -Non è vero!

Enrico                                - (ad Edoardo) E' vero! Ormai tutto « chiaro. (A Clotilde) Tu volevi riunire due uomini in uno. Non potendo apparire lui - ombra - avrei do­vuto essere io il corpo di quest'ombra. Lui ti aveva reso incinta ed io avrei dovuto essere il padre e dare un nome alla vostra creatura. Eh, già: non ci chiamiamo Flip tutt'e due?!... Come trovata non c'era male! Io avrei dovuto sposarti, poi partire, e lui- ombra - ogni notte sarebbe venuto qui... (Fa per avventarsi su Clotilde) Maledetta!

Edoardo                             - (autoritario) Fermo! (Enrico si arresta, le mani alzate, pronte a battere). Fermo e siedi.

Enrico                                - Cosa?

Edoardo                             - Siedi. E' un bene che questa notte ci ai sia ritrovati qui, noi tre, personaggi di una stessa storia. Noi siamo i protagonisti di una vicenda che non deve avere altri testimoni. Un mondo a tre. Tu, lei, io. Sta­notte bisogna chiarire tutto fra noi tre. Dividere le re­sponsabilità. Quello che avverrà poi, non importa. Ma­gari avrai tu il sopravvento, magari io vi ucciderò, poi ucciderò anche me!... Non importa! Ormai siamo troppo legati alla stessa fune, dentro un nodo scorsoio che stringe come un capestro...

Enrico                                - Concludi.

Edoardo                             - Istituiamo un piccolo tribunale a tre del quale saremo vicendevolmente i giudici.

Enrico                                - Non ti capisco!

Edoardo                             - Mi capirai. Primo. Interrogo io. E tu ri­spondi: che colpe ho io verso di te?

Enrico                                - Colpe?... Non so...

Edoardo                             - Nessuna!

Enrico                                - Infatti, mi pare, nessuna!

Edoardo                             - Pure mi hai sempre odiato!

Enrico                                - E5 vero. Ma per colpa sua. Perché Clotilde ti preferiva a me.

Edoardo                             - Ma io non avevo mai fatto nulla per es­sere il preferito!

Enrico                                - Oh sì, eri onesto, probo, preciso come un sestante...

Edoardo                             - E mi odiavi per questo?

Enrico                                - Sì.

Edoardo                             - Possibile, per questo?

Enrico                                - (con un urlo) Sì. Per questo. Quando io cercavo dì avvicinare Clotilde, essa mi scostava di­cendo: « Via, che Edoardo non vuole che stia con voi! ». E nelle sue parole, anche se non le pronunciava, c'era questa frase: « Edoardo non vuole che stia con voi, perché      - mentre egli è un ragazzo in gamba - voi siete un pigro, un inetto... ».

Edoardo                             - Tu sogni!

Enrico                                - Magari sognassi! Io non ho mai fatto nulla meno di te nella vita. Tutt'al più mi è piaciuto qualche volta cantare di notte. Tutto qui. Solo questa la mia colpa. Ma ho sempre lavorato come te. Forse con meno entusiasmo     - perché se fossi stato ricco me ne sarei stato volentieri a bruciarmi al sole, sugli scogli           - ma, comunque, dato che ricco non ero e che dovevo gua­dagnarmi la vita...

Edoardo                             - Proseguiamo. Tu ti sei fatto passare per l'eroe del « Caledonia».

Enrico                                - Senza volontà, sono state le contingenze... avrei dovuto negare davanti a tutta quella gente schie­rata... una fatica improba...

Edoardo                             - E subito hai cercato di prendere il mio posto nel suo cuore!

Enrico                                - Questo sì... Una volta che tu eri morto...

Edoardo                             - Ma non ero morto... l'hai potuto constatare quasi subito...

Enrico                                - Ormai che credevo di averla conquistata, non volevo perderla.

Edoardo                             - Ed ora?

Enrico                                - Cosa ora?

Edoardo                             - Ora, come intendi concludere?

Enrico                                - Concludere?

Edoardo                             - Sì, stanotte, qui, noi tre, dobbiamo con­cludere, definire! (Lieve pausa). Intendi rinunciare a lei?

Enrico                                - Sì, sì. Ormai sì. L'ho detto anche a lei. Ormai non la « sento » più. Non avevo mai amato e credevo che amare fosse una cosa leggera. Invece mi sono accorto che pesa più l'amore di una gomena di otto pollici... l'ho detto anche a lei. L'amore comporta troppe complicazioni... Voglio partire, imbarcarmi, an­dare via. Era lei, ormai, che mi voleva incatenare. Forse sotto la tua guida.

Edoardo                             - Era la mia vendetta. Dovevi sposarla, dare un nome al figlio mio - abbiamo lo stesso cognome! Essere tradito eternamente... Tu avresti dovuto esi­stere solo di giorno ed io di notte. E nell'amore è la notte che conta!

Enrico                                - Ah, ah... tutto questo l'avevo indovinato... e lei aveva saputo trovare certe parole per accecarmi!... Come quelle delle taverne. Ad un certo momento era persino riuscita a farmi credere che durante quelle far­inose notti d'agosto...

Edoardo                             - (ridendo acre, a Clotilde) Ci aveva cre­duto? Dovevi insistere, insistere, fino a che gli desse totalmente di volta il cervello. La nostra vendetta...

Enrico                                - Vostra? (A Clotilde) Clotilde: anche tua? Perché anche tua?

Clotilde                              - Sì. E se tu non avessi visto quel male» detto berretto sarei arrivata in fondo!... Sì, anche mia! Perché salvo quella parentesi, salvo quella notte sulle rotaie, ti ho sempre odiato. Perché - sempre eccet­tuate quelle poche ore - ho sempre amato lui. E quando una donna ama intensamente un uomo, odia chi cerca di distoglierla da quell'amore che è tutta la. sua vita... (Si ferma).

Enrico                                - Avanti, di', continua...

Clotilde                              - Lo amavo, l'ho sempre amato. Ma lui non poteva apparire e per il mondo ci voleva un respon­sabile del mio stato. Allora - d'accordo con lui - ho: attirato te nella rete. Pronta, naturalmente a gettarti a mare se lui, finalmente, avesse potuto tornare a vivere alla luce del giorno...

Enrico                                - Un giocattolo nelle vostre mani, sono stato., allora... E tua madre?...

Edoardo                             - Sua madre ancora non sa nulla... e tu tacerai, perché se parli...

Enrico                                - Continua!»

Edoardo                             - Ecco: tu domattina andrai con lei al posto di polizia è affermerai che l'affare delle rotaie è stato una burla. Dovrai ottenere il mio proscioglimento in istruttoria...

Enrico                                - Va bene, e poi?

Edoardo                             - Poi affermerai pubblicamente che l'eroe del « Caledonia » sono io e non tu.

Enrico                                - Va bene, e poi?

Edoardo                             - E poi tu te ne andrai.

Enrico                                - E tu sposerai Clotilde.

Edoardo                             - Si.

Enrico                                - (dopo una lunga pausa durante la quale ha passeggiato in lungo ed in largo per la stanza) E va bene...

Edoardo                             - Cosa, va bene?

Enrico                                - Accetto, ti rimetto a galla!

La voce di Atenaide          - (d. d.) ) Ma Clotilde, c'è ancora Enrico da te?

Clotilde                              - Sì, mamma, adesso se ne va...

La voce di Atenaide          - E' tardi, Clotilde...

Clotilde                              - (piano a Edoardo) Va, va... la mamma...

Enrico                                - (che ha già rimuginato il suo progetto) Ma sì, va! Domani ti rimetterò a galla. Domattina io e Clo­tilde andremo all'ufficio di polizia e chiariremo tutto... Dopodomani, in piazza, all'inaugurazione del mio mo­numento, quando il sindaco starà per cominciare il suo discorso, io gli leverò i fogli di mano e griderò forte: «Amici, l'eroe non sono io, ma Edoardo... ». Nascerà la rivoluzione, ma tu sarai a cavallo!

Edoardo                             - Mi giuri tutto questo?

Enrico                                - Te lo giuro!

Clotilde                              - (togliendo di sotto il letto un involto e dan­dolo ad Edoardo) Questa è la tua cena. Scappa.

Edoardo                             - (ad Enrico) Siamo intesi?... Non ti ri­mangiare la promessa... non so, non mi persuadi! Hai accettato troppo presto...

Enrico                                - Ma sta tranquillo! La storia cominciava a puzzare come certi pesci di stiva! Va, sta tranquillo! (Edoardo esce dalla finestra. Lungo silenzio, quindi)

Clotilde                              - Davvero acconsenti a salvarlo?

Enrico                                - Ma sì.

Clotilde                              - Perché?

Enrico                                - (stupito la fissa) Come, perché?

Clotilde                              - E dopo odierai me, sapendo...

Enrico                                - Cosa?

Clotilde                              - Che ho sempre amato lui, tranne quella notte, sulle rotaie!

Enrico                                - Quella notte amasti me?... Davvero?...

Clotilde                              - Sì. Quella notte, al mondo, non c'era­vamo che tu ed io! Perché ci sono delle volte che, im­provvisamente, un uomo che non consideravamo, ci ap­pare qualcuno, mentre l'altro, quello che fino allora era stato tutto, ci pare nessuno?... Non si spiega que­sto... è forse per un inceppo di parole, una frase infe­lice, uno sguardo... lo sguardo di Edoardo quella notte era obliquo, torvo. Mi entusiasmò invece la tua bal­danza... O forse fu lo spasimo di sentirmi accanto a te, vicini alla morte? Non so!

Enrico                                - E così quella notte...

Clotilde                              - Solo quella notte, la notte del tuo ri­torno, per due ore, mi facesti dimenticare Edoardo...

Enrico                                - E poi più... Eppure quando tu lo credesti morto, ti rassegnasti subito...

Clotilde                              - Sì, perché pensavo che il mio destino fosse quello...

Enrico                                - Ma quando riapparve...

Clotilde                              - Constatato che il destino mi restituiva quello che avevo sempre pensato essere il mio uomo, sono tornata a lui con il corpo e con l'anima. Ma ades­so, sapendo che tu non sei mai esistito per me, all'infuori di quella breve parentesi, non vorrai...

Enrico                                - Salvarlo? E perché? Anzi! Clotilde: tu mi hai affermato una grande cosa! Mi hai detto cheuna notte, sia pure una sola notte, quando ti vedevo come non eri, diversa da quella che sei, mi hai amato... per due ore? Sia pure, ma con il cuore qui... (apre le mani). Come pensavo che si dovesse amare, quando an­cora non conoscevo l'amore. Quando ancora ignoravo che l'amore fosse malessere, peso, valanga che ti schiac­cia. Sì, lo salverò! Per compensarti di quelle due ore di allora, che ora mi confessi. Poi partirò. Farò appena in tempo a salpare col cinque alberi per Sidney. L'inau­gurazione del mio monumento è fissata per le tre del pomeriggio. Il « Santa Maria » leverà le ancore alle cinque. Da bordo vi farò (cenno di saluto) così col fazzoletto. Poi tutto tornerà normale. Edoardo riavrà la donna e la gloria. (Pausa) Io, naturalmente, non farò più ritorno. Sarei segnato a dito come un lebbroso... Ma questo che fa?... Il mondo è grande!

Clotilde                              - Qual è la rinuncia che ti pesa di più?

Enrico                                - Nessuna. Ora che conosco la gloria e l'amore, li regalo volentieri. Perché il mio - bada bene! è un regalo, non è una restituzione che faccio. Se io non con­sentissi a parlare, la gloria sarebbe mia, il monumento in piazza porterebbe il mio nome, tu dovresti sposare me. Ti sei troppo compromessa davanti a tutto il paese. Per essere creduto dovrò gridare ai quattro venti la verità. E gridare la verità è una cosa molto difficile, specie se si vuole che sia creduta. E' molto più facile far bere una favola che una cosa vera... ma urlerò fino a perdere la voce, perché della gloria e dell'amore me ne libero come di un sacco troppo pesante... L'amore!... Ora che ti co­nosco non sarebbe più amore con te. Tu non sei una donna vera. Sei una donna da taverna! Aver saputo fin­gere così bene con me!... Aver saputo incantarmi a quel modo! Come le donne dei tropici, che ti dicono che tu sei l'atteso, quello che aspettano da anni e poi ti levano il portafogli e ti ributtano ubriaco nelle braccia del no­stromo. Tu stasera mi hai tolto una cosa che vale anche più del portafogli: me l'hai strappata dal petto, poi l'hai lasciata cadere a terra dove è andata in frantumi...

Clotilde                              - Enrico, Enrico: che occhi! Mi fai paura!

Enrico                                - Perché?... Edoardo lo rimetterò in piedi, gliel'ho promesso. Gli rendo tutto in ricordo di quelle due ore che la sua donna mi ha dato quella notte, sulle rotaie... Sono due ore che porterò qui, serrate, sempre... al posto del cuore che m'hai tolto! Quelle due ore of­fertemi da Clotilde... sai chi è Clotilde?...

Clotilde                              - Cosa?...

Enrico                                - Clotilde è quella bimba che anch'io, come Edoardo, vidi crescere accanto a me... bella, bionda, cara... una bimba dagli occhi sempre accesi, come lavati dal vento, che sempre mi è apparsa durante i quarti di bordo, fissando le onde...

Clotilde                              - (suo malgrado) E quella bimba?

Enrico                                - Morta! Esisterà per Edoardo, per me è morta. I? morta stasera, qui, quando si è messa l'anima a nudo... quando mi sono accorto in quale modo abbia saputo giocarmi...

Clotilde                              - Per forza, Enrico, per forza... come avrei potuto fare altrimenti?

Enrico                                - Già, perché lui vede in te una donna vera e tu, per lui, lo sei... Una donna è così! Per uno è la Madonna, e lo è veramente, bada! Per un altro uomo la stessa donna è da prendere, da battere se si rifiuta e dascostare poi con un gesto del piede! Da lui, come com­penso per quello che gli dò, mi basta il ricordo di quella notte con l'altra che non eri tu. Da te, per quello che non sei mai stata, per tutto quello che mi hai negato, sempre, fin da ragazzi... persino un sorriso... perfida, perfida sei stata! Oh, quanto!... Del resto sai, quella chiromante a Buenos Aires me l'aveva predetto: « Tu non avrai che le donne dei porti! ». (Scandendo le sillabe) Anche Tirpitz è un porto!

Clotilde                              - Che intendi dire?

Enrico                                - (le si avvicina, le tocca le gote, i capelli, come fosse un fantoccio e non una creatura viva) Tu qui, ora, non sei Clotilde dai capelli lisci e folti che per ca­rezzarli - un tempo - avrei dato fuoco alla chiesa... tu qui ora sei una di quelle a cui non si chiede nemmeno il nome. Una femmina qualunque che passa, senza la­sciare né un segno, né una nostalgia. Nemmeno, guarda! Nemmeno una virgola di rossetto!

Clotilde                              - Mio Dio!

Enrico                                - No, no, no! Iddio non è più tuo, non ti protegge più. Iddio è dalla mia ora, che mi ha liberato dall'amore - insulso, inutile, oh, quanto inutile e so­prattutto insensato - che avevo per te! Non l'invocare, quindi! Io sì lo posso invocare, per ringraziarlo, e mi segno, guarda, mi segno! (si fa il segno della croce) Ed ora, da brava, fa il tuo dovere... Sii coerente con te stessa. (Clotilde fa per fuggire) E non scappare... Perché ti ribelli? Senti? Fa caldo... Anche se siamo alla fine di settembre, non pare questa una notte d'agosto?! (La getta violentemente sul letto).

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

Una taverna di marinai, a Tirpitz. Due giorni dopo.

 (Sono in scena Foste, affaccendato dietro il banco; Zolakay (un vecchio marinaio barbuto); Sena (un marinaio di una trentina d'anni); Fritz (un tipo qualunque in pa­glietta e ghette bianche sdruscite). Ad uno sgangheratissimo pianoforte scordato è seduto Fritz che, fra una ti­rata e l'altra di fumo, accenna le note di una vecchia can­zone. Bena, semibrillo, con in testa un cappello da donna messo di traverso, accompagna, con voce in falsetto, la musica zoppicante. Quando la canzone è finita, Bena, alla maniera delle orizzontali da taverna, fa per sedersi sulle ginocchia del vecchio Zolakay, il quale è assiso ad un tavolo davanti ad una bottiglia di vino. Zo­lakay però, con uno spintone, manda Bena a gambe all’aria).

Fritz                                   - Perché trattarla così, povera Marlene?

Zolakay                              - Marlene?

Fritz                                   - Ma sì: non pare Marlene Dietrich con quel cappelluccio parigino e poi... la stessa voce... gli stessi occhi!...

Zolakay                              - Non conosco questa signora. In quanto a lui... alla larga! Non posso soffrire gli ubriachi.

Bena                                  - (sempre a terra) Già, perché voi siete astemio!

Zolakay .                            - Sono... quello che sono. Anzitutto il no­stromo del « Santa Maria ». Poi, non sarò astemio, ma nessuno mi ha mai visto vacillare sulle gambe.

Bena                                  - Perché siete abituato... al beccheggio!

Zolakay                              - Sono abituato a non essere seccato.

L'Oste                                - (a Bena) Su, paga.

Bena                                  - Pagare, sempre pagare. Quanto?

L'Oste i                              - Sei fiorini e settanta.

Bena                                  - Averli!

L'Oste                                - Non hai soldi?... E allora, parola d'onore, non parti! Invece di salire sul « Santa Maria » ti faccio mettere dentro.

Bena                                  - Uffa!... (Si alza a fatica, si avvicina a Zo­lakay) Me li prestate? Ve li rendo a Sidney.

Zolakay                              - Non faccio prestiti.

Bena                                  - A Sidney ve ne rendo dieci.

Zolakay                              - Quindici, o niente.

Bena                                  - Vada per quindici, ma è uno strozzinaggio.

Zolakay                              - Siete sempre voialtri a ricorrere a me. Io non vengo mai a prendervi per la manica.

Bena                                  - Fuori, vada per quindici.

Zolakay                              - Quanto? Sei e settanta? Tieni. (Dà il de­naro a Bena che questi passa all'oste).

Bena                                  - Il tuo aceto m'è costato quindici fiorini. Nean­che fosse vino francese!

                                           - (Entra Enrico Flip seguito dal dottor Procus).

Fritz                                   - Oh, Enrico... è vera la storia?!... Non eri tu!

Procus                                - Non era lui!

Fritz e Bena                       - Racconta, racconta!

Enrico                                - (cupo va a sedersi ad un tavolo, la testa fra le mani, lo sguardo fisso davanti a sé) Cosa, racconta?

Procus                                - Non era lui! L'eroe era il cugino. Del resto come io avevo sempre supposto. Quando il sindaco si avanza per pronunciare il suo discorso e la tela era ca­duta sul monumento nuovo di zecca - non gliene va bene una a quel disgraziato! Enrico si avanza. «Alt! dice, così e così, - l'eroe del " Caledonia " è mio cugino Edoardo... io non mi ero nemmeno imbarcato ».

Fritz                                   - Invece pareva essere il cugino a non essersi imbarcato. Quello accusato di aver legato lui e Clotilde Biesenthal sulle rotaie...

Procus                                - Anche questo tutto diverso. Enrico ha di­chiarato che l'affare delle rotaie era uno scherzo. E così Edoardo Flip è stato prosciolto dall'accusa di duplice ten­tato omicidio.

Bena                                  - Gesù Maria, che romanzo!

Procus                                - Proprio, un romanzo! E vi assicuro una scena, là in piazza! Il sindaco che rimane interdetto, co­mincia a balbettare, un po' per il discorso preparato inu­tilmente, un po' per il monumento che è da rifare... è vero che lo scultore ha fabbricato una faccia che po­trebbe essere la mia, la vostra, la vostra (indica in giro), quella dell'oste... e di conseguenza anche quella di Edoar­do Flip. A rigor di logica basterebbe cambiare il nome sul basamento. Mettere semplicemente Edoardo invece di Enrico. Ma il sindaco teme che di notte i ragazzi vadano a manomettere la statua, e così si vede costretto a far votare dal Consiglio la spesa per un altro monumento...

Bena                                  - Un bel pasticcio hai combinato!

Enrico                                - Io?

Bena                                  - No, io!

 

Fritz                                   - E la donna, ora?

Enrico                                - (ha come una scossa. Si alza. Lunga pausa. Si avvicina lentamente e, faccia a faccia con Fritz) Taci!

Fkitz                                  - Cosa?

Enrico                                - Sta zitto, la donna lasciala dormire!

Friiz                                   - Per me, che dorma!

Bena                                  - Ma non la dovevi sposare?

Zolakay                              - (si alza, paga, si avvia) Fra poco si levano le ancore. Chi non è a bordo, peggio per lui. Non si aspetta nessuno. (Via).

Proctjs                                - La donna! Pare invece che la sposi Edoardo. Si vede che quella non ammette che uomini eroi... una mia cugina in secondo grado aveva la passione per gli strabici... tutto è questione di gusti!

Bena                                  - Ma già! Era fidanzata con l'eroe Enrico, e, quando questi dichiara di non esserlo, sposa l'eroe Edoardo!

Enrico                                - (afferrando Bena al petto) Sentite, tutti voialtri! O la smettete di parlare di quella donna, o vi spacco la faccia! (A Procus) E voi cosa mi affliggete da un'ora? Perché non ve ne siete rimasto là, in piazza, con gli altri? Perché mi avete seguito?

Procus                                - Giovanotto! Vi ho seguito perché non com­mettiate qualche sciocchezza. Vi siete allontanato con una faccia sulla quale ho letto i più neri propositi. Al­lora ho reputato mio dovere seguirvi...

Enrico                                - Ma che reputato... siete forse mio padre?

Procus                                - Non vostro padre, bensì un cittadino altruista che vede in ogni suo prossimo un fratello. (Prendendolo per un braccio) Su, (via, Enrico, bevete un bicchiere, se permettete ve lo pago io. (Fa un cenno all'oste che reca quasi subito un bicchiere di vino) Cercate di scordare duella donna. Adesso partite. Andate lontano. Mettete il mare fra voi e lei. Ma mettetelo anche qui dentro (indica la fronte) il mare fra voi e Clotilde. Anche ora, prima d'imbarcarvi. Quella non è una donna! E' un'ape che si attacca al fiore che ha più polline! (Pausa) Scusate una domanda: una domanda che vi rivolgo appunto come ad un fratello: E' stata vostra parecchie volte?

Enrico                                - (lo sguardo fisso, la voce cupa) Una volta! E sotto forme che non erano le sue!

Procus                                - Non vi capisco!

Enrico                                - Non mi potete capire! Nessuno mi può ca­pire! (Altra pausa, poi, con voce rotta) Ero riuscito ad uccidere quell'altra,

Clotilde                              - come è per Edoardo: una donna! Ed ho preso la femmina... credevo, una fem­mina da piegare qui, sul tavolo di una taverna... credevo... invece, peggio. Mille volte peggio. Non mi potete capire. Ora vorrei uccidere anche quest'altra... ma ucciderla ve­ramente, con queste dita, stringere, stringere... la prima l'avevo uccisa così (fa un gesto come quando si vuole allontanare una molesta nuvola di fumo) cancellandola dalla memoria. E c'ero riuscito, anche perché era stata lei, la femmina, ad aiutarmi ad uccidere la donna, appa­rendomi sotto un aspetto che forse nemmeno lei sapeva di possedere. Una donna è così? Si tocca, non è più così! Come si è vista prima di sentire le sue carni vicino alle nostre, non esiste più. Questo è il terribile! L'altra - non Clotilde    - l'altra, dopo essere stata mia a forza, mi ha stretto - prima ha pianto, si è ribellata, nonvoleva            - poi mi ha stretto e mi ha urlato sulla bocca: «Ormai te, solo te! ». Ed anch'io ormai solo lei!... Cre­devo: una vendetta, lo stordimento di un'ora... invece mi è entrata nel sangue e non me la potrò togliere più. Questi due giorni sono stati un inferno. Ho sempre avuto lei dentro di me, come una ferita aperta, che fa male... male...

Procus                                - Ma che vogliono dire queste due donne in una, così diverse?

Enrico                                - E chi lo spiega, chi lo spiega? Oggi Clotilde, la ragazza che ho amato tutta la vita, nemmeno ram­mento sia esistita... invece l'altra l'ho qui, qui, nelle vene, nel sangue e non saprò togliermela più!... (Entra Clotilde).

Clotilde                              - (si guarda intorno, poi corre da Enrico) Sono certa che tu parlavi di me!

Enrico                                - Non di te, non di te... dell'altra!

Clotilde                              - Perciò di me, perché io, ormai, sono l'altra, per sempre!

Enrico                                - No, no... per carità... benché morta... lascia che ti veda come quella delle rotaie!

Clotilde                              - Non quella delle rotaie. Quella dell'altra notte. Sono fuggita da Edoardo dicendogli che non lo potrei più avvicinare. Mi ha urlato: «Ti batterò! », « Non importa! » gli ho risposto. Mi ha urlato: «Ti ucciderò! », «Non importa! » gli ho risposto. Sono scappata da lui e sono corsa da te!

Enrico                                - Oh, ma è terribile questo!

Clotilde                              - Terribile? E' finalmente la vita!

Enrico                                - No, no... la vita se potessi restare, ma io devo salpare! Perciò è terribile... capiscimi... sapendoti ora così, al primo quarto di guardia, mi getterò in mare per raggiungerti, perché ti vedrò nuda sulle onde... nuda come l'altra notte!

Clotilde                              - Non partire, allora...

Enrico                                - Ormai, dopo quello che è stato? Ormai che tutti i ragazzi di Tirpitz mi segnerebbero a dito?

Clotilde                              - (sensuale, carezzevole) 'Non partire, En­rico: o portami con te.

Enrico                                - Anche questo è impossibile, lo sai. Sui carghi non sono ammesse le donne.

Clotilde                              - E allora? (Pausa) Chi l'avrebbe detto... (Fritz, chissà perché, forse per cambiare atmosfera, si ri­mette al piano e riprende la canzone di prima).

Procus                                - Zitto! (Fritz smette di suonare).

Clotilde                              - Chi l'avrebbe detto l'altro ieri che stac­carci fosse come recidere una vena!

Bena                                  - (che fino allora era rimasto ad ascoltare Enrico a bocca aperta) E' ora... il « Santa Maria » leva le ancore... vieni Flip.

Enrico                                - Ancora un istante, pregali di attendere un istante...

Bena                                  - Va bene: cercherò di persuadere il capi­tano. (Via).

Procus                                - Ma sì. Tutto è questione di pelle. Un uomo ed una donna che si conoscono magari da anni, ma che erano sempre stati reciprocamente indifferenti, una notte, andati a letto insieme per caso, scoprono che non potranno più fare a meno uno dell'altro. Ma in questi casi c'è una sola soluzione: unire le proprie vite.

Enrico                                - Ma ormai noi non possiamo più!

Procus                                - Vi capisco. Inoltre, in casi come i vostri, non è questione di amore...

Enrico                                - Macché amore... macché amore... prima era amore, ora è febbre. Solo la morte riesce a placare questa febbre spasmodica... (Improvvisamente a Clotilde) Sai che facciamo? Ci buttiamo dagli scogli abbracciati. Spe­gneremo la nostra febbre nel mare, saltando da sessanta metri....

Procus                                - Ma no, ma no...

Enrico                                - (intonazione strana. Come volesse persuadere Procus di questa necessità, e una volta persuaso il dot­tore, tutta la faccenda fosse di una semplicità elementare) Dottore, è l'unico mezzo. Vivi non potremo stare l'uno lontano dall'altro. Morti ci placheremo. (Pausa. Quasi sorride) Che vicenda buffa! Prima ti ho amata io, e tu - salvo la parentesi delle rotaie - non mi hai mai « sentito ». Dopo volevo fuggire perché non ti « sentivo » più io. Poi per sfregio ti ho presa, come si prende una donna da taverna... ed è stata la rivelazione! Potrei vivere duemila anni, potrei avere duemila donne... se non trovassi in loro il tuo sapore, niente, come ban­chettare davanti a piatti vuoti... Dicono che ogni uomo, magari all'altra estremità del globo, abbia la sua donna, quella del suo stesso sapore... una volta - come è stato di noi - per un caso, per una vendetta, si toccano nudi... ed è o la felicità o la morte. La felicità se la vita permette loro di non lasciarsi più. La morte necessaria se la vita li costringe a dividersi! No?

Clotilde                              - (fissando il vuoto, estasiata) Sì! Enrico, sì! ...

Enrico                                - Salteremo dagli scogli nel mare. Poi, dopo, solo dopo, potremo riprenderci per mano ed incammi­narci verso i prati verdi: placati... Vieni. A quest'ora è bassa marea. Gli scogli affiorano dall'acqua. Vieni. (Ab­bracciati escono. Fanno tutti per trattenerli. Ma essi li scostano).

Fritz                                   - Scommetto che non arrivano al piazzale.

Procus                                - Che teste calde questi marinai... ed anche lei, Clotilde! Non sembra più la stessa! (Di fuori, un colpo di revolver. Un profondo silenzio. Finalmente En­rico rientra solo. Una grande pacatezza l’ha invaso. E' del resto sull'orlo della follia che, pian piano, lo invade tutto).

Enrico                                - E' stato Edoardo. Imbecille! Se ormai non era più Clotilde!

Procus                                - Morta?!

Enrico                                - Sì. (Pausa. Con un dito accenna due note al piano. Sempre le stesse. Do, re, do, re. Siede quindi len­tamente al tavolo di prima. Trangugia il vino che ancora non aveva toccato. A Fritz) Ora suona... Ma una cosa allegra. Suona! (E' un urlo il suo. Fritz riattacca la so­lita canzone. Enrico con la stessa voce piana di prima) Bravo, così. Durante i quarti di guardia non la vedrò più nuda sulle onde... Vedrò solo la luna danzare sul mare... E forse nemmeno la luna. Perché forse nemmeno la luna esiste più. (Voce improvvisamente straziata) Non esiste più nulla. Tutto è morto con lei. Anche voi: siete li mi guardate ed io non vi vedo. Quello suona ed io non lo sento. Suoni o non suoni?

Fritz                                   - Ma sì, suono... Non vedi che muovo i tasti...

Enrico                                - (si alza, si avvicina a Fritz) Perché bada, se non suoni, se non ubbidisci ti uccido... ti uccido... Bisogna essere allegri... Anche lei è caduta sorridendo...

Bena                                  - (rientrando affannato) Allora vieni o non vieni?

Enrico                                - Dove?

Bena                                  - A bordo, si parte!

Enrico                                - A bordo?

Bena                                  - Muoviti!

Enrico                                - A bordo senza di lei... Senza Clotilde?

Procus                                - Clotilde? Dunque ora, ancora Clotilde?

Enrico                                - Ora è tornata Clotilde. Edoardo, uccidendola, me l'ha restituita... Ora è lei e l'altra insieme.

Bena                                  - Bada che ti lasciano a terra!

Enrico                                - (a Procus indicando Fritz) Ma quello suona o non suona?

Bena                                  - Ti saluto! (Esce).

Procus                                - Ma suvvia, andate!

Enrico                                - Non posso.

Procus                                - Perché?

Enrico                                - (prende Procus sottobraccio, lo porta alla ri­balta, in primissimo piano, e gli mormora all'orecchio, con voce soffocata, quasi gli svelasse un tremendo segreto) E' la bassa marea... gli scogli affiorano dall'acqua... Voglio spegnere la febbre nello stesso mare in cui mi sarei tuffato con lei. Solo così potremo ritrovarci di là ed incamminarci insieme verso i prati verdi...

Un Delegato                      - (entrando, con due guardie) Clotilde Liesenthal è stata uccisa. Potete darmi qualche indica­zione? (Tutti sono allibiti. Al piano, Fritz, ormai come un automa, continua a suonare la medesima canzone esasperante). Insomma, nessuno mi sa dire nulla?

Enrico                                - Signor delegato, sono stato io! L'ho uc­cisa io!

Il Delegato                         - Voi? (Seguitemi allora!

Procus                                - Ma no...

Enrico                                - Zitti, vi prego, zitti...

Procus                                - Ma infine, non è possibile...

Enrico                                - (alterandosi) Vi prego! (Per persuadere gli astanti) Sono stato io! Un attimo, quasi una forza estranea... appena lì fuori ho levato il revolver ed ho sparato... (Al delegato) Mi condanneranno a morte?

Il Delegato                         - Quasi certamente.

Procus                                - Signor delegato: non gli badate: sappiate che chi ha ucciso Clotilde Liesenthal è stato...

Enrico                                - Chi?... Chi?... Come lo potete affermare, voi, se il delitto è avvenuto lì fuori e voi eravate qua dentro? Signor delegato: vorrebbero farvi credere, lui, special­mente lui (indica Procus) che ad uccidere Clotilde Lie­senthal sia stato un altro... Io, sono stato! Io, mirando a quel cuore che credevo di pietra, fiducioso che la palla rimbalzasse e colpisse anche me... E sapete anche perché? Perché all'ultimo momento essa ha avuto uno scrupolo a gettarsi dagli scogli con me a causa della creatura dell'altro che ha sentito ribellarsi dentro di se... (Lieve pausa) Del resto è molto meglio io che l'altro, anche per la faccenda del monumento. « L'eroe non è più Enrico, è l'altro... ma l'altro è un assassino.... ». A quel povero sindaco finirebbe per dar di volta il cervello! Signor delegato: sono ai vostri ordini! (P. p. dietro il delegato che s'è avviato. Si ferma. Al delegato) Un momento: il corpo di lei è sempre lì fuori?

Il Delegato                         - Sì, coperto da un lenzuolo.

Enrico                                - Passando mi permettete di sollevarne un lembo e di baciarla un'ultima volta? (A Procus) Addio, dottore. Il mare è freddo di sera, poi c'è sempre caso di cadere nell'acqua fonda, lo spirito di conservazione so­pravviene, in tre bracciate si è nuovamente a riva e tutto ricomincia... invece, quando si ha una solida corda in­torno al collo, non si sfugge..

Procus                                - Ma via, voi non potete accusarvi di un delitto che...

Enrico                                - (quasi burlesco) Che?... Che?... Che non ho commesso?... Sbagliate. Essa è morta per causa mia. Che importa chi sia stato a sparare? La colpa è mia... Addio! Andiamo, signor delegato! (Esce con il delegato, fra le guardie).

Procus                                - Aveva un bimbo dentro di sé! Ah, il mare e il sole che scaldano e sconvolgono i cervelli!... (Ha un sospiro. Si passa una mano sulla fronte. Una pausa. Infine) Il delitto è avvenuto lì fuori. Noi non potremo affermare che di avere udito uno sparo. (Fa per andare).

L'Oste                                - C'è da pagare un suo bicchier di vino.

Procus                                - Quanto?

L'Oste                                - Quaranta.

Procus                                - (finalmente animandosi) Quaranta un bic­chier di vino? Siete un bel ladro, sapete! (E se ne va senza pagare).

FINE