Il negromante

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Il Negromante

Il Negromante

Di Ludovico Ariosto

PERSONAGGI

Rappresentata per la prima volta a Ferrara

durante il carnevale del 1528

MARGARITA

fantesca

BALIA

LIPPO

FAZIO

CINTIO

TEMOLO

servo

NIBBIO

servo de l'Astrologo

ASTROLOGO

CAMILLO

MADONNA

FANTESCA

MASSIMO

FACCHINO

ABONDIO

[La scena è in Cremona.]

PROLOGO Più non vi parrà udir cosa impossibile, Se sentirete che le fiere e gli arbori, Di contrada in contrada, Orfeo seguivano; E che Anfione in Grecia, e in Frigia Apolline Cantando, in tanta foia i sassi poseno, Che adosso l'uno all'altro si montavano (Come qui molti volentier farebbono, Se fusse lor concesso), e se ne cinseno Di mura Tebe e la città di Priamo; Poi che qui troverete Cremona essere Oggi venuta intera col suo populo; Et è questa ove io sono, e qui cominciano Le sue confine, e un miglio in là si stendono. So che alcuni diranno ch'ella è simile, E forse ancora ch'ella è la medesima Che fu detta Ferrara, recitandosi La Lena; ma avvertite e ricordatevi Che gli è da carnoval, che si travestono Le persone; e le fogge, ch'oggi portano Questi, fur ier di quegli altri, e darannole Domane ad'altri; et essi alcun altro abito, Ch'oggi ha alcun altro, doman vestirannosi Questa è Cremona, come, ho detto, nobile Città di Lombardia, che comparitavi È inanzi con le vesti e con la maschera Che già portò Ferrara, recitandosi La Lena. Parmi che vorreste intendere La causa che l'ha qui condotta: dicovi Chiar ch'io nol so, come chi poco studia? Spiar le cose che non mi appertengono. S'avete volontà pur d'informarvene, Sono in piazza alcun' banchi, alcuni fondachi, Alcune speziarie, che mi par ch'abbiano Poche faccende, dove si riducono Questi che cercan nuove, e sol intendono Ciò che in Vinegia e ciò che in Roma s'ordina, Se Francia o Spagna abbia condutti i Svizzeri, O pur i Lanzchenech al suo stipendio. Questi san tutte le cose che occorrono Di fuor; ma quelle che lor più appertengono, Che fan le mogli, che fan l'altre femine Di casa, mentre essi stan quivi a battere Il becco, non san forse, e non si curano Di saper. Questi vi potranno rendere Conto di quanto cercate d'intendere De la venuta di Cremona: io dirvene Altro non so, se non ch'ella, per esservi Più grata, ci ha arrecata una comedia Nuova, la quale Il Negromante nomina Ora non vi parrà già più miracolo. Che sia venuta qui, che già giudicio Fate che 'l Negromante de la fabula L'abbia fatta portar per l'aria ai diavoli; Che quando anco così fosse, miracolo Saria però. Questa nuova comedia Dic'ella aver avuta dal medesimo Autor, da chi Ferrara ebbe di prossimo La Lena; e già son quindici anni o sedici Ch'ella ebbe La Cassaria e Li Suppositi. Oh Dio, con quanta fretta gli anni volano Non aspettate argomento nel prologo, Che farlo sempre dinanzi fastidia. Il varïare, e qualche volta metterlo Di dietro, giovar suol; ne la comedia Dico. S'alcuno è, che pur lo desideri Aver or ora, può in un tratto correre Al special qui di corte, e farsel mettere, Che sempre ha schizzi e decozioni in ordine.

ATTO PRIMO

SCENA I

Margarita fantesca, Balia

MARGARITA:

Io non ho mai, da quel di ch'andò Emilia

A marito (che un mese e più debbe essere)

Se non solamente oggi avuto grazia

Di uscir tanto di casa, che potutola

Abbia venir a visitar. Se fossino

Tuttavia in casa nostra cento femine,

Toccheria sempre a me guardar la cenere

Con le gatte; né a messa mai, né a officio

Vo con madonna: pur tanto piacevole

Oggi l'ho ritrovata, che partendosi,

Per venir qui a veder la figlia e il genero,

Mi disse: — Margarita, come suonano

Vent'ore, vien per me, ch'io non vuo' perdere

Oggi il vespero. — lo pur alquanto anticipo

Il tempo, per veder più ad agio Emilia,

E star un pezzo con lei. Ma la balia

Esce di casa. Dove si va, balia?

BALIA:

In nessun luogo. Io venia, ché parevami

D'aver sentito un di questi che girano

Vendendo l'erbe.

MARGARITA:

Mia madonna acconciasi

Per partir anco?

BALIA:

Oh! sei stata sollecita

Molto a venir per lei.

MARGARITA:

La nostra Emilia

Che fa?

BALIA:

Pur dianzi si serraro in camera

Ella e la madre, et è con esse un medico

Che ci venne oggi, forestiero, e parlano

Di segreto.

MARGARITA:

Io venia con desiderio

Di stare un pezzo pur con lei.

BALIA:

Mal copia

Oggi ne avrai, che tutta è maninconica.

MARGARITA:

Che l'è accaduto?

BALIA:

Quel ch'avea la misera

Da aspettar meno: che nasca una fistola,

A chi mai fece questo sponsalizio!

MARGARITA:

Ognun sì lo lodava da principio

Per un partito de' miglior che fossino

In questa terra.

BALIA:

Dar non la potevano,

Margarita mia, peggio.

MARGARITA:

È pur bel giovene.

BALIA:

Altro bisogna.

MARGARITA:

Intendo che è ricchissimo:

BALIA:

Bisogna anch'altro.

MARGARITA:

Debbe esser spiacevole?

Ma non stia in punta e giostri di superbia

Con essolui.

BALIA:

Deh, non temer che giostrino,

Che la lancia è spuntata e trista e debole.

MARGARITA:

Dunque non le fa il debito egli?

BALIA:

Il debito, eh?

MARGARITA:

Che! non può?

BALIA:

La infelice è così vergine,

Come era inanzi questo sponsalizio.

MARGARITA:

Uh che disgrazia!

BALIA:

È bene una disgrazia

De le maggiori ch'aver possa femina.

MARGARITA:

Lasci andar, né però si dia molestia;

Potrà ben...

BALIA:

Quando potrà ben, se in quindici

O trenta di non può?

MARGARITA:

Se ne ritruovano,

Intendo, alcuni, che stan così deboli

Gli anni, e ritornan poi come prima erano.

BALIA:

Gli anni? Signor! Dunque debbe ella attendere,

A bocca aperta, che le biade naschino

E si maturin poi, s'ella de' pascersi?

Non era meglio che sedessi in ozio

In casa di suo padre, che venirsene

La misera a marito, non dovendoci

Aver se non mangiar, vestire, e simili

Cose, ch'aver poteva in abondanzia

Col padre ancora?

MARGARITA:

Qualche trista femina,

Con cui lo sposo avrà già avuto pratica,

L'averà così guasto per invidia.

Ma pur sono a tal cose dei rimedii.

BALIA:

Provati se ne sono, e se ne provano

Tuttavia molti, e par che nulla vaglino:

Ben ci viene uno, che in tal cose dicono

Che sa molto, e che fa prove mirabili:

Ma sin qui non gli ha già fatto alcun utile;

Sì che di peggio che malia mi dubito.

E che gli manchi... ben puommi tu intendere.

MARGARITA:

Ben saria meglio che data l'avessino

A Camillo, che tante volte chiedere

La fece lor. Perché gliela negarono?

Perché Cintio è più ricco?

BALIA:

Differenzia

Di roba è poca tra loro; anzi il fecero

Perché fin dai primi anni fra i dui suoceri

Fu sempre una strettissima amicizia.

Ben se ne son pentiti; e se potessino

Le cose, che sono ite, adietro volgersi

La seconda fïata, voglio credere

Che meglio de la prima si farebbono.

Ma ecco che vien fuor di casa Fazio.

Vien dentro tu: non vuo' questa seccaggine

Ci coglia qui, che sempre vuole intendere

Ciò che si fa, ciò che si dice. Domine,

Come è impronto, noioso e rincrescevole

SCENA II

Lippo, Fazio

LIPPO:

Questa è la prima strada che, volgendosi

A man manca, passato Santo Stefano

Si truova; e questa la casa debbe essere

Di Massimo, vicino alla qual abita

Colui ch'io vo cercando; ma notizia

Me ne darà forse costui. Ma veggolo,

Veggol, per Dio! Gli è quel ch'io cerco proprio.

Gli è desso.

FAZIO:

Non è questo. Lippo?

LIPPO:

O Fazio!

FAZIO:

Quando a Cremona?

LIPPO:

O caro Fazio, veggoti

Volentieri.

FAZIO:

Io tel credo; et io te simile

mente. E che buone faccende ti menano?

LIPPO:

Mi manda Copo nostro per riscuotere

Alcuni suoi danari, che gli debbono

Li eredi di Mengoccio de da Semola.

FAZIO:

Quando giungesti?

LIPPO:

Giunsi ieri sul vespero.

FAZIO:

Or che si fa a Fiorenza?

LIPPO:

Si fa il solito.

Odo che ti sei fatto in corpo e in anima

Cremonese, né più curi la patria.

FAZIO:

Che vuoi ch'io faccia? A Firenze sì premeno

Le publiche gravezze, che resistere

Non vi si può: qui mi ridussi, e vivomi

Con la mia brigatella assai più commodo.

LIPPO:

Tua moglie come sta?

FAZIO:

Sana, Dio grazia.

LIPPO:

Non avevate una figliuola? Parmene

Pur ricordar.

FAZIO:

Ben ricordar potrebbeti

D'una fanciulla, che ci abbiàn da piccola

Allevata e tenuta cara, e amiamola

Più che figliuola.

LIPPO:

Vostra reputavola.

FAZIO:

Nostra figliuola ella non è: lasciataci

Fu da sua madre, la qual, capitataci

In casa inferma, dopo dieci o dodici

Giorni che v'alloggiò, si morì.

LIPPO:

Avetela

Ancora maritata?

FAZIO:

Maritatala

Avevamo, e sì bene, che pochissimi

Partiti in questa terra si trovavano

Meglior di quello: poi c'è entrato il diavolo

Dentro, sì che talor vorrei non essere

Nato.

LIPPO:

Me incresce d'ogni tua molestia.

FAZIO:

Ben ne son certo.

LIPPO:

E se in ciò far servizio

Ti posso, mi commanda.

FAZIO:

Ti ringrazio.

LIPPO:

E s'io sapessi il caso, e potessi utile

Farti o di fatti o di parole, avrestimi,

Quanto altro amico abbi al mondo, prontissimo.

FAZIO:

Se quando ero a Firenze, Lippo, amavoti

Quanto me stesso, e s'ancor mai nasconderti

Non vòlsi né potei cosa che in animo

Avessi, io non voglio ora che l'assenzia

Di cinque anni o di sei possa del solito

Suo aver mutata la benivolenzia

Mia verso te; e ch'in te la mia fiducia

Non sia in Cremona, quale era in la patria.

LIPPO:

Io ti ringrazio di queste amorevoli

Parole e buona voluntà; e certissimo

Render ti puoi che da me n'abbi il cambio:

E sia quel che si voglia che ne l'intimo

De' miei secreti por ti, paia, ponloci

Sicuramente, che depositario

Ti sarò in ogni parte fedelissimo.

FAZIO:

Or odi. Ne la casa qui di Massimo

Un costumato e gentil giovene Abita,

Nomato Cintio, il qual da questo Massimo

E stato tolto per figliuol, con animo

(Perché. non ha alcun altro, et è ricchissimo)

Di lasciarlo suo erede. Or questo giovine

Gli ha quella riverenzia et osservanzia

Che imaginar ti déi, che convenevole

Sia a persona che aspetti d'aver simile

Ereditade; quando né per vincolo

Di sangue è indotto a fargli, né per obligo,

Né per altro rispetto, che per libera

Volontà propria, sì gran beneficio.

Essendoci vicino questo giovine,

Come io ti dico, e talvolta venendoli

Veduta la fanciulla, che Lavinia

Si chiama, all'uscio o alle finestre, accesesi

Oltra modo di lei.

LIPPO:

Fatta debbe essere

Bella, per quanto di lei far giudicio

Si potea da fanciulla.

FAZIO:

Ha assai buon'aria.

Odi pur. Cintio cominciò a principio

Con preghi e con proferte di pecunia

A tentarla: ella sempre con modestia

Gli rispondeva, o gli facea rispondere,

Che sua altrimente non era per essere

Che legitima moglie, e con licenzia

Mia; che m'ha in gran rispetto, né mi nomina

Se non per padre. Questo avrebbe il giovine

Fatto, senza guardare all'osservanzia

Che debbe al vecchio et al pericol d'essere

Cacciatone di casa. S'accordatomi

Fuss'io con lui, sarebbe il matrimonio

Seguito; ma vedend'io che poco utile

M'era dargli Lavinia, succedendone

Di Massimo l'offesa e la disgrazia,

Producea in lungo la cosa, che al giovine

Non volea dar repulsa né promettere

Liberamente. Durò questa pratica

Forse quattro anni: all'ultimo, vedendolo

Perseverare in questo desiderio

Sì lungamente, e conoscendo il giovine

Da ben, mi parve non fosse da perdere

Sì rara occasione; e confidandomi

Ch'egli è discreto, e che faria procedere

Queste cose secrete, fin che Massimo

Ci desse luoco, il qual, secondo il termine

Del corso natural, non devria vivere

Però gran tempo, fui contento darglila

Così in presenzia di due testimonii

Operai che in secreto sposò Cintio

La fanciulla, e in secreto accompagnaronsi,

Et in secreto ancor sin qui godutisi

Sono, e successo il tutto era benissimo.

LIPPO:

Cotesto “era” mi spiace: or questo Cintio

Si debbe esser mutato di proposito?

FAZIO:

Cotesto no: Lavinia ama egli al solito.

LIPPO:

Che ci è dunque?

FAZIO:

Diròtelo. Non passano

Tre mesi, che, nulla sappiendo Massimo

Di questa trama, con li amici pratica

Fece, che Abondio, cittadin ricchissimo.

Di questa terra, gli promesse, e dieronsi

La fede, ch'una sua figliuola, ch'unica

Si trova aver, saria moglie di Cintio;

E conchiuser tra lor lo sponsalizio,

Prima che noi n'avessimo notizia;

Et alla sproveduta sì lui colsero,

Che sposar glila fêro, e il dì medesimo.

Menar a casa, sì che dire il misero

Non seppe una parola in contrario.

LIPPO:

Così Lavinia fia lasciata, e vedova

Sarà, vivendo il marito?

FAZIO:

Ne dubito:

Pur tentiamo una. via, che succedendoci

Si potria far che 'l nuovo sponsalizio

Non seguiria.

LIPPO:

Che via?

FAZIO:

Non ha ancor Cintio

Fatto alcun saggio di quest'altra femina.

LIPPO:

Cotesto non credo io, che gli è impossibile

Ma che vi dia la ciancia ben vuo' credere.

FAZIO:

Non mi dà ciancia, no: siane certissimo.

Non ti sarebbe a crederlo difficile,

Se tu n'avessi, come abbiàn noi, pratica.

Ti dirò più, che se n'è con la balia

La sposa querelata, e riferitolo

L'ha la balia alla madre e al padre Abondio:

Et Abondio se n'è di poi con Massimo;

Molto doluto; e Massimo, che sciogliere

Non vorria il parentado, né che Cintio

Sì buona ereditade avesse a perdere,

È ito a ritrovar, non so se astrologo

O negromante debbo dir, un pratico

Molto circa a tal cose, et ha promessogli

Donar venti fiorini, se lo libera.

Vedi se ci dileggia o no

LIPPO:

Che speri tu

Che per tal fizïone abbia a succedere?

FAZIO:

Che poi che stato sia sei mesi, or mettila

A un anno, Cintio in tanta continenzia,

Pensando infine Abondio che perpetua

Sia questa infermitade et incurabile,

S'abbia a ritor la figliuola; e potendoci

Di questo nodo questa volta sciogliere,

Non abbiamo di poi di che aver dubbio.

Ben saria pazzo, e bene avrebbe in odio

La cosa sua, chi più di darla a Cintio

Parlasse, poi che d'impotente e debole

Ha nome.

LIPPO:

È bel disegno, e può succedere,

Pur che Cintio stia saldo in un proposito.

FAZIO:

Non temo che si muti.

LIPPO:

S'egli séguita,

Pel più fedel lo lodo e da ben giovine,

Di chi io sentissi mai parlare. Or piacemi

D'averti visto. Dio sia favorevole

A tutti i vostri desiderii! Possoti

Far cosa che ti piaccia?

FAZIO:

Che domestica–

mente alloggi qui meco.

LIPPO:

Io ti ringrazio.

Son con questi alloggiato da la Semola:

Et ho da far sì con lor, che spiccarmene

Posso male; et a pena ho avuto spazio

Di venirti a vedere; et or m'aspettano.

FAZIO:

Verrò a trovarti questa sera.

LIPPO:

Lasciati

Per tua fé spesso veder; e godiamoci

Fin ch'io sto qui, più che ci sia possibile.

FAZIO:

Così faremo. — Ecco Cintio con Temolo.

Se tutti i servitori così fossero

Fedeli alli padroni, come Temolo

È a questo suo, le cose passerebbono

De li padroni meglio che non passano.

SCENA III

Cintio, Temolo, Fazio

CINTIO:

Temolo, che ti par di questo astrologo

O negromante vogli dir?

TEMOLO:

Lo giudico

Una volpaccia vecchia.

CINTIO:

Or ecco fazio.

Io domandavo costui de l'Astrologo

Nostro quel che gli par.

TEMOLO:

Dico ch'io il giudico

Una volpaccia vecchia.

CINTIO:

Et a voi, Fazio,

Che ne par?

FAZIO:

Lo stimo uom di grande astuzia

E di molta dottrina.

TEMOLO:

In che scïenzia

È egli dotto?

FAZIO:

In l'arti che si chiamano

Liberali.

CINTIO:

Ma pur ne l'arte magica

Credo che intenda ciò che si può intendere,

E non ne sia per tutto il mondo un simile.

TEMOLO:

Che ne sapete voi?

CINTIO:

Cose mirabili

Di lui mi narra il suo garzone.

TEMOLO:

Fateci,

Se Dio v'aiuti, udir questi miracoli.

CINTIO:

Mi dice ch'a sua posta fa risplendere

La notte, e il dì oscurarsi.

TEMOLO:

Anch'io so simile–

mente cotesto far.

CINTIO:

Come?

TEMOLO:

Se accendere

Di notte anderò un lume, e di dì a chiudere

Le finestre.

CINTIO:

Deh, pecorone! dicoti

Che estingue il sol per tutto il mondo, e splendida

Fa la notte per tutto.

TEMOLO:

Gli dovrebbeno

Dar gli speciali dunque un buon salario.

FAZIO:

Perché?

TEMOLO:

Perché calare il prezzo e crescere,

Quando gli paia, può alla cera e all'olio.

Or sa far altro?

CINTIO:

Fa la terra muovere,

Sempre che 'l vuol.

TEMOLO:

Anch'io talvolta muovola:

S'io metto al fuoco o ne levo la pentola;

O quando cerco al buio se più gocciola

Di vino è nel boccale, alor dimenola.

CINTIO:

Te ne fai beffe, e ti par d'udir favole?

Or che dirai di questo: che invisibile

Va a suo piacer?

TEMOLO:

Invisibile? Avetelo

Voi mai, padron, veduto andarvi?

CINTIO:

Oh, bestia!

Come si può veder, se va invisibile?

TEMOLO:

Ch'altro sa far?

CINTIO:

De le donne e de gli uomini

Sa trasformar, sempre che vuole, in varii

Animali e volatili e quadrupedi.

TEMOLO:

Si vede far tutto il dì, né miracolo

È cotesto.

FAZIO:

U' si vede far?

TEMOLO:

Nel populo

Nostro.

CINTIO:

Non date udienza alle sue chiacchiere,

Che ci dileggia.

FAZIO:

Io vo' saperlo: narraci

Pur come.

TEMOLO:

Non vedete voi, che sùbito

Un divien podestade, commissario,

Proveditore, gabelliere, giudice,

Notaio, pagator de li stipendii

Che li costumi umani lascia, e prendeli

O di lupo o di volpe o di alcun nibio?

FAZIO:

Cotesto è vero.

TEMOLO:

E tosto ch'un d'ignobile

Grado vien consigliere o segretario,

E che di commandar agli altri ha ufficio,

Non è vero anco che diventa un asino?

FAZIO:

Verissimo.

TEMOLO:

Di molti, che si mutano

In becco vuo' tacer.

CINTIO:

Cotesta, Temolo,

È una cattiva lingua.

TEMOLO:

Lingua pessima

La vostra è pur, che favole mi recita

Per cose vere.

CINTIO:

Dunque, non vuoi credere

Che costui faccia tali esperïenzie?

TEMOLO:

Anzi, che di maggior ne faccia, credere

Vi voglio, quando con parole semplici,

Senza aver dimostrato pur un minimo

Effetto, può cavar di mano a Massimo

Quando danari e quando roba. Or essere

Potria prova di questa più mirabile?

CINTIO:

Tu cianci pur, né rispondi a proposito.

TEMOLO:

Parlate cose vere, o che si possino

Credere almeno; e come è convenevole

Risponderòvi.

CINTIO:

Dimmi questo: credi tu

Che costui gran maestro sia di magica?

TEMOLO:

Ch'egli sia mago, et eccellente, possovi

Credere; ma che farsi li miracoli,

Che dite voi, si possino per magica,

Non crederò.

CINTIO:

La poca esperïenzia

C'hai del mondo, n'è causa. Dimmi: credi tu

Che un mago possa far cosa mirabile?

Come scongiurar spirti, che rispondino

Di molte cose che tu vogli intendere?

TEMOLO:

Di questi spirti, a dirvi il ver, pochissimo

Per me ne crederei; ma li grandi uomini,

E principi e prelati, che vi credono,

Fanno col loro esempio ch'io, vilissimo

Fante, vi credo ancora.

CINTIO:

Concedendomi

Questo, mi puoi similmente concedere

Ch'io sono il più infelice omo e il più misero

Ch'oggi si trovi al mondo.

TEMOLO:

Come? Séguita.

CINTIO:

S'egli venisse a scongiurar li spiriti,

Non saprebbe egli ch'io non sono debole,

Com'io mi fingo? e la cagion del fingere

Non sapria ancor? che con tal mezzo studio

Di tôr da me la figliuola d'Abondio?

E che Lavinia è mia moglie? Or sapendolo,

Et al mio vecchio insieme riferendolo,

A che termin sono io?

TEMOLO:

E' non è dubbio

Che saresti a mal termine.

CINTIO:

Anzi a pessimo.

FAZIO:

Volete, Cintio, ch'io vi metta un ottimo

Partito inanzi, sopra il qual fantastico

Già molti giorni, e concludo ch'altro essere

Non ci può, se non questo, salutifero?

CINTIO:

Dite.

FAZIO:

Mi par che costui sia molto avido

Di guadagnare assai.

CINTIO:

Son del medesimo

Parere anch'io. Che più?

FAZIO:

Dunque rendetevi

Certo ch'egli più;tosto vorrà apprendersi

A quaranta, che a venti.

CINTIO:

L'ho certissimo.

FAZIO:

Il vecchio gli ha promesso, se vi libera,

Di donar venti scudi; e, credo, trattone

Le spese.

CINTIO:

Seguitate.

FAZIO:

Or ritrovatelo,

E tutto il desiderio vostro apriteli;

E una proferta fategli magnanima

Di quaranta ducati, e che facci opera

Che si dissolva questo sponsalizio.

CINTIO:

Ma da chi trovarò quaranta piccioli,

Non che fiorini, in tal tempo?

FAZIO:

Lasciatene

A me la cura: s'io dovessi vendere

Letta e lenzuola, et ogni masserizia

c'ho in casa, e senza serbarmi una camera,

La casa stessa, provederò sùbito

A tal bisogno.

CINTIO:

In questa cosa, Fazio,

Et in ogni altra, sempremai rimettere

A voi mi voglio.

FAZIO:

Che ne di' tu, Temolo?

TEMOLO:

Il medesmo che voi dite.

CINTIO:

Parendovi

Dunque così, gli parlarò.

FAZIO:

Parlategli,

E tosto.

CINTIO:

Or ora, poiché senza avolgermi

Per la terra a cercarlo, io l'ho qui commodo

In casa.

FAZIO:

Egli è qui in casa?

CINTIO:

Sì.

FAZIO:

Chiamatelo

Da parte, o vi serrate ne la camera

Con lui.

CINTIO:

Così farò.

FAZIO:

Ma ecco Massimo,

Ch'a tempo vi dà luoco. Resti Temolo

Con essovoi; ch'io voglio ire a por ordine

Che abbiàn questi danar che ci bisognano.

SCENA IV

Massimo, Cintio

MASSIMO:

Cintio.

CINTIO:

Messere.

MASSIMO:

Odimi un poco: voglioti

Pur dir quel che più volte ho auto in animo,

Et ho sin qui taciuto, non fidandomi

Del mio parere. Or, quando altri concorrere

Ci veggo ancora, tel vuo' dir. La pratica,

La quale hai col vicino nostro Fazio,

Non mi par molto buona né lodevole:

Mal si confanno insieme i vecchi e i gioveni.

CINTIO:

Messer, cotesto parlare è contrario

A quel che dir solete: che li gioveni,

Praticando coi vecchi, sempre imparano.

MASSIMO:

Male imparar si può, dove il discepolo

Sa più del suo maestro.

CINTIO:

Gli è da credere;

Ma non v'intendo.

MASSIMO:

Te l'ho dunque a lettere

Di speciali a chiarir? Mal convenevole

Mi par ch'un vecchio tenga così intrinseca

Domestichezza teco, il qual sì giovane

E sì bella figliuola abbi; e ti toleri

Che da matina a sera tu gli bazzichi

Per casa, essendovi egli e non essendovi.

Per il tempo passato, che dal vincolo

De la moglie eri sciolto, sempre vivere

T'ho lasciato a tuo modo, né molestia

Mi dava che 'l vicino avesse infamia

Per te; che del suo onor poco curandosi

Egli, molto men io debbio curarmene.

Ma or c'hai moglie a lato, e che i tuoi suoceri

Si son doluti meco di tal pratica,

Et han sospetto che queste sue femine

T'abbiano così guasto, voglio rompere

Lo scilinguagnolo, e dir che malissima,

mente fai, più tenendo cotal pratica.

CINTIO:

Non è per mal effetto s'io gli pratico

In casa; e non è tra me e quella giovane

Alcun peccato; e così testimonio

Me ne sia Dio. Ma chi può le malediche

Lingue frenar, che a lor modo non parlino?

MASSIMO:

Pur ciance! Che vi fai tu? Che commercio

Hai tu con lor?

CINTIO:

Non altro che amicizia

Onesta e buona. Ma in quali case essere

Sentite donne voi, ch'abbiano grazia,

Che tutto il di non vi vadino i gioveni

Essendo o non essendovi i lor uomini)

A corteggiar?

MASSIMO:

Né l'usanza è lodevole;

Cotesto al tempo mio non era solito.

CINTIO:

Doveano al vostro tempo avere i gioveni,

Più che non hanno a questa età, malizia.

MASSIMO:

Non già; ma ben gli vecchi più accorti erano.

Mi maraviglio che al presente gli uomini

Non sieno a fatto grassi come tortore.

CINTIO:

Perché?

MASSIMO:

Perc'hanno tutti sì buon stomaco.

Torna in casa, e tien compagnia all'Astrologo;

Ch'io voglio ire a un mio amico, che mi accommodi

D'un suo baccin d'argento, che è assai simile

Al mio, poi che non basta un solo, e vuolene

Due. Di quest'altre cose che bisognano,

N'ho in casa molte; e di parecchie datoli

Ho li danari, acciò che esso le comperi,

Secondo che gli piace. Io mi delibero

Che, s'io dovessi ciò c'ho al mondo spendere,

Per me non stia che tosto non ti liberino.

ATTO SECONDO

SCENA I

Nibbio

NIBBIO:

Per certo, questa è pur gran confidenzia,

Che mastro Iachelino ha in se medesimo,

Che mal sapendo leggere e mal scrivere,

Faccia professione di filosofo,

D'alchimista, di medico, di astrologo,

Di mago, e di scongiurator di spiriti;

E sa di queste e de l'altre scïenzie

Che sa l'asino e 'l bue di sonar gli organi;

Benché si faccia nominar lo Astrologo

Per eccellenzia, sì come Virgilio

Poeta, e Aristotele il Filosofo;

Ma con un viso più che marmo immobile,

Ciance, menzogne, e non con altra industria

Aggira et aviluppa il capo agli uomini;

E gode, e fa godere a me (aiutandoci

La sciocchezza, che al mondo è in abondanzia)

L'altrui ricchezze. Andiamo come zingari

Di paese in paese; e le vestigie

Sue tuttavia dovunque passa, restano,

Come de la lumaca, o per più simile;

Comparazion, di grandine o di fulmine;

Si che di terra in terra, per nascondersi,

Si muta nome, abito, lingua e patria.

Or è Giovanni, or Piero; quando fingesi

Greco, quando d'Egitto, quando d'Africa;

Et è, per dire il ver, giudeo d'origine,

Di quei che fur cacciati di Castilia.

Sarebbe lungo a contar quanti nobili,

Quanti plebei, quante donne quanti uomini

Ha giuntati e rubati, quante povere

Case ha disfatte, quante d'adulterii

Contaminate, or mostrando che gravide

Volesse far le maritate sterilili,

Or le suspizïoni e le discordie

Spegner, che tra mariti e mogli nascono.

Or ha in piè questo gentiluomo, e beccalo

Meglio che frate mai facesse vedova.

SCENA II

Astrologo, Nibbio

ASTROLOGO:

Provederò ben al tutto io: lasciatene

A me pur il pensier

NIBBIO:

Sì, sì, lasciatene

La cura a lui: non vi potete abbattare

Meglio.

ASTROLOGO:

Oh, tu se', Nibbio, costì? Volevoti

A punto.

NIBBIO:

Anzi vorreste in altro simile

A quel che resta costà dentro, ch'utile

Poco avrete di me.

ASTROLOGO:

Vorrei de' simili

Più tosto a questi, che meco fuor escono.

Ve' che non t'apponesti ?

NIBBIO:

Come diavolo

Faceste?

ASTROLOGO:

Dianzi me li diede Massimo,

Che in certe medicine, che bisognano,

Io li spendessi. Te' tu questi, comprane

Due buone paia di capponi, e siano...

Tu intendi: fa' che di grassezza colino.

NIBBIO:

Vi chiamarete servito benissimo.

ASTROLOGO:

Dua baccini d'argento, che non vagliono

Men di cento cinquanta scudi, voglioti

Far vedere in man mia: credo che Massimo

Vorrà uno scritto di mano, e in presenzia .

Di qualche testimonio consegnarmeli

NIBBIO:

Fate a mio senno, padron: come avutili

Avete, andiamo a Ferrara o a Vinegia.

ASTROLOGO:

Con sì poco bottin tu vuoi ch'io sgomberi?

Credi tu ch'io non abbi più d'un traffico

In questa terra, piena di scioccaggine,

Più che Roma d'inganni e di malizie?

Che s'io mi parto sol con questo, perdomi

Così mille ducati, come a studiosi

Andassi, ov'ha più fondo il mare, a spargerli.

NIBBIO:

Ch'altro traffico, senza quel di Massimo,

Avete voi?

ASTROLOGO:

N'ho con questo suo Cintio

Un altro non minor; ma da cavarsene

Tosto il guadagno fuor molto più agevole,

Da quel del vecchio suo diverso. Abbiamone

Un altro poi, che val più che non vagliono

Insieme questi dua, né s'anco fossino

Dua tanti e tutti questi hanno un medesimo

Principio. Tu devresti ben conoscere.

Camillo Pocosale, un certo giovene

Bianco, tutto galante.

NIBBIO:

Pur conoscere

Lo devrei;così spesso venir veggolo

Con voi.

ASTROLOGO:

Ma tu non sai c'ha una bellissima

Quantitade d'argenti, che lasciatili

Furon, con l'altra eredità, da un vescovo

Suo zio; e l'altr'ier, ch'un pezzo stetti in camera

Con lui, veder me li fe' tutti. Vagliono

Settecento ducati, e credo passino.

NIBBIO:

Non è già posta da lasciar: farebbono

Per noi.

ASTROLOGO:

Per noi faran, se mi riescono

Alcuni bei disegni ch'io fantastico.

Questo Camil, de la sposa di Cintio

È sì invaghito, che quasi farnetica:

Ben fe' il meschino, prima che la dessino

A Cintio, ciò che far gli fu possibile

Per averla per moglie. Ora notizia

Di questa debiltade et impotenzia

Avendo de lo sposo, il quale il vomere

Non può cacciar nel campo, ha ripreso animo

E speranza, che a sé s'abbia a ricorrere,

Volendolo ridursi che si semini.

E son più giorni ch'a me venne, essendoli

Detto c'ho tolto a ridrizzare il manico

De l'aratro; e due scudi in mano postomi

A prima giunta, indi il suo amor narratomi,

Mi supplicò piangendo, che procedere

Volessi in guisa alla cura di Cintio,

Che più impotente restasse e più debole

Di quel che sia, e in modo che conoscere

Mai non potesse carnalmente Emilia;

E cinquanta fiorin donar promessemi,

Se il parentado facevo disciogliere.

NIBBIO:

Verso l'argenti cotesto è una favola:

Ma né i cinquanta fiorini anco putono;

E mi par che 'l beccarli vi fia facile;

Che tosto che dichiate al padre o al suocero...

ASTROLOGO:

Deh! insegnami pur altro che di mugnere

Le borse, che gli è mio primo esercizio.

Non vuo' che trenta fiorini mi tolghino

Seicento, e più. Quegli argenti mi toccano

Il cuor. Bisogna un poco che si menino

Le cose in lungo, fin che giunga un commodo

Di levar netto. Intanto non ci mancano

Altri babbion, che ci daran da vivere.

Sono alcuni animali, dei quali utile

Altro non puoi aver che di mangiarteli,

Come il porco; altri sono che, serbandoli,

Ti danno ogni dì frutto; e quando all'ultimo

Non ne dan più, tu te li ceni o desini,

Come la vacca, il bue, come la pecora:

Sono alcuni altri, che vivi ti rendono

Spessi guadagni, e morti nulla vagliono,

Come il cavallo, come il cane e l'asino.

Similmente negli uomini si truovano

Gran differenzie. Alcuni, che per transito

In nave o in ostaria, tra i piè ti vengono,

Che mai più a riveder non hai, tuo debito

È di spogliarli e di rubarli sùbito.

Son altri, come tavernieri, artefici,

Che qualche carlin sempre e qualche iulio

Hanno in borsa, ma mai non hanno in copia;

Tôr spesso e poco al tratto a questi, è un ottimo

Consiglio, perché se così li scortico

A fatto, poco è il mio guadagno, e perdomi

Quel che quasi ogni giorno può cavarsene.

Altri ne le cittadi son ricchissimi

Di case, possessioni, e di gran traffichi:

Questi devemo differire a mordere,

Non che a mangiar, fin che da lor si succiano

Or tre fiorini, or quattro, or dieci, or dodici;

Ma quando vuoi mutar paese all'ultimo,

O che ti viene occasïone insolita,

Tosali alora fin sul vivo o scortica.

In questa terza schiera è Cintio e Massimo,

E Camillo, che con promesse e frottole

In lungo meno, e menarò, fin che alidi

Non li truovi del latte: un di poi toltomi

L'agio ch'esser mi paian grassi e morbidi,

Io trarrò lor la pelle, e mangeròmeli

Ora, perché Camillo, finché commodo

Mi sia di scorticarlo, m'abbia a rendere

Il latte, di verdi erbe vo pascendolo.

Di speme, promettendoli d'accendere

Sì del suo amor questa Emilia, che, voglino

O non voglino i suoi parenti, sùbito

Che lasci Cintio, non vorrà congiungersi

Ad altro uomo che a lui; e dato a intendere

Gli ho che già in questo ho fatto sì buon'opera,

Che del suo amore ella si strugge, e lettere

Et ambasciate ho da sua parte fintomi .

NIBBIO:

Non m'avete più detto questa pratica.

ASTROLOGO:

...E da sua parte ancora certi piccioli

Doni arrecati gli ho, ch'egli ha gratissimi.

Questa matina egli mi die' un bellissimo

Annelletto, ch'io dessi a lei

NIBBIO:

Terretelo

Per voi, o pur le lo darete?

ASTROLOGO:

Voglione

Il tuo consiglio.

NIBBIO:

Per Dio, no.

ASTROLOGO:

Ma eccolo.

Sta' pure all'erta, e fa' il grossieri, e mostrati

Di non aver le capre.

NIBBIO:

Starò tacito.

SCENA III

Astrologo, Camillo, Nibbio

ASTROLOGO:

Dove va questo inamorato giovene,

Sopra tutti gli amanti felicissimo?

CAMILLO:

Io vengo a ritrovare il potentissimo

Di tutti i maghi, ad inchinarmi all'idolo

Mio, cui miei voti, offerte e sacrificii

Destino tutti; che voi la mia prospera

Fortuna sète. Ah! ch'io non posso esprimere,

Maestro, quant'ho verso voi buon animo.

NIBBIO:

(Credo che tosto muterai proposito.)

ASTROLOGO:

Queste parole meco non accadono

In tutto quel ch'io son buono, servitevi

Di me, che sempre m'avrete prontissimo.

CAMILLO:

Ben ne son certo; e ve n'ho eterna grazia

Ma ditemi, che fa la mia carissima

E dolcissima mia?

ASTROLOGO:

Va' via tu, scostati

Da noi.

NIBBIO:

(Ben vince costui tutti gli uomini

D'esser secreto. O buono aviso!)

ASTROLOGO:

Simili

Cose non sono mai da dir, che v'odano

Li famigli, che tuttavia riportano

Ciò che sanno. Io non ci avevo avvertenzia.

CAMILLO:

Ma che fa la mia bella e dolce Emilia?

ASTROLOGO:

Arde per vostro amor, tanto ch'io dubito

Che s'io produco troppo in lungo a porvela

In braccio, come nieve al sol vedremola,

o come fa la cera al fuoco, struggere.

NIBBIO:

(Ciò ch'egli dice è bugia; ma sapràgliela

Sì bene ornar, che gliela farà credere.)

CAMILLO:

Per non lasciarla dunque voi distruggere,

E me morir poi di dolor, forniscasi

Ch'io son ben certo, che dicendo libera,

mente voi, che impossibil sia che Cintio

Mai consumi con essa il matrimonio,

Che 'l padre suo non negherà di darmela.

ASTROLOGO:

Mi fa ella ancor questi preghi medesimi.

A voi che amate, e che lasciate reggervi

All'appetito, par che ciò far facile,

mente si possa, perch'altra avvertenzia

Non avete, che al vostro desiderio.

Ma ditemi; s'io dico che incurabile

Sia la impotenzia di Cintio, e rimedio

Non gli abbia fatto ancor; non darò indizio,

Anzi segno di fraude evidentissimo?

CAMILLO:

Sempre al vostro parer mi vuo' rimettere.

NIBBIO:

Come è soro e innocente questo giovene

ASTROLOGO:

Almen voi sète più di lei placabile.

CAMILLO:

Ella non fa così?

ASTROLOGO:

Così, eh? S'incollera,

Non mi vuole ascoltar, e piange, e dicemi

Ch'io meno in lungo questa trama a studio.

CAMILLO:

Io non dirò mai più che a voi possibile

Non sia ogni cosa, poi che così accendere

Di me l'avete potuta sì sùbito:

Da la quale, in cinque anni che continua–

mente ho amato e servito, un segno minimo

Non potetti aver mai d'esserli in grazia.

NIBBIO:

(Quando lo battezzâr non doveva essere

Sale al mondo, che non trovâr da porgliene

Un grano in bocca.)

ASTROLOGO:

Ho ben meco una lettera

Ch'ella vi scrive.

CAMILLO:

Che cessate darmela?

ASTROLOGO:

La volete vedere?

CAMILLO:

Io ve ne supplico.

NIBBIO:

(Questa esser de' la lettera, che scrivere

Gli viddi dianzi; or gli darà ad intendere

Che scritta di man sua gliel'abbia Emilia.)

CAMILLO:

Di quelle man, più che di latte candide,

Più che di nieve, è uscita questa lettera?

NIBBIO:

(Uscita è pur di man rognose e sucide

Del mio padron: tentela cara, e baciala.)

ASTROLOGO:

Prima da lo alabastro, o sia ligustico

Marmo, del petto viene, ove fra picciole

Et odorate due pome giacevasi.

CAMILLO:

Dal bel seno de la mia dolce Emilia

Dunque vien questa carta felicissima?

ASTROLOGO:

Sua bella man quindi la trasse, e diemela.

NIBBIO:

(Così t'avesse dato il latte mammata!)

CAMILLO:

O bene aventurosa carta, o lettera

Beata, quanto è la tua sorte prospera!

Quanto t'hanno le carte a avere invidia,

De le quali si fan libelli, cedule,

Inquisizioni, citatorie, esamine,

Istrumenti, processi, e mille altre opere

De' rapaci notari, con che i poveri

Licenziosamente in piazza rubano!

O fortunato lino, e più in questo ultimo

Degno d'onor, che tu sei carta fragile,

Che mai non fusti tela, se ben tonica

Fusti stata di qual si voglia principe,

Poi che degnata s'è la mia bellissima

Padrona i suoi segreti in te descrivere!

NIBBIO:

(Sarà più lunga del salmo l'antifona.)

CAMILLO:

Ma che tardo io d'aprirti, et in te leggere

Quanto m'arrechi di gaudio e di iubilo,

Di ben, di gioia, di vita?

ASTROLOGO:

Fermatevi:

Fate a mio senno.

CAMILLO:

Di che?

ASTROLOGO:

Andate a leggerla

A casa vostra.

CAMILLO:

Perché non qui?

ASTROLOGO:

Dubito

Che, avendo fatto a questa chiusa lettera

Tante esclamazïoni e cerimonie,

Tosto che voi l'apriate, e le carattere

Veggiate impresse da quel bianco avorio,

Le parole gustiate suavissime,

Che si spiccan dal suo cuore ardentissimo,

Che un svenimento per dolcezza v'occupi,

Tal che caschiate in terra, o per letizia

Leviate un grido, che intorno accorrano

Tutti i vicini.

CAMILLO:

Non farò: lasciatemi

Legger, maestro.

ASTROLOGO:

Leggetela.

CAMILLO:

Leggola

Signor mio car...Non dovea questo titolo

Darmi, ch'io le son servo.

ASTROLOGO:

Seguite.

CAMILLO:

Unica

Speranza mia. O parola meliflua

ASTROLOGO:

Anzi pur zucariflua, che ignobile

È il mel.

CAMILLO:

Voi dite il ver.

ASTROLOGO:

Seguite.

CAMILLO:

O anima

Mia, o vita mia, o. luce mia! Mi cavano

Queste parole il cuor. Vi prego e supplico,

Per quanto ben mi volete... Fortissimo

Scongiur!

NIBBIO:

(Debbe esser materia difficile,

Che vien di parte in parte comentandola.)

CAMILLO:

...E per l'amor, che grande e inestimabile

Io porto a voi, facciate quanto intendere

A bocca da mia parte il nostro Astrologo

Vi farà; né pensate già di prenderci

Scusa, che né impossibil, né dificile

È però questo ch'io vi fo richiedere.

Se sète mio, come io vostra, chiarirmene

Può questa pruova. State sano e amatemi.

NIBBIO:

(Cuius figurae? ben si può dir: simplicis.)

ASTROLOGO:

Sète vo' al fine?

CAMILLO:

Sì, ma che accadevano

Preghi? Non è ella certa che, accennandomi,

Mi pub cacciar nel fuoco? e domandandomi

Il cuor, son per spararmi il petto, e darglielo

Che ho a far?

ASTROLOGO:

È come vedete, lettera

Credenzïale: oggi vi farò intendere

Quel che da parte sua v'ho a dir. Lasciatevi

Riveder.

CAMILLO:

Non è meglio ora spedirmene?

ASTROLOGO:

La cosa importa, e non è da passarsene

In tre parole o in quattro: differiamola

Più tosto da qui un pezzo, che più libero

Io sia che non sono ora, che da Cintio

Sono aspettato. Io vo' con lui conchiudere

Un mio disegno, a cui diedi principio

Dianzi, che tutto fia però a vostro utile.

Et ecco che esce la madre di Emilia.

Che non vi vegga meco! — Nibbio, seguemi.

SCENA IV

Madonna, Fantesca

MADONNA:

Confortati, figliuola, che rimedio,

Fuor ch'al morire, ad ogni cosa truovano

Le savie donne. Or resta in pace. — Ah misera

Umana vita! a quanti strani e insoliti

Casi è suggetto questo nostro vivere!

FANTESCA:

In fé di Dio, che tôr non si dovrebbono

Se non a pruova li mariti.

MADONNA:

Ah bestia!

FANTESCA:

Che bestia? Io dico il ver. Mai non si compera

Cosa, che prima ben non si consideri

Dentro e di fuor più volte. Se in un semplice

Fuso il vostro danaio avete a spendere,

Dieci volte a guardarlo bene e volgere

Per man tornate: et a barlume gli uomini

Si torran poi, che tanto ci bisognano?

MADONNA:

Credo che sii ubriaca.

FANTESCA:

Anzi, più sobria

Unqua non fui. Io conobbi una savia,

Già mia vicina, che si tenne un giovene

Ogni notte nel letto più di sedici

Mesi, e ne fece ogni pruova possibile;

E poi che a tal mestier ben le parve utile,

De la figliuola sua, ch'ella aveva unica,

Lo fe' marito.

MADONNA:

Va', scrofa, e vergognati.

FANTESCA:

Dunque mi debbio vergognare a dirve la

Verità? S'anco voi la esperienzia

fatta aveste di Cintio, a questo termine

Non sareste. Ma che più? Persuadetevi

Che sia tutto uno, poi che esperïenzia

N'ha fatto Emilia tanti dì Lasciatelo

In sua mala ventura, e d'altro genero

Provedetevi. Ma prima provatelo:

Fate a mio senno

MADONNA:

Uh, che consiglio, domine,

Mi dà costei!

FANTESCA:

Se non volete prendere

Questo, ve ne do un altro: a me lasciatelo

Provar; s'io il provo, saprò far giudicio

Se se n'avrà da contentare Emilia.

MADONNA:

O brutta, disonesta e trista femina,

Serra la bocca in tua malora, e seguimi.

ATTO TERZO

SCENA I

Astrologo, Cintio, Nibbio

ASTROLOGO:

Cintio, siate pur certo che narratomi

Voi non avete cosa, che benissimo

Io non sapessi prima; e se i rimedii

Beni mostravo di farvi, che esser sogliono

Salutiferi e buoni a chi sia all'opera

De le donne impotente, perciò a credere

Che vi fussin bisogno, non m'avevano

Indotto vostre finzïoni; e avevovi

Compassione; e perciò ai desiderii

Vostri mi avete sempre favorevole

Ritrovato, più tosto che contrario.

CINTIO:

S'io da voi per adietro, non sapendolo

Né ve ne richiedendo, ebbi alcuno utile,

Ve ne sono obligato, et in perpetuo

Ve ne sarò; ma poi che, non pregandovi,

M'avete fatto quel che dite, e credovi;

Quant'ora più, ch'io ve ne prego e supplico,

E riconoscer posso il benefizio,

Di bene in meglio devete procedere.

Il che potete far molto più facile–

mente, che non potreste quel che Massimo

Vorria. Qui non accade altro che libera,

mente al mio vecchio et agli altri rispondere

Che l'impotenzia mia non è curabile.

ASTROLOGO:

S'al vecchio e agli altri io volessi rispondere

Che l'impotenzia non fosse curabile,

Credete voi che il vecchio avesse a credermi

Sì facilmente, e che mandasse sùbito

La sposa a casa? Cintio, non si credono

Così tosto le cose che dispiaceno;

E potrei dar sospetto, che ad istanzia

L'avessi detto di qualcun che invidia

Vi portasse, o che avesse a desiderio

Di ritirar a casa sua questo utile.

Ma vi veggo altra via, più riuscibile

E più breve di questa, da far sùbito .

Levar costei di casa vostra, e andarsene

Là donde venne.

CINTIO:

Se 'l vi piace, ditela.

ASTROLOGO:

Non vuo' che costui m'oda. — Va' tu, scostati,

Dacci un po' luoco: non volere intendere

Sempre ciò che si dice.

NIBBIO:

(Come dettomi

Non abbia il suo disegno, e ciò c'ha in animo

Di far!)

ASTROLOGO:

Non son da dir cose che importano

Alla presenzia de' famigli.

NIBBIO:

(Un simile

Secretario non ha il mondo. Se i principi

Lo conoscesson com'io, lo vorrebbeno:

Per impiccarlo dico.)

ASTROLOGO:

Ora a proposito

Nostro, io vuo' far che costei vi sia sùbito

Tolta di casa.

CINTIO:

Se 'l vi piace, ditemi

Il modo.

ASTROLOGO:

Prima ch'io vel dica, voglio mi

Promettiate di non parlarne ad anima

Viva; né a questi vostri secretarii,

De' quai l'un v'è famiglio e l'altro suocero;

Né a vostra moglie ancora: che parlandone

A chi si voglia, porreste a pericolo

Me di morte, ambidui noi d'ignominia.

E se, senza saperlo voi, far l'opera

Potessi, io la farei di miglior animo.

CINTIO:

S'io v'obligo la fede di star tacito,

Temete ch'io non ve la servi?

ASTROLOGO:

Credovi

Ch'abbiate or questa intenzïon; ma sùbito

Che colei sia con voi, senza avedervene,

Ciò ch'avrò detto, pur che voglia intenderlo,

Direte; e tutto un dì non è possibile

Che cosa occulta stia, che sappia femina.

CINTIO:

Né con lei, né con altri son per muovere

Parola.

ASTROLOGO:

E così promettete?

CINTIO:

V'obligo

La fede mia.

ASTROLOGO:

Vel dirò dunque: uditemi.

Io voglio far che ritroviate un giovene

Questa notte nel letto con Emilia.

CINTIO:

Che avete detto?

ASTROLOGO:

Che troviate un giovene

Questa notte nel letto con Emilia.

Non m'intendete?

CINTIO:

Forse me medesimo

Ci trovarò.

ASTROLOGO:

Dicovi un altro giovene,

Che le darà di quello in abondanzia

Che le negate voi.

CINTIO:

Dunque ella è adultera?

ASTROLOGO:

Cotesto no, ma casta e pudicissima;

Ma sarà tosto giudicata adultera

Dal vecchio, onde vi sia cagion legitima

Seco, e con tutto il mondo, di ripudio;

E quando ancor voi non voleste, Massimo

So non la terrà in casa, e vorrà sùbito

Che torni a casa il padre.

CINTIO:

Ah, sarà scandolo

Et infamia perpetua de la giovane!

ASTROLOGO:

E che noia vi dà, pur che la lievino

Di casa vostra, e che mai più non abbino

A rimandarla? Non guardate, Cintio,

Mai di far danno altrui, se torna in utile

Vostro. Siamo a una età, che son rarissimi

Che non lo faccian, pur che far lo possano,

E più lo fan, quanto più son grandi uomini:

Né si può dir che colui falli, ch'imita

La maggior parte.

CINTIO:

Fate voi: guidatemi

Come vi par. Gli è ver, se gli è possibile

Far altramente che con tanto scandolo,

E tanto disonor di questa giovane,

Io ci verrò di molto miglior animo;

ASTROLOGO:

Verrete solo a trovarmi alla Camera...

NIBBIO:

(Se vi vai, te la attacca.)

ASTROLOGO:

...che per ordine

Vi mostrarò che non ci fia lo scandolo,

Né il disonor, che vi date ad intendere.

NIBBIO:

(Il mio patron ara col bue e con l'asino.)

ASTROLOGO:

Sollecitate voi pur questo suocero

Vostro, che questa sera i danar siano

Apparecchiati, sì ch'io possa prenderli

Tosto ch'abbiate avuto il desiderio

Vostro voi; ch'io non vuo' più lungo termine

Di questa notte, a far che tutto séguiti

Ciò ch'io prometto.

CINTIO:

lo vo a trovarlo.

ASTROLOGO:

Siavi

A mente, che fra noi le cose stiano

Secrete.

CINTIO:

Saran più che secretissime.

SCENA II

Astrologo, Nibbio

ASTROLOGO:

Poich'io truovo Fortuna tanto prospera

A tutti i miei disegni, egli è impossibile

Che questi argenti di Camil mi fugghino

Oggi di mano. Verso lor mi paiono

Tutti quest'altri guadagnucci favole.

Pensavo dianzi, s'io potevo in termine

Di dieci giorni averli, o al più di quindici,

Ch'avrei fatto una de le prove d'Ercole:

Ma poi che m'ha parlato questo Cintio,

E dettomi in che grado si ritrovano

Le cose, mi parrà, s'io tardo a farmene

Signor fino a domani, ch'io possa essere

D'ignoranzia imputato e dappocaggine.

Ma gli è stato bisogno di prevertere

E sozopra voltar tutto il primo ordine.

Avevo disegnato che la lettera

Credenzïal, c'ho da parte d'Emilia

Data a Camil, m'avesse a far servizio

In una cosa: or bisogna servirmene

In un'altra più degna e più proficua.

NIBBIO:

De le tre starne che in piè avete, ditemi,

Qual mangiarete?

ASTROLOGO:

Vedra'mi ir beccandole

Ad una ad una, et attaccarmi in ultimo

Alla più grassa, e tutta divorarmela.

NIBBIO:

Eccoven'una, e la miglior: mettetevi,

Se avete fame, a piacer vostro a tavola.

ASTROLOGO:

Chi è, Camillo?

NIBBIO:

Sì.

ASTROLOGO:

Sì ben mangiarmelo

Voglio, che l'ossa non credo ci restino.

SCENA III

Camillo, Astrologo, Nibbio

CAMILLO:

lo son tornato.

ASTROLOGO:

Io il veggo.

CAMILLO:

Ora chiaritemi

Che vuol da me la mia padrona.

ASTROLOGO:

Vuolevi

Seco nel letto questa notte, e stringervi

Ne le sue braccia, e più di cento milia

Volte baciarvi, e del resto rimettersi

Alla discrezïon vostra.

CAMILLO:

Deh, ditemi

Quel ch'ella vuol, ch'io non ho sì propizie

Le stelle, che sì tosto debba giungere

A tanto bene.

ASTROLOGO:

lo dico il vero, e credere

Non mi volete? Vuol che ne la camera

Con lei vi ponga questa notte.

CAMILLO:

E Cintio

Dove sarà?

ASTROLOGO:

Vuo' ch'al mio albergo Cintio

Alloggi questa notte, sotto specie

Di fargli certi bagni, li quali utili

Debbian essere a questa sua impotenzia.

Or che pensate?

CAMILLO:

Penso che difficile

Cosa mi pare e di molto pericolo.

ASTROLOGO:

Pericolo eh?

CAMILLO:

Sì come avessi a scendere

Nel lago de' leon di Babilonia.

ASTROLOGO:

E mi soggiunse poi, che ritraendovi

Voi d'ire a lei, vuole ella a voi venirsene

Credete ch'io motteggi? Vi certifico

Ch'ella è in tal voglia: che voglia? è in tal rabbia

D'esser con voi, che quando questa grazia

D'ire a lei li neghiate, ella fuggirsene

Vuol dal marito stanotte, e venirsene

A ritrovarvi a casa.

CAMILLO:

Ah no, levatela

Di tal pensier, che fôra il maggior scandolo,

maggior scorno, il maggior vituperio,

Ch'al mondo accader mai potesse a femina.

ASTROLOGO:

Pensate pur c'ho usato la retorica,

Né ci seppi trovar altro rimedio,

Che di darle la fede mia di mettervi

Questa notte con lei.

CAMILLO:

Voi consigliatemi

D'andarvi?

ASTROLOGO:

Senza dubbio; perché andandovi,

La potrete dispor che dieci o dodici

Giorni anco aspetti; fin che con licenzia

Del padre, e con satisfazione e grazia

E de' parenti e d'amici, legitima

mente e con onor possa a voi venirsene.

NIBBIO:

(Vi par che 'l ciurmator saprà attaccargliela?)

CAMILLO:

E come potrebbe essere, che andandovi

lo non pericolassi?

ASTROLOGO:

Non ne dubito,

Qual volta voi n'andaste non sappiendolo

Io; ma con mia saputa, sicurissimo

Come vo' andaste in casa vostra propria.

CAMILLO:

Come v'andro?

ASTROLOGO:

Son cento modi facili

Da mandarvi sicur. Vi farò prendere

Forma, s'io voglio, d'un cane dimestico

O di gatto. Or che direste, vedendovi

Trasformare in un topo, che è si piccolo?

CAMILLO:

Forse anco in pulce o in ragno cangiarestemi?

NIBBIO:

(Io mi vuo' discostar, per non intendere

Questi ragionamenti, che impossibile

Mi saria udirli, e non scoppiar di ridere.)

ASTROLOGO:

Cangiar vi posso in quante varie spezie

Son d'animali, e farvi indi rassumere

La propria forma: vi posso invisibile

Mandar. Ma udite: potreste, volendovi

Mutar in cane o in gatto, guadagnarvene

Qualche mazzata, e nel tempo più commodo

Voi sareste cacciato de la camera.

CAMILLO:

Dunque, fia meglio mandarme invisibile?

ASTROLOGO:

Invisibil per certo, ma dissimile–

mente da quel che pensate. Volendovi

Mandar al modo che dite invisibile,

Trovar bisognarebbe una elitropia;

Et a sacrarla, et a metterla in ordine

Come si debbe, non abbiamo spazio.

Ma serbando gli incanti quando siano

Più di bisogno, ho pensato che chiudere

Vi farò in una cassa, e ne la camera

Di lei portar; e a tutti darò a intendere

Che quella cassa sia piena di spiriti;

Sì che non sarà alcun che d'appressarsele

Ardisca a quattro braccia, fuor che Emilia,

Che sa il tutto. Ella poi ne verrà tacita–

mente, e trarràvi de la cassa.

CAMILLO:

Intendovi;

Ma mi par che ci sia molto pericolo.

ASTROLOGO:

Volevate testé, solo accennandovi

Lei, cacciarvi nel fuoco, e il petto fendervi:

Et ora ella vi prega di sì facile

Cosa, e con piacer vostro, e state attonito?

E vi par che ci sia tanto pericolo?

CAMILLO:

Di lei, non di me temo.

ASTROLOGO:

Ah diffidenzia!

Dove son io, potete voi, sentendomi

Ch'io vi sia presso, temer di pericolo?

CAMILLO:

Non potreste altramente che chiudendomi

In una cassa, con lei por?

ASTROLOGO:

Facillima–

mente; ma non già s'io non ho più spazio.

CAMILLO:

Dunque tre giorni o quattro differiscasi.

ASTROLOGO:

Io per me diferir son contentissimo

Sei giorni, o dieci, o un anno, pur che Emilia

Differir voglia. Ma non vuol: rendetevi

Certo che questa notte è per fuggirsene,

Come v'ho detto. Io non vi posso esprimere

L'ardore, il desiderio, il furor, l'impeto,

In che si truova. Ogni modo, aspettatela

Stanotte.

CAMILLO:

Prima che patirlo, vogliomi

Non solo in una cassa, ma rinchiudermi

Ne la fornace ove il vetro si liquida.

ASTROLOGO:

Non dubitate. Ditemi, la camera

Vostra guarda a levante?

CAMILLO:

Sì fa.

ASTROLOGO:

È ottima

Pel mio bisogno. Stanotte serrarmivi

Dentro voglio...

CAMILLO:

A che effetto?

ASTROLOGO:

...né mai chiudere

Gli occhi, ma dir orazïoni, e leggere

Certe scongiurazioni potentissime,

Da far che tutti qui in casa di Massimo,

Insino ai topi, eccetto Emilia, dormano.

CAMILLO:

Come potete star ne la mia camera

Questa notte, volendo tener Cintio

Alla vostra con voi?

NIBBIO:

(Abbia memoria

Chi bugiardo esser vuol.)

ASTROLOGO:

Così non dormeno

I ghiri, come vuo' che dorma Cintio

Tosto che giunga. Ho già fatto il sonnifero.

Dite alli vostri di casa che m'aprino

La porta questa notte, e m'ubidischino

Come voi proprio, che voglio che veglino

Meco e, secondo dirò lor, m'aiutino.

CAMILLO:

Così farò.

ASTROLOGO:

Ma non abbiàn da perdere

Tempo. Trovate una cassa, che commoda–

mente capir voi possa, e aspettatemi

In casa.

CAMILLO:

Volete altro?

ASTROLOGO:

Non altro.

NIBBIO:

Eccovi

Che, levata una vivanda di tavola,

L'altra ne vien.

ASTROLOGO:

Venga pur, c'ho buon stomaco

Da mangiarmela. Or pon da bere e ascoltami.

SCENA IV

Massimo, Astrologo, Nibbio

MASSIMO:

O mastro, a tempo vi veggo: venivovi

A punto a ritrovar.

ASTROLOGO:

Et io voi simile–

mente volevo.

MASSIMO:

Io venia a farvi intendere

C'ho ritrovato un baccino assai simile

Al mio, e son quasi d'un peso medesimo.

ASTROLOGO:

Mi piace: or che son due, potrò far l'opera

Utile e fruttuosa. Ma ascoltatemi:

Prima ch'io séguiti. altro, provar, Massimo,

Vuo' cosa, che pochi altri maghi o astrologhi

Vorrebbon fare o, volendo, saprebbeno.

MASSIMO:

Che cosa?

ASTROLOGO:

Vuo' veder, prima che a crescere

Più cominci la spesa, se sanabile

È questo male o no; che conoscendolo

Senza rimedio pur (quod praesupponere

Nolo), più onor a me, e a voi più utile

Saria, se chiaro vel facessi intendere.

MASSIMO:

So che non fia incurabile: mettetevi

Pur alla cura sua con sicuro animo.

Non è se non malia, che uomo o femina

Gli ha fatto per invidia, che disciogliere

Facil vi fia.

ASTROLOGO:

Così credo debb'essere;

Ma potria questa ancora esser stata opera

D'alcuno incantator sì dotto e pratico,

Che la cura saria lunga o impossibile.

MASSIMO:

Non vuo' creder che sia di questa pessima

Sorte.

ASTROLOGO:

E se fusse?

MASSIMO:

Se fusse, pazienzia!

ASTROLOGO:

Se fusse, non saria meglio a conoscerlo,

Prima che più le spese augumentassino?

MASSIMO:

Si

ASTROLOGO:

Vo' per questo porre in un cadavere

Uno spirto, che con intelligibile

Voce la causa di questa impotenzia

Di Cintio dica, e poi saprò o promettervi

Di risanarlo, o di. speranza torvene.

Or dove potren noi trovare un camice

Nuovo, che mai non sia più stato in opera?

MASSIMO:

Non so.

ASTROLOGO:

Con ventidua braccia farebbesi

Di tela, ma sottile e candidissima.

NIBBIO:

(Di camicie ha bisogno, e non di camice.)

ASTROLOGO:

Bisogna far la stola e dua manipuli

Di drappo nero, e porne a piè del camice

Dui quadri, e dua nel petto, e in fronte all'amito

Un terzo, come i sacerdoti gli usano,

Quando alle feste solenne s'apparano

Con quattro braccia il tutto fornirebbesi.

NIBBIO:

(Sì, d'un capestro: il suo farsetto è logro; ne

Vorrebbe un nuovo.)

ASTROLOGO:

Ah! quasi che 'l pentacolo

M'ero scordato.

MASSIMO:

Ho in casa de le pentole

Assai.

ASTROLOGO:

Pentole non, dico pentacoli.

NIBBIO:

Per far nascer le calze il terren semina.

MASSIMO:

Vedren di torne in presto.

ASTROLOGO:

Non si prestano

Tal cose.

MASSIMO:

E come faren dunque?

ASTROLOGO:

Pensoci:

Me sovien che a questi giorni un monaco

Mi parlò che n'aveva uno da vendere,

Né il prezzo mi parea disconvenevole;

So ben che non fu fatto da principio

Per men di sei fiorini, ma per dodici

Lire di queste vostre avria lasciatolo.

NIBBIO:

(Di qui farà non sol le calze nascere,

Ma la berretta, e sin alle pantofole.)

MASSIMO:

Tanto cotesti pennacchi si vendono?

ASTROLOGO:

Io non dico pennacchi, ma pentacoli.

MASSIMO:

C'ho a far del nome? lo miro a quel che costano.

ASTROLOGO:

S'io posso far che ve lo dia per undici

Lire e mezza, a chiusi occhi comperatelo,

Che sempremai ve ne farò aver undici:

E de la tela e di quest'altre favole

Sempre n'avrete il danaio, con perdita

Di poco. Fate che i baccini s'abbiano

Per consacrarli a tempo, sì che possino

Fare il bisogno.

MASSIMO:

I baccin sono in ordine.

NIBBIO:

(Altro che calze e giubbon n'ha a riescere!)

MASSIMO:

Ho da proveder altro?

ASTROLOGO:

Ci bisognano

Dua torchi, assai candele, et erbe varie,

E varii gumi per li suffumigii,

Che 'l tutto costerà quindici o sedici

Carlini. O Fate voi ch'oggi si comprino,

O a me ne date li danari e il carico.

NIBBIO:

(La mignatta è alla pelle, né levarsene

Vorrà, fin che di sangue vi sia gocciola.)

MASSIMO:

Andate intanto a veder voi se il monaco

Ha più quel suo spantacchio.

ASTROLOGO:

No, pentacolo.

MASSIMO:

Tant'è: saldate il prezzo, che poi Cintio

Mandarò a voi con li danari, sùbito

Che torni a casa, perché tutte comperi

Con essovoi le cose che bisognano.

ASTROLOGO:

Fate che venga tosto, che far vogliovi

Udir con le vostre orecchie uno spirito

Con favella chiarissima rispondere,

Che cosa vi parrà bella e mirabile.

MASSIMO:

lo n'avrò gran piacer.

ASTROLOGO:

Voglio il cadavere

Mandarvi in una cassa; ma non sappino

Gli altri che cosa sia. Fatelo mettere

A canto il letto, ove li sposi dormono;

Che sua maggior virtude è che, accostandosi

Al letto lor, di far che insieme s'amino,

S'ora ci fusse ben capitale odio.

Domatina, fornito che sia il camice,

Verrò ne l'alba a scongiurar li spiriti.

MASSIMO:

Come vi pare.

ASTROLOGO:

Ma abbiate avvertenzia,

E li vostri di casa si avvertischino

Ancora, che per quanto la vita amano,

Non aprano la cassa, né la muovano

Dal luogo dove l'avrò fatto mettere

Un pazzo già, che non mi volea credere,

Ardì toccare una mia cassa simile:

Costui vi dica che gli avenne.

MASSIMO:

Dicalo.

NIBBIO:

Immantinente si vide tutto ardere.

ASTROLOGO:

Et arse in guisa, che non pur la cenere

Ne restò.

NIBBIO:

Ma quegli altri che vi vòlsero,

Per trovar s'avevàn roba da dazio,

Guardar ne le valigie?

ASTROLOGO:

Deh! raccontali

Che avenne lor.

NIBBIO:

In rane trasformaronsi,

E tuttavia alla porta dietro gracchiano

Ai forastier, che inanzi e indietro passano.

MASSIMO:

E dove fu cotesto?

NIBBIO:

In Andrinopoli

Voi trovareste in Vinegia un par d'uomini

Che san la cosa a punto, e così in Genova.

MASSIMO:

Come vorrei volentier che vi desseno

Questi nostri un dì noia, per vederveli

Castigare. Io non credo che ne siano

De' più molesti al mondo.

NIBBIO:

Conciariali

Così ben per un tratto, che in perpetuo

Per lor Cremona avria di lui memoria.

MASSIMO:

Oh, come fate bene ad avvertirmene!

Chi toccasse la cassa non sappiendolo?

ASTROLOGO:

Il toccarla, o sapendo o non sapendolo,

Nïente può giovare, e molto nuocere:

Ma chi la aprisse o la toccasse a studio,

Non solo sé, ma voi, con quanti fossino

In casa vostra, porria in gran pericolo.

MASSIMO:

Oh, saria molto audace e temerario

Chi ardisse aprirla, o la toccasse a studio!

Ma ben noto farò questo pericolo

A tutti i miei di casa.

ASTROLOGO:

Mandaròvela

Per questo mio. Voi, come ho detto, fatela

Por ne la stanza ove li sposi dormono,

A canto il letto, e fate poi la camera

Serrar.

MASSIMO:

Non mancherò di diligenzia.

ASTROLOGO:

Io vo a farla arrecar.

MASSIMO:

Io a farlo intendere

Or ora a tutti i miei, che non facessino,

Per non saperlo a tempo, qualche scandolo.

NIBBIO:

Cotesta è una gran tresca; che n'ha a essere

Al fin?

ASTROLOGO:

Tosar vuo' ad una ad una e mungere

Quelle pecore c'hanno, chi il vello aureo,

Chi d'argento. Torrò i baccini a Massimo:

Io non so ancor come farò con Cintio;

Camil so ben che netto come bambola

Di spècchio, o come un bel baccin da radere,

Ha da restar. Mi vuo' in la sua camera

Serrar, tosto ch'avrò fuor invïatolo

Rinchiuso ne la cassa, e posti in opera

Li suoi famigli, sì che non mi guatino

Mentre casse, forzieri, scrigni, armarii

Gli andrò aprendo e rompendo, e fuor traendone

Li argenti, e appresso ciò che dentro serrano

Di buono; e ne la strada, dove guardano

Quelle finestre, vuo' che stia aspettandomi,

Che acconciamente ad un spago attaccando le

Robe, e a parte a parte giù calandole

Pian piano, te le facci in grembo scendere.

Fatto questo, che resta se non irsene

Per Graffignana in Levante ben carichi?

Camillo intanto ne la cassa, tacito,

Emilia indarno aspettando che a trarnelo

Venga, al sgombrar ne darà spazio commodo;

Né Massimo potrà né potrà Cintio

De la nostra levata a prima accorgersi,

Che a Francolin saremo.

NIBBIO:

C'ha a succedere

Poi di Camillo?

ASTROLOGO:

Io lo dono al gran diavolo:

Egli sarà ritrovato certissima,

mente, e preso o per ladro o per adultero.

Poi ch'aspettato avrà gran pezzo Emilia

Che venga a trarlo de la cassa, all'ultimo,

Converrà pur che sbuchi, se morirsene

Di fame non vorrà; e quanto lo scandolo

Sarà maggior, la confusion, lo strepito,

Tanto la fuga nostra fia più facile.

Ma andiamo a ritrovarlo et a richiuderlo

Ne la cassa.

NIBBIO:

Andate oltre, ch'io vi séguito.

(Mio padrone è ben giotto, e pien d'astuzia;

Ma non già de' più cauti e più saggi uomini

Del mondo: ch'ove gli appaia una piccola

Speranza di guadagno, non considera

Se l'impresa è sicura o di pericolo.

Ai rischi, a ch'egli si espone, è un miracolo

Che cento volte impiccato non l'abbiano.

Ma non potrà fuggir che non ci capiti

Un giorno, e ben fors'io seco, s'io séguito

Più troppo lungamente la sua pratica.)

SCENA V

Fazio

FAZIO:

Temo ch'avrò mal consigliato Cintio,

A farli i suoi pensier dire allo Astrologo.

Nol dico già, ch'io voglia o possa credere

Che, tolto sotto la sua fede avendoli

Con tanti giuramenti, mai li publichi;

Ma ben lo dico, perché assai mi dubito

Che 'l ribaldo s'adopri pel contrario.

Veggo certi andamenti, che mi piacciono

Poco. Non vuo' restar però di mettere

Questi danari insieme; e mi fia agevole

Farlo, perché la madre di Lavinia

Alla sua morte mi lasciò una scatola

Con certe annella, collanucce e simili

Cose d'oro, che tutte insieme vagliono

Cento scudi. lo non ho voluto venderle

Mai, sperando ch'un di Lavinia facciano

Riconoscer dal padre. Ora, accadendoci

Questo bisogno, muterò proposito,

E venderonne tante, che mi bastino

A questa somma. Non avrà lo Astrologo

Prima danaio, che levar Emilia

Vegga di casa, e sciôr lo sponsalizio.

ATTO QUARTO

SCENA I

Fazio, Temolo

FAZIO:

(Sta' pur sicura, ch'io non son per dargliene

Un soldo, prima ch'io non vegga l'opera

Degna de la mercede. Or ecco Temolo.)

Temo che apposto ti sia, che l'Astrologo

Sia una volpaccia d'inganni e d'astuzia

Piena.

TEMOLO:

Non volevate dianzi credermi.

FAZIO:

E temo ch'avren dato a Cintio un pessimo

Consiglio, a farli dir quel ch'al martorio,

S'avevamo cervel, dir non dovevasi.

TEMOLO:

Che c'è di nuovo?

FAZIO:

Ci è, che assai mi dubito

Che, poi che sa come le cose passano,

Non facci con qualche arte diabolica

Che Cintio lievi da Lavinia l'animo,

E che tutto lo volga a questa Emilia.

Pur dianzi m'è venuto a trovar Cintio,

E domandato m'ha con molta instanzia

Cinquanta scudi per pagar lo Astrologo,

Che tanti gli ha promesso. Io volea intendere

Di parte in parte quel che insieme avessino

Parlato, e quel c'ha promesso lo Astrologo

Di far, e a pena si degnò rispondermi;

Se noti che disse: — Fa' pur che si truovino

Oggi questi danari, né ti prendere

Cura: il successo fia che ti significhi

Quel ch'abbiamo concluso insieme. — E dettomi

Così; mi si levò dinanzi pallido,

E cambiato nel viso, e d'un'altra aria,

Né più parea quel Cintio ch'egli è solito;

Sì ch'io sto in gran timor che questo perfido

Ce la attacchi, e che già qualche principio

Dato abbia, e mezzo guasto sì buon animo.

TEMOLO:

Ho io ancor questo timor medesimo

Per altri segni; e tra gli altri, che il perfido

S'è partito da Massimo, con ordine

Di mandar una cassa di mirabile

Virtude; e vuol che la si facci mettere

A canto al letto ove li sposi dormono,

Ch'avrà forza di far che insieme s'amino,

Se ben fusse tra lor capital odio.

FAZIO:

Quando disse mandarla?

TEMOLO:

Maravigliomi?

Che non sia qui. Disse mandarla sùbito

Che fusse a casa.

FAZIO:

Egli n'ha senza dubbio

Ingannati. Ah ribaldo!

TEMOLO:

Ribaldissimo!

FAZIO:

Ma altrotanto noi sciocchi, ch'aperto la

Strada gli abbiamo, ove or ne viene a nuocere;

La qual non era per trovar, s'avessimo

Me' saputo tacer.

TEMOLO:

Or, non avendola

Taciuta, che faremo?

FAZIO:

Trovar Cintio

Bisogna, et avvertirlone; che diavolo

So io? Ma dimmi: è in casa?

TEMOLO:

No.

FAZIO:

Saprestimi

Insegnar ove sia?

TEMOLO:

No.

FAZIO:

Pur trovarnelo

Bisogna, e far ch'egli venga Lavinia

A racchetar, che non fa se non piangere,

Sì che mi par che a strugger s'abbia in lagrime;

Et io ne son ben stato causa, avendole

Detto ch'io stava in timor che lo Astrologo

Non facesse, per arte dïabolica,

Raffreddar verso lei l'amor di Cintio.

TEMOLO:

Ah tu facesti mal! Ritorna, e lievale

Questo timor, che non ci è quel pericolo

Che le hai dipinto.

FAZIO:

Ci bisogna altr'opera

Che la mia! Fin ch'ella non vegga Cintio,

Non è per confortarsi.

TEMOLO:

Dunque truovalo.

FAZIO:

Anderò in piazza.

TEMOLO:

Va', sarebbe facile

Che tu 'l trovassi... Tu non odi? Ascoltami.

Me' lo potresti ritrovar, traendoti

Verso l'albergo ove alloggia lo Astrologo,

Che forse gli è con lui. Ma dove torni tu

Con tanta fretta?

FAZIO:

Ah! che la cassa arrecano

C'hai detto.

TEMOLO:

Ov'è?

FAZIO:

Vien ov'io sono, e vedila.

TEMOLO:

Chi la porta?

FAZIO:

Un facchin.

TEMOLO:

Solo?

FAZIO:

Accompagnala

Pur quel suo servitore.

TEMOLO:

Ecci lo Astrologo?

FAZIO:

L'Astrologo non ci è.

TEMOLO:

Non ci è?

FAZIO:

Non, dicoti.

TEMOLO:

Lascia far dunque a me.

FAZIO:

Che vuoi far?

TEMOLO:

Eccola:

Avvertisci a rispondermi a proposito.

FAZIO:

Che di' tu? Ma con chi parl'io? Ove diavolo

Corre costui? Perché da me sì sùbito

S'è dileguato? Io credo che farnetichi.

SCENA II

Temolo, Fazio, Nibbio, Facchino

TEMOLO:

O terra scelerata!

FAZIO:

Di che diavolo

Grida costui?

TEMOLO:

Non ci si può più vivere:

Tutt'è piena di traditor...

FAZIO:

Che gridi tu?

TEMOLO:

...E d'assassini.

FAZIO:

Chi t'ha offeso?

TEMOLO:

O povero

Gentiluomo!

FAZIO:

Mi par che tu sia...

TEMOLO:

O Fazio,

Gran pietà!

FAZIO:

Che pietade?

TEMOLO:

Oh caso orribile!

Non m'ho potuto ritener di piangere

Di compassione.

FAZIO:

Di che?

TEMOLO:

Ahimè! d'un povero

Forestier, c'ho veduto or ora uccidere

D'una crudel coltellata, che datagli

Ha un traditor sul capo, che nel volgere

Del canto lo attendea.

FAZIO:

C'hai tu a curartene?

TEMOLO:

Io gli avea posto amor, perché dimestico

Era di casa nostra. Conoscevilo

Tu?

FAZIO:

Che so io, se prima non lo nomini?

TEMOLO:

E io non so se sia spagnuolo o astrologo

O negromante: lo chiaman lo Astrologo.

NIBBIO:

Misero me! Che di' tu de l'Astrologo?

TEMOLO:

Oh, non t'aveva visto ancor: non eri tu

Suo servitor? Il tuo patrone pessima–

mente è stato ferito, e credo morto lo

Abbia un ribaldo, il qual l'attendea al svolgere

Del canto.

NIBBIO:

Ahimè!

TEMOLO:

Dietro il capo gravissimo

È il colpo: ognun v'accorre.

NIBBIO:

Ah! per Dio, insegnami

Dov'egli è.

TEMOLO:

Va' diritto fino al svolgere

Di questo canto; indi a man manca piegati

E corri, e quando tu se' a San Domenico,

Volta a man destra, e fa' ch'ivi ti mostrino

La via d'andare all'ostaria del Bufalo.

Ma che voglio insegnar? Non è possibile

Errar. Va' dietro agli altri: grand e piccoli

V'accorron tutti.

NIBBIO:

O Dio!

TEMOLO:

Non posso credere

Che 'l truovi vivo.

FACCHINO:

E dove ho io a mettere

La cassa?

NIBBIO:

O mastro Iachelino misero,

Ben te lo predicevo io!

FAZIO:

Che farnetichi?

Dove, in sì poco tempo che levato mi

Sei da lato, hai sognato queste favole?

FACCHINO:

Vada a sua posta: non gli vuo' già correre

Dietro. Almeno sapess'io dov'ho a mettere...

TEMOLO:

Tu l'hai da por qua dentro: va', ti scarica

Dove costui ti dirà. Voi mostrateli

Dove il padron ci disse, ne la camera

Di sopra, a canto il letto di Lavinia.

FAZIO:

Di Lavinia?

TEMOLO:

Dovreste pur intendere.

FAZIO:

T'ho inteso.

TEMOLO:

Poi pagatelo, e mandatelo

Via, ch'io non vuo' cessar ch'io truovi Cintio.

SCENA III

Cintio, Temolo, Fazio, Facchino

CINTIO:

Io truovo finalmente che rimedio

Altro non ci è, che far che paia adultera

Costei.

TEMOLO:

(Eccol, per Dio!)

CINTIO:

Darmi ad intendere

Vuol pur, che potrà quindi acquetar facile–

mente la cosa, e non ci sarà infamia

Alcuna.

TEMOLO:

Credo v'andate a nascondere,

Quando a maggior bisogni vi vorressimo.

CINTIO:

Che bisogni son questi?

TEMOLO:

Se Lavinia

Non ite tosto a consolare, ho dubbio

Che morta poi la ritroviate.

CINTIO:

Ah! Temolo,

Che li è accaduto?

TEMOLO:

È in tal timor la misera,

Che questo negromante con malefica

Arte vi faccia mutar di proposito,

Che si strugge, e uno svenimento d'animo

Gli è venuto...

CINTIO:

Non tema.

TEMOLO:

...e sta malissimo.

CINTIO:

Io vo a lei.

TEMOLO:

Per vostra fé.

FAZIO:

V'ha, Cintio,

Detto costui come Lavinia...?

CINTIO:

Or eccomi,

Ch'io vengo per cotesto.

FAZIO:

Confortatela.

Non avresti potuto pensar, Temolo,

Meglio.

TEMOLO:

Pagate il facchino, e mandatelo

Pur via, e mandatel ben lontano, e sùbito.

FAZIO:

Ve', questo è un grosso: fammi anco un servizio.

FACCHINO:

Lo farò.

FAZIO:

Va' alle Grazie, e di' al Vicario

Ch'io mando a tôr da lui quelli raponzoli,

Di che ier gli parlai.

FACCHINO:

Credo ci sieno

Più di dua miglia.

FAZIO:

E sian: vuoi, se non, essere

Pagato?

FACCHINO:

Da cui parte li ho io a chiedere?

FAZIO:

Da parte di Bertel che fa le maschere.

FACCHINO:

Io vo.

FAZIO:

Va' sì lontan, che non ci capiti

Mai più inanzi. Or vedrai che, se far utile

questa cassa incantata e beneficio

A donna debba, al cui letto s'approssimi,

Noi faren farlo alla nostra Lavinia,

Non come avea disegnato lo Astrologo.

TEMOLO:

Voi dite il ver; ma meglio ancora vogliovi

Insegnar.

FAZIO:

Di'.

TEMOLO:

Venite su, e rompiamola

In pezzi, o in fondo a un cesso sotterriamola,

O bruciànla più tosto, che non n'odano

Mai più novella; e s'avien che ritornino

Qui col facchino o voglino repeterla,

Gagliardemente potiate rispondere

Che il facchin mente e non san che si dicono,

Aprir lor li usci, e lasciar che la cerchino

Per tutto.

FAZIO:

Noi ci porremo a pericolo

Di ruinar la casa, che certissimo

Sono che tutta sia piena di spiriti.

TEMOLO:

Voi date fede a tali sciocchezze? O semplice

Uomo! Sopra me sia tutto il pericolo.

Datemi una secur: faro li spiriti

E le schegge volar insieme all'aria.

Ecco torna il famiglio de lo Astrologo:

Me non corrà egli qui. Dateli, Fazio,

A mangiar qualch'altra ciancia, e spingetelo

Via, ch'io vogl'ir di sopra, e mi delibero

Di far che più la cassa mai non trovino.

SCENA IV

Nibbio, Fazio

NIBBIO:

(Che uomin oggi al mondo si ritruovano,

Che si dilettan, senza alcun lor utile,

Di dar tuttavia a questo e a quel molestia!

Ma io, babbion, che mi credeva d'essere

Il maestro di dar la baia, truovomi

Ch'io non son buon discepolo, che correre

Si scioccamente m'ha fatto una bestia.

Io me ne andavo quanto più potevanmi

Portar le gambe, e con gridi e con gemiti

Iva chiedendo a quanti m'incontravano

Del luogo, ove ferito o morto il misero

Mio padrone giacesse; et ecco sentomi

Da la sua voce richiamar. Rivolgomi,

E veggo lui, così ben sano et integro

Com'io l'avea lasciato, che m'interroga

Se la cassa ripor secondo l'ordine

Aveva fatto. Io non potea risponderli

Per gaudio; pur finalmente raccontoli

Quel ch'un ghiotton m'avea dato ad intendere.

Egli per questo m'ha fatto un grandissimo

Romor e scorno, e rimandato sùbito

Dietro a la cassa, de la quale carico

Ho lasciato il facchino, né avvertitolo

Dove l'avesse a portare; e pur volgomi

Intorno, e non lo so veder. U' diavolo .

S'è dileguato costui? Ma informarmene

Saprà quest'uom da bene.) Che è del giovene

Che m'ha dato la corsa?

FAZIO:

Non deve esserti

Maraviglia, perché tener è solito

In stalla barbareschi, e farli correre;

E veramente t'avrà colto in cambio

D'un cavallo.

NIBBIO:

In bon'ora, avrò da rendergli

Forse una volta anch'io questo servizio.

Ma del facchin, che costì lasciai carico,

Sapete voi novella?

FAZIO:

Un pezzo in dubbio

Stette dove la cassa avesse a mettere,

Poi si risolse al, fin d'andarla a mettere

In gabella, et andòvi.

NIBBIO:

Ah, facchin asino,

Indiscreto, poltron!

FAZIO:

Ben potrai giungerlo,

Se corri un poco. (Corri pur, che il palio

Ben serà tuo. Ma non è quello Abondio,

Padre di Emilia? Non credo sia numero

Alli ducati d'esto vecchio misero)

SCENA V

Abondio, Fazio, Camillo

ABONDIO:

M'incresce più ch'io vegga in bocca al populo?

Questa cosa, che d'alcun altro incommodo

Che ci possa accader. Ho da dolermene

Con Massimo, il qual è stato potissima

Cagion, che se ne fanno in piazza i circoli.

È ito a trovar medici et astrologhi

E incantatori, e fatto ha solennissime

Pazzie, che a pena i fanciulli farebbono.

FAZIO:

(T'avessi pur in prigion, che sei milia

Fiorini avrei da te, prima che fossino...

Chi è questo fante, che in farsetto sgombera

Di casa mia con tal fretta?)

CAMILLO:

O pericolo

Grande!

FAZIO:

(È Camil Pocosal. Chi condotto lo

Averà qui? Dio m'aiuti!)

CAMILLO:

O perfidia

D'uomini scelerati!

FAZIO:

(Quando diavolo

Entrò qua dentro?)

CAMILLO:

O caso spaventevole!

O pericolo grande! O gran pericolo,

A che son stato qua su! Di chi debbomi

Fidar mai più, se quei che beneficio

Hanno da me ricevuto e ricevono

Tuttavia...

FAZIO:

(Che grida egli?)

CAMILLO:

...mi tradiscono?

Bontà divina, che tanta ignominia,

Che tanto mal non hai lasciato incorrere

O giustizia di Dio, che fatto intendere

Tal cose m'hai, che non mi de' rincrescere,

Per saperle, ch'io sia stato a pericolo

Di lasciarci oggi la vita!

FAZIO:

(M'imagino

Che qualche gran ruina n'ha da opprimere.)

CAMILLO:

Ma da chi aver in presto ora potrebbesi,

Da pormi sul farsetto, almeno un picciolo

Mantellino, per ire a trovar sùbito

Abondio...

ABONDIO:

(Chi è quel che là mi nomina?)

CAMILLO:

...E fargli intender quanto, a suo perpetuo

Scorno e de la figliuola, e ad ignominia

Di casa sua...

ABONDIO:

(Dio m'aiuti!)

CAMILLO:

...cercavano

Di far questi ribaldi?

ABONDIO:

(Mi pare essere

Camillo Pocosale: è desso.)

CAMILLO:

Abondio,

Non volevo altro che voi.

FAZIO:

(Non può nascere

Altro di qui che danno et infortunio.)

ABONDIO:

Io ti veggo così in farsetto e in ordine

Per giocar forse alla palla? Provedeti

Pur d'un altro, che sia a questo esercizio

Miglior di me, ch'io non ci son molto agile.

CAMILLO:

Né per giocar con voi a palle, Abondio,

Vengo a trovarvi; ma per farvi intendere

Che vi sbalzano più che palla, e giuocano

Sul vostro onor, e de la vostra Emilia,

A gran poste. Qua dentro il vostro genero

Ha una altra moglie; ma, per Dio, traemoci

In una casa di queste più prossime,

Ch'io mi vergogno d'apparir in publico

Così spogliato.

ABONDIO:

Andiàn qui in casa Massimo.

CAMILLO:

Pio tosto vuo' ch'andiamo in casa Massimo,

Che d'alcun altro; e ch'egli m'oda.

FAZIO:

Temolo,

Temolo, or presto va' lor dietro, e sforzati

Di udir di che Camillo se ramarica.

Aspetta, aspetta, che fuor esce Cintio.

SCENA VI

Fazio, Cintio, Temolo

FAZIO:

Cintio, che cosa è questa? Come diavolo

Era costui qua dentro?

CINTIO:

A punto il diavolo

Ce l'ha portato! Ma chi ha fatto mettere;

Una cassa qua su, ch'era dato ordine

Che fusse messa in casa nostra?

FAZIO:

Temolo

Et io ce l'abbiàn fatta or ora mettere.

CINTIO:

E voi or ora, e Temol, ruinato mi

Avete; e le mie spemi e di Lavinia,

Sostenute fin qui tanto difficile–

mente, avete sospinte in precipizio

Perché l'avete voi fatto?

FAZIO:

Per rompere

Il disegno allo Astrologo, certissimi

Che col mezzo di quella cassa studia

Di tradirvi.

CINTIO:

E perché almeno non dirmene

Una parola, e non lasciarmi incorrere

In tanto error? Da voi, non da lo Astrologo

Son tradito; che in quella stava un giovene

Nascosto, il quale ha inteso, per vostra opera,

Sì come tutta io la dicea per ordine

A Lavinia, una trama, che sapendosi,

Come si sa, son per Dio giunto a termine

Che mi saria meglio esser morto. Or ditemi:

Dove è ito Camillo, questo giovene

Che di qui è uscito; a ciò che supplicandoli,

Donandoli, offerendoli, facendomi

Suo schiavo eterno, io lo vegga di muovere

A pietà de' miei casi, sì che tacito

Stia di quel c'ha sentito? Ma impossibile

Sarà placarlo, che d'avermi in odio

Ha cagion troppo giusta.

FAZIO:

Potete essere

Certo di venir tardi, perché Abondio

È, nel saltar fuor di casa, venutoli

Scontrato, al qual, come potea, summaria–

mente (che a pena lo lasciava esprimere

Parola a dritto la stizza e la còlera)

Ha contato ogni cosa.

CINTIO:

Non è misero

Uomo al mondo, col qual non cangiasse essere,

Tosto che il vecchio il sa (che è necessario

Che lo sappia di tratto). O Dio! a che termine

Son io?

FAZIO:

Fate pur conto che lo sappia,

Che, a lui Camillo drittamente e Abondio

Son iti, e senza dubbio già narratoli

Hanno il tutto:

CINTIO:

Son iti insieme a Massimo?

FAZIO:

Sì, sono.

CINTIO:

lo son spacciato, io son morto! Apriti,

Apriti, per Dio, terra, e seppelliscemi.

FAZIO:

Non è così da disperarsi, Cintio,

Ma da pensare, e molto ben rivolgere,

Se c'è provisïone, se rimedio

Si può far qui.

CINTIO:

Né proveder, né prendere

Altro rimedio so, che di fuggirmene

Tanto lontano, che già mai più Massimo

Non mi rivegga. Aspettar la sua còlera

Non voglio. A Dio. Vi raccomando, Fazio,

La mia Lavinia.

FAZIO:

Ah, dove, pusillanime,

Fuggite voi? — Se n'è andato. Va', Temolo,

In casa, e diligentemente informati

Di tutto quel che accade, e riferiscemi.

TEMOLO:

Così farò. Tu costà dentro aspettami.

ATTO QUINTO

SCENA I

Massimo, Camillo, Abondio, Temolo

MASSIMO:

S'io truovo che sia ver, ne farò (statene

Sicuri) tal dimostrazion, che accorgervi

Potrete che m'incresca, e ch'io non reputi

Meno esser fatta a me, che a voi, l'ingiuria.

CAMILLO:

Se trovate altramente, publicatemi

Pel più tristo, pel più maligno et invido

Uom che sia al mondo.

ABONDIO:

Se non fusse, Massimo,

Più che vero, io conosco costui giovene

Di sorte, che non sapria imaginarselo,

Non che dirlo. La qual cosa delibero

Che non resti impunita; né passarlami

Vuo' così leggiermente.

MASSIMO:

Udite, Abondio,

Per vostra fede, e non correte a furia:

Informiamoci meglio.

CAMILLO:

Chi informarvene

Meglio vi può di me, che con le proprie

Orecchie ho udito, et ho con gli occhi proprii

Veduto, che qui dentro il vostro Cintio

Ha un'altra moglie?

MASSIMO:

Piano: io vuo' informarmene

Un poco meglio.

CAMILLO:

Entriàn dentro: menatemi

Al paragone; e se trovate ch'io abbia

Più de la verità giunto una minima

Parola, vi consento e do licenzia

Che mi caviate il cuor, la lingua e l'anima.

MASSIMO:

Andiamo, andiamo.

CAMILLO:

Andiàn tutti; chiariamoci

A fatto.

MASSIMO:

Deh, restate voi: lasciatemi

Andarvi solo, e non si facci strepito,

Né, più di quel che sia, la cosa publica;

Non procacciàn noi stessi la ignominia

Nostra.

ABONDIO:

Voi dunque andate, e poi chiamateci

Quando vi par.

MASSIMO:

Così farò: aspettatemi.

TEMOLO:

(Io gli vuo' pur ir dietro, e veder l'ultima

Calamità che ci ha tutti a distruggere.)

SCENA II

Nibbio, Abondio, Camillo

NIBBIO:

(Credo che tolto per una pallottola.

Da maglio questi ghiottoni oggi m'abbino:

Che l'un, con una ciancia percotendomi,

Mi caccia un colpo insino a San Domenico...)

ABONDIO:

Fu gran pazzia la tua, lasciarti chiudere

In una cassa, e posto a gran pericolo

Ti sei per certo.

NIBBIO:

(Io torno, e trovo in ordine

L'altro con l'altra ciancia...)

CAMILLO:

Resto attonito

Di me medesmo, tuttavia pensandoci.

NIBBIO:

(...Che sta alla posta, e mena, e fa ch'io sdrucciolo

Fin in Gabella. A quest'altra mi spingono

Fuor de la porta.)

CAMILLO:

Veramente, Abondio,

Non voglio attribuirlo sì al mio essere

Sciocco, come al voler di Dio, che accorgere

M'ha fatto per tal mezzo de le insidie,

Le quali ad ambidui noi si ponevono.

Ecco un di quei che ne la cassa chiusermi,

E vostra figlia e voi e me tradivono.

NIBBIO:

(Non so a chi mi ritorni.) Ma ecco il giovene

Che v'era dentro serrato: io mi dubito,

Per Dio, che avremo fatto qualche scandolo.

CAMILLO:

Ah ghiotton, ladro, traditore e perfido,

E tu e tuo padron! Così si trattano

Quei ch'alla fede vostra si commettono?

NIBBIO:

Né io, né mio padron, mai se non utile

Vi facemmo, e piacer.

CAMILLO:

Piacere et utile

Grande mi saria stato, succedendovi,

D'avermi fatto, com'un ladro, prendere

Di notte in casa altrui!

ABONDIO:

L'oneste giovini

Non avete rossor, né conscïenzia,

Scelerati, di far parere adultere?

E alle famiglie dar de' gentiluomini,

Con vostre fraudi, nota et ignominia?

NIBBIO:

Parlate a lui, che vi saprà rispondere.

CAMILLO:

Gli parlarò chiarissimo, e ben siatene

Certi, ma altrove; e vi farà rispondere

La fune; e questa, e vostre altre mal'opere...

NIBBIO:

Potete dir quel che vi par, ma ufficio

Non è già vostro, né di gentiluomini,

Di dire o fare ai forastieri ingiuria.

Il mio padron ben sarà buon per rendervi

Conto di sé.

CAMILLO:

Sì, sarà ben.

ABONDIO:

Lasciatelo

senza risponderli altro.

CAMILLO:

Ora col diavolo

Va', ladroncello; va' alle forche, e impiccati.

ABONDIO:

Lascialo andare, e non entrar più in còlera.

Ormai dovria chiamarne dentro Massimo;

E forse è questo. Non è già. Oh, con che impeto

Esce costui! Par tutto pien di gaudio

SCENA III

Temolo, Abondio, Camillo, Massimo

TEMOLO:

(O aventura grande, o Fortuna ottima!

Come tanta paura e tanta orribile

Tempesta in sì sicura et in sì placida

Quïete hai rivoltato così sùbito!)

ABONDIO:

Perché è costui sì allegro?

TEMOLO:

(Dove correre,

Dove volar debbo io per trovar Cintio?)

ABONDIO:

Ch'esser può questo?

CAMILLO:

lo non so.

TEMOLO:

(Ch'io gli annunzii

ll maggior gaudio, la maggior letizia

Ch'avesse mai.)

ABONDIO:

Che fia?

TEMOLO:

(La sua Lavinia

Ritruovano esser figliuola di Massimo.)

CAMILLO:

L'avete inteso?

ABONDIO:

Sì.

CAMILLO:

Come può essere?

TEMOLO:

(Ma che cess'io d'andare a trovar Cintio?)

ABONDIO:

Moglie non ebbe egli già mai, ch'io sappia.

CAMILLO:

S'hanno figliuoli anco de l'altre femine,

Che non son mogli.

ABONDIO:

Eccoci lui, che intendere

Ci farà il tutto.

CAMILLO:

Trovate voi, Massimo,

Ch'io sia bugiardo?

MASSIMO:

Non, per Dio.

ABONDIO:

Chiariteci:

Che figlia è questa vostra, che ci ha Temolo

Detto ch'avete trovato?

MASSIMO:

Diròvelo,

Se ascoltar mi vorrete.

ABONDIO:

Ambe vi accommodo

L'orecchie volentieri a questo ufficio.

MASSIMO:

Ricordar vi dovreste a quei principii

Che i Veneziani Cremona teneano,

Che per imputazione de' malivoli

Io n'ebbi bando, e taglia di tremilia

Ducati dietro.

ABONDIO:

Mi ricordo.

MASSIMO:

Anda'mene,

Che mai non mi fermai, fin in Calabria;

Dove, per più mia sicurezza, in umile

Abito, e solo, e nominar facendomi

Anastagio, e fingendomi di patria

Alessandrin, mi celai sì, che intendere

Di me non si poté mai, fin che suddita

Fu questa terra lor. Quivi una giovane

Presi per moglie, e ingravidaila, e nacquemi

Questa fanciulla. Udito poi che si erano

Uniti li Francesi con l'Imperio

Per cacciar Veneziani di dominio,

Io, per trovarmi a racquistar la patria,

Né volendo perciò, quando venisseno

Le cose averse, avermi chiuso l'adito

Di tornare a nascondermi, a Placidia

(Che Placidia mia moglie nominavasi)

Dissi ch'io ritornava in Alessandria,

Per certa ereditade mia repetere;

E che quando i disegni miei sortissero

L'effetto ch'io speravo, fidatissime

Persone manderei, che la menasseno

Ove io fussi: e in due parti un annel dìvido

Per contrasegno; a lei la metà lassone,

Ne porto la metà meco, e commettole

Che, se non vede il contrasegno, a movere

Non s'abbia. Io torno in qua, dove non preseno

Forma le cose mie, che più di quindici

Mesi passaro. Poi che al fin la presero,

Non vòlsi mandar altri, ma io proprio,

Per condurla in qua meco, vo in Calabria;

E ritrovo ch'avendo ella, oltra al termine

Preso, aspettato molto, né vedendomi,

Né di me avendo nuova, come femina

Che, più che ragion, muove il desiderio,

Era ita per trovarmi in Alessandria.

Udendo io questo, in fretta et a grandissime

Giornate mi condussi in Alessandria;

E quivi ritrovai che con la piccola

Figlia era stata, e che d'uno Anastagio

Avea molto cercato, né notizia

Alcuna, né alcuna orma avendo avutane,

Né conoscendo ivi persona, postasi

Era in fretta a tornar verso Calabria.

Io ritornai di nuovo; e messi e lettere

Mandai e rimandai, che non han numero;

Non facendo però la causa intendere

Di questo mio cercarne; né per sedici

Anni ho potuto averne alcun vestigio,

Se non pur ora. Ora vi prego, Abondio,

Pel vostro generoso e cortese animo,

Per la nostra antichissima amicizia,

Che perdoniate a Cintio mio l'ingiuria,

Che v'ha fatto gravissima; et escusilo

L'etade.

ABONDIO:

Insomma trovate che Cintio

L'ha tolta per mogliere?

CAMILLO:

Chi ne dubita?

MASSIMO:

Alla temerità non più del giovene

Si debbe attribuir, che all'infallibile

Divina providenzia, che a principio

Così determinò che dovesse essere;

Che senza questo mezzo, per conoscere

Non ero mai mia figliuola, che piccola

Di cinque anni perduta avea; e già sedici

Ne sono, che novella di lei intendere

Non ho potuto. Or dove di più offendermi

Temette Cintio, senza mia licenzia

Togliendo moglie, si truova grandissimo

Piacere avermi fatto, che né eleggermi

Avrei potuto mai più grato genero

Di lui, né a lui potuto avrei dar femina,

Che mi fusse più cara di questa unica

Mia figlia. Or solo il caso vostro, Abondio,

Contamina e disturba che il mio gaudio

Non è perfetto. Ma, se senza ingiuria

Vostra io potesse fruirlo, rendetevi

Certo che saria in me quella letizia

Che essere in alcun uomo sia possibile.

E s'impetrar potrò da voi che il gaudio

Mio toleriate, e non vogliate opporveli,

E vi togliate Emilia così vergine

Come a noi venne, la qual vi fia facile

Rimaritar a giovene sì orrevole

Come sia il nostro, e ricco; io mi vi profero

Con ciò ch'al mondo ho, sempre paratissimo.

ABONDIO:

Se fin da püerizia sempre, Massimo,

Io v'ho portato amore e reverenzia,

Non voglio ch'altri mi sia testimonio

Che voi. S'io v'amo al presente, e il medesimo

Son verso voi, ch'io soglio, Dio lo giudichi,

A cui sol non si può nasconder l'animo:

Ma che non mi rincresca che disciogliere

Io vegga questo matrimonio, e Emilia

Tornarmi così a casa, non può essere;

Che, ancor che perciò in lei non ha ignominia

Giustamente a cader, pur fia materia

Data al volgo di far d'essa una fabula;

Il che a rimaritarla sarà ostacolo

Maggior che non vi par.

MASSIMO:

Eccovi il genero

Apparecchiato qui: Camillo, nobile

E ricco e costumato e da ben giovene,

Che l'ama più che se stesso, e desidera

D'averla. Or dove me' potete metterla?

CAMILLO:

Cotesta bocca sia da Dio in perpetuo.

Benedetta!

ABONDIO:

Dica egli, et io rispondere

Saprò al suo detto.

CAMILLO:

Io l'averò di grazia;

Così con tutto il cor vi prego e supplico

Che me la concediate di buon animo.

ABONDIO:

Et io te la prometto.

CAMILLO:

Io per legitima

Sposa l'accetto...

MASSIMO:

Dio conduca e prosperi,

Senza averci mai lite; il matrimonio.

ABONDIO:

Siàn d'accordo?

MASSIMO:

D'accordo.

CAMILLO:

D'accordissimo.

ABONDIO:

Deh, se 'l vi piace, fateci un po' intendere

Dove è stata costei nascosa sedici

Anni o diciotto, e come oggi venutone

Sète, più ch'altro dì, così a notizia?

MASSIMO:

Ero entrato qua dentro per intendere

Più chiaramente quello che narratoci

Avea Camillo: e contra questa povera

Famiglia ero in tant'ira e tanta còlera,

Ch'io li volea tutti per morti; e voltomi

A mia figliuola, io le dicea le ingiurie

Che si puon dire a una cattiva femina;

E con mal viso minacciavo metterla

Al disonor del mondo e al vituperio.

E questa moglie del vicin gittòmisi

Piangendo a' piedi, e mi disse: — Abbi, Massimo,

Pietade di costei, che non d'ignobile

Gente, come ti dài forse ad intendere,

Ma di patre e di matre gentiluomini

È nata. — Io, ricercando la sua origine,

Intendo che suo patre fu Anastagio

Nomato, il qual, venuto d'Alessandria,

Avea abitato alcun tempo in Calabria,

E quivi tolto moglier.

ABONDIO:

Sète, Massimo,

Prudente; pur vi vo' ricordar ch'essere

Inganno potria qui, ch'ella da Cintio

Avendo intesa questa istoria, fingersi

Volesse vostra figliuola.

MASSIMO:

Onde Cintio

Lo può saper, che por mai non ho minima

Parola,. se non or, lasciato uscirmene

Di bocca? E a voi, che mi sète sì intrinseco,

Non lo dissi pur mai; che troppo biasimo

Reputava aver moglie, e non intendere

Dov'ella fusse. Altri parecchi indicii

N'ho senza questo. Una corona d'ebano

Reconosciuta l'ho al collo, é mostratemi

Ella ha poi collanucce, annella, e simili

Cose, che fur di sua matre, e donatele

Le avea. Oh che! volete altra pruova? Eccovi

La metà de l'annello, che partendomi

A Placidia lasciai: questo è bastevole,

Quando non ci fusse altro; ma la effigie

C'ha de la matre, ancor mi certifica.

ABONDIO:

Ch'è de la matre? Ve ne sa ella rendere

Conto?

MASSIMO:

Si ben; ma più quegli altri dicono

Che, tornando la matre vêr Calabria,

S'era infermata a Fiorenza, ove Fazio

L'avea alloggiata, e v'era giunta al termine

De li suoi affanni, e lascio lor la piccola

Fanciulla; et essi poi se la allevarono

Come figliuola, che altra non avevano;

E le levaro il nome, che era Ippolita

E la chiamaron Lavinia, in memoria

D'una lor, credo m'abbiano detto, avola.

ABONDIO:

Son de' vostri contenti contentissimo.

CAMILLO:

Et io similemente.

MASSIMO:

Vi ringrazio.

CAMILLO:

Noi che faremo?

ABONDIO:

A tuo piacere Emilia

Potrai sposare.

CAMILLO:

E perché non concludere

Ora quel che s'ha a far?

MASSIMO:

Ben dice, sposila

Ora.

ABONDIO:

Sposila: andiamo.

CAMILLO:

Andiàn, di grazia.

SCENA IV

Temolo, Astrologo

TEMOLO:

Era ito per trovar Cintio, con animo

D'aver il beveraggio de lo annunzio

Ottimo c'ho da darli; ma fallitomi

È il pensiero, anzi m'accade il contrario:

Ch'alcuni miei compagni. ritrovato mi

Hanno, e veduto. al viso e ai gesti il gaudio

Mio, ch'io non posso occultar, domandato me

N'hanno la causa: io l'ho lor detta, et eglino

Han voluto che per questo mio gaudio

Lor paghi il vino; e perché non ho un picciolo,

M'han levato il tabarro, e impegnarannolo

Più ch'io non ho un mese di salario.

Ma se ritrovar posso Cintio, et essere

Il primo a darli così lieto annunzio,

Avrò da stimar poco questa perdita.

Ecco il baro: io non vuo' più dir lo Astrologo.

Non de' saper il ghiotton che scopertisi

Sien li suoi inganni, che con questa audacia

Non tornerebbe qui. Sarebbe opera

Ben lodevole e santa a fargli mettere

La mano adosso.

ASTROLOGO:

lo non so quel che Nibbio

Fatto abbia de la cassa, di che carico

Avea il facchin lasciato: era mio debito

Di non lo abbandonar, prima che mettere

Non la facesse e chiuder ne la camera.

Ma mi fu in quello istante un certo giovene

A ritrovar, per aver un pronostico

Da me de la sua vita; e proferiami

Tre scudi: io, che credea di farlo crescere

Fin ai quattro, son stato a bada; e all'ultimo

Non ho potuto da lui trarre un picciolo,

Et ito al rischio son di grave scandolo

Di guastar ogni cosa. Pur vuo' credere,

Poi che no ne sento altro, ch'abbia Nibbio

Ritrovato la cassa, e consegnatola

A chi io gli dissi.

TEMOLO:

(Io vo' porre ogni industria

Per fargli qualche beffa memorabile.)

ASTROLOGO:

Ma veggo chi mel saprà dire. — O giovene,

Il mio garzon, che tu déi ben conoscere,

Ha portato una cassa qui?

TEMOLO:

Portato l'ha

Pur un facchino, et è stato a pericolo,

Se non era io, di far non poco scandolo.

ASTROLOGO:

Mi disse ben ch'un de li vostri data gli

Avea la baia.

TEMOLO:

Un de li nostri? Dettovi

Non ha la verità; fu un certo giovene

Mezzo buffon, che non par ch'altro studii

Che di dar baia a questo e quel, ch'abbi aria

Di poco accorto. Ma qui ritrovandomi

A caso, feci che il facchin, che volgersi

Volea indietro, entrò in casa, e ne la camera

Si scaricò dove li sposi dormono.

patron venne poi sùbito, e chiusela,

E seco ne portò la chiave a cintola.

ASTROLOGO:

Come facesti bene! Te n'ha Massimo,

E tutti i suoi di casa, da aver obligo:

Che stando ne la strada, ne sarebbono

Li spirti usciti e entrati in casa a furia

Questa notte, e trattati mal vi avrebbeno.

TEMOLO:

O maestro, pur che questi vostri spiriti

Si stian ne la lor cassa, e che non corrano

Per casa, e qualche danno non ci faccino.

ASTROLOGO:

Non dubitate, che non ci è pericolo.

TEMOLO:

Voi direte la vostra, voi: mi triemano

Di paura le viscere.

ASTROLOGO:

Fidatevi

Pur di me, ch'io non vi lascerò nuocere.

TEMOLO:

Cel promettete voi?

ASTROLOGO:

Sì, non aprendola.

TEMOLO:

Oh, ben pazzo saria chi avesse audacia

D'aprirla, o pur sol di toccarla: guardimi

Dio che mi venga simil desiderio!

Lasciamo ir questo. Io vo', maestro, una grazia

Da voi: ch'al vecchio diciate che avete li

Due baccini d'argento avuto. Dissemi

Oggi ch'andassi a tôrli, et arrecarveli

Dovessi, ma coperti, che non fussino

Veduti; et è accaduto, che pregato mi

Ha qui un nostro vicino ch'io lo accommodi

Del mio tabarro per mezza ora; e passano

Già quattro, e non ritorna; e non avendoli

Io da coprir, non son ito; ma sùbito

Ch'io riabbia il tabarro, vo, et arrecoli.

Intanto voi dite al patron che avuto li

Avete.

ASTROLOGO:

Non saria meglio, che dirgli la

Bugia, che vada e li arrechi?

TEMOLO:

Dovendoli

Portar scoperti, non voglio ir, che Massimo

Se adirerebbe meco risapendolo.

E se non che potreste attribuirmelo

Forse a presunzïone, domandatovi

Avrei cotesta vesta, e sarebbe ottima;

Ma sì sciocco non son, ch'io non consideri

Che non saria domanda convenevole.

ASTROLOGO:

Se pur ti par che la sia buona, pigliala.

Ma perché non debbe esser buona? Pigliala

Ogni modo, e va' ratto.

TEMOLO:

Sarebbe ottima,

Ma mi parria gran villania spogliarvene.

ASTROLOGO:

Peggio saria s'io lasciassi trascorrere

Una coniunzïon, che per me idonea

Ora si fa, di Mercurio e di Venere.

Piglia pur tu la vesta, e torna sùbito,

Che qui t'aspettarò, in casa Massimo.

TEMOLO:

Mi par strano lasciarvi in questo piccolo

Gonnellin; nondimeno, commandolo

Voi, pigliarolla.

ASTROLOGO:

Pigliala.

TEMOLO:

Or lo Astrologo

Son io, e non voi.

ASTROLOGO:

Tu mi pari in questo abito

Un uom da bene.

TEMOLO:

E voi parete... vogliolo

Poi dir com'io ritorni a voi.

ASTROLOGO:

Va', e studia

passo, e torna tosto.

TEMOLO:

(Quasi dettogli

Ho che pare un ghiottone e un ladro. Aspettimi

Tanto ch'io possa al potestade correre,

E quel che pare, et è, gli farò intendere.

Questa vesta gli ho tolta, non per rendere,

Ma perché sconti in parte quel che fattoci

Ha il ladroncello inutilmente spendere.)

SCENA V

Astrologo, Nibbio

ASTROLOGO:

Era ben certo che esser miei dovessino

Gli argenti di Camillo; perché, avendolo

Mandato chiuso ne la cassa, e fattolo

Serrar in questa camera, ho assai spazio

Di votarli la casa, e di Fuggirmene

Sicuro. Ma dei baccini, che Massimo

Mi debbe dar, avevo qualche dubbio;

Non che mutasse voluntà di darmeli,

Ma che non me li desse oggi; e volendoli

Poi dar domani, io non ci potessi essere;

Che questa notte levarmi delibero.

Io non so quando occasïon sì commoda

Ritornasse maï più. Qual volta prospera

Comincia a esser Fortuna, un pezzo séguita

Di bene in meglio; e chi non la sa prendere,

Non di lei, ma di sé poi si ramarichi.

La prenderò ben io. Ma ecco Nibbio.

NIBBIO:

Voi sète così in gonnellino: avetevi

Forse giocata la vesta?

ASTROLOGO:

Prestatala

Ho pur a un de' famigli qui di Massimo,

Che è ito a tôr quei dua baccini, e aspettolo

Che me gli arrechi.

NIBBIO:

Baccini? Eh levatevi,

Padron, di qui! Quel ribaldo attaccatavi

L'ha veramente. Non sapete, misero,

Dunque che siàn scoperti, e che quel giovine

È de la cassa uscito?

ASTROLOGO:

Uscito? diavolo!

Egli ne è uscito?

NIBBIO:

N'è uscito, e da Cintio

Tutto lo inganno ha sentito per ordine,

Che voi gli volevate usar. Levatevi,

Levatevi, per Dio! Non è da perdere

Tempo.

ASTROLOGO:

Io vorrei pur la mia vesta.

NIBBIO:

Toltola,

Padron, non credo abbia colui per renderla;

A chi l'avete voi data?

ASTROLOGO:

A quel giovene

Che con Cintio suol ir: come si nomina?

NIBBIO:

L'avrete data a Temolo.

ASTROLOGO:

Si, a Temolo;

A punto a lui l'ho data.

NIBBIO:

Oh, gli è il medesimo

Ch'oggi mi de' la caccia, e mi fe' correre.

Al libro de l'uscita avete a metterla.

ASTROLOGO:

Duolmene, e tanto più, quanto mio solito

Era di guadagnare, e non di perdete.

NIBBIO:

Guardatevi, patron, da maggior perdita

Che d'una vesta. Andiàn tosto: levatevi

Di qui; fate a mio senno: riduciamoci

Verso il Po: qualche barca trovaremovi,

Che ci porterà in giù. Mi par che giunghino

Tuttavia i birri, et in prigion ci caccino.

ASTROLOGO:

Non vogliamo ir prima allo albergo, e prendere

Le cose nostre?

NIBBIO:

Andate voi pur sùbito

Al porto, e ritrovate, o grande o piccola

Barchetta, che ci lievi; et aspettatemi,

Ch'io vo correndo allo albergo, et arrecovi

Tutte le cose nostre.

ASTROLOGO:

Or va'.

NIBBIO:

Volgetevi

Pur giù per questa strada.

ASTROLOGO:

Io vo; ma ascoltami:

Non lasciar cosa nostra ne la camera

De l'oste; anzi se puoi far netto, pigliane

De le sue.

NIBBIO:

L'avvertimento è superfluo.

SCENA VI

Nibbio

NIBBIO:

S'io vo dietro a costui, sto in gran pericolo

Che un giorno io mi creda essere in Italia,

E ch'io mi truovi in Piccardia; ma l'ultimo

Sia questo pur ch'io il vegga, non ch'io il séguiti.

Andar vuo' all'oste per le robe, et irmene

Verso Tortona, indi passar a Genova;

E s'egli, come ha detto e aveva in animo,

Anderà in giù verso Vinegia o Padova,

Non so se ci potren tosto raggiugnere

Insieme. Or non curate se lo Astrologo

Restar vedete al fin de la comedia

Poco contento; perché l'arte, ch'imita

La natura, non pate ch'abbian l'opere

D'un scelerato mai se non mal esito.

Non aspettate che ritorni Cintio,

Che già buon pezzo è con la sua Lavinia:

Entrò per l'uscio del giardino, e Temolo

Lo cerca indarno per la terra. — Or fateci

Con lieto plauso, o spettatori, intendere

Che non vi sia spiaciuto questa favola.

FINE