Il numero sbagliato

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IL NUMERO SBAGLIATO

Teledramma

di R.M. DE ANGELIS

PERSONAGGI

DINO

VECCHIA SIGNORA

SIGNORA ALEMANNI

LA RAGAZZA

IL GIOVANE

PADRONE DEL BAR

VOCE DI DONNA

VOCE DEL DELEGATO

SIGNORE ANZIANO

DONNA

Commedia formattata da

 

Scenario: Camera da letto dei ragazzi di cui una metà rimane nell'ombra, dove non giunge il raggio della lampadina da notte. Questa metà si illuminerà gradatamente, ap­pena il ragazzo, Dino, avrà composto ì nu­meri telefonici. Dino è rimasto solo nel suo lettino ingombro di giocattoli e libri illu­strati. Si intravede una mano di donna, in­guantata sin oltre il gomito, che tira dietro di sé la porta di comunicazione. Si ode una voce dolce ma leggermente frettolosa.

Voce della mamma       - Ciao, Dino. Buona­notte.

Dino                              - (si rigira nel lettino, si aggiusta il cuscino dietro le spalle). Buonanotte, mamma. Buonanotte, papà; divertitevi.

La lampadina proietta un cono di luce sul libro di favole che il bambino leg­giucchia svogliato. Il bambino mormora con disprezzo buttando il libro fuori dal letto:

Dino                              - Favole, ancora e sempre favole. Spe­riamo che non si metta a tuonare. In ogni caso, per i Pompieri chiamare 44.44, per la Polizia 12.12.12, per la Croce Rossa 27.27.27.

Il bimbo, quasi a sperimentare la pos­sibilità di mettersi in comunicazione col mondo, alza il cornetto dell' apparecchio sul comodino, poi lo riposa sconsolato. La pioggia prende a scrosciare contro ì vetri della finestra; lampi e tuoni si alternano illuminando le pareti della camera. Dino dimostra una paura folle del tuono, si infila sotto le coltri, con un rumore esagerato di giocattoli e libri che precipitano sul tappeto. Una palla gigantesca rimbalza contro i mobili. Si vede la mano di Dino annaspare fuori dalle coltri, sfiorare il cornetto; lentamente il bimbo emerge e meccanicamen­te compone un numero a casaccio, ap­poggia l'orecchio al cornetto che regge spasmodicamente con entrambe le mani:

Dino                              - Pronto, pronto.

Come abbiamo accennato, lo spazio in ombra si illumina gradatamente: la pri­ma voce che arriva dal mondo esterno appartiene a una vecchia signora infer­ma, e la signora appare su una sedia a rotelle: il telefono è su un tavolino basso a portata di mano. Primo piano della signora che afferra il telefono e mormora con voce stanca:

Vecchia signora            - Pronto, parla casa Deaba­ti, e io, con chi parlo?

Senza abbandonare la Vecchia signora, la macchina inquadra Dino sino a ot­tenere il bimbo in primo piano, quasi a dare l'idea della distanza che inter­corre tra i due. Si odono misteriosi ronzii; la Vecchia signora appare lonta­nissima. Primo piano di Dino che par­la affannosamente:

Dino                              - Sono Dino, Dino Alemanni, sono solo in casa, i miei genitori sono andati a teatro e io... io ho tanta paura.

La macchina ripete lo stesso gioco, all'incontrario: abbandona Dino e rigua­dagna la sedia a rotelle della Vecchia signora:

Vecchia signora            - Che posso fare per te, bambino mio?

Dino                              - Non so, ma ora che ti parlo la paura cessa, mi sembra di non essere più solo, di vederti, di poterti toccare con mano, non odo più rumori nel corridoio, né vedo lampi dietro le persiane.

Vecchia signora            - Quanti anni hai?

Dino                              - Dieci, soltanto dieci.

Vecchia signora            - Non hai un libro da leg­gere?

Dino                              - Tanti libri di favole, ma mi annoiano e ingrandiscono la paura.

Un primo piano spietato della donna, il cui volto appare segnato da rughe, de­vastato dall'età e dalla malattia:

Vecchia signora            - Bambino mio, anch'io so­no sola e in più sono vecchia e malata; ho settant'anni. Anche se volessi, non potrei correre da te. Perché tu hai bisogno di com­pagnia. Di non essere solo. Anch'io, del resto. Non ti consola, ora, il fatto di sapere che anch'io sono sola e di non essere più l'unico a soffrire di solitudine?

La palla sospinta da una corrente di aria si mette a rimbalzare; il bimbo, allucinato dallo spettacolo, si porta la mano sulla bocca per non gridare; il suo è un vero grido che esplode nel telefono:

Dino                              - Ma io non soffro per la solitudine, ho paura, ho paura, ti dico. Ho sentito dire che di paura si può morire.

Vecchia signora            - Che cosa hai visto, che cosa hai inteso? Perché urli così?

Dino                              - La palla, la palla, era caduta dal letto. Aveva rimbalzato là ed era sparita. Ora di nuovo si è messa a rimbalzare; eccola, si è fermata di nuovo.

Vecchia signora            - Sarà stato il vento. Mi strazia l'animo pensare che tu sia così solo e che fuori esiste tanta gente che potrebbe farti compagnia e consolare la tua solitudine. Ma io sono vecchia, tanto malata, e ho paura come te, più di te. Non della notte né della tempesta, né di una palla che si mette a rimbalzare da sola, spinta dal ven­to. Un'altra paura. Perdonami, tu non puoi capire ancora. Per quel che vale, io posso farti compagnia soltanto da lontano. Vuoi che ti racconti una favola, o preferisci rac­contarla tu a me? L'ultima che stavi leg­gendo per esempio... Così ci faremo ottima compagnia.

Dino                              - Oh, che bello! La sai quella del dia­mante vero in mezzo a due falsi, lasciati in eredità dal vecchio sultano ai tre figli egual­mente amati in un paese della Siria, al tem­po dei tempi?

Vecchia signora            - Chissà come sarà mera­vigliosa. Ti piacciono i diamanti, Dino?

Dino                              - Ma è una fiaba simbolica, t'avverto. Si tratta della vera religione, insomma. In quanto ai diamanti, non ne ho mai veduti. Ma la mamma, che ne ha parecchi falsi, dice che splendono più della luce del cielo.

Vecchia signora            - Più della luce, non credo; poiché è appunto la luce a farli splendere.

Dino                              - Tu ne hai visti? Ne possiedi?

Vecchia signora            - Tanti; ma non so che far­mene, temo anzi che siano falsi anche quelli, dato che non sono riusciti a illuminarmi il cuore né l'anima, né a rendere meno amara la mia vita.

Dino                              - Non essere triste anche tu, ti prego; allora, incomincio?

Vecchia signora            - Ma vuoi davvero raccon­tarmi una di quelle favole che ti annoiano tanto? Non sarebbe meglio?... Sai Dino, che facciamo? Facciamo un gioco. Il gioco delle domande e delle risposte. Così, una doman­da e una risposta, ci raccontiamo la nostra vita.

Dino                              - Io non ho niente da raccontarti. Non accade niente da me, a casa mia. Spesso, la sera rimango solo, e allora telefono: vorrei poter sapere tante cose del mondo, quello che capita agli altri, non le notizie dei gior­nali. Tu mi capisci, è vero?

Vecchia signora            - Oh, se ti capisco. Sono come te. Sola. Ma io sono sola perché ho perduto da dieci anni il marito. E non ab­biamo avuto figli. Ti dirò che anche quan­do lui viveva, spesso restavo sola e abban­donata. Malata alle ossa. A volte non mi potevo muovere, come ora appunto; solo che ora non mi potrò mai più muovere. E allora ero io stessa a supplicarlo di uscire, per prendere una boccata d'aria, per svagar­si. Ma lo facevo, sempre sperando che lui preferisse restare accanto a me. Invece...

Dino                              - Mia madre, poverina, preferirebbe re­starci accanto a me, e qualche sera si sacri­fica. Allora papà esce solo, si mette una cravatta nuova, la camicia di bucato, un po' di colonia sulle tempie grigie. Un vero damerino.

Vecchia signora            - Tua madre com'è? Bion­da, bruna? Di che colore sono i suoi occhi? Quanti anni ha?

Dino                              - Buffo. Non ci ho mai pensato. So che ha quarant’anni; mio padre è più vecchio, ma sembra un giovanotto. E' bella, la mam­ma, io l'adoro, è tanto buona e gioca con me col cavallo a dondolo o il treno elettrico. Ha gli occhi chiari, celesti, la carnagione rosea. Papà dice che sembra una nordica, invece è nata nei dintorni di Roma, fa la maestra, e prepara il mangiare con le sue mani.

Vecchia signora            - Ah, lo immaginavo. Non avete un aiuto, una donna a mezzo servizio?

Dino                              - E chi la pagherebbe? Papà già deve pagare la dattilografa, è un avvocato. Io vado già al ginnasio, o per meglio dire alla prima media...

Vecchia signora            - Ti pare che la mamma sia gelosa?

Dino                              - E' questo il punto. Se papà ritarda, la pasta diventa scotta, perché la mamma sta incollata con la fronte ai vetri della fine­stra. La sera poi... Appena annotta, con la scusa di risparmiare la luce, io lo so che lei si mette a piangere in silenzio per non farsi né vedere né sentire. E io debbo far finta di non vedere che piange, e me ne sto zitto, ai suoi piedi, con la testa tra le sue ginocchia. Ogni tanto una lacrima mi cade sui capelli: lei me l'asciuga con il palmo della mano, e poi si china a baciarmi i capelli proprio nel punto in cui la lacrima era caduta. E tu, tu piangi qualche volta?

Vecchia signora            - Sempre più di rado. A volte mi sembra di non aver più lacrime. Io non ho bisogno di spegnere la luce. In­torno a me non c'è mai nessuno. E nessuno si accuccia ai miei piedi. Nemmeno un gat­to, nemmeno un cane. Poiché, vedi, Dino, tua madre piange, e le lacrime cadono sui tuoi capelli; le mie, se le beve il tappeto macchiato di medicinali.

Dino                              - Hai un giardino? Pensa se abitassimo vicino. Io ti verrei a trovare, forse la mam­ma da te mi lascerebbe anche di sera. Non sarebbe bello?

Vecchia signora            - Troppo bello. Ma io sono protetta, circondata da persone devote, basta ch'io suoni un campanello, e l'infermiera accorre dietro la mia poltrona a rotelle. Con un fiore? Giammai. Con una nuova medi­cina. Un farmaco che mi prolungherà la vita di qualche mese. Che stupida che sono. Mi sto lamentando. Parlami dei tuoi studi. Che vuoi fare, da grande?

Dino                              - Il burattinaio; mi piacciono i paladini e le loro storie. Oppure lo scienziato ato­mico. Per volare nella luna.

Vecchia signora            - Non vedo il rapporto...

Dino                              - Già. Lo sapevo. Anche tu sei come gli altri. Orlando cavalca l'ippogrifo, Astolfo arriva nella luna. In un modo o nell'altro, anch'io ci arriverò. O in sogno, o su un'astro­nave. Che differenza c'è?

Vecchia signora            - Proprio nessuna. E allora perché non tenti dì arrivarci lo stesso, quan­do ti lasciano solo?

Dino                              - Ho vergogna di ripeterlo, ma ho pau­ra. Studio, gioco, leggo mi sembra di aver vinto, e invece mi accorgo che non ho im­parato niente, che non mi sono divertito, e che parole scritte mi ballano dinanzi agli occhi. Una tenda si muove da sola. E' il vento, si capisce; ma prima non si muoveva. E poi, ho paura di alzarmi, di andare nell'altra stanza, a piedi nudi. Ora che ti par­lo, batto i denti. Chissà chi è nascosto die­tro la porta.

Vecchia signora            - Ti assicuro che non c'è nessuno. Non c'è mai nessuno.

Dino                              - Lo so. E tuttavia lo sento. Se spengo la luce, il suo respiro mi gela i piedi. Mi addormento sempre con la luce accesa.

Vecchia signora            - Addormentati, allora. Vor­rei tanto accarezzarti la fronte. Ho le mani sempre fresche.

Dino                              - Mi piacerebbe. Quando essi tornano, mia madre viene sempre a spegnere la luce. Senza aprire gli occhi, io vedo la sua mano inguantata, sento il rumore dell'interruttore. Allora sì che m'addormento davvero. Tuoni e fulmini e saette diventano nastri colorati, stelle filanti di carta; e poi non sento nem­meno il mio respiro. Ho il sonno duro, un sonno di piombo.

Vecchia signora            - Vedi. Tu hai il sonno. E io non posso dormire.

Dino                              - Che fai allora? Leggi?

Vecchia signora            - Leggo. Più spesso, metto un dito tra due pagine e medito su quello che ho letto. Dovresti fare lo stesso tu, quando resti solo.

Dino                              - Già. Ti sembra facile? Tu suoni il campanello, e la cameriera ti porta l'aran­ciata. Io posso morire di sete. E di paura. Non ho nemmeno il campanello. Ho il te­lefono. Ho imparato a scocciare la gente, a impietosirla. Anche tu hai pietà di me. Mi ascolti per pietà, mi rispondi per pietà.

Vecchia signora            - Come t'inganni. Io sono riconoscente alla sorte che ti ha fatto com­porre il mio numero. Se squilla il telefono, è sempre la voce del medico curante che mi ricorda la prescrizione che ha dimenticato di scrivere sulla ricetta. Invece, stasera, ec­coti qua, un nuovo amico. E' vero che di­venteremo amici?

Dino                              - Cerio. Dimmi il tuo numero. Così, domani sera ti richiamo, se mi lasciano an­cora solo. Aspetta che prendo la matita. Aspetta. No, è meglio che tu me lo dica prima di staccare. Lo ricorderò a memoria.

Vecchia signora            - Che accade? Forse la ma­tita è sul tavolo, e tu non osi scendere a piedi nudi sul tappeto...

Dino                              - No, è che ho freddo, e poi, sì, non c'è tappeto. (Con un grido) Non siamo ric­chi, noi!

Vecchia signora            - Dino, ora scenderai, è una prova che ti impongo: una prova che ti farà un ometto. Scendi a piedi nudi, infila le pantofole, se le hai, altrimenti le scarpe, prendi la matita, l'album, guardati intorno, Dino, accostati al balcone, guarda dietro la tenda, vedi che non c'è nessuno? Dai un calcio alla palla, è la palla con la quale giochi sul prato, non è vero che è quella? Di gomma. Rimbalza. Ora ritorna a letto. È buffo il tuo pigiama, sai? Sembri un or­sacchiotto.

Dino                              - (che ha eseguito tutto quanto sugge­rito dalla voce della Vecchia signora, toc­candosi il pigiama, prima di infilarsi dì nuovo a letto). Ma, allora tu mi vedi?

Vecchia signora            - Ti vedo. Non ti lascio nemmeno un istante, né con gli occhi, né con il cuore. Sei il mio bambino, Dino, e io non ti abbandono per andare a teatro. Non ti lascio in balia della tempesta. Non ti lascio... non ti lascio!

Dino                              - Oh, se tu fossi la mia nonna. Gli altri sarebbero a teatro...

Vecchia signora            - Noi li spingeremmo ad andarci ogni sera...

Dino                              - ...per restare soli.

Vecchia signora            - Noi due.

Dino                              - Io starei accucciato ai tuoi piedi.

Vecchia signora            - Io forse piangerei, qual­che volta.

Dino                              - Perché?

Vecchia signora            - Di gioia, di tenerezza, che so, di felicità, per non essere più sola.

Dino                              - Una lacrima cadrebbe sui miei ca­pelli...

Vecchia signora            - Io ci premerei il palmo della mano, e poi ti bacerei proprio sul punto in cui fosse caduta.

Dino                              - Così potrei anche addormentarmi.

Vecchia signora            - Potrei raccontarti una fa­vola.

Dino                              - O io a te. Vuoi che incominci? Quel­la che ti ho detto? Accostati, voglio prima mostrarti la colomba nel giardino del Visir. La colomba è l'anima del Visir. Aspetta che prendo il libro... (Emozionato. La piog­gia scroscia lentamente e rara, anche se il vento fa rimbalzare di nuovo la palla e i lampi illuminano la parete di fronte alla persiana. Appoggia il cornetto sulla forcella, e si china per afferrare il libro caduto sul tappeto. Il libro contiene la favola che vuole raccontare). Aspetta, dunque, c'è un'illustra­zione che ti voglio descrivere bene. La co­lomba...

(Si avvede che ha posato il cornetto sulla forcella e che la comunicazione è inter­rotta, resta con la mano in aria).

La sedia a rotelle e la Vecchia signora sono sparite e la mezza camera è ritor­nata nell'ombra. Dino scoppia a pian­gere, contemplando il telefono muto. Rumore della palla mossa dal vento che proietta un'ombra gigantesca men­tre, sparisce nell'ombra. Lampi. Primo piano del telefono. La mano del bimbo che annaspa, riprende il cornetto com­pone numeri su numeri. Dissolvenza.

Scenario: La stanza della Vecchia signora - Tutto è in discreta penombra. In primo pia­no la sedia a rotelle. La signora avverte che la comunicazione è interrotta. Mormora:

Vecchia signora            - Pronto, pronto. Dino, per­ché non rispondi? Hanno interrotto. Mio Dio, sarà sempre così? Non ci sarà dunque mai la possibilità per me di comunicare con un'altra creatura? Da questa sedia avrei, for­se, potuto essere finalmente utile a qualcu­no, a un essere innocente. E invece... Il con­tatto si interrompe. Fine del dialogo. Per colpa di chi?

Suona il campanello d'argento che ha accanto, sul comodino carico di me­dicinali.

Voce                             - (dal di dentro). Non è ancora l'ora della medicina, signora. Abbia pazienza, se non vengo. Ho tante faccende da sbrigare.

Vecchia signora            - (guarda la forcella del telefono, la porta, poi). Ha detto di chia­marsi Alemanni.

Con un gesto non calcolato tende la mano per prendere la guida, fa crol­lare a terra, dove si infrangono, le bot­tigliette dei medicinali; la guida finisce sul tappeto. Col bastone, la Vecchia signora tenta di accostarsela ai piedi. Pagine della guida aperta alla lettera A: una lettera gigantesca.

Voce                             - Che è accaduto, signora?

Vecchia signora            - Non è accaduto niente. Che cosa mai potrebbe accadermi in questa casa? In questa camera? In questa poltrona? E' fuori che piove, lampeggia, tuona. Fuori! Io sono riparata, protetta, custodita? Prigio­niera sono. E tuttavia un giorno, o una notte, qualcuno verrà. Nemmeno voi, amo­revoli e spietati guardiani e carcerieri, sen­tirete il suo passo.

Primo piano della Vecchia signora che si mette le mani sul viso, per fermare le lacrime che le scorrono tra le dita.

Voce                             - E perché tace ora? Io sono qui, a due passi, pronta ad accorrere, se ha bi­sogno.

La voce si allontana, sino a smorzarsi del tutto. La macchina inquadra una porta chiusa, dietro la quale s'indovina dai rumori la presenza della domestica affaccendata. La Vecchia signora ha il volto ancora bagnato dalle lacrime, le mani sulle ginocchia. Tende l'orecchio verso l'esterno, la pioggia, la casa del ragazzo lontano.

Vecchia signora            - C'è chi è più solo. C'è chi ha bisogno di me, e nessuno può accorrere in suo aiuto. (Tra sé) Quanti saranno, ora, che lo so dalla viva voce spaurita di uno di essi, i bambini lasciati soli in casa, ab­bandonati, con un orsacchiotto di stoffa e un libro di favole, in balia delle paure della notte?

Dissolvenza.

Teste di bimbi in un disegno che oc­cupa l'intero video, dì un'impressionante eloquenza, o fotogramma di film con la stessa scena.

Dissolvenza.

La Vecchia signora in primo piano.

Vecchia signora            - Già, restiamo tutti soli, a un certo punto della vita. Una specie di condanna per le nostre colpe, per i nostri errori. Ma i bambini? Essi non debbono scontare, poiché ancora non hanno commes­so nessun peccato. E perché i genitori li ab­bandonano, senza esperienza e senza difesa, alle insidie della notte? E se capitasse un ladro, un assassino? Noi vecchi possiamo re­starcene soli, in compagnia dei nostri ricor­di, del nostro passato. I nostri figli... Oh, Dino, dove sei? Dove sei?

Voce                             - (dietro la porta). Parla da sola, ades­so? Con chi parla, signora?

Vecchia signora            - (con uno straziante sorri­so). Non ti spaventare; non sono ancora a questo punto. Mi ricordavo un bimbo che si chiamava Dino; ci giocavo spesso insieme ai giardini, anche io bimba della sua stessa età. Chissà dove sarà, ora, povero piccolo Dino, che aveva tanta paura della notte, del buio e del silenzio della sua casa. E baste­rebbe una parola, sia pure da lontano, baste­rebbe una parola: persino la parola di una vecchia come me, basterebbe a consolarlo.

La camera inquadra la porta chiusa, impenetrabile.

Voce                             - Gliela dica, allora. Perché non gli scrive?

Vecchia signora            - Una parola attraverso lo spazio, attraverso la distanza infinita che separa, spesso, dì giorno e di notte, le crea­ture di questa città, di questo mondo... Giu­dicare è facile. S'io fossi la madre di Dino, certo non lo lascerei solo di notte. Ma io non sono la madre di

Dino                              - Ignoro tutto di questa creatura. Se è gelosa, ed io non lo sono forse stata?, corre dietro il suo uomo. Per non perderlo. Già, in fondo deve sce­gliere: e lasciar solo il marito di sera sa­rebbe più pericoloso. Lotta per Dino, anche se lo abbandona qualche volta. Io poi, ma­lata come sono, che cosa ho fatto per Dino? L'ho afflitto, l'ho spaventato ancora di più. Non ho fatto altro che parlargli di me... delle mie infermità, della mia solitudine. Non siamo capaci di compagnia, né sappiamo come si fa a confortare un bimbo. Forse è impossibile gettare un ponte tra due gene­razioni: l'abisso non è fatto solo di tempo, di anni. Le parole non hanno lo stesso si­gnificato per chi le dice e chi le ascolta. La colpa non è soltanto dei genitori, ma è di quello che i genitori sono costretti a fare per sopravvivere. C'è chi lavora di notte, e dorme di giorno. C'è chi non lavora, e vaga per la città alla ricerca di un lavoro. E in­tanto i bambini aspettano una parola, più che una pagnotta di pane. Ora mi sembra che saprei trovare le parole che Dino aspet­tava, che tanti come lui aspettano da una persona sconosciuta, alla quale si confidano in momenti di panico, ma che sono pronti ad ascoltare, a seguire, ad amare. Essere amati da un bimbo! Forse è questo che ho aspettato per tutta la vita. Dino, creatura mia...

Dissolvenza.

Scenario: La camera di Dino: Dino scaglia il libro inutile lontano da sé; poi si riafferra al telefono, compone un nuovo numero a casaccio. La parte in ombra della camera, rabbuiata per l'errore del bimbo, si illumina dì nuovo e accanto all'altro telefono appare un giovane con l'impermeabile e il cappello, la sigaretta accesa in bocca, pronto per uscire.

Il Giovane                     - (con voce gaia e frettolosa). Pronto, chi parla?

Dino                              - Parla

Dino                              - Il Giovane. Dino chi?

Dino                              - Un bimbo di dieci anni. Il Giovane. Figlio di chi?

Dino                              - Mio padre si chiama Alemanni. Il Giovane. Io non lo conosco. Ma sbrigati. Che cerchi, chi vuoi? Ho una fretta...

Dino                              - Dovresti venirmi a fare compagnia. Mi hanno lasciato solo, e ho tanta paura. Senti come tuona?

Il Giovane                     - (ridendo). Ciao,

Dino                              - E sogni felici. Quando avrai la mia età, e la ragazza che ti aspetta, capirai la mia fretta.

Dino                              - Aspetta un solo momento. Non mi abbandonare...

Il Giovane                     - E chi ti abbandona? Solo devi capire anche tu. Piove. La mia fidanzata mi aspetta in un bar fuori mano. Lei non sa che ho già parlato al padre del nostro fu­turo. Se arrivo in ritardo, lei ha un dannato caratterino, può darsi che se ne vada. E' impaziente, tu capisci. Del resto, qualche altra volta mi è capitato di ritardare. Questa volta proprio non debbo. Altrimenti, le don­ne... Ma tu sei troppo piccolo per queste cose. Però, hai ragione, sai. Che razza di genitori hai. Perché ti lasciano solo? Quan­do noi, io e Mirella, avremo un figlio, ce lo contempleremo anche nel sonno.

Dino                              - Se tu telefonassi. Se dicessi alla tua fidanzata che io sono solo e che tarderai qualche minuto...

11 Giovane                    - (impaziente). Sai che ti dico, Dino? Che hai troppa confidenza col tele­ fono. Io ci metterei il catenaccio, se fossi al posto dei tuoi genitori.

Dino                              - Ma i miei non sanno che telefono di sera, quando mi lasciano solo.

Il Giovane                     - E la bolletta non la guardano nemmeno? Ci sarà un bel numero di tele­fonate fuori programma, non ti pare?

Dino                              - Non la guardano, non hanno mai tem­po di guardare. Hanno fretta. Figurati, del resto, con tutte le telefonate che mio padre deve fare per le sue pratiche...

Il Giovane                     - E tu ne approfitti. Dovresti ver­gognarti. In fondo abusi della confidenza, della fiducia di tuo padre. Ma se ti lasciano solo. Io farei di peggio, te lo assicuro. Ora prova a dormire. Debbo proprio scappare. Ciao, Dino.

Dino                              - Aspetta un solo momento. Non mi abbandonare...

Il Giovane attacca e scompare inghiot­tito dal buio. Dino si accorge di essere rimasto di nuovo solo. Attacca anche luì, e risolleva il ricevitore. Si diffonde nella camera il rumore di conchiglia marina del telefono che dà via libera. Il gioco lo diverte, lo consola? Il rumore del telefono si trasforma nella musica di un carillon lontano, sempre più lontano... Dissolvenza.

Scenario: Piccolo bar. In un angolino il Giovane e la Ragazza in conciliabolo. La macchina li inquadra, dopo una rapida pa­noramica del caffè deserto. Il padrone dietro il bancone. Una ragazzina dietro la cassa. Il caffè è deserto, le vetrate niscellano pioggia.

Il Giovane                     - (tenta di afferrare una mano della ragazza che gliela rifiuta). Perdonami. Proprio all'ultimo momento, ti dico, una telefonata. E chi era? Un buontempone che imitava la voce di un bambino lasciato solo in casa e che aveva tanta paura. Ho tagliato corto, gli ho detto che venivo da te, ma l'autobus, quando sono sceso, mi è scap­pato sotto il naso.

La Ragazza                   - La prossima volta mi parlerai di un marziano. Ma al mio posto troverai la ragazza della cassa, ti avviso. Proprio non avverti che i tuoi continui ritardi sono of­fensivi? Sono diventati un'abitudine. Anche io comincio a diventare per te una cara abitudine. Che credi, che non me ne sia accorta?

Il Giovane                     - (si agita sulla sedia, con comica disperazione). Santo Dio, che cosa inventi? Ma allora tuo padre non ti ha detto niente?

La Ragazza                   - Mio padre? E che c'entra lui con i tuoi ritardi? Con le nostre storie?

Il Giovane                     - E' proprio quello che ha rispo­sto lui. Sbrigatevela tra voi due, ha detto. E' Mirella che vuole sposare, no? E allora si rivolga a lei. Io non c'entro. Ma sicuro, che sono contento. Più presto se ne va, quel­la santerellina, e più presto noi vecchi sa­remo in pace. Poi mi ha raggiunto sulla so­glia, aveva le lacrime agli occhi. E ti sei laureato? Hai un buon posto? Be', parlane con lei e poi fateci una visitina insieme.

La Ragazza                   - (turbata, commossa, gli afferra le mani, poggiandogli la testa sul petto). Caro, caro. Tesoro. E allora gli hai parlato davvero? Ci aspetta? E io, stupida, che dubi­tavo per tutti questi ritardi. E i tuoi? Tua madre? E' contenta, tua madre? Tua sorel­la? Be', sai che ti dico, ora dobbiamo fare un'opera buona, dobbiamo incominciare la nostra nuova vita con un'opera buona.

Il Giovane                     - Regalerò mille lire al primo mendicante che incontreremo.

La Ragazza                   - Sciupone! Invece telefoneremo a quel bimbo. Se te ne ricordi il nome, ho un'amica alla Teti. Chissà che non possa rintracciarlo. Poiché io sono sicura ch'era davvero un bimbo. Lasciato solo dai genitori. Noi, il nostro, quando lo avremo, non lo lasceremo solo un istante. Ricordatelo!

Il Giovane                     - Domani gli telefoneremo. An­che per ringraziarlo di quanto gli dobbiamo, sia pure indirettamente.

La Ragazza                   - Domani? Domani ci sarà il sole. Ma lui ti ha detto di aver paura del buio, della solitudine. Li senti i boati, li vedi i lampi? Anche a me fanno paura. Figurati a lui, poverino!

Il Giovane                     - E che dovrei fare? Mi ha detto di chiamarsi Alemanni.

La Ragazza                   - (gridando). Cameriere. Per cor­tesia, l'elenco del telefono.

Il Giovane                     - Ma calmati, cara. Alemanni è un nome comune. Ce ne saranno colonne intere. Godiamoci questa prima serata d'in­timità. Siamo, da questa sera, quasi marito e moglie. Tuo padre sa che tu sei con me.

 La Ragazza si alza, la macchina la segue, stacca da un chiodo accanto alla cassa la guida, ritorna, depone il libro sul tavolo e sfoglia.

La Ragazza                   - Questo significa che ho un padre fiducioso, accorto e fortunato. Lui sa che tu sei con me e che mi proteggi dalla tempesta e dall'oscurità. Mentre quel po­vero bambino! Alemanni, ecco qua, ce ne sono appena tre. Presto, tre gettoni.

I due si alzano, vanno alla cassa, il Giovane acquista i gettoni, la Ragazza compone il primo numero, infilando il primo gettone nella cassetta. Gli affida il cornetto.

La Ragazza                   - Parla tu.

Il Giovane                     - Pronto. Casa Alemanni? (Bal­bettando) E' in casa Dino? Ah, no, non c'è nessun Dino? Un bimbo di dieci anni? Non avete figli? Chissà come sarete tristi! Peccato. Ma si che m'impiccio degli affari miei. Che cosa crede? Mi scusi... Non volevo insinuare niente... Per carità. Io... io cercavo un bimbo che si chiama

Dino                              - L'ho conosciuto ai giar­dini, (Facendo smorfie sconsolate alla ragaz­za) Che disdetta. Perché dovrei vergognar­mi? Alla mia età? Ho ventitré anni. E con ciò? Ma s'impicci degli affari suoi! (Attacca) Hai visto che mi fai fare? Non è lui.

La Ragazza                   - (senza reagire). Che cuore hai. Avanti. Pensa se fosse nostro figlio.

Il Giovane                     - Ma cara, tu stessa hai detto che noi, il nostro, non lo lasceremo mai solo. Dino ha dodici anni.

La Ragazza                   - Dieci!

Il Giovane                     - Dieci. E noi non siamo ancora sposati. Dammi tempo.

La Ragazza                   - Che tempo? Quale tempo? Non desideri figli, tu? Allora non ti sposo. Lo dirò io a mio padre che tipo sei.

Il Giovane                     - Ma che cosa farnetichi? Che c'entro io? Lui, Dino, ha dieci anni. E noi dobbiamo ancora sposarci. Tra dieci anni riparleremo del caso. Allora, se Dio vorrà, nostro figlio avrà dieci anni. Ma che cosa mi fai dire? Non ti vergogni?

La Ragazza                   - No, non mi vergogno. Così va meglio. Avevo supposto... Insomma, quel bimbo, solo, mi dà l'angoscia. (Tuono frago­roso) Senti come tuona? E lui, quel passe­rotto, solo, atterrito. Che aspetti? Telefona all'Alemanni numero due.

Il Giovane                     - (infila un altro gettone) Pronto? Casa Alemanni. C'è Dino? (Pausa. Gestì dei giovane) Ma le garantisco... mi lasci dire... non scherzo, non ne avrei proprio il coraggio. Sono in un bar con la mia fidanzata che ha la pistola puntata... Metaforicamente, s'in­tende... Signora, le giuro, telefono da un caffè. Vuole sapere quale? Caffè Sport, an­golo... Ma no, non sono lo stesso di ieri. Alla stessa ora? Non ci ho colpa. Sono uno nuovo. Sfacciato, ha detto? Ma io cerco un Alemanni, di cui ignoro le generalità com­plete. Mi ha telefonato il figlio, Dino, e ora la mia fidanzata pretende che lo rintracci. Forse Dino morirà di paura... (Alla Ragazza, mostrando il microfono) Ha attaccato. Mi ha chiamato... No, preferisco non dirtelo. E tutto per le tue smanie. Hai visto che ho combinato?

La Ragazza                   - (gelida). Terzo gettone, avanti! Non bisogna trascurare nessuna probabilità... Voce del padrone del bar. 'A ragazzi, va be' che piove. Se vi siete divertiti abbastanza, fate la terza, e smammate. Che razza di divertimenti. E chi ci capisce niente. Sinanche la rivoltella puntata alla nuca. Come in un film de gangesterre. A sentirli, se tratterebbe de fa' n'opera bbona. Ammappela! Di­sturbo alla quiete pubblica, 'co la scusa della carità. Ho detto a voi, laggiù. Me sentite? Ma voi, insomma, Dio bbono, ce siete ve­nuti o vi ci hanno mannato...

I due fanno gesti verso il bancone, en­trambi incollati al microfono... Dissolvenza.

Scenario: La camera di Dino - Sibili di vento, raffiche di pioggia sferzano violentemente la persiana. La palla rimbalza nell'ombra, e ap­pare qua e là, spinta dal vento. Rare luci dall'esterno filtrano fioche e fuggevoli, inse­guite e spente da trombe dì aria gelida. Al­lora Dino non esita più, il suo orgasmo cre­sce, ad ogni numero senza risposta che egli compone, mai scoraggiato, ma sempre più impaurito. Finalmente, una voce, un'altra Voce. E la scena si illumina, come per gli altri chiamati. Appare un Signore anziano, dai capelli grigi, con la cravatta slacciata.

Dino                              - (quasi cantilenando). Mi chiamo Dino, ho dieci anni, sono solo in casa e ho tanta paura della pioggia e del vento. Mi aiuti, signore. Anche se non può venire di perso­na, resti un po' al telefono e parli con me da lontano, in modo da farmi compagnia. Chissà che il sonno non mi sorprenda: e solo allora lei potrebbe riattaccare senza ri­morsi. O vuole che le racconti una favola?

Primo piano del Signore anziano che lo interrompe bruscamente, con fare an­noiato e disgustato.

Signore anziano            - Che scherzi stupidi, alla tua età. Se fossi veramente un bambino di dieci anni, non sapresti adoperare tante belle frasi che non commuovono uno sconosciuto, sorpreso nel meglio della serata, o almeno con l'idea che la serata potrà da un mo­mento all'altro diventare interessante. Magari per una telefonata ricevuta di sorpresa, e da una persona che non si conosce. Imiti male la voce di un bambino di dieci anni, e, se io fossi tuo padre, saprei come castigarti. Ti dirò che hai sbagliato bersaglio, poiché anche io sono solo. Sono vedovo e senza figli, abito in una casa di dieci stanze, in cui potrei alloggiare un'intera tribù di ragazzi che non fossero discoli come te.

Dino                              - (dignitoso, allontanandosi dal micro­fono, con alterigia). Signore, mi creda, io non avrei mai voluto arrecarle tanto fasti­dio; ma sono davvero un bambino di dieci anni. Abito al numero 712 in viale delle Milizie, mio padre si chiama Alemanni e fa l'avvocato. Mia madre...

Signore anziano            - Sì, tua madre farà la bal­lerina in un ritrovo notturno e tuo padre è andato a prenderla per proteggerla dagli ap­plausi degli avventori avvinazzati!

Dino                              - (offeso). Signore, io non ho più paura e posso fare benissimo a meno della sua voce e della sua compagnia.

Signore anziano            - Che schifo. Eccola, questa gioventù d'oggi. Maligna, cinica e strafotten­te. Prima t'invocano, nel cuore della notte, poi al minimo contrasto... Basta, chi ti ha chiamato?

A questo punto la stanza si illumina in un altro angolo. Per un contatto, s'intromette nella conversazione una terza voce, di donna, questa, che la macchina scopre con la luce, facendola apparire sempre più distintamente, con un altro telefono in mano. Ma, per es­sersi inserita così a proposito, s'intende che la donna avrà ascoltato quasi tutta la con­versazione.

Donna                           - Nessuno... Nessuno mi ha chiamato. Non si vergogna, lei, di trattare così un bam­bino? Poiché, anche se bambino non è, se non ha dieci anni, la sua voce non è certo quella di un adulto.

Signore anziano            - Da dove parla? Che c'en­tra lei?

Donna                           - Mi sono inserita per un contatto. A volte il caso è un regista senza rivali. Dino - (con voce implorante). Signora, mi dica subito il suo numero, così la richiamo, se il contatto dovesse interrompersi. Almeno, anche se non può uscire di casa, mi potrà fare compagnia da lontano.

Signore anziano            - Vergognatevi voi, piutto­sto, a recitare questa commedia. Si può sapere che gusto ci provate ad abbindolare la gente per bene? Fuori piove, in casa vi annoiate, fate a caso il primo numero che vi capita, e il merlo ci casca, e il merlo dovrei essere io, pronto a farsi strappare le penne...

Donna                           - 27.12.48, signora Albis. Chiama quando vuoi,

Dino                              - E in quanto a lei, signo­re, perché non va a controllare se il bambi­no ha detto la verità? Se lei è vedovo, non dovrà rendere conto a nessuno; nemmeno a un'ora così tarda, e, a prendere un tassì, di certo non si rovinerà; potrà compiere un'opera buona, confortando un bambino abbandonato, e forse...

Il contatto si interrompe, la donna è riassorbita dal buio.

Signore anziano            - E forse? Dino, vengo su­bito. Aspettami, vorrà dire che telefoneremo insieme per sapere se la signora ci ha detto la verità o ci ha dato un numero falso come fanno di solito le belle signore.

Dino                              - Faccia presto. O meglio, perché non prova a telefonare prima di venire? (Con voce trionfante) Così potrete venire in due, faremo una bella festa, proprio una bella festa. Io so dove i miei nascondono i dolci e i liquori.

Signore anziano            - Ora attacco. Attenzione, Dino, mi infilo il cappotto e prendo un tassì; numero 712 hai detto? Alemanni? Che in­terno?

Dino                              - Interno 12. Presto, presto, presto...

Signore attacca, forma un numero, ma non è quello della donna, è quello per prenotare un tassì.

Signore anziano            - Un tassì, presto, al nume­ro 12 di via del Corso, ingegner Annibale Preziosi, numero 32.12.14.

Riattacca.

Signore anziano            - (monologando). D'accordo. Scendo subito. Cento contro uno che si trat­ta di una sorella e di un fratello; o di una giovane mamma senza il marito. Avventura, avventurieri? Non saprei proprio dirlo: del resto, tra poco saprò. Oh, che voce dolce. Chissà come si chiama e di che colore sono i suoi occhi. In quanto al bambino, lo fa­remo subito addormentare, con la ninna nanna che cantava mia madre. Strano, mi sembra di ricordarmela ancora. Una ninna nanna che sin dal primo verso mi faceva piombare nel sonno.

L'uomo sparisce nell'ombra e la mezza camera torna nel buio. Dissolvenza.

Scenario: Una via abbastanza larga che ter­mina in una piazza. All'angolo il portone del caseggiato in cui abita Dino. Quasi con­temporaneamente il Signore anziano e la Donna arrivano, ognuno sotto l'ombrello. Piove ancora, ma meno, sempre più lenta­mente. Si precipitano a suonare il campanello luminoso del 712 che spicca nell'oscurità.

Signore anziano            - Prego...

Donna                           - Alemanni, ecco.

Signore anziano            - Oh, allora forse è lei. Mi pare di riconoscere la

Voce Donna                  - Lei è il signore permaloso.

Signore anziano            - Veramente, io ero sicuro di essere stato preso in giro.

Donna                           - Sempre diffidente, eh?

Signore anziano            - Ora non più. Le chiedo scusa.

Donna                           - Di questo parleremo più tardi. Suo­ni, piuttosto.

Signore anziano            - (preme a lungo il campa­nello). Strano, non risponde nessuno. Ep­pure, il solo fatto che siamo entrambi qui, significa che l'indirizzo è quello giusto. E poi il nome... Questo dannatissimo ombrello...

Donna                           - Può chiuderlo. Ha smesso di piovere.

Signore anziano            - (incredulo). Sarà vero? Ma è vero. (Chiude, alza gli occhi al cielo) ... ed è apparsa qualche stella.

Donna                           - (scimmiottando). Sarà vero?

Signore anziano            - Colpito. Me lo merito: sono proprio nato con la diffidenza nel cuore.

Donna                           - Sarà vero?

Signore anziano            - Ne dubita?

Donna                           - Ne dubito. Lei si nasconde. Conti­nui a suonare, prego. Si nasconde perché si crede una vittima.

Signore anziano            - Sono solo, vedovo, ecco tutto.

Donna                           - D'accordo, è un male essere soli. Ma lei si sente particolarmente solo. Forse avrebbe bisogno di pensare a qualcuno.

Signore anziano            - E lei?

Donna                           - Io no, io vivo con mia madre e aspetto. Posso aspettare. Ho tutta la vita da­vanti a me. Senza essere giovanissima, a trent'anni mi sento felice come una ragazzina.

Signore anziano            - È una ragazzina.

Donna                           - Nonnino, mi sta facendo la corte?

Di corsa arrivano i due fidanzati, e si fermano di fronte al portone.

Il Giovane                     - Ecco qua, numero 712, per for­tuna ha smesso di piovere. Alemanni, terzo campanello. Permette, signore?

Signore anziano            - È inutile.

Il Giovane                     - E' il padre di Dino?

Signore anziano            - Anche lei per Dino? Ma ha telefonato a mezza città, allora.

La Ragazza                   - E' un bambino che ha paura.

Signore anziano            - Conosciamo la lamente­vole storia. Ma si vede, che, cessata la tempesta, la paura gli è scomparsa. Non rispon­de. E sono appena le undici. I suoi genitori non saranno ancora rientrati.

Donna                           - E allora perché non risponde?

La Ragazza                   - Forse la paura è stata troppo forte.

Donna                           - Di paura si può anche morire.

La Ragazza                   - Signora, che cosa orribile. For­se è morto.

Il Giovane                     - Eh, via, non esageriamo. Per quattro tuoni. In fondo, era a letto, in una casa riscaldata, col parafulmine. Che mi fai dire, Mirella?

La Ragazza                   - Ecco gli uomini, gli eroi, gli egoisti. Essi non hanno paura. Fanno la guerra, buttano la bomba atomica, distrug­gono il genere umano, ma essi non hanno paura.

Donna                           - I bambini, sì, hanno paura della tempesta, della solitudine, del silenzio, dei tarli, del buio, del gelo che si insinua dietro le spalle all'improvviso come un mostro. Di cento, mille cose hanno paura, se lasciati in abbandono.

Signore anziano            - Io ritengo che siamo stati giocati.

Donna                           - E invece, no. Io sono sicura del contrario. Ma non avete visceri voi due! Forse è successo qualche cosa. Se suonas­simo il campanello del portiere?

Signore anziano            - E se gli Alemanni non avessero figli? E se fosse stato un altro a telefonare spacciandosi per il figlio di Ale­manni? I quali potrebbero non avere figli. Il signor Alemanni come reagirebbe, se aves­se staccato la suoneria per impedire ai giovi­nastri di rompergli il sonno, di notte?

La Ragazza                   - Ora siamo in ballo, non me la sento di tornare indietro. Siamo in quat­tro; io posso far venire mio padre che, nel quartiere, è molto conosciuto. Sì, abito, per caso, proprio all'altra via; il signor Alemanni si renderà conto.

Il Giovane                     - Ma sono le undici di notte. Rifletti. Non dico di abbandonare la partita. Siamo d'accordo. Possiamo fare così. Se non rispondono al telefono, significa che siamo stati giocati. Ecco, vado a telefonare al bar di fronte. Vi farò cenno, se nessuno rispon­de. E allora ci berremo sopra. In fondo, non ci abbiamo rimesso niente.

Signore anziano            - E abbiamo tranquillizzato le signore. Io suono, ecco qua...

I due fidanzati si allontanano.

Donna                           - Poi parleremo anche di questo, per­ché, in fondo, lei ha tentato di tranquilliz­zare la sua propria coscienza.

Signore anziano            - Litighiamo come quei due; come se fossimo già marito e moglie.

Donna                           - E invece non siamo nemmeno fi­danzati.

Signore anziano            - Certo, se avessimo un fi­glio, non lo lasceremmo solo per andare a teatro.

Donna                           - Come corre. Ma forse faremmo an­che noi come tanti genitori, che i figli li por­tano a spasso soltanto con l'abito nuovo, e poi li abbandonano in casa, di giorno e di notte.

Signore anziano            - Ci sono tanti irresponsa­bili, al giorno d'oggi. Egoisti.

Donna                           - Io, fossi in lei, non insisterei su que­sto tasto.

Signore anziano            - Toccato. Ancora una volta. Ma sa che lei non me ne passa una!

Donna                           - (civettuola). Ancora non se lo merita.

Signore anziano            - È una promessa?

Donna                           - Chissà. Una promessa, o una spe­ranza. Suoni. Pensiamo a Dino, ora, a quel povero ragazzo solo...

Si ode un camion che frena nella piaz­za. E' il camion della polizia. Senza scen­dere, il Delegato, fuori campo tuona:

Voce del Delegato        - Ehi, voi! Siete in ar­resto! Non vi muovete, poiché siete sotto mira. Niente scherzi. Alzate le mani. Avanti.

I due alzano le mani, sbalorditi e avan­zano verso il camion.

Signore anziano            - Vorreste spiegarci almeno di che si tratta?

Voce del Delegato        - Perché no? Al commis­sariato, e salite dal di dietro, girate intorno al camion.

Intanto arrivano i due fidanzati, che guardano stupiti la scena, mentre dall'alto di una finestra cade una Voce.

Voce di Donna             - Signor Delegato, non si lasci sfuggire gli altri due. Sì, proprio quelli che stanno a guardare.

 

Voce del Delegato        - Ehi, voi due, siete in arresto. Presto, salite. Non ho tempo da perdere.

Signore anziano            - Abuso di autorità. Noi suo­navamo per soccorrere un bimbo in peri­colo. Mi sentirete. Io sono un ex questore.

Voce del Delegato        - Allora avrà piacere di far due chiacchiere con un suo collega in carica, no? Avanti, silenzio.

La Ragazza                   - Ma siamo innocenti. Voce del Delegato, è da mezz'ora che svegliate il palazzo, suonando i campanelli. Disturbo alla quiete pubblica, schiamazzi notturni. Per essere indulgenti. Perché nes­suno mi toglie dalla testa...

La Ragazza                   - Abbiamo suonato a un campa­nello, perché un bimbo ci ha chiamato.

Voce del Delegato        - Commovente storia. Avanti, tu. Al commissariato.

Il camion ingrana, sterza, sì allontana, sempre fuori campo, mentre arrivano i signori Alemanni. L'avvocato toglie il mazzo delle chiavi e ne infila una nella toppa.

Voce dall'alto di Donna         - Siete arrivati in tempo. Hanno tentato di derubarvi. Chissà il bimbo, che paura.

Signora Alemanni         - Mio Dio, il bimbo. I ladri.

Voce di Donna             - Oh, Dio, ladri proprio no. Almeno non lo sappiamo. Erano in quattro e hanno suonato a varie riprese il vostro campanello. Fanno sempre così. Per assicu­rarsi che in casa non c'è nessuno. Ma io sono sempre all'erta. Soffro d'insonnia, io...

Signora Alemanni         - Presto. Il bimbo. Me l'avranno spaventato.

I due Alemanni spariscono nel portone che sì chiude alle loro spalle. Dissolvenza.

Dino scivola dal letto e aspetta con ansia che squilli il campanello della porta di entrata.

Dino                              - Fa', mio Dio, che trovino aperto il portone. Di solito è sempre aperto; ma con questa pioggia e con questi tuoni, forse an­che il portiere ha avuto paura ed è ancora sveglio.

Squillo insistente del campanello e squillo del telefono. Il bambino, turbato, confuso, esita, fa per andare verso la porta, alza la mano per afferrare il rice­vitore, poi, sconsolato, si ricaccia a letto e, prima di ficcarsi con la testa sotto le coperte, mormora:

Dino                              - Che cosa diranno i miei, se apro la porta a uno sconosciuto? E se non è il si­gnore di poc'anzi, e se è un ladro? Si stan­cherà di suonare.

Nascosto sotto le coltri, il suo corpo si muove, quasi fustigato dal suono del campanello di entrata. Poi tutto tace. A intermittenze, lo squillo del telefono, poi silenzio. Dopo una breve pausa, si ode una voce di donna, quella della madre di Dino, cui segue uno scalpiccio soffo­cato di passi.

Signora Alemanni         - Sst! Non si è nemmeno svegliato. Che fortuna. Benedette favole. Non fa altro che leggere e si addormenta sempre con la luce accesa.

Si vede la stessa mano inguantata del­ l'inizio allungarsi sulla chiavetta della luce, smorzare; e, mentre la camera piomba intera nel buio, cala lentamente il sipario.

FINE