Il padre per amore

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IL PADRE PER AMORE

di Carlo Goldoni

La presente Commedia di carattere, in cinque Atti in versi Martelliani, fu per la prima volta rappresentata in Venezia nell'Autunno dell'Anno .

ALL'ILLUSTRISSIMO SIGNORE IL SIGNOR ALBERTO FRANCESCO DE FLONCEL AVVOCATO AL PARLAMENTO DI PARIGI CENSOR REALE FRA GLI ARCADI DI ROMA FLANGONE ITOMENSE Allora quando, Illustrissimo Signore, mi fu scritta in Venezia la nuova ch'io doveva venire in Francia, questa mi venne accompagnata con lettere, che mi hanno colmato di buona speranza e di vera consolazione. Mi dicevano, che io non ci venia sconosciuto, che le opere mie stampate erano a Parigi in qualche riputazione, che avrei qui ritrovati de' Protettori e de' buoni Amici, de' buoni amatori e conoscitori della lingua e della letteratura Italiana, e fra questi mi fu nominata principalmente l'amabilissima e rispettabile Persona vostra, con termini ed espressioni così distinte, che mi hanno fatto anteporre il piacer di conoscervi ad ogn'altro bene, che poteva lusingarmi di dover godere a Parigi. Voi qui (mi dicevano) ritroverete Monsieur de Floncel, persona distinta, di merito, di talento, di erudizione, che vi ama senza conoscervi, che ama le opere vostre, e che è stato il primo a farle conoscere in questa Città di Parigi, che le intende perfettamente, e che col credito e colla riputazione ch'Egli ha fra le persone di lettere, vi ha fatto il maggior bene, il maggior vantaggio del mondo. Voi (seguitavano a dirmi) Voi conoscerete un Francese, che fa onore grandissimo alla nostra Italia, che ha una sontuosa ricchissima Biblioteca Italiana, di più di diecimila Volumi, e i più rari, e i più scelti, acquistati col lungo travaglio di quarant'anni con grandissima spesa, con cognizione perfetta del buono, del meglio, degli Autori e delle edizioni, onde una raccolta simile, sì compiuta e sì rara, difficilmente si troverà in Italia medesima. Lo troverete a sedere in mezzo ad un sì vasto, prezioso monumento, non come un uomo che si compiace dell'inutile vanità di possedere de' libri, di vederli graziosamente situati, magnificamente coperti, ma come uno che li conosce a fondo, che li legge continuamente, che intende, e stima, ed assapora la letteratura Italiana, e legge, e parla come noi, l'Italiano. Né solamente a sé solo ha limitato il piacere di sì preziosa raccolta, ma ne fa parte a tutti gli amici suoi, a tutti i curiosi ed amatori di questa lingua, a tutti i Forastieri, che accorrono per vedere, e per ammirare, e per soddisfarsi. Ecco l'unico, ecco il singolare diletto di questo grand'uomo, dopo avere sostenute con merito ed esemplare virtù le illustri cariche di Segretario di Stato del principato di Monaco; di Ministro per detta Corte al Re di Sardegna e all'Infante Don Carlo; di primo Segretario degli affari stranieri, sotto i due principali Ministri della Corona di Francia, il signore Amelot ed il Signore Marchese d'Argenson, ne' quali impieghi difficili e laboriosi ha fatto in altro modo spiccare il talento, l'onestà e il disinteresse, amando più d'arricchire di buona fama il suo Nome, che di oro e di argento la sua Famiglia: e per darmi una prova del vostro buon cuore e del vostro disinteresse, l'amico di Parigi, che mi ha scritto sì bella e preziosa lettera, mi ha soggiunto che Voi nel principato di Monaco avete ottenuto per grazia, che si trattenessero dei salariati, per economia licenziati, e ciò col sagrifizio volontario, esibito, di una parte de' vostri


onorari.

Ecco, Signor mio amabilissimo, quanto di Voi mi fu scritto prima che io venissi a Parigi, ma se le cose vedute, o rapportate da lungi, sogliono da vicino scemar di pregio, trovo questa volta tutto il contrario, e l'onor di conoscervi, e di trattarvi, aumenta il vostro merito e l'altrui ammirazione. In qualunque parte ch'io mi volga a Parigi, sento parlar di Voi; veggio il vostro nome impresso per tutto. Tutti i Giornali di Francia, i Fogli Periodici, il Mercurio, non fanno che formar elogi al vostro Nome, alla vostra Biblioteca, al vostro genio per letteratura Francese e Italiana. I Giornalisti d'Italia ne parlano con eguale stima e rispetto. Il nostro gentilissimo Signor Giovanni Conti Romano, professore di lingua Italiana alla Scuola Militare in Parigi, che ha fatto ristampare, sì ben corretta, in sì bel carattere e bella forma, la celebre traduzione di Lucrezio di Alessandro Marchetti, non potea meglio fare che dedicarla al vostro Nome rispettabile, illustre, ed ho ammirato l'ingegno e la sincerità dell'uomo, il quale sotto al vostro ritratto, elegantemente delineato sopra il fondo della vostra ammirabile Biblioteca, ha fatto incidere il verso:

Ne sceglie il fiore, e ne comparte il frutto.

Tutti quelli che, parlando o scrivendo, dicon bene di Voi, non fanno che rendere giustizia al vostro merito, e corrispondono altresì alla cortesia, alla gentilezza, colla quale Voi scrivete e parlate degli altri. Fortunati coloro, le di cui opere sono a Voi, come a Censore Reale, confidate, per essere rivedute e approvate: Voi non vi contentate di sottoscriverne la rivista e l'approvazione; ma buon conoscitore, e perfetto amico, arricchite di parole onorifiche il libro, e recate gloria all'Autore. Ma qual Autore di me più felice, qual più da Voi onorato, beneficato? Voi dite di avermi amato senza conoscermi; tutto il Mondo a Parigi mi ha di ciò assicurato, ed io ne ho ricevute le più tenere dimostranze. Quando posso venir da Voi, quando trovomi in casa vostra, in mezzo all'amabile vostra famiglia, fra i vostri libri Italiani, parmi di essere nella mia Patria, e permettetemi che lo dica, parmi di essere in casa mia. Voi mi trattate come un fratello; Madama vostra Sposa()mi colma di grazie, di gentilezze, di onori; il caro vostro Figliuolo mi consola colla sua bontà, m'innamora col suo talento. Famiglia rispettabile, esemplare, felice, in cui regna il perfetto amore, la soave concordia, la vera pace, sopra di cui sparge il cielo le benedizioni e la provvidenza. Che piacere è il mio, e di mia Moglie, e di mio Nipote, da Voi sì bene accolti ed amati, trovarci, mille miglia distanti dal nostro Paese, in una casa Francese in cui parlasi non solo perfettamente Italiano, ma si ama, si gusta e s'intende a maraviglia il Veneziano dialetto! Madama de Floncel, degnissima Consorte vostra, ha dato di ciò una pubblica testimonianza; Ella ha tradotto in Francese la mia Commedia intitolata l'Avvocato Veneziano e l'ha tradotta sì bene, ch'io, confesso il vero, ne rimasi maravigliato. Il foglio intitolato: Il Genio della letteratura Italiana, giustamente ha pubblicato colle stampe la traduzione; sono dovuti alla Traduttrice gli elogi che tutti gli altri fogli le recano, ed io ne riconosco il profitto e l'onore, avendo Ella fatta conoscere in Francia una delle mie più dilette Commedie, mandandola sì ben corredata ed adorna del suo felicissimo stile. Ella si è innamorata del buon carattere del mio Avvocato, perché è buona per se medesima, perché ha un Marito buono, e perché in tutta la vostra casa non ispira che bontà, virtù e compassione. Ella conosce perfettamente la Musica, e ne possede il talento; ama la Musica Italiana senza condannar la Francese, ed è sorprendente la sua abilità per il gravicembalo. Tutto ciò contribuisce moltissimo al comune piacevole trattenimento della Famiglia, a quella de' vostri amici, che gioiscono d'una vera allegrezza, prezioso effetto della vostra bontà. Voi, Signor mio amabilissimo, avete dato mai sempre costanti prove della vostra bontà di cuore, non meno che del vostro esimio talento, e se mi fosse lecito pubblicare alcune rimarcabili circostanze, che ho penetrato, degli scabrosi onorifici impieghi da Voi sostenuti, potrei insegnare col vostro esempio,

()Dopo la prima edizione di questa lettera dedicatoria, Madama de Floncel è passata a miglior vita. Una tal perdita ha riempito di tristezza la sua Famiglia, e tutti gli amici suoi, ed io non posso a meno di non dare una pubblica testimonianza del dolor mio per la perdita di una sì degna persona, che meritava di vivere per l'esempio delle Mogli saggie, delle tenere Madri, e delle donne virtuose e prudenti.


come un valoroso ministro supplisce ai suoi doveri, senza intacco della coscienza. Questa è una Virtù, che Voi avete ereditata dal memorabile Genitor vostro, il quale trovatosi egli pure al suo tempo in grandiosi impieghi, in tali impieghi, ne' quali l'uomo facile può agevolmente arricchirsi, si è sempre contentato dell'onorata sua condizione, ed a Voi ha lasciato il dovizioso tesoro del buon esempio, e di una incorrotta pontualità. Felice il Mondo, se tutti gli uomini camminassero per questa strada, e lo farebbero forse, se coloro ai quali hanno consacrata la loro vita e il loro talento, riconoscessero il merito e l'integrità. È raro il caso accaduto all'Avolo vostro paterno, Medico celeberrimo, insigne, che ha meritato di essere distinto da Luigi XIV con privilegi, esenzioni e salvaguardie onorevolissime, a cui un Cavaliere riconoscente, in premio della cura ch'ei si era presa della sua salute, lasciò per legato la quarta parte del feudo di Villecloy. So benissimo che Voi non aspirate a grandezze, che siete contento dello stato vostro, comodo a sufficienza, che vi compiacete della pensione accordatavi dal vostro Sovrano per i servigi prestati al Ministero della Corona, che vi fregia e vi onora bastantemente l'origine della vostra casa, una delle più antiche e delle più onorevoli della Città di Stenay nella Provincia Chiaramontese, e che siete più contento di nominare a vostra elezione un Sacerdote ad una delle quattro Cappellanie, instituite da' vostri maggiori tre Secoli sono, che se aveste a disporre di cariche, e dignità, e ricchezze. Pregano per Voi i poveri dell'Ospitale di Stenay, per i quattro luoghi colà eretti dalla, vostra Famiglia, vi benedicono i Collegiali nell'Università di Pont à Mousson in Lorena, in pari numero, e per la stessa ragione; e duolsi solamente la Patria vostra, che Voi le abbiate preferito Parigi, e non occupiate in essa que' primi posti, che furono con tanto pubblico compiacimento dai vostri maggiori coperti. Se ne ricordano, li rammentano, vi sospirano. Vive tuttavia la memoria dell'esemplare, sapientissimo Sacerdote vostro Zio paterno, che amò meglio terminare i suoi giorni alla cura dette anime del suo Paese, anziché passare a Versaglies, all'onore di essere il Curato del Re, dove era stato degnamente promosso. Ecco quello che vi compiace, quello che Voi amate, e non lo strepito, la vanità e l'orgoglio. Voi menate la miglior vita del mondo, in mezzo alla tranquillità, al riposo; in mezzo a vostri libri, che sono le care delizie vostre.

Non potete però nascondervi, malgrado vostro, alla vista del Mondo; siete assai conosciuto per il vostro genio, per il vostro talento. Vi hanno saputo rinvenire i primi letterati del Mondo; gl'Italiani in specie, fra' quali il Marchese Maffei, e l'Abate Conti, Patrizio Veneto. A Voi sono state dirette varie lettere di erudizione. Le vostre traduzioni vi sono state carpite, e stampate. L'Accademie d'Italia vi vogliono a gara nel catalogo de' loro compagni. Gli Arcadi di Roma, i Pesaresi, gli Accademici Fiorentini, gli Apatisti, i Soci Colombari, gli Etruschi di Cortona, i Gelati di Bologna, i Quirini di Roma, vi chiamano suo, vi hanno scritto ne' loro ruoli. So che molte altre Accademie aspirano allo stesso avvantaggio; e Voi, che siete a Parigi il decoro della letteratura Italiana, sarete in Italia l'Accademico universale.

Io vi amo tanto, e vi stimo tanto, che vorrei potervi rendere quell'onore che meritate. Lo farei facilmente, se avessi l'arte, l'erudizione e il talento del facondo Oratore vostro Cugino, Canonico di Santa Geneviefa, Don Mario; ma troppo scarso è il mio sapere e la mia abilità, e quella poca ch'io ho, l'ho consacrata miserabilmente al Teatro. Che posso dunque compromettermi di me stesso, per darvi una qualche testimonianza del mio amore e del mio rispetto? Non altro che offrirvi un qualche frutto del mio giardino. Voi li conoscete; sono immaturi, son disgustosi, ma Voi li amate. Su via dunque, prendetevi questo, se non lo sdegnate; gradite questa Commedia, che io vi presento, e vi dedico, e vi raccomando. Il titolo, se non altro, vi darà piacere. Vi sarà caro il Padre amoroso, Voi che siete il più tenero, il più prudente Padre del Mondo; Voi che amate sì dolcemente il caro unico vostro Figlio, che nulla risparmiate per contribuire al suo bel talento, che l'avete formato sì docile, sì accostumato, e che sperate in lui solo la vostra vera consolazione. Un'altra ragione vi può rendere meno spiacevole questa Commedia: conoscerete in leggendola, ch'io ne ho tirato il fondo da una Commedia Francese. Non già che Voi amiate le cose Italiane meno delle Francesi, ma persuaso Voi pure, che non si possano trasportare di una nazione ad un'altra le opere come sono, vedrete lo studio ch'io n'ho fatto in questa, per adattare al gusto Italiano un argomento Francese.


Ma ora mi accorgo, che è più la giunta della derrata; questa mia lunga lettera vi darà più noia di quello vi possa dilettar la Commedia. Scusatemi. Quando parlo di Voi, non finirei mai di parlare. Pure vuole il dover ch'io finisca, e che vi protesti ch'io sono col più rispettoso ossequio

Di V. S. Illustriss.

Devotiss. Obbligatiss. Servitore Carlo Goldoni


L'AUTORE A CHI LEGGE

Io mi trovava in Parma, al servizio di quella Real Corte, quando da una buona Compagnia di Commedianti Francesi colà ho veduto rappresentare Cénie, Commedia di Madame de Graffigny; mi piacque assai di quest'opera l'argomento, il patetico, l'interesse, ed ho pensato di trasportarla sul mio Teatro. Ho preso lo scheletro, l'ho vestito all'Italiana, l'ho animato a mio genio, l'ho diretto altrimenti, e mi è riuscito una Commedia che ha fatto piacere al pubblico, ed ha procurato a me dell'onore. Fra gli altri episodi da me inventati, evvi quello di due persone rassomiglianti marcate principalmente dalla deformità de' loro nasi, e da altre circostanze della persona. A ciò mi ha dato motivo la raccolta famosa delle Cause celebri, conosciuta in Francia, e conosciuta in Italia per la traduzione. L'episodio di Donna Marianna, che forma il maggior intrigo, è intieramente di mia invenzione, ed è uno di quelli che fanno il maggior effetto. Ecco la terza Commedia, fra le tante da me composte, che ho preso in parte da altri. Quand'io lo faccio, lo dico liberamente; è lecito lavorare qualche volta sull'altrui fondo, ma convien dirlo, convien confessarlo, star lontano dall'impostura, darsi quel merito che ci appartiene, e non arrogarsi l'altrui, poiché, o presto, o tardi, la verità si manifesta, e se ne riporta il biasimo ed il disonore.

Dopo il Molière, questa è la prima Commedia in versi, che comparisce in questa Edizione. Nella lettera dedicatoria e nella prefazione che precedono la Commedia suddetta, ho esposto la ragione che mi ha indotto a tentar questo verso, ed i motivi che mi hanno obbligato a valermene mio malgrado in molte altre Commedie scritte posteriormente. Ho anche detto esser io d'opinione, che a parecchie di queste converrebbe meglio la Prosa, e che probabilmente, trasportandole nella nuova Edizione, le avrei in prosa trascritte. Questa però non è Commedia alla quale sconvenga. Ella è di quel genere che chiamano i Francesi du haut Comique, cioè un Comico elevato e nobile, e tutte le mie Commedie di cotal genere scritte in versi le lascierò come sono, trasportando in prosa le popolari, le quali riescono meglio nello stile famigliare e comune.

Personaggi

Don FERNANDO principe napolitano;

Donna ISABELLA figlia di don Fernando;

Donna MARIANNA in abito da viaggio;

Donna PLACIDA governatrice di donna Isabella;

Il duca don LUIGI nipote di don Fernando;

Il CAVALIERE ANSALDO fratello cadetto del Duca e nipote di don Fernando;

PAOLINA cameriera di donna Marianna, in abito da uomo;

FABRIZIO cameriere del cavaliere Ansaldo;

BELTRAME cameriere di don Fernando;

Don ROBERTO capitano;

PASQUALE vagabondo;

Un TENENTE della guardia;

Soldati che non parlano;

Un MARINARO che parla.

La Scena si rappresenta in Napoli.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera in casa di don Fernando.

Il cavaliere Ansaldo e Fabrizio cameriere.

CAV.                Fabrizio, a dirti il vero, non so quel ch'io mi faccia;

S'io rechi questo foglio, s'io il celi, o s'io lo straccia. Tu sai la mia passione, tu vedi il mio periglio. Vuò, prima di risolvere, sentire il tuo consiglio.

FAB.                 Caro signor padrone, dissimular non voglio.

È stato un gran disordine aprir codesto foglio. Vostra zia, poverina, prima della sua morte, Vi prega quel viglietto portare a suo consorte. Le date la parola, da cavalier qual siete, E poi, contro la fede, l'aprite e lo leggete? Io vi dirò, signore, qual soglio in confidenza, È stata una sonora poetica licenza.

CAV.                È vero, io non doveva aprir questo viglietto,

Ma non saprei l'arcano, s'io non l'avessi letto. Da Napoli partito l'altr'ieri per trovare La zia, senza il consorte, nel feudo a villeggiare, Da un mortale accidente la ritrovo assalita, Che in forse lungamente ci tien della sua vita. Sa che là mi condussi per questa causa sola, Per chiedere alla madre in sposa la figliuola. Da lei, che disponeva, sperai la grazia pronta, Sperai di conseguirla di mio germano ad onta; Che se per esso inclina della fanciulla il padre, Molto potea giovarmi il prevenir sua madre.

FAB.                 Prima ch'ella morisse, non le diceste niente?

CAV.                Sì, riavutasi un poco dal primiero accidente,

Qualche cosa le dico; al nome della figlia, Mirasi un mar di pianto grondar da quelle ciglia. Taccio per non vederla a terminar di vivere; Ella sospira e piange, e poi chiede da scrivere. Forma a stento il viglietto: il camerier chiamato, Fa che sia in sua presenza il foglio sigillato. Poscia a me lo consegna; mi prega a suo marito Recarlo, e poco dopo di vivere ha finito. Da un lato l'amor mio, dall'altro il suo dolore, Curiosità violenta fa risvegliarmi in cuore. Poteasi il di lei pianto creder materno affetto, Ma il sospirar tacendo mi dié qualche sospetto.


Dopo contrasti vari l'ho finalmente aperto,

E con mia maraviglia l'arcano ho discoperto.
FAB.                 Ed or che voi sapete quel che non sa nessuno,

Scommetto che di questo vorreste esser digiuno.
CAV.                Anzi esser può il mistero utile al mio disegno

Usando di tal foglio con arte e con ingegno.

Penso di custodirlo segretamente, e quando

Necessità mel chieda, mostrarlo a don Fernando.
FAB.                 Dunque è vano il consiglio, che mi chiedeste in pria.

CAV.                Sì, per or ti dispenso.

FAB.                                                   Grazie a vossignoria.

Spiacemi questa volta non poter lusingarmi,

Che come consigliere abbiate a regalarmi;

Ma tanto generoso suol essere il padrone,

Che lo potrebbe fare almen per l'intenzione.
CAV.                Tu sei un poco troppo avido del danaro;

Ma in grazia del tuo spirito ti soffro, e mi sei caro.

Prendi queste due doppie; nel mio novello impegno

Prepara all'occorrenza gli sforzi dell'ingegno.

Amo donna Isabella, ed è il cuor mio disposto

Tentar tutte le strade d'averla ad ogni costo.
FAB.                 Signore, io vi prometto l'usata fedeltà:

Parlate, e disponete della mia abilità.

Non isfuggir pericoli, non risparmiar fatica

Giuro per queste doppie, che il ciel le benedica.
CAV.                Cerca spiar, se quelli che fur d'intorno al letto

Della signora estinta, sappiano del viglietto.

Procuriam col danaro di guadagnarne alcuno.
FAB.                 Potrebbesi donare una doppia per uno.

Quattro servi donn'Anna avea per ordinario.

Io delle quattro doppie sarò depositario.
CAV.                Io voglio all'occorrenza spendere a larga mano,

Ma assicurati prima, se il mio sospetto è vano.
FAB.                 Per meglio assicurarmi, per far qualche esperienza,

Fatemi di quel foglio l'intiera confidenza.

Qualche cosa in confuso finor mi avete detto.

Per meglio illuminarmi, leggetemi il viglietto.
CAV.                Ecco, vuò soddisfarti; odi quel che contiene...

Ma il principe Fernando sollecito sen viene.

Parti e lasciami seco.
FAB.                                                   Fidatemi quel foglio.

CAV.                No, per ogni occorrenza privarmene non voglio.

Vanne pur.
FAB.                                    Sì signore. Vo a spiare attento,

Se nulla di tal fatto a mormorare io sento.

Tornerò per le doppie, quando vi sia il perché.

(Se per altri non servono, han da servir per me). (da sé, indi parte)

SCENA SECONDA


Il cavaliere Ansaldo, poi il Principe don Fernando e Beltrame.

CAV.                Spenderei la mia vita pel mio cocente amore.

Tentisi pria di tutto di don Fernando il cuore.
FER.                  Cavalier, mi vien detto che, pria della sua morte,

Un foglio abbia vergato donn'Anna mia consorte;

E a voi, che per ventura foste colà arrivato,

Abbia, acciò mel recaste, quel foglio consegnato.
CAV.                È ver, la zia tremante dopo il primo accidente,

Per voi formò un viglietto; lo diede a me presente.

Ma il foglio mi richiese, meno dal male oppressa,

Dicendo a mio consorte spero parlare io stessa.

Lacerando lo scritto, seco a partir m'invita,

Ma da un nuovo accidente la misera è colpita.

Chiede a cenni da scrivere, la carta a lei si porta,

La man più non si regge, e in breve tempo è morta.
FER.                  Infelice consorte! il ciel me l'ha rapita,

Senz'avermi vicino al fin della sua vita.

Mi amò dal primo istante che a me divenne sposa,

Per tutti i giorni suoi fu sempre a me amorosa.

Perderla non credeva sì presto, e sì repente;

Sono e sarò per questo più misero e dolente.

Chi sa che volea dirmi la sposa sventurata?

Aveste in pezzi almeno la carta a me recata!
CAV.                Allor non si è pensato che a procurarle aita;

Per un secondo messo la nuova ho a voi spedita.

Credei colà vedervi, ma lo sperar fu vano.
FER.                  Era per mia sventura vicino al mio Sovrano.

Pria di vedere il messo, pria di esser congedato

Giunse la notte, e seppi l'evento sfortunato.

Ora l'andar che giova dell'infelice accanto

Il cadavere freddo a inumidir col pianto?
CAV.                Sono i sudditi vostri, i vostri servi e amici

Pronti per onorarla ai più divoti uffici.

La virtù vi disponga a serenar le ciglia,

La perdita ristori l'amor di vostra figlia.
FER.                  Sì, quest'unico frutto del marital mio letto

È l'unico conforto, che mi rimane in petto.

Dolce, cara Isabella, figlia di genitrice

Con cui, vivendo in pace, passai vita felice;

Per essa raddoppiati saran gli affetti miei

Mirando il cuor dolente la genitrice in lei.
CAV.                Signor, ella è già nubile; se tal dite d'amarla,

Pria di mancar voi stesso, pensate a collocarla.
FER.                  Ci penserò.

CAV.                                   Signore, le preci sue divote

Vi offre per ottenerla un ch'è vostro nipote.
FER.                  Chi? Il duca don Luigi?

CAV.                                                        No, non è il fratel mio

Che vi chiede la figlia, no, mio signor son io.


FER.                  Nipote, perdonatemi, recami maraviglia

Che da un secondogenito si chieda una mia figlia.

Un cavalier cadetto, un che deve avanzarsi

Nei gradi militari, non pensa a maritarsi.
CAV.                Contro di una tal legge parlar mi sia permesso.

Siam, mio germano ed io, nati da un sangue istesso:

È un semplice accidente, che sia sortito al mondo

Nella medesma culla un primo ed un secondo.

Oltre di ciò, mio padre con amorosa cura

Fece a mio pro una pingue seconda genitura.

Al mestier della guerra, è ver, fui destinato,

Ma posso viver bene senz'essere avanzato.

Né curo che si legga nella futura istoria:

Il cavaliere Ansaldo è morto per la gloria.
FER.                  Nipote, a un vostro pari meglio pensar conviene;

Degli uomini ben nati la gloria è il solo bene.

A voi ed al germano varia i pesi la sorte;

Voi servite alla guerra, egli fatica in Corte.

L'una e l'altra incombenza, se si riflette, è uguale;

È il ben, che ne deriva, proporzionato al male.

Della guerra i disagi sono pesanti, è vero,

Ma ha poi lunghi respiri il militar mestiero;

Ed il servire in Corte, che par men faticoso,

Si rende con il tempo stucchevole e noioso.

Ancor nei vari stati proporzïon si dà,

Chi ha moglie ha maggior comodi, chi è solo ha libertà;

E giudicar vi lascio, se rechi maggior pena

La privazion di sposa, o il don di una catena.
CAV.                Io vuò da me medesimo eleggere il mio stato.

Rinunzio a chi li apprezza i beni del soldato.

Posso anch'io da me stesso formare una famiglia.
FER.                  Sì, formatela pure; non già colla mia figlia.

CAV.                Lo so che destinate di darla a mio germano,

Ma ch'io lo vegga e taccia, vi lusingate invano.

Anch'io posso offerirvi senza arrossire un nodo;

Ed ho, se il ricusate, di vendicarmi il modo.
FER.                  Nipote, meno altero parlarmi io vi consiglio.

Cauto evitar pensate di perder il periglio.
CAV.                Amor mi rende ardito. Voi mi sprezzate a torto.

Da un zio, da un mio germano, gl'insulti io non sopporto.

Signor, perdon vi chiedo. Non manco al mio rispetto.

Vi sarà noto un giorno quel ch'ora chiudo in petto. (parte)

SCENA TERZA

Don Fernando e Beltrame.

FER.                  Udisti il Cavaliere? Parla di suo germano

Che a una dama in Messina promessa avea la mano.


Non sa che il Duca istesso a me lo ha confidato,
Non sa che col mio mezzo fu sciolto e liberato,
E che, per la mia figlia se nutre un vero affetto,
Può sperar di ottenerla, distrutto un tale obbietto.
Lo stesso don Luigi non l'ha saputo ancora,
Venute di Sicilia le lettere già un'ora.
E pria ch'egli lo sappia, vuò esaminar quel core,
Assicurarmi io voglio, se spento è il primo amore.
BEL.                 Donna Isabella e il Duca si amano tutti due;

E ognuno a maraviglia sa far le parti sue. Don Luigi sorride, quando la dama il mira, E quando egli la guarda, la giovane sospira. Vuol dir, quand'ei sorride: Provo in amor diletto. Sospirando ella dice: Ah, quel momento aspetto.

SCENA QUARTA Il Duca don Luigi e detti.

FER.                  Eccolo il buon nipote. Giovine saggio, e degno

Di posseder mia figlia, di regolare un regno.
LUI.                  Signor, deh serenatevi: è ver ch'invida morte

La compagnia vi tolse di amabile consorte;

Anch'io per cotal perdita piansi e mi dolsi tanto,

Ma ha i suoi confini il duolo, e dee cessare il pianto.

La virtù ci soccorra, e vaglia la ragione,

Che l'uom dee rassegnarsi allor che il ciel dispone.

Voi avete una figlia che per la madre spenta

Si macera nel duolo, si crucia e si tormenta.

Calmar donna Isabella or sia l'impegno nostro;

Scemerà il suo dolore, se moderate il vostro.
FER.                  Ah sì, tutti i miei sforzi farò per consolarla

Povera figlia mia! Mandiamo ad invitarla.

Vanne a donna Isabella, sappia ch'io qui la bramo. (a Beltrame, che parte)

L'amai teneramente, or con più forza io l'amo;

E della cara sposa la perdita sopporto,

Trovando in questa figlia la pace ed il conforto.
LUI.                  Ella merita in vero di un genitor l'affetto,

Pieno ha il cor di virtude, e di dolcezza il petto.
FER.                  È ver: donna Isabella è saggia ed amorosa.

Indegna non mi sembra di essere vostra sposa.
LUI.                  Signor, con tal compagna sarei lieto e felice;

Ma ancor tanta fortuna sperare a me non lice.

L'amo teneramente, quanto amar si può mai;

Amor di lei mi accese dal dì ch'io la mirai.

Misero me, che tardi tornato in questo regno,

Piansi con altra donna il già contratto impegno.

Vi confidai l'arcano che mi agita e mi affanna.

Vi è noto ch'io promisi sposar donna Marianna:


Dama povera, è vero, orfana messinese,

Che nell'età mia tenera del primo amor mi accese.

Misero! non avessi Messina unqua veduta,

Che non avrei sì presto la libertà perduta.

Poteva il padre mio, là a comandare inviato,

Avermi fra i congiunti in Napoli lasciato.

Quante sventure unite! la vita il genitore

Perduta ha in quel governo, ed io perduto ho il cuore.

FER.                  Di rendervi giulivo più differir non voglio.

La libertà perduta vi rendo in questo foglio. Obbediente la figlia al zio che le comanda, Rinunzia ad ogn'impegno, lo scritto vi rimanda Ed io, per lor mercede, procurerò di cuore Ch'ella sia fatta sposa, ed ei governatore.

LUI.                  Ah signor, tal notizia mi anima e consola.

Quanto a voi son tenuto!...

FER.                                                             Ecco la mia figliuola.

SCENA QUINTA Donna Isabella, donna Placida e detti.

FER.                  Venite alle mie braccia, figlia diletta e cara;

Non vuò vedervi in volto segni di doglia amara.

Chi più di me dovrebbe lagnarsi del destino?

Ma se natura ascolto, me alle sue leggi inchino.

E voi, dopo aver tanto pianta l'estinta madre,

Ora pensar dovete a consolare il padre.
ISA.                  Lo farei se potessi, ma son dolente ancora.

PLA.                 È di cuor tenerissimo la povera signora.

Tento ogni strada invano di serenar quel ciglio.
FER.                  Della governatrice seguite il buon consiglio;

So pur che voi l'amate quanto la madre istessa.
ISA.                  Qual per la madre or piango, io piangerei per essa.

LUI.                  Dolce amabile cuore non sa frenare il duolo.

FER.                  Isabella, appressatevi, che sì che io vi consolo?

So che nel vostro petto, oltre l'amor materno,

Arde segretamente un dolce foco interno.

Cara, non arrossite, non vi coprite il volto:

L'ardor non disapprovo, che avete in seno accolto.

Anzi amar don Luigi vi esorto e vi consiglio:

Amatelo qual sposo; l'amo anch'io come figlio.
LUI.                  Deh, gradite i sinceri teneri affetti miei. (a donna Isabella)

FER.                  Via, parlar vi concedo. (a donna Isabella)

PLA.                                                      Parlerò io per lei.

ISA.                  No, di tacer vi prego. (a donna Placida)

PLA.                                                   Non può spiacervi, io spero, (a donna Isabella)

Malgrado a un bel rossore, che si confessi il vero.

Signor, la giovinetta dal dì che al mondo è uscita (a don Fernando)


Finor per bontà vostra da me fu custodita.

Ella serbò mai sempre la candida innocenza,

Facendo suo diletto la pace e l'obbedienza.

Gli occhi di don Luigi ebbero tal valore,

Che penetraro a forza della fanciulla il cuore.
ISA.                  O Placida indiscreta!

PLA.                                                   A me così parlate?

Indiscreta a chi v'ama?
ISA.                                                       Per pietà, perdonate.

FER.                  Se il genitor l'accorda, vada il rossore in bando.

ISA.                  Permettete ch'io parta.

FER.                                                       Restate, io vel comando.

ISA.                  Madre mia, soccorretemi. (a donna Placida)

PLA.                                                            Figlia diletta, usate

Nell'obbedire al padre quella virtù che amate.

È la modestia un dono, che in pochi oggi si vede;

Ma perde anch'essa il merto, quando i confini eccede.

Dir che amate ad ogn'altro troppo sareste ardita;

Ma confessarlo al padre ogni ragion v'invita.

Egli sul vostro cuore ha un dritto di natura,

E nascondendo il cuore, tal dritto a lui si fura.

Son due virtù gemelle rispetto ed obbedienza.

Ora parlar dovete del padre alla presenza.
ISA.                  Ma non è solo il padre. (a donna Placida)

PLA.                                                      Ah sì. Ha ragion, signore;

Non può, il Duca presente, parlar senza rossore.
FER.                  Bella innocenza amabile!

LUI.                                                             Signor, quella virtù

Che a tacer la consiglia, favella ancora più.

A parlar non si sforzi la giovane innocente;

L'occhio è assai più del labbro sincero ed eloquente.

Prova maggior d'affetto dai labbri suoi non bramo,

Se cento volte e cento l'occhio mi disse: io t'amo.
PLA.                 Signore, è in piacer vostro che andiamo a ritirarci? (a don Fernando)

LUI.                  Perché partir sì presto? perché di voi privarci?

PLA.                 Perdonate, di grazia, non è la mia signora

Avvezza a trattenersi in pubblico a quest'ora.

Qui vien di molta gente, e vuol la convenienza

Ch'ella non sia veduta. Andiam. (a donna Isabella)
ISA.                                                                      Con sua licenza. (alli due, inchinandosi)

FER.                  Dove la condurrete? (a donna Placida)

PLA.                                                   A lavorar, signore;

Andrà co' suoi ricami contenta a passar l'ore.

A trapuntare è intenta candida tela e fina,

Che presentare in dono al genitor destina.
FER.                  Grato mi è l'amor vostro, ma un sì gentil ricamo

Veder più giustamente a collocare io bramo.

Offrite il bel lavoro, con animo amoroso,

Al duca don Luigi, ch'è giovane e ch'è sposo.

Siete di ciò contenta? (a donna Isabella)
LUI.                                                    Volete voi ch'io speri? (a donna Isabella)


PLA.                 Ma su via, rispondete. (a donna Isabella)

ISA.                                                       Sì signor, volentieri. (parte)

PLA.                 Con licenza, signore. (inchinandosi per partire)

FER.                                                    Di quel piacer ch'io godo

Nell'ammirar la figlia, la sua tutrice io lodo. (a donna Placida)
PLA.                 Quella bontà di cuore grazia è del ciel soltanto.

Se buona è per natura, signor, non è mio vanto.

Ho fatto il dover mio, quanto ho potuto almeno;

E se ne abbiamo il frutto, il merto è del terreno. (parte)

SCENA SESTA

Don Fernando e don Luigi.

FER.                  La povera mia sposa, prudente genitrice,

Dar non potea alla figlia miglior governatrice.
LUI.                  Parmi civil, ben nata.

FER.                                                    Moglie è d'un capitano,

Don Roberto chiamato, che serve il rege ispano.

All'Indie fu spedito fra gli altri militanti,

E gravida lasciolla, saran degli anni tanti.

Di lui nuova non s'ebbe dopo la sua partita;

Non si sa se sia morto, o se ancor duri in vita.

Dolente donna Placida, soletta e abbandonata,

Fu dalla moglie mia per grazia ricovrata.

Vissero poi fra loro con vero amor fraterno,

E della figlia nostra a lei diede il governo.
LUI.                  Non m'ingannai nel crederla d'un'estrazion civile.

FER.                  Per educar fanciulle, donna non v'ha simile,

Saggia, prudente, accorta, provida ed amorosa.
LUI.                  Desio ch'ella rimanga vicina alla mia sposa.

In nome mio vi prego, fatele il dolce invito.
FER.                  Ne proveranno entrambe un giubbilo infinito.

Seco è avvezza mia figlia, dal dì che al mondo è nata;

Con amor donna Placida la giovane ha educata.

E in loro scambievole non dirò sol l'affetto,

Ma in giusta proporzione la stima ed il rispetto.
LUI.                  Sortì donna Isabella ottima inclinazione,

Ma l'opera ha compita la buona educazione.

Voi nella figlia avete ricco tesor celato,

Ed io di possederlo son lieto e fortunato. (parte)

SCENA SETTIMA Don Fernando solo. Fin che Isabella è meco, tutto l'amor m'impegna


Di sposo sì gentile a renderla più degna;

Ed uso cautamente col docile suo cuore

Ora la tenerezza, ed or qualche rigore.

Fin che la pianta è tenera, dei turbini all'insulto

Basta un picciol sostegno per reggere il virgulto.

Ma se in tortuosa piega l'arbore sia cresciuto,

Riesce per raddrizzarlo difficile l'aiuto.

I figli in ogni grado non riescono migliori,

Per colpa, per inganno, talor dei genitori.

Più d'ogni altro precetto, giova il paterno esempio,

E fa l'amor soverchio di un innocente un empio.


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Porto di mare con vari navigli, fra' quali una feluca arrivata di fresco, da dove sbarcano marinari e

passeggieri, e fra questi Donna Marianna, Paolina vestita da uomo, e don Roberto.

MARI.              Ditemi, galantuomo. (ad un Marinaro)

MAR.                                                  Comandi, mia signora.

MARI.              Napoli avete in pratica?

MAR.                                                        Me ne ricordo ancora.

MARI.              Il duca don Luigi, signor di Ventimiglia,

Lo conoscete voi?
MAR.                                               Conosco la famiglia.

MARI.              Ite a cercar di lui. Ditegli, che il piacere

Desia di riverirlo al porto un forestiere.

Non dite che sia donna quella che lo domanda.

Posso di voi fidarmi?
MAR.                                                     Farò quel che comanda. (parte inchinandosi)

ROB.                 Servo a donna Marianna; con vostra permissione,

Vo a rintracciar, s'io posso, comoda abitazione.
MARI.              Itene, don Roberto, a far quel che vi aggrada.

PAO.                 E noi alloggieremo in mezzo ad una strada?

MARI.              Ritroverem noi pure per ricovrarci un tetto,

Ma don Luigi in prima di rivedere aspetto.
PAO.                 Veder non lo potrete in un albergo ancora?

MARI.              Se il marinaro il loco non sa di mia dimora,

Come vuoi tu che seco conduca il cavaliere?
PAO.                 Può intanto don Roberto l'albergo provvedere.

Già, se vien don Luigi, credo sarà tutt'uno,

E resteremo entrambe a stomaco digiuno.
MARI.              Per me penso altrimenti; però son persuasa,

Che abbiaci don Roberto a provveder di casa.
ROB.                 Lo farò volontieri, giacché la sorte mia

Mi fe' goder nel viaggio la vostra compagnia.

È giusto che m'impieghi per voi con diligenza,

Se degno mi faceste di vostra confidenza.
PAO.                 Per noi fu una fortuna trovare in quel naviglio

Un uomo, come voi, di senno e di consiglio.

In verità là dentro, senza d'un uomo allato,

Di due femmine sole non so che saria stato.

Per servir la signora, cambiai le vesti e il nome,

Ma mi conobber subito, e non saprei dir come;

Un capitano inglese, pieno di carità,

Scherzando del suo letto mi offerse la metà.


I marinari accorti, bricconi, galeotti, Mostrando non conoscermi, mi dier dei pizzicotti. E senza don Roberto, che alfin mi ha preservata, Affé, quei malandrini mi avrian precipitata.

ROB.                 Servire ad una dama accolto ho con piacere;

Con lei, colla donzella ho fatto il mio dovere. Ora, per grazia vostra fidandovi di me, Saprò comodo albergo cercar per tutti tre.

MARI.              Sì, cercatelo pure.

PAO.                                                Di Napoli voi siete;

Casa in Napoli aveste, ed or più non l'avete?

ROB.                 Son tre lustri passati, che fuor dalle mie soglie

Non ho notizia alcuna nemmen della mia moglie. Ora dal Nuovo Mondo, dove finor son stato, Sono improvvisamente in Napoli tornato. Placida, mia consorte, chi sa dove dimora? In qual stato si trovi, e s'è più viva ancora? Nel coniugale albergo, là dove io la lasciai, So che più non dimora; di ciò me n'informai. Napoli è città grande, qua non si può la gente, Senza saper il sito, trovar sì facilmente. Onde cercar di lei dovrò di porta in porta, Per giungere a sapere s'ella sia viva o morta.

PAO.                 In un simile dubbio che dice il vostro cuore?

ROB.                 Della mia ingratitudine si desta in me il rossore.

Ebbi una saggia moglie da me non meritata, E troppo ingratamente un dì l'ho abbandonata. Soffrì pazientemente ch'io gissi a lei lontano, Nel militare impiego servendo il mio sovrano. Ma in qualunque distanza, nel Nuovo Mondo ancora, Notizia lusingossi aver di mia dimora. In età giovanile, senza la sposa allato, Di lei poco mi calse, di lei mi son scordato. Ora in patria tornando, il mio dover rammento, L'error, l'ingratitudine detesto, e me ne pento. Bramo trovarla in vita, per chiederle perdono. Temo a lei presentarmi, un infedel qual sono; Ma se non ha cangiato la mia diletta il cuore, Mi accoglierà, son certo, con tenerezza e amore. (parte)

SCENA SECONDA

Donna Marianna e Paolina.

PAO.                 Ecco il costume solito di questi uomini ingrati:

Di noi presto si scordano, due passi allontanati. E poi quando ritornano i perfidi bricconi, Pretendono che tutto si scordi, e si perdoni. E voi siete sì buona d'amar quell'animale,


Che fa dell'amor vostro sì poco capitale?
MARI.              Chetati, Paolina, se compiacer mi brami.

A te non dissi ancora, s'io l'ami o s'io non l'ami.

    stessa non intendo se mi consigli amore,
Ma a rintracciar l'ingrato mi stimola l'onore.
Cedute le ragioni, per forza altrui soggetta,
Vengo a chieder giustizia, o a procurar vendetta.

PAO.                 Da chi sperar potete ragione ai torti vostri?

Gli uomini in certi incontri son tutti amici nostri;

Ma quando che si tratta d'usarci un'ingiustizia,

Per farci disperare han l'arte e la malizia.

Se comandasser donne, son certa e son sicura,

Che saria condannato il Duca a dirittura.

Ma nelle man degli uomini il comandar ridotto,

Vogliono che sian sempre le femmine al di sotto.

MARI.              Io mi lusingo ancora, nell'appressarmi ad esso,

Fatta mi sia giustizia da don Luigi istesso. Docile ed amoroso lo riconobbi allora: Tal, se mi vede, io spero di ritrovarlo ancora. Sarà da' suoi congiunti forzato abbandonarmi, Lettera ei non mi scrisse, che vaglia a disperarmi; Onde, qual io forzata finsi troncar l'impegno, Forse è costretto anch'egli a tollerar con sdegno. Vede la mia rinunzia, ed il mio cuor non vede; Può perciò condannarmi anch'ei di poca fede. Vengo a disingannarlo. Vengo, s'egli ama e teme, Le sue, le mie ragioni a sostenere insieme.

PAO.                 E se lo ritrovaste d'altra beltà invaghito?

MARI.              Del tradimento indegno lo ridurrei pentito.

PAO.                 Come?

MARI.                           Come, mi chiedi? Tu sai qual esser soglio,

Allor che sostenere le mie ragioni io voglio. Se abbandonai la patria, se ardii fuggir di mano Agli avidi congiunti, non l'avrò fatto invano. Or che il più ho cimentato, il meno che mi resta È una misera vita, e arrischierò ancor questa. Favola son del mondo, e di vedere aspetta L'una e l'altra Sicilia da me la mia vendetta.

PAO.                 Una cosa vuò dire, poi taccio ed ho finito:

Dubitate in Messina trovare altro marito?

MARI.              Non sai che al sangue illustre, da cui son derivata,

Troppo mal corrisponde la mia fortuna ingrata? Che l'avolo paterno in Corte ha consumato

    ricco patrimonio, ministro sfortunato?

E che a servir costretto il padre mio fra l'armi, Morì senz'aver modo nemmen di collocarmi? Lo zio, povero anch'egli, di me soffrì lo scherno, Per ottener la grazia d'un misero governo. Ed io che la mia sorte sperai veder cangiata, Or sono all'interesse dal zio sacrificata. Dove trovar potrei, in questo o in altro regno,


Del duca don Luigi sposo di me più degno? Nato di sangue illustre, adorno di ricchezza, Giovine che il talento accoppia alla bellezza, Congiunto in parentela ai principi maggiori, Che avrà dal suo sovrano le cariche migliori. Ed io che per fortuna l'avvinsi ai lacci miei, Cederlo sì vilmente, e perderlo dovrei? Morir, morir, più tosto che ritornar meschina Senza l'illustre sposo a riveder Messina.

PAO.                 Non so che dir, signora, vi do ragion davvero.

Voglia il ciel ch'ei vi sposi.

MARI.                                                            Sì, conseguirlo io spero.

PAO.                 Ecco qui il marinaro.

SCENA TERZA

Il Marinaro e dette.

MARI.                                                Sì presto a noi tornato? (al Marinaro)

MAR.                Poco di qua lontano il Duca ho ritrovato.

MARI.              Dove?

MAR.                             Nel suo palazzo, tanto al porto vicino,

Che a lui da dove siamo brevissimo è il cammino.

Pria di me una carrozza vidi colà arrivata;

M'informai ch'era desso, gli feci l'imbasciata.

Dissemi: il forastiere da me può favorire.

Gli risposi: Dal porto per or non può partire.

Stette sospeso un poco, un giovane chiamò,

Poscia mi disse: Andate, ditegli ch'io verrò.
MARI.              Ebbe verun sospetto?

MAR.                                                  Zitto, signora, osservo

Quel giovane venire, ch'io credo un di lui servo.
MARI.              Itene, e per mercede questo danar tenete.

MAR.                Sarò ai vostri comandi ognor che mi vorrete. (parte)

MARI.              Ritiromi in disparte; non voglio esser veduta.

Parla tu con il servo, da lui non conosciuta.

Poscia a dirmi verrai qual sia la commissione,

Onde il servo del Duca mandato è dal padrone.

Se l'uopo nol richiede, non iscoprire il sesso:

Fingiti il cavaliere che ha da parlar con esso.

Odi se don Luigi quivi aspettar dobbiamo,

E se venir non degna, a ritrovarlo andiamo.

Nulla tentar ricusa, chi tutto ha già perduto;

E dall'ardir soltanto posso sperar aiuto. (si ritira)

SCENA QUARTA


Paolina, donna Marianna ritirata, poi Beltrame.

PAO.                 Ella per i suoi fini arde d'amore e sdegno,

Ed io per compiacerla mi trovo in un impegno.

Posso passar per uomo solo coi ciechi e i sciocchi:

Noi donne ci conoscono al volto ed ai ginocchi.
BEL.                 (Altri che lui non vedo; al sito ed all'aspetto,

Esser questi dovrebbe). (osservando Paolina)
PAO.                                                      (Che gentil giovinetto!) (osservando Beltrame)

BEL.                 Non vorrei prender sbaglio. (a Paolina)

PAO.                                                               Siete voi servitore

Del duca don Luigi?
BEL.                                                   Servo un altro signore,

Ma per la parentela anch'egli mi comanda,

E a veder chi lo cerca, sollecito mi manda.
PAO.                 Son io, che lo desidera.

BEL.                                                         Da un affar trattenuto,

Mandami a chieder scusa, se ancor non è venuto.

A ber la cioccolata se vuol restar servita,

Di cuore il signor Duca in casa sua l'invita.

Ma quando ella non voglia partir da questo loco,

Verrà le sue premure ad ascoltar fra poco.
PAO.                 Non posso discostarmi per or dalla feluca;

Attenderò più tosto mi favorisca il Duca.
BEL.                 Ella prenda il suo comodo.

PAO.                                                            Ditemi, bel garzone,

Se non servite il Duca, e chi è il vostro padrone?
BEL.                 Il prence don Fernando, che avendo una figliuola,

Presto farà di due una famiglia sola. (Donna Marianna si fa vedere)
PAO.                 Sposerà don Luigi di un principe la figlia? (con calore)

BEL.                 Sì signor; per che causa far tanta maraviglia?

MARI.              (Misera me, che sento? Ah, mi tradì l'indegno.

Deggio tacer per ora, deggio frenar lo sdegno). (da sé, in disparte)
PAO.                 Ditemi, a queste nozze il Duca è violentato?

BEL.                 Oh, non signore, è bella, ed ei n'è innamorato.

PAO.                 (Oh povera padrona!) Quando concluderanno

Questi loro sponsali?
BEL.                                                      Prestissimo faranno.

Ella non vede l'ora, per quello che si dice;

E so che la sollecita la sua governatrice.
PAO.                 La sposa non ha madre?

BEL.                                                         No, le morì ch'è poco,

E certa donna Placida sta di sua madre in loco.
PAO.                 Placida? (con maraviglia)

BEL.                              Sì, signore. Ciò pur gli sembra strano?

PAO.                 Codesta donna Placida ha il marito lontano?

BEL.                 Non sol da lei lontano di Placida è il marito,

Ma non sa s'egli viva, o pur s'ei sia perito.

Lo conosce, signore?
PAO.                                                   Dite, sapreste come

Chiamasi il di lei sposo?


BEL.                                                         So che Roberto ha nome.

PAO.                 (Bellissima davvero! in modo inaspettato

Il capitan Roberto la moglie ha ritrovato). (da sé)
BEL.                 Forse ha di lui notizia?

PAO.                                                      Sì, in Napoli si trova.

BEL.                 Cospetto! donna Placida giubbilerà a tal nuova.

Dov'è? quando è venuto?
PAO.                                                         Di Napoli testé

Giunse ancor egli al porto, in compagnia di me.

Dall'Indie è ritornato, mi confidò ogni cosa,

E smania per trovare in Napoli la sposa.
BEL.                 Dove poss'io vederlo?

PAO.                                                      Ei stesso in questo loco,

Se attenderlo volete, ritornerà fra poco.

In traccia di un albergo andò quivi d'intorno.
BEL.                 A me son tutti noti gli alberghi del contorno.

Vuò veder se lo trovo. Lo condurrò alle soglie

Io stesso del padrone a riveder la moglie.

Per lei ch'è tanto buona, vuò prendermi l'impegno;

Per conoscerlo meglio, mi favorisca un segno.
PAO.                 È un uom di mezza taglia, che ha un segno assai visibile,

Avendo un bel nasone, grossissimo, terribile:

Ha un porro in una guancia, ed un vicino al mento,

Onde si può conoscere, se fosse ancora in cento.

Egli di bianco e rosso veste alla militare;

E il bastone e la spada è solito portare.
BEL.                 Colla governatrice un merito vuò farmi,

Da lei con il consorte andando a consolarmi.

Ella in casa può molto, ed io mercé di lei

Posso assai migliorare negl'interessi miei.

Bramo la nuova sposa per camerier servire.

E spero col suo mezzo la grazia conseguire.
PAO.                 Siete voi ammogliato?

BEL.                                                      Sono libero ancora.

PAO.                 Vorrete accompagnarvi?

BEL.                                                         Chi sa? ma non per ora.

PAO.                 Avete innamorate?

BEL.                                                Signor, veggo fermarsi

La carrozza del Duca. Fin qui non può inoltrarsi.

Vuol venire a incontrarlo, o vuol che venga qui?
PAO.                 (Guardando prima verso donna Marianna)

Ditegli ch'io l'aspetto.
BEL.                                                      Subito, signor sì.

Vossignoria non vada lontan da questa riva,

Perché possa conoscerla il Duca, quando arriva.

Intanto don Roberto vuò rinvenir, s'io posso:

Fermerò tutti quelli che avranno il naso grosso. (parte)

SCENA QUINTA


Paolina e donna Marianna.

PAO.                 Udiste?

MARI.                           Il cavaliere ricevere tu dei:

Principia destramente parlar de' fatti miei.

Fingiti un mio congiunto, a lui da me mandato

A chiedergli ragione d'avermi abbandonato.

Sentiam dalla sua voce, se meco è sconoscente,

O se udendo il mio nome, quel perfido si pente.

S'egli ti parla ardito, rispondi con orgoglio.
PAO.                 Signora voi volete mettermi in un imbroglio.

MARI.              Non dubitar di nulla, ch'io veglierò in disparte.

Usa, per compiacermi, usa l'ingegno e l'arte.

Vedo venir l'ingrato. M'accende il mio furore;

Ma pria d'usar lo sdegno, vuò discoprir quel core. (si ritira)
PAO.                 Eh, per la mia padrona veggo l'affar finito.

Che può sperar dal Duca d'altra beltà invaghito?

Eccolo; pagherei non essermi impicciata,

Ma se di no le dico, la veggo indiavolata.

Basta, quel che ho da fare lo spiccio presto presto;

Ed a lei, se m'imbroglio, lascio compire il resto.

SCENA SESTA Il Duca don Luigi, Paolina, e donna Marianna ritirata.

LUI.                  Eccomi a voi, signore. Abbiatemi scusato

Se udire i cenni vostri finora ho ritardato.
PAO.                 Della vostra bontade, signor, vi son tenuto.

Siete bastantemente sollecito venuto.
LUI.                  Che avete a comandarmi?

PAO.                                                            Signor, compatirete

Se ardisco incomodarvi...
LUI.                                                             Posso saper chi siete?

PAO.                 Un cavalier io sono di patria messinese.

LUI.                  Patria a me lungo tempo affabile e cortese,

Di cui scordar non posso ogni favore antico,

E ogni suo cittadino dee ritrovarmi amico.
PAO.                 Lo so che di godervi Messina ebbe l'onore;

So che là principiaste accendervi d'amore;

E che nella mia patria vive la fortunata

Che con dolci catene vi ha l'anima legata.
LUI.                  Sono i teneri amori comuni all'età nostra.

Favoritemi il nome della famiglia vostra.
PAO.                 Son io don Paolino conte dell'Infantado,

E di donna Marianna cugino in primo grado.
LUI.                  Ho l'onor di conoscere questa illustre famiglia,

Fra le più rinomate del Regno di Castiglia;


Godo veder in voi di quella un discendente, E di donna Marianna un nobile parente. Qual affar vi conduce di Napoli alle mura?

PAO.                 L'affar, per dire il vero, piuttosto è di premura.

Di mia cugina in nome vengo a dirvi, o signore, Ch'ella intende il possesso aver del vostro cuore.

LUI.                  Tardi, amico, giugneste. Il foglio lacerato

Libero già mi rese, e ad altra io fui legato. Se dello zio il consiglio meno poteva in lei, Mancare alla promessa ardito io non avrei. Ma senza poter essere di mancator tacciato, Dalla di lei condotta son io giustificato.

PAO.                 La misera ingannata fu per altrui malizia;

Se siete un galantuomo, fatele voi giustizia.

LUI.                  Signor, se da servirvi altro non ho che in questo,

Con voi più lungamente a ragionar non resto.

PAO.                 Si vede ben, che siete... un mancatore ingrato.

LUI.                  Non tollera gl'insulti un animo onorato;

E voi che m'ingiuriaste sulla pubblica strada, Rendetemi ragione del torto colla spada.

PAO.                 Colla spada? Signore, voi non mi conoscete.

Tornate con più comodo, se battervi volete.

LUI.                  Già vi conobbi al volto, siete un'anima vile.

PAO.                 Non mi credea sì presto di muovervi la bile.

SCENA SETTIMA Donna Marianna in disparte, e detti.

LUI.                  Ite donde veniste. Dite a donna Marianna,

Che dopo una rinunzia a torto mi condanna.

Che si scordi per sempre d'un foglio lacerato.
PAO.                 (Ecco qui la padrona). Sì, cavalier malnato. (arditamente)

LUI.                  Il temerario insulto mi provoca allo sdegno. (impugna la spada)

PAO.                 (Si ritira)

MARI.              Barbaro, de' tuoi colpi sia questo petto il segno.

A me volgi quel brando, che l'onor mio ferisce.

Marianna a te presente, perfido, ti smentisce.

No, non è ver che sciolto sia da' miei lacci il cuore;

Mi ha la rinunzia indegna carpita un traditore.

Contro i miseri oppressi regna la forza in terra;

Ma la giustizia in cielo anche i giganti atterra.

So che de' miei nemici l'arte, il poter, l'orgoglio,

Impedirà che io giunga d'un Re clemente al soglio,

Ma ovunque io lo rincontri fuor della regia sede,

Sulla pubblica strada mi getterò al suo piede;

Né valerà degli empi la perfida malizia,

A far ch'io non implori dal suo bel cuor giustizia.

Ecco a te discoperto il mio pensiero ascoso:


Vengo del mondo in faccia a disputar lo sposo

Tal mi ti rese un giorno d'amor dolce saetta,

Ora tal mi confermi la forza e la vendetta.

Su via, se hai cuore in petto, fa ch'io mi sforzi invano:

Tronca le mie speranze, or che hai la spada in mano.

Ferisci questo petto, perfido traditore,

La crudeltà trionfi, se non trionfa amore.
LUI.                  Ah, che tentar mai posso contro una donna irata?

Me la conduce in faccia la mia fortuna ingrata. (ripone la spada)
MARI.              Su gli occhi miei, lo veggo, sei men crudele e audace.

Guerra con me non brami; m'offri contento e pace. (getta la spada)

Misero don Luigi! quanto avran fatto e quanto

Al tuo docile cuore per lavorar l'incanto!

Già ti vedea d'intorno folti congiunti e amici

Nozze proporti illustri sotto i reali auspici.

So gli argomenti accorti, so le ragion che avranno

Dette per obbligarti, i perfidi, in mio danno.

E tu misero e solo, confuso e a me distante,

Rendesti a poco a poco quell'anima incostante.

Credi tu ch'io non sappia, che il tuo bel cuore afflitto

Vide me con isdegno a lacerar lo scritto?

E che dubbioso ancora ch'io fossi a ciò forzata,

Mi condannasti a torto, e mi dicesti ingrata?

No, non lo son, tel giuro, eccomi a te dappresso

Con quell'amor di prima, con il mio core istesso.

Son quella stessa ancora, che si ti piacque un giorno,

Ho quelle grazie istesse, che mi scorgesti intorno.

Queste misere luci, che tu lodasti tanto,

Che al tuo bel cor gentile fecero il dolce incanto,

Mirale, son pur desse, e queste guance ancora,

Idolo mio, son quelle che vagheggiasti allora.

Povera sono, è vero, ma lo sapesti in prima:

Non ho colpa novella, onde scemar di stima.

Son di te degna, o caro, se ti consiglia amore;

Se mi abbandoni, ingrato, hai d'una belva il core.
PAO.                 Signor che mi sfidaste, donna anch'io mi confesso,

E queste son quell'armi che adopra il nostro sesso.
LUI.                  Ah sì, donna Marianna, son di rossor ripieno,

I rimproveri vostri mi han penetrato il seno.

E le dolci parole mi hanno talmente oppresso,

Che accenti non ritrovo, e son fuor di me stesso.

Sulla pubblica strada troppo finor si è detto;

Di dama a me congiunta meco venite al tetto.

Vi narrerò il mio stato, vedrete il mio periglio,

Di voi, che saggia siete, abbraccierò il consiglio.

Cara donna Marianna, s'è ver che voi mi amate,

Sopra dell'onor mio fidatevi, e sperate.
PAO.                 (Abbadate, signora, ch'ei cerca addormentarvi). (piano a donna Marianna)

MARI.              Sì, don Luigi, io vi amo, non vuò precipitarvi.

So di nozze novelle il periglioso impegno;

Vi compatisco, e voglio sospendere lo sdegno.


Dal vostro cor sincero questo saper sol bramo,

Se la rivale amate.
LUI.                                                 Tutto saprete, andiamo. (sospirando parte)

PAO.                 S'egli di no vi dice, non gli credete un zero.

MARI.              Da così buon principio un miglior fine io spero. (parte)

PAO.                 Ancor per la paura il cor mi trema tutto.

Povera Paolina, passato ha un caso brutto.

Vuò, subito ch'io posso, quest'abito levarmi;

Non vuò che un'altra volta ritornino a sfidarmi.

E invece di adoprare spade, pugnali e stocchi,

Colle parole ammazzo, precipito cogli occhi.


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera di donna Isabella

Donna Isabella, poi il cavaliere Ansaldo.

ISA.                  Senza chieder l'ingresso, il Cavalier s'avanza?

Che ardir inaspettato, che insolita baldanza!

Sa pur, che nel mio quarto di penetrar non lice.

Ah ritornasse almeno la mia governatrice!
CAV.                Chiedo perdon, signora, se audace ho profittato

Di questo a' miei disegni momento fortunato.
ISA.                  Signor, non mi conviene uomo ricever sola:

CAV.                Parto in brevi momenti; vi do la mia parola.

Permettetemi solo che a voi possa spiegarmi,

E che da voi comprenda, se vano è il lusingarmi.
ISA.                  Io di me non dispongo. Da queste soglie uscite.

CAV.                Quel che da voi desidero, placidamente udite.

So che dal padre vostro di voi la bella mano

Per mia sventura estrema offerta è al mio germano;

Ma il genitor non giunge a vincolarvi il cuore;

Bramo saper da voi, se vi acconsente amore.
ISA.                  Gli occulti miei pensieri svelare io non intendo:

Son figlia, e ciò vi basti. Dal genitor dipendo.
CAV.                Questa risposta incerta mi anima alla costanza.

Se il cuor non impegnaste, mi resta una speranza.

Il Duca mio germano, che maggioranza ostenta,

Se voi nol preferite, per ciò non mi spaventa.

E il principe Fernando, che ha le mie nozze a sdegno.

Basta che voi vogliate, le accorderà, m'impegno.

Ed a tentar mi sprona la risoluta impresa,

Speme che voi non siate di mio germano accesa.
ISA.                  Ah signor, lusingarvi oltre il dover non bramo;

Sposa son io del Duca, e, vel confesso, io l'amo.
CAV.                Sorte crudel! Ma ditemi: tanto vi accese amore,

Che altri sperar non possa di meritar quel core?
ISA.                  Voi mi obbligate a dirlo; vi parlerò sincera.

Chi l'amor mio pretende, mal si lusinga e spera.
CAV.                Questo crudel rifiuto non soffre un'alma accesa;

Non cesserò per questo di ritentar l'impresa.

Donna Isabella, il modo di vendicarmi ho in mano;

Per rendervi delusa, svelar posso un arcano.

Fra noi resti sepolto, se a me non siete ingrata:

Lo farò noto al mondo, se veggovi ostinata.


Quanto importi il segreto, udite, e decidete:

Del principe Fernando voi la figlia non siete.
ISA.                  Oh ciel!

CAV.                                Sì, vel confermo, ed io mentir non soglio:

Eccovi un testimonio verace in questo foglio.

Evvi noto il carattere? (mostrando il foglio)
ISA.                                                       Ah misera infelice!

Questa carta fatale vergò la genitrice.
CAV.                Ecco: scrive allo sposo la misera dolente,

E chi è vicino al punto del suo morir, non mente.

Principe don Fernando, dolcissimo consorte,

Lungi da voi la sposa trovasi in braccio a morte.

Un tenero rimorso svelarvi or mi consiglia,

Che la cara Isabella non è la vostra figlia.
ISA.                  Oimè! seguite il foglio. Deh per pietà, signore,

Fate ch'io sappia almeno, qual è il mio genitore.
CAV.                Questo per or vi basti. Meglio è per voi tacerlo;

Quando ingrata mi siate, il mondo ha da saperlo.

L'onor del sangue vostro posso salvar, s'io voglio;

Posso tacer l'arcano, e lacerar il foglio.

Tutto da voi dipende; sarò qual mi volete.

Lasciovi in libertade; pensate, e risolvete. (parte)

SCENA SECONDA

Donna Isabella sola.

ISA.                  Misera me! che intesi? Ah, degna or più non sono

Delle nozze del Duca. Mi perdo, e mi abbandono. Porga almen donna Placida soccorso al mio bisogno. Ah, che con lei non meno svelarlo io mi vergogno. In sì misero stato mi assista il padre mio. Oimè! non ho più padre. Dolci speranze, addio. Dal mio destin crudele tanto avvilita, e tanto,

Sol la mia doglia interna posso sfogar col pianto. (siede ad un tavolino, piangente, coprendosi colla mano il volto)

SCENA TERZA

Il Duca don Luigi e detta.

LUI.                  Chi provò mai tormento maggior di quel ch'io provo?

Dov'è mai donna Placida? La cerco, e non la trovo. Prima di presentarmi di don Fernando al ciglio, Desio di donna Placida udire un buon consiglio. Oimè, donna Isabella? Che fa? pensa o riposa? Mi priverà il destino di sì amabile sposa?


ISA.                  Ah, non vi è più rimedio. Stelle, che vedo mai? (si alza un poco, e scopre il Duca)

LUI.                  Scusatemi vi prego se ardito io mi avanzai.

Della governatrice l'orme ricerco invano.
ISA.                  Ite da queste soglie, ite, signor, lontano.

LUI.                  Tanto rigor non merta chi vi fu scelto in sposo.

ISA.                  Nome soave un tempo, che or pronunciar non oso.

LUI.                  (Oimè, di sposo il nome turba il cuor d'Isabella?

Ah, di donna Marianna sparsa è la ria novella.

Per mia maggior sventura pubblico è già l'arcano.

Tento il martir nascoso dissimulare invano). (da sé)
ISA.                  Deh per pietà, vi supplico, da queste porte andate.

LUI.                  Dite almen la ragione.

ISA.                                                       Parlar non mi obbligate.

LUI.                  Sì, v'intendo pur troppo, e la ragione è tale

Ch'è al mio, come al cuor vostro, durissima e fatale.

Con mio dolore estremo tutto alfine è svelato.
ISA.                  (Ah, pubblicò l'arcano il Cavaliere ingrato!) (da sé)

LUI.                  Non può celarsi il vero. Né io più lungamente

Volea tale avventura coprire inutilmente.

L'arcano a donna Placida sono a scoprir venuto.

Qual sollecito labbro mie labbra ha prevenuto?
ISA.                  Il cavalier Ansaldo diedemi il colpo atroce.

LUI.                  So qual disegno ha spinto quell'animo feroce.

Egli m'invidia un bene, che prometteami il cielo.

L'amor che per voi nutre, copre dell'empio il zelo,
ISA.                  Finse che a lui soltanto fosse palese il vero:

Tacerlo in faccia al mondo promise il menzognero.

Or che pubblica è resa la mia fatal sventura,

Duca, perché ad affliggermi venite a queste mura?
LUI.                  Coperto di rossore mirate il mio sembiante,

Ma del destino ad onta, vi adorerò costante.

Se una ragion mi vieta porgere a voi la mano,

Questo mio cuor, ch'è vostro, voi rinunziate invano.
ISA.                  Signor, lo stato vostro agl'imenei v'impegna;

Io son, per mia sventura, di possedervi indegna.

Né di vietare intendo, che altra sposa felice

Goda di quell'amore che a me goder non lice.
LUI.                  Oh ciel, con tanta pace, senza mostrarvi irata,

Alla fè rinunziate che avvi il mio cuor giurata?

Questo, deh perdonate se ardito è il mio sospetto,

Un segno si potrebbe chiamar di poco affetto.

Virtude è in chi ben ama anche lo stesso orgoglio.
ISA.                  Di chi lagnarmi io deggio, se mi condanna un foglio?

LUI.                  Il foglio è lacerato: quel che al cuor mio si oppone,

Sol nell'onor consiste.
ISA.                                                       Duca, vi do ragione. (sospirando)

LUI.                  Ecco vien don Fernando.

ISA.                                                          Oh misera infelice!

LUI.                  E a don Fernando unita vien la governatrice.

ISA.                  Voglio fuggir.

LUI.                                           Restate. (la trattiene)


ISA.

Vederli io non ho cuore.

LUI.

Colpa voi non ne avete. Esser dee mio il rossore.

SCENA QUARTA

Il Principe Don Fernando, donna Placida e detti.

FER.

Duca, se amor cotanto sollecito vi rende,

Delle nozze il momento solo da voi dipende.

Il vostro e mio Sovrano agl'imenei consente.

ISA.

(Nulla gli è noto ancora). (da sé)

LUI.

(Ancor non saprà niente). (da sé)

FER.

Figlia, alla gioia vostra nuova ragione addito.

Dopo tant'anni e tanti, in Napoli il marito

Giunse di donna Placida.

PLA.

Ciò mi fu detto or ora;

Ma rintracciar lo feci, e non lo vedo ancora.

FER.

Consolatevi seco del fortunato avviso. (a donna Isabella)

Figlia, perché sì mesta, e sì dolente in viso?

Nota è a voi la cagione che le conturba il seno? (a donna Placida)
PLA.                 Pria ch'io da lei partissi, l'animo avea sereno. (a don Fernando)

Or cambiata la trovo. Deh, qual ragion novella

Turba il vostro bel cuore, dolcissima Isabella?
FER.                  Misero me! dagli occhi miro caderle il pianto.

Duca, il suo duol saprete voi che le foste accanto.
LUI.                  So la cagion pur troppo, signor, del suo dolore.

FER.                  Deh svelatela, amico.

PLA.                                                   Oh Dei! mi trema il core.

LUI.                  Ah, il dolor mi confonde della mia bella in faccia.

Vuole il dover ch'io parli; fa il mio rossor ch'io taccia.
ISA.                  Ah, che celar non puossi il mio destin malvaggio.

FER.                  Deh figlia mia, parlate.

PLA.                                                      Deh, fatevi coraggio.

ISA.                  Udite. (tira in disparte donna Placida, gettandole le braccia al collo)

(Ah, che mi manca nel palesarlo il core). (da sé)

(Il prence don Fernando non è il mio genitore). (piano a donna Placida)
PLA.                 (Oh Dio! come scoperto si è mai codesto arcano?)

Duca, ciò sarà vero? (forte)
LUI.                                                    Il dubitarne è vano.

FER.                  Non mi tenete in pena. (a donna Placida e a donna Isabella)

PLA.                                                      (Figlia, a voi chi lo dice?) (piano a donna Isabella)

ISA.                  (Pria di morire, un foglio vergò la genitrice.

Del Cavaliere in mano vidi la carta or ora).
PLA.                 (Scritto del padre è il nome?)

ISA.                                                                   (Non l'ho saputo ancora).

FER.                  Ah, la mia sofferenza, donne, oramai stancate.

Qual arcano è codesto? Lo vuò saper, parlate.
ISA.                  (Seco parlar non oso). (a donna Placida)

LUI.                                                       Io svelerò il mistero...


PLA.                 Niun più di me, signore, può palesarvi il vero.

Questa innocente figlia, che afflitta a voi si mostra,

Non è, qual voi credeste, non è figliuola vostra.
FER.                  Santi numi del cielo!

LUI.                                                    (Misero me! che sento?

Questo del mio germano sarebbe un tradimento?)
PLA.                 Della padrona estinta l'ha palesato un foglio.

Son dell'arcano a parte, dissimular non voglio.

Deh, placido soffrite dalle mie labbra il vero,

E il vostro cor dubbioso rasserenare io spero.

Signor, dalla consorte che voi cotanto amaste,

Questi due lustri invano prole ottener bramaste.

Tumido il ventre alfine serena a voi le ciglia,

Di nove lune al termine diè alla luce una figlia.

Tanto di lei contento voi giubbilaste allora,

Che genitor più lieto non fu veduto ancora.

Del vostro amore il frutto chiedendo al ciel clemente,

Del sesso della prole voi foste indifferente;

E la gentil bambina, dal cielo a voi concessa,

Fe' duplicar gli affetti anche alla sposa istessa.

Dopo tre giorni appena, la misera consorte

Vide la cara figlia rapir barbara morte;

E più del suo cordoglio, l'afflisse il fier dolore

Del colpo inaspettato al cuor del genitore.

Amore in quel momento la sprona, e la consiglia

L'estinta pargoletta cambiar con altra figlia;

E per scemare al padre il doloroso affanno,

Supera i suoi rimorsi nell'amoroso inganno.

Voi la tenera figlia a ribaciar rivolto,

Quella vi parve agli atti, quella vi parve al volto.

Crescere la miraste saggia fanciulla onesta,

Foste di lei contento, e la fanciulla è questa.
FER.                  Oh della mia Isabella care luci leggiadre,

Mi toglierà il destino l'onor d'esservi padre?

Ah no, questo mio cuore troppo, idol mio, vi adora:

Figlia finor mi foste, vi sarò padre ancora.
ISA.                  Ah, da sì gran bontade sentomi il cuore oppresso.

PLA.                 Oh tenerezza estrema!

LUI.                                                       (Io son fuor di me stesso).

FER.                  Ma da qual sangue è nata figlia che ha sì bel cuore? (a donna Placida)

PLA.                 Signore, a tal domanda principia il mio rossore:

Ma dalla bontà vostra tutto sperar mi lice.

Della cara Isabella son io la genitrice.
ISA.                  O cara madre! (gettandosi al collo di donna Placida)

PLA.                                          Ah figlia! (abbracciandola teneramente)

LUI.                                                             (Ah, non trattengo il pianto).

FER.                  (Al tenero mio cuore qual prodigioso incanto?)

SCENA QUINTA


Cavaliere Ansaldo

CAV.                Signore, arditamente so che passar non si usa;

Ma la ragion pressante del mio venir mi scusa.

Questa mane vi chiesi...
FER.                                                          Ah Cavaliere ingrato!

Dov'è della mia sposa il foglio a me celato?
CAV.                Signor, del vostro cuore previdi il rio periglio:

A voi se lo nascosi, fu di pietà un consiglio.

Se l'altrui debolezza giunse a svelar l'arcano,

Ecco il foglio richiesto rimesso in vostra mano.
FER.                  (Si ritira in disparte a leggere il foglio)

CAV.                Duca, non vi lagnate, se vi farà arrossire

Cosa che dall'onore son spinto ad iscoprire.
LUI.                  Il mio minor germano non è il mio precettore.

PLA.                 Signor, figlia è Isabella di onesto genitore.

Don Roberto mio sposo, nobile capuano,

Fra le milizie ispane fu eletto in capitano.

Povero di fortune, cercò sorte migliore;

Io la mia Principessa servii, dama d'onore.

Cessi all'illustre dama, è ver, la mia bambina,

Ma col piacer di vivere al sangue mio vicina.

E ne' miei casi avversi mi reputai felice

Della mia stessa figlia venir governatrice.

No, le nozze del Duca degne di lei non sono;

Signor, se le soffersi, a voi chiedo perdono. (a don Luigi)

Ma se ha il prence Fernando per lei lo stesso amore,

Non è tal figlia indegna ancor del vostro cuore. (a don Luigi)
LUI.                  Io son che non la merto, un infelice io sono...

FER.                  Note della mia sposa, vi bacio, e a lei perdono.

Quest'amorosa insidia formato ha il mio contento;

Di un sì felice inganno è vano il pentimento.

Opera fu pietosa della bontà divina

Trovar di donna Placida sì pronta una bambina.

La perdita fatale (ah, nel pensarlo io tremo!)

Reso avrebbe in quel punto il mio cordoglio estremo.

Figlia non è Isabella della mia sposa, è vero,

Ma di una madre onesta, di cuor saggio e sincero.

E la virtù sublime che le circonda il petto,

Degna vieppiù la rende del mio paterno affetto.

Se nell'età in cui sono, di prole il ciel mi priva,

Di me la mia Isabella sarà figlia adottiva:

Ella de' beni miei sarà l'unica erede,

Sarà di mia famiglia, vivrà nella mia sede.

Verso la cara figlia il primo amor non langue,

Pronto sarei per essa a dar la vita e il sangue.
PLA.                 Ah, dal fondo del cuore a inumidir le ciglia

Sorge il tenero pianto. Viscere mie, mia figlia,

Padre finor col labbro non lo chiamaste invano.

Sia benedetto il cielo, baciategli la mano.


ISA.                  (Si accosta per baciar la mano a don Fernando)

FER.                  Vieni, cara, al mio seno.

ISA.                                                          Oh padre mio pietoso!

LUI.                  (Turbar sì dolci affetti col labbro mio non oso.

Credei d'esser scoperto; ma, povera fanciulla!

Affliggerla non deggio, se ancor non ne sa nulla). (da sé)
CAV.                (Finor per questa via l'arte ho adoprata in vano.

Altra miglior scoperta precipiti il germano). (da sé)

Signor, l'affetto vostro, che ogni misura eccede, (a don Fernando)

Puote obbligare il Duca a mantener la fede;

Ed ei d'amore acceso per la bella adottiva,

Fomenterà nel seno la fiamma rediviva.

Ma in faccia sua lo dico, egli, signor, v'inganna:

Ei dovrà, suo malgrado, sposar donna Marianna.
ISA.                  (Oimè!)

LUI.                               Che ardire è il vostro? (al Cavaliere)

FER.                                                                   L'impegno è già disciolto.

CAV.                Donna Marianna è in Napoli, e fu veduta in volto.

FER.                  Come! (al duca Luigi)

LUI.                               Germano indegno!

FER.                                                             Svelatemi il mistero. (a don Luigi)

LUI.                  Donna Marianna è in Napoli: sì, don Fernando, è vero.

ISA.                  (Madre mia, son perduta). (piano a donna Placida)

PLA.                                                            (Non vi affliggete ancora). (piano a donna Isabella)

LUI.                  Questo mio cuor costante donna Isabella adora.

Cambiati i suoi natali, non scema in me l'amore;

Se degna è del cuor vostro, ell'è pur del mio cuore.

Venuta di Messina la femmina sdegnata...
CAV.                Vuol chiedere giustizia, vuol essere sposata:

Quattro persone al porto stamane l'han veduta

Contro il Duca medesimo altera e risoluta.

Della feluca istessa dal sicilian piloto

La condizione e il nome di lei fu reso noto.

Io che donna Isabella amo con cuor sincero,

Senza maschera in volto vi ho discoperto il vero.

Se una mercede ingrata all'amor mio si dona,

Signor, ve lo protesto, amor non la perdona. (parte)

SCENA SESTA

Don Fernando, donna Isabella, il Duca don Luigi e donna Placida.

FER.                  Duca, venite meco. Non dubitate, o cara,

Termineran gl'insulti della fortuna avara. Ad inquietarvi il core nova cagion si desta; Ma di temer lasciate, terminerà ancor questa. Se per legge finora di voi fui genitore, Or principia l'impegno di un padre per amore, Scoperto il grande arcano che l'esser vostro addita,


La catastrofe oscura dovrebbe esser finita;
Ma il tenero amor vostro, e quel di una rivale,
Fa crescere l'impegno che nel cuor mio prevale.
Di tai discoprimenti le storie abbiam ripiene,
Veggiam tali avventure favoleggiar le scene;
Ma in rendermi contento se il mio desire adempio,
Vuò di paterno affetto dar un novello esempio.
Sì, padre vostro io sono, e il mio dover mi appella
A consolar del tutto un'anima sì bella. (parte)
LUI.                  Alle di lui promesse questa vi aggiungo anch'io:

Vi serberò in eterno la fede ed il cuor mio. E se il destin mi vieta ch'io sia di voi consorte, Pria ch'altra mi possieda, giuro incontrar la morte. (parte)

SCENA SETTIMA Donna Placida e donna Isabella.

PLA.                 Figlia, con tai speranze più lagrimar non lice.

ISA.                  Ah, mi condanna il fato a vivere infelice.

PLA.                 Avvi la provvidenza di sì gran ben colmata,

Che al ciel, se vi dolete, voi comparite ingrata. Chi mai sperar poteva, che l'amoroso inganno Scoperto a noi non fosse di vergognoso affanno? Vissi finora in pena; il mio rimorso atroce Franca non mi lasciava articolar la voce. Quando stringeavi al seno il principe Fernando, Godea del vostro bene, ma ne godea tremando. Voi figurando in mente di sua ricchezza erede, Pareami un rapina l'indebita mercede. Mille volte fui spinta dai stimoli d'onore A discoprir l'arcano; ma mi trattenne amore. Ora di quest'amore, ch'esser dovea punito, Ecco la colpa assolta, ecco il timor finito. Di due tenere madri fu compatito il zelo; Figlia, gradite il dono, e benedite il cielo. Ah sì, perché compita alfin sia nostra sorte, Il ciel dopo tant'anni mi rende il mio consorte. Mandai più d'un amico a ricercarlo intorno; Spero di rivederlo pria che tramonti il giorno. Oimè, l'amor di madre, di rintracciarlo invece, Di lui, per cagion vostra, quasi scordar mi fece. Finor nel cuore afflitta, a giubbilar non usa, Son per doppia cagione dal mio piacer confusa. Voi vi dolete ancora? Deh, non mi fate un torto: Sereno il vostro ciglio accresca il mio conforto. Sperate; il vostro cuore sarà contento appieno. Il più chi ha superato, può superare il meno. Sì, sarà vostro il Duca.


ISA.                                                       Oh Dio! mi consolate. (abbracciando donna Placida)

PLA.                 Figlia, diletta figlia, solo nel ciel sperate. (abbracciando donna Isabella, e partono)


ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Strada

Il Cavalier Ansaldo e Fabrizio.

CAV.                Non è l'amor soltanto, che accendami a tal segno.

Per onor, per vendetta, son nel più forte impegno. Quando ogn'arte possibile abbia tentata invano, Mi ha da costar la vita, o quella del germano.

FAB.                 Parmi ben stravagante che il prence don Fernando,

Un uom di tanta stima, un uom sì venerando, Scoperta la ragazza non essere sua figlia, L'ami ancor come fosse nata di sua famiglia. E il duca don Luigi, che tanta gloria ostenta, Come mai di tai nozze s'appaga e si contenta? Convien dir che sian ciechi ambi per troppo affetto.

CAV.                Dubito che lo facciano per onta e per dispetto:

Ma ingannasi chi crede sdegnarmi impunemente. Cento idee di vendetta mi passano per mente. Inutile fu quella del pubblicato arcano, Ora nella mia mente fondato ho un nuovo piano. Sai di donna Marianna l'arrivo a queste mura, Sai che ottener giustizia la femmina procura; Ed io, per sostenere l'impegno e la ragione, La vuò presso la Corte munir di protezione. Spero per questa strada di essere vendicato, O che la sposi il Duca, o ch'ei sia rovinato.

FAB.                 Può esser che l'intento ad ottener si giunga,

Ma, se ho da dire il vero, la strada è un poco lunga. Se il Duca un tal maneggio promuovere vi sente, Potria donna Isabella sposar segretamente. E quando legalmente il matrimonio è fatto, Non basta per disciorlo un semplice contratto.

CAV.                Mandiam per tutto Napoli a ricercar costei.

Quel che tu fosti un giorno, Fabrizio, or più non sei. Fosti un uomo di spirito, sei stolido al presente?

FAB.                 Per dirvela, un ripiego mi era venuto in mente.

CAV.                Svelami il tuo pensiere.

FAB.                                                         Sapete che partito

Della governatrice da Napoli il marito, Per quello che discorrono, all'Indie si ritrova, E di lui la consorte mai più non ebbe nuova. Nella città conosco un certo lazzarone,


Che fa del vagabondo la nobil professione.

Al capitan Roberto tanto è simil costui,

Che più di quattro volte l'ho preso anch'io per lui.

Affatto lo somiglia al volto e alla statura,

Han tutti due nel naso egual caricatura;

Ed hanno tutti due, per singolar portento,

Un porro nella guancia, ed un vicino al mento.
CAV.                Possibile tal cosa?

FAB.                                                Credete a quel ch'io dico.

     fui, quand'era in Napoli di don Roberto amico;
E quando il lazzarone per strada a me si appressa,
Rinnovo nel vederlo la maraviglia istessa.

Più volte di tal cosa ho seco ragionato; Dice che da altri ancora fu per error chiamato, E che trecento volte il capitan creduto, Quelli della milizia gli diero il benvenuto. Trovandosi in bisogno mi confidò il briccone, Che fingersi quell'altro avea la tentazione; E che se gli riusciva trovar simili spoglie, Volea di don Roberto deludere la moglie.

CAV.                Stolto! colla consorte passar per suo marito?

FAB.                 Son più di sedici anni, ch'è il capitan partito.

Colle immagini impresse del volto, e la figura, Scommetto che il marito lo crede a dirittura. È ver che nella voce non ha gran somiglianza, Ma questo può confondere del tempo la distanza. Un che dal Nuovo Mondo credesi ritornato,

    metal della voce può ancora aver cangiato;
Pronto sarei l'impresa a garantire anch'io.

CAV.                E ben, codesta favola che giova al caso mio?

FAB.                 Emmi venuto in testa, per fare una finzione,

Vestir coll'uniforme codesto lazzarone.

Un abito ho trovato da un rigattier romano,

Colla divisa istessa che usava il capitano,

Con spada e con bastone all'uso militare,

Che meglio a don Roberto farallo assomigliare.

Ciò in pensar mi è venuto, dopo lo scoprimento

Che di donna Isabella fe' noto il nascimento.

Lasciò la moglie incinta il capitan Roberto;

Ma né lui, né la sposa, non lo sapean di certo.

Dunque in faccia del mondo può dir può sostenere...
CAV.                Il Duca mio germano parmi colà vedere:

Seco è il prence Fernando. Vien meco in altra parte.
FAB.                 Andiam, tutto il progetto vi dirò a parte, a parte.

Basta che mi accordiate danaro e protezione.
CAV.                Tutto avrai ciò che brami. (parte)

FAB.                                                            Conosco il mio padrone.

Lo so che all'occasioni prodigo sempre fu.

Se or non mi faccio un abito, non me lo faccio più. (parte)


SCENA SECONDA

Il Principe don Fernando, il Duca don Luigi e Beltrame.

LUI.                  Che fa in questi contorni il Cavaliere audace?

FER.                  Figlio, vorrei vedervi a procacciar la pace.

Il sospettar mai sempre di cosa indifferente,

È un mal che non si sradica dal cuor sì facilmente.

Se ora il german vedeste, qual dubbietà vi affanna?
LUI.                  Dubito ch'ei pretenda veder donna Marianna.

Ecco colà l'albergo dov'ella è ricovrata.
FER.                  Quivi? non mi era noto. Mandiamle un'imbasciata.

LUI.                  Entrate pur, signore, l'ho fatto a lei sapere:

Potrà alle di lei stanze condurvi il cameriere.
FER.                  Duca, passar potete in Corte, o in altro loco.

Potria l'aspetto vostro moltiplicare il foco.

Condursi è necessario con il più dolce impegno

Con femmina focosa, che è facile allo sdegno.
LUI.                  Talor rassembra umile, fiera talor si mostra;

Reggere la saprete colla prudenza vostra.

Salvatemi l'onore, senza arrischiar l'affetto:

Son nelle vostre mani. La mia sentenza aspetto.
FER.                  Ogni possibil arte di adoperar m'impegno

Per superar gli ostacoli di un femminile ingegno.

Io vi confesso il vero, andrei con men timori

A trattar di una pace con dieci ambasciatori.

Ma la cara Isabella, che nel cuor mio ragiona,

Per renderla felice a faticar mi sprona. (entra in casa, seguito da Beltrame)
LUI.                  Vada, e secondi il cielo l'opera sua cortese.

Questa è, anch'io lo conosco, fra le più dure imprese.

S'egli favella invano, s'ella voler si ostina

Misero, son perduto; vedrò la mia rovina. (parte)

SCENA TERZA

Camera

Donna Marianna e Paolina.

MARI.              Tarda molto a venire il prence don Fernando

Sto pur con impazienza tal visita aspettando.

Chi sa con qual disegno a favellarmi ei venga?

Chi sa che una vittoria con esso io non ottenga?

Per uomo di gran mente il mondo lo decanta;

Ma l'onor, la giustizia, so che d'amar si vanta.

E femmina qual sono di un gran ministro accanto,

Spero di guadagnarlo colla ragion soltanto.
PAO.                 Signora, un'imbasciata.


MARI.                                                      È il prence don Fernando?

PAO.                 Per l'appunto.

MARI.                                    Ch'ei venga.

PAO.                                                            Con lui vi raccomando.

Non far di quelle scene, che far solete al Duca.

Fate che la ragione vi assista e vi conduca. (parte)

SCENA QUARTA Donna Marianna, poi il Principe don Fernando.

MARI.              So regolarmi a tempo in ogni vario impegno,

So minacciar, se occorre, so moderar lo sdegno.

Ritroverammi il Principe umile nell'aspetto,

Ma saprò, s'ei m'insulta, parlar senza rispetto.

Eccolo, alla presenza dimostra un cuor gentile;

Spero che al dolce viso l'animo avrà simile.
FER.                  Perdonate, madama...

MARI.                                                   Signor, di quest'onore

Sperar io non poteva consolazion maggiore.

Esser a' piedi vostri supera ogni piacere:

Permettete, signore, ch'io faccia il mio dovere. (vuol baciargli la mano)
FER.                  Che fate voi? (ritirando la mano)

MARI.                                    Lasciate, in segno di rispetto,

Ch'io vi baci la mano. (come sopra)
FER.                                                       Ah no, non lo permetto. (come sopra)

MARI.              Se la bella umiltade ciò a ricusar v'impegna,

Spero che di tal grazia non mi crediate indegna.
FER.                  Con dama vostra pari il mio dover conosco.

(Dubito sotto il mele non si nasconda il tosco). (da sé)
MARI.              Vi prego accomodarvi.

FER.                                                       Fatelo voi, signora (donna Marianna siede, e poi don

Fernando)

(In un impegno simile non mi ho trovato ancora).
MARI.              Qual motivo conduce il principe Fernando?

Degna son di ottenere l'onor di un suo comando?
FER.                  Io fui, donna Marianna, del vostro genitore,

Fino ch'ei visse al mondo, amico e servitore.

La medesima stima serbo alla sua famiglia,

E vengo ad offerirmi all'unica sua figlia.
MARI.              Tal bontà generosa ogni mio merto eccede,

E il cuor mio in rispettarvi al genitor non cede.
FER.                  Per qual affar prendeste di Napoli il sentiero?

MARI.              Signor, non ho riguardi a palesarvi il vero.

Lo direi francamente di tutto il mondo in faccia;

Molto più a un cavaliere, di cui son nelle braccia.

Soffrir più non poteva, dove ho il natal sortito,

Dai nobili e dal volgo venir mostrata a dito.

Eccola, mi diceva gente ribalda oziosa,


Ecco la derelitta, né vedova, né sposa. Se un cavalier d'onore manca ad un sacro impegno, Sarà di sposo tale il di lei cuore indegno. Il duca don Luigi, che ha eroici sentimenti, L'alma non ha capace di bassi tradimenti; Dunque s'ei l'abbandona, se manca a lei di fede, Sarà de' suoi difetti giustissima mercede. Tutte le Messinesi me risguardando in viso, Moveano fra di loro un critico sorriso; E dire una di quelle fu da me stessa udita: La povera Marianna mai più non si marita. I miei congiunti istessi m'han tutti abbandonata, Dai servi e dalla plebe vedeami disprezzata. Ed il sordido zio, che ha l'onor mio venduto, Di me, per la vergogna, nemico è divenuto. Parlommi di un ritiro; ma il mondo avrebbe detto, Ch'io andava a rinserrarmi per onta e per dispetto; Ed in qualunque stato, o sola, o accompagnata, Avrebbero compianto un'alma disperata. Tutto per me spirava sdegno, rossore e tedio; So che ne' mali estremi giova estremo rimedio. Colla fedel mia serva, cinta in virili spoglie, Abbandonai Messina, lasciai le patrie soglie. Perduta la mia pace, la gloria mia perduta, Eccomi finalmente in Napoli venuta. Deh, ad ottener giustizia, a ricovrar l'onore, Fate che in voi ritrovi l'amico e il protettore.

FER.                  (In fatti il di lei caso degno è di compassione,

E riparare è forza la sua riputazione). (da sé) Figlia, la sofferenza d'ogni buon frutto è madre. In me, ve lo protesto, ritroverete il padre. La fuga sconsigliata la fama vostra offende, Ma serenate il ciglio, Fernando vi difende. A dama vostra pari non mancherà il marito; Io stesso in questo regno vi troverò il partito. E se lo zio indiscreto non pensa alla nipote, Da cavalier prometto formar la vostra dote.

MARI.              Dote a me si promette? Marianna accompagnarsi

Con tal maschera in volto? (alquanto sdegnata)

FER.                  (Principia a riscaldarsi).

MARI.              Signor, per questa parte ringrazio il vostro zelo.

Mio sposo è don Luigi, me l'ha concesso il cielo. Quand'ebbe la mia fede, dote a me non richiese; Dopo il primier contratto, son vane altre pretese. La dote ch'io gli porto, è d'ogni ben maggiore, Sangue illustre gli reco, ed illibato onore.

FER.                  Ma il legame col Duca non fu da voi troncato?

Non fu de' vostri impegni il foglio lacerato?

MARI.              Ecco, signor, l'inganno che di smentire io spero.

Sciolto si crede il Duca, ma non si crede il vero. La fè che mi ha promessa, la fè che mi ha giurata,


A una fragile carta non fu raccomandata.

Di una nobile figlia, di un cavalier d'onore,

nuziali contratti si scrivono nel cuore.

Cosa inutile è il foglio. Formano gli sponsali

Di due liberi cuori le volontadi eguali;

E il nodo indissolubile a sciogliere non basta

Di un solo il pentimento, se l'altro vi contrasta.

Chi scioglier la sua fede pretende a mio dispetto,

Con un pugnale in mano dee lacerarmi il petto;

E con il vivo sangue del seno mio trafitto,

Dee cancellar quel nome, che nel mio cuore è scritto.

FER.                  (Cresce il furor; cerchiamo la via di moderarlo).

Se un eccessivo amore...

MARI.                                                      Ora d'amor non parlo.

Mi ami, o non mi ami il Duca, per lui mi accende il core

Sdegno, affetto o vendetta: quel che ragiona, è onore.

Signor, chi è la fanciulla di cui con chiare note

Si vuol comprar l'onore a prezzo di una dote?

Chi son io, lo sapete: nata d'illustre sangue,

Di cui la gloria antica per povertà non langue?

Se avesse il padre mio meno l'onor sentito,

Nei pubblici governi sarebbesi arricchito;

Ma seguitò degli avi le tracce ereditate,

Servì per la mercede dell'anime onorate.

Nei secoli non pochi che conta il mio casato,

Con nozze indecorose ancor non fu macchiato.

Né io sarò la prima che lo deturpi ardita,

Ad onta d'ogni insulto, a costo della vita.

Con tutta la famiglia il Duca è debitore

D'avere un'innocente tradita nell'onore.

Ed io, che ultima sono del tralcio sventurato,

Non lascierò il mio sangue nell'onta invendicato.

    stessa al mio Sovrano andrò a gettarmi al piede,
Domanderò vendetta, se negasi mercede.

E della Corte in faccia, prostrata al regal trono...
Ah, il dolor mi trasporta; signor, chiedo perdono.
Di un protettore in faccia, amabile e cortese,
Non temo di sventure, non dubito di offese.
Voi di giustizia il trono nel vostro cuore ergete,
Voi padre mio cortese, giudice mio voi siete.
FER.                  (Ah, chi può abbandonarla?) Vorrei vedervi lieta,

Ma una ragion si oppone, un altro amor m'inquieta.

    Duca in età tenera al vostro bel si arrese,
Ora da voi lontano d'altra beltà si accese.
Sposo di tal donzella...

MARI.                                                   Come! e chi fia l'indegna,

Che d'involarmi il cuore del traditor s'impegna? Conoscer la vorrei, e di rossor vermiglia Rendere quell'audace.

FER.                                                       Codesta è una mia figlia.

MARI.              Signor, del vostro sangue la mia rivale è nata?


Figlia per cotal padre felice e fortunata!

S'ella nella virtude imita il genitore,

Apprezzerà, son certa, le massime di onore.

E sol che l'eroina le mie ragioni intenda,

Posso, se un cuor m'invola, sperar che me lo renda.

Vostra mercé, signore, tanta fortuna aspetto.
FER.                  Di sangue non mi è figlia, ma sol di puro affetto:

Me l'allevai bambina, ed il mio cuor l'adora.
MARI.              Figlia dell'amor vostro? Sarà più degna ancora.

Può tradir la natura con trista ingrata prole,

Colla sua scelta il cuore padre ingannar non suole.

Né voi di cotal nome donna degnata avreste,

Se in essa ben locato l'amor non conosceste.
FER.                  (Parmi di questa dama lo stil sì inusitato

Che il cuor di mio nipote quasi mi sembra ingrato). (da sé)
MARI.              Principe, in voi sperando, scema il cor mio l'affanno,

Ma ancor la mia speranza può essere un inganno.

Se il caso mio vi penetra, se protettor mi siete,

Signor, per bontà vostra, di me che risolvete?
FER.                  Figlia, se nel rispondervi sì franco io non mi mostro.

Provien da quei riflessi che merta il caso vostro.

Il Duca mio nipote l'amo teneramente,

Della cara adottiva son per amore ardente.

Amo la virtù vostra, e dell'amore i frutti

Vorrei concordemente dividere con tutti.

Voi la ragione avete nel sangue e nell'onore:

Vostro, non so negarlo, vostro del Duca è il cuore.

Ed ei pria di vedere il foglio lacerato,

Avvi la data fede da cavalier serbato;

E in libertà veggendosi di usar gli affetti sui,

Sciolse il laccio primiero, e si è legato altrui.

Ma chi più m'interessa, chi più mi parla al cuore,

Della tenera figlia è l'innocente amore.

Dopo lusinghe tante d'essere al Duca unita,

Come soffrir io posso la misera schernita?

Per non mirar tre cuori condotti al precipizio,

Par che sia necessario di un solo il sacrifizio;

Ma l'amor mio, che tutti li apprezza ad uno ad uno,

Tutti salvar desidera, senza oltraggiare alcuno.

Gli altri di me si fidano, voi di me vi fidate.

Ho l'onor vostro a cuore. Son cavalier, sperate.
MARI.              Ah signor, che per tutti siete ugualmente accinto,

Deh la via disvelatemi d'uscir dal laberinto.
FER.                  Della virtù, che albergo nel vostro cor ritrova,

Esigere mi piace da voi codesta prova.

Non mi obbligate a dirvi per ora il pensier mio.
MARI.              Son nelle vostre braccia.

FER.                                                          Donna Marianna, addio. (parte)


SCENA QUINTA

Donna Marianna sola.

MARI.              Par che la mia speranza sia una lusinga insana.

Perché tenermi in pena? che crudeltà inumana! Il bene in lontananza l'alma talor consola; Disperazion talvolta ogni timore invola. Ma vivere in tal modo incerta di mia sorte, È una smania d'inferno, è una continua morte. Pure acchetarmi io deggio di don Fernando al zelo. Voglio di lui fidarmi. Voglio sperar nel cielo.


ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Camera in casa di don Fernando.

Fabrizio e Pasquale.

FAB.                 Pasqual, te l'assicuro: ho don Roberto in mente,

A lui ti rassomigli perfettissimamente. Scherzo della natura simile mai non fu, Carica solamente la voce un poco più.

PAS.                  Basta; in ogni disgrazia a te mi raccomando.

FAB.                 Eccoci nel palazzo del principe Fernando.

Beltrame, che ti crede di Placida il consorte, È andato ad avvertirla ch'entrasti in queste porte. Teco non vuò restare, per non recar sospetto. Principia ad eseguire con spirito il progetto; Poscia verrò io stesso in nome del padrone, E avrai per tua difesa di lui la protezione. Tosto che i primi passi da noi sien superati, Il Cavalier promette di dar cento ducati.

PAS.                  Cento bei ducatelli? non occorr'altro. Ardito

Di questa governante mi fingerò il marito. Dirò che mia consorte ha fatto un contrabando, E che sarà d'accordo il principe Fernando. A me lascia il pensiere di dir delle ragioni, Affin che don Luigi la giovine abbandoni.

FAB.                 Se il Duca l'abbandona, il mio padron che sa

L'inganno e l'innocenza, un dì la sposerà. Poi troveremo il modo di por la cosa in chiaro.

PAS.                  Rimedieremo a tutto a forza di danaro.

FAB.                 Ecco, vien donna Placida, condotta da Beltrame.

Vado, e ti lascio solo a sostener le trame. (parte)

SCENA SECONDA

Pasquale solo.

PAS.                  Non soglion negl'impegni tremare i pari miei.

Eh, per cento ducati che cosa non farei? Per cinque o sei carlini, per Tizio, o per Sempronio, Servito ho tante volte di falso testimonio. Per far il querelante par ch'io sia fatto apposta.


Non manco di menzogne, di ardire e faccia tosta. (si ritira un poco)

SCENA TERZA

Donna Placida, Beltrame e Pasquale.

BEL.                 Venite allegramente.

PLA.                                                   Lo sposo mio dov'è?

BEL.                 Eccolo là, signora.

PLA.                                                Oh Dio! son fuor di me.

BEL.                 Accostatevi un poco. (a Pasquale)

PLA.                                                   Eccolo il mio tesoro.

L'allegrezza mi opprime. Chi mi sostiene? io moro.
BEL.                 Ehi, ehi, che cosa fate? Vi vien mal, poverina?

State allegra, signora, che è qui la medicina.
PLA.                 Adorato consorte, venite alle mie braccia. (incontrando Pasquale che arriva)

PAS.                  (Vorrei e non vorrei. Non so quel che mi faccia). (da sé)

PLA.                 Caro il mio don Roberto, dopo tant'anni e tanti,

Sì mesto e sì confuso mi comparite innanti?

Deh fate ch'io vi vegga rasserenar le ciglia.
PAS.                  S'io son qual mi vedete, non è gran maraviglia.

Ho sospirato il giorno d'essere a voi vicino;

Or di avervi trovata maledico il destino.
PLA.                 Stelle! in codesta voce, insolita all'udito,

Di ravvisar non parmi la voce del marito.

Veggo i segni del volto, son dessi, io lo conosco,

Ma non avea Roberto l'occhio turbato e fosco.

Quelle dolci maniere dal mio Roberto usate,

Come ha in rozzo costume lunga stagion cangiate?

Stelle! chi mi assicura del mio Roberto in esso?
BEL.                 Testé l'ha conosciuto il mio padrone istesso.

E una certa signora venuta di Messina,

E la di lei servente, nomata Paolina,

Fatto il viaggio con esso in un istesso legno,

Per conoscerlo bene mi han dato il contrassegno. (gli tocca il naso)
PAS.                  Vorreste non conoscermi ai segni della faccia,

Perché avete paura ch'io vi rompa le braccia.
PLA.                 Che favellare è questo?

PAS.                                                       Orsù, in una parola,

È ver, signora mia, che avete una figliuola?
PLA.                 Ah sì, de' nostri amori nacque il frutto innocente.

PAS.                  Come de' nostri amori? di questo io non so niente.

So che una figlia aveste: non so come sia nata;

E il principe Fernando per sua l'ha dichiarata.
PLA.                 Povera me!

BEL.                                    Signore, posso attestare anch'io,

Che figlia l'ha creduta finora il padron mio;

Ma che poi si è scoperta del vostro matrimonio.
PAS.                  Sei di quelli che servono per falso testimonio?


Sarai dalla giustizia pigliato innanzi sera,
E aspettati, briccone, la frusta e la galera.
BEL.                 Dico quello ch'io sento, e non mi prendo impicci.

Cosa so io se fingono, e se vi sian pasticci? (parte)

SCENA QUARTA

Pasquale e Donna Placida.

PLA.                 Deh per pietà, signore, per quei primi momenti

Dei nostri sospirati dolcissimi contenti,

Non fate un'ingiustizia all'innocente sposa,

Tanto fedele e onesta, quanto vi fu amorosa.

Vi amai dal primo giorno, vi amo ancor senza fine. (lo prende per la mano)
PAS.                  (Non mi dispiacerebbe aver due carezzine). (da sé)

PLA.                 Su questa mano istessa... Oimè, come ha cangiata

Il tempo e la fatica la man che mi ha sposata!

Candida come neve fu questa mano un giorno.
PAS.                  Candido come neve in poco tempo io torno.

Andiam; l'ira potrebbesi calmar a poco a poco.
PLA.                 Ecco la figlia vostra, che viene in questo loco.

PAS.                  (Spiacemi quest'incontro). No, che non è mia figlia.

Nascer non l'ho veduta, e poi non mi somiglia.

Cospetto del gran diavolo! mi farò far giustizia. (parte)

SCENA QUINTA Donna Placida, poi donna Isabella.

PLA.                 Placida sventurata! potea temer di peggio?

Ah, mi punisce il cielo per la mia colpa, il veggio.

Son rea d'aver la figlia più del dovere amata,

E il ciel nella mia figlia mi vuol mortificata.
ISA.                  Madre, ancor non vedeste il genitore in faccia?

Quando potrò gettarmi del padre in fra le braccia?

Amo un padre amoroso, che de' miei giorni ha cura,

Ma di veder sospiro quel che mi diè natura.
PLA.                 (Ah, non ho cuor di darle un così rio tormento). (da sé)

ISA.                  Acchetatevi, o madre; lungi non è il contento.

Verrà, verrà fra poco, questo mio cuor lo sente,

Vicino a queste porte.
PLA.                                                      Oh misera innocente! (a donna Isabella con tenerezza, e

parte)

SCENA SESTA


Donna Isabella sola.

ISA.                  Le smanie compatisco di una moglie amorosa,

Smanio di lei non meno anch'io tenera sposa. Parmi un secolo ogni ora che il Duca è a me lontano. Misera me! se perdere dovessi la sua mano. Ma del padre amoroso vuò confidar nel zelo, Vuò confidar nel Duca, vuò confidar nel cielo. Eccoli. Ah, qual mi recano lieto o funesto avviso? Tremo; non ho coraggio di rimirarli in viso.

SCENA SETTIMA Il Principe don Fernando, il Duca don Luigi e detta.

FER.

Figlia, ov'è donna Placida?

ISA.

Or or partì dolente.

FER.

Ha veduto lo sposo?

ISA.

Ancor non ne sa niente.

FER.

Dovrebbe a queste soglie esser pure arrivato.

Vicino a queste soglie testé l'ho riscontrato.

Ite a veder s'è giunto.

ISA.

Signor, chiedo perdono...

FER.

Che volete voi dirmi?

ISA.

Perdon, se ardita sono;

Vorrei tacer, ma il cuore mi sforza a domandarvi

Qual sarà il mio destino.

FER.

Siam qui per consolarvi.

Ite da donna Placida; poscia con lei tornate.

ISA.

Posso sperar davvero?

FER.

Sì, figlia mia, sperate.

ISA.

Voi, signor, che mi dite? (a don Luigi)

LUI.

Che un infedel non sono.

FER.

Quel ch'io dissi, non basta? (a donna Isabella)

ISA.

Sì, mio signor, perdono. (s'inchina, e parte)

SCENA OTTAVA Don Fernando ed il Duca, poi Beltrame.

LUI.                  Veramente che dirle io non sapea, signore.

Vive confuso e incerto finora anche il mio core.

Ho di sperar motivo, se ragionare io v'odo;

Ma di ottener la pace non è sicuro il modo.
FER.                  Verrà donna Marianna. Ho la carrozza inviata.

Spero, s'è ragionevole, non ritrovarla ingrata.


Sì, nipote carissimo, pur che mi sia concesso

Tutti veder contenti, sacrifico me stesso.

Chiede donna Marianna giustizia, o pur vendetta;

A un cavalier la chiede, dall'onor mio l'aspetta.

E se di voi la giovine può lusingarsi invano,

Risarcir le sue perdite vogl'io colla mia mano.

Ecco un sforzo novello del mio paterno amore,

Per la cara Isabella che m'incatena il cuore.

Della mia sposa estinta fresca la piaga in petto,

Il desio non mi sprona ad un novello affetto,

Ma della sposa istessa, colà dove si trova,

So che l'alma onorata il mio consiglio approva.
LUI.                  Veggo i vostri pensieri diretti ed inclinati

A rendere tre cuori felici e fortunati.

Voglia il ciel che Marianna secondi il bel disegno,

Che la ragione arrivi a moderar lo sdegno.
FER.                  Se per onor soltanto l'illustre donna è accesa,

Lusingomi vederla al mio disegno arresa.

Può soddisfar di tutti ciò sol le oneste brame. (viene Beltrame)

Sentiam di don Roberto. Accostati, Beltrame.
BEL.                 (Si avanza)

FER.                  Che fu del capitano? Non venne a queste porte?

BEL.                 Sì, signore, poc'anzi veduta ha la consorte.

FER.                  Tenero fu l'incontro.

BEL.                                                   Fu tenero così,

Che la povera donna di gioia tramortì.

Ed egli per soccorrerla all'uso militare,

Disse che le voleva le braccia scavezzare.
FER.                  Come! È forse impazzito?

BEL.                                                            Dice, in una parola,

Non voler la ragazza conoscer per figliuola.

Che non sa, che non crede che in questa casa è nata,

E accusa donna Placida di femmina sfacciata.
FER.                  Ah, dov'è quel ribaldo? Venga alla mia presenza.

BEL.                 Ciò detto, dal palazzo fe' subito partenza.

FER.                  Trovisi immantinente.

BEL.                                                               È una bestia, è un demonio.

Minaccia di accusarmi di falso testimonio.

Per amore, o per forza, qui lo farò portare;

Mandatelo in prigione, e fatelo impiccare. (parte)

SCENA NONA

Don Fernando e il Duca.

FER.                  Placida sventurata!

LUI.                                                 Misero me! che ascolto!

Dovrò mirar la sposa con questa macchia in volto?

Conosco donna Placida, dell'onor suo rispondo;


Ma chi vietar potrebbe le dicerie del mondo?
Ah signor, se quell'empio precipita la figlia,
Come arrischiar io posso l'onor della famiglia?
Deh soccorrete in tempo la misera tradita;
O l'onor suo si salvi, o più non resto in vita.
FER.                  Chi ha mai sollecitato l'indegno alla menzogna?

Chi procacciar gl'insegna gli scorni e la vergogna? Ma l'innocenza alfine non abbandona il cielo: Si squarcierà, lo spero, della calunnia il velo. Tempo non si conceda all'alma scellerata Di render la menzogna diffusa e divulgata. Dinanzi agli occhi nostri quell'empio si smentisca, O sveli il tradimento, o il perfido perisca.

SCENA DECIMA Donna Isabella correndo affannata e piangente, Donna Placida che tenta di arrestarla, e detti.

PLA.

Figlia, figlia, arrestatevi.

FER.

Qual dolor la trasporta?

ISA.

Misera me!

FER.

Che avvenne?

ISA.

Misera me! son morta.

FER.

Ah, perché alla fanciulla comunicar le offese? (a donna Placida)

PLA.

Signor, dalla famiglia a pubblicarle intese.

LUI.

Siam perduti, signore.

FER.

Povera sventurata!

ISA.

Padre mio! Caro sposo! Oh Dei, son disperata.

SCENA UNDICESIMA

Beltrame e detti.

BEL.                 Signore, è il capitano.

FER.                                                       Venga pur quel ribaldo.

BEL.                 Col servitor sen viene del cavalier Ansaldo.

LUI.                  Tremo non sia la trama del mio germano audace.

Ah, s'egli è ver, non speri ch'io lo sopporti in pace.
FER.                  Va il ministro di guerra a rintracciare in Corte:

Di' che la regia guardia spedisca a queste porte;

E un uffizial destini con ampie commissioni

Di eseguir prontamente le mie disposizioni. (a Beltrame)
BEL.                 Corro immediatamente con un piacere estremo.

A me frusta e galera? or ora lo vedremo. (parte)
PLA.                 Signor, vi raccomando la mia riputazione. (a don Ferdinando)

ISA.                  Il mio cuor, la mia vita. (a don Ferdinando)

LUI.                                                       Eccolo il rio fellone.


SCENA DODICESIMA Fabrizio, Pasquale e detti.

FAB.                 Signore, il mio padrone in nome suo mi manda,

E questo galantuomo di cor vi raccomanda.

Egli verrà fra poco a riverirvi, e intanto

Spedisce don Roberto che premegli cotanto,

Essendo un capitano a lui subordinato,

Con lettere di Spagna a lui raccomandato.
LUI.                  Un'anima plebea, che di mentir s'avvisa,

Ostenta indegnamente la militar divisa;

E il protettore ardito, che a lui serve di scorta,

Coi perfidi consigli a delirar lo porta.

Del Cavalier conosco l'idea della vendetta.
FER.                  Duca, a me, compatite, rispondere si aspetta.

Il cavaliere Ansaldo saprà i miei sentimenti. (a Fabrizio)

Parla tu, scellerato, e perirai se menti.

Da chi fosti animato ad un sì nero eccesso?

A qual prezzo vendesti fino il tuo sangue istesso?
PAS.                  Signor, voi siete un Principe, io sono pover'uomo;

Ma, cospetto di bacco, anch'io son galantuomo.

Lo dico, e lo sostengo, lo giuro, e lo giurai,

Quella non è mia figlia, e non lo sarà mai;

E se provar potete, ch'ella da me sia nata

Deposito la testa, e che mi sia tagliata.
FER.                  Perfido! della legge l'onesta presunzione

Può legittimamente provar la figliazione,

Vivesti colla sposa, e la lasciasti incinta.

Dall'età della figlia ogni dubbiezza è vinta.
PAS.                  Io non so d'altra legge: dico che mia non è,

E non lo può sapere nessun meglio di me.

E poi, che cosa occorre far tanta maraviglia?

Dell'Eccellenza Vostra dicono ch'ella è figlia.
FER.                  Oimè! la ria menzogna fondasi in nostro danno

Dell'innocente figlia sul discoperto inganno.

Toglier chi può dal mondo un'impression fondata

Pel corso di anni tanti, ch'ella da me sia nata?

A pubblicarne il vero potea bastar la madre,

Se menzognero, ardito, non si opponeva il padre;

Or coi falsi princìpi, col mentitor che oppone,

Pericola nel volgo la sua riputazione.

Né basta una vendetta, né bastan mille morti,

A risarcire al mondo dell'innocente i torti.

Faccia amore uno sforzo all'onestà dovuto,

Gli affetti alla ragione si cedano in tributo.

Duca, il ciel non consente che sia vostra Isabella,

Forse coll'altra il patto a mantener vi appella.


Evvi una via soltanto, onde salvar mi lice

L'onor di onesta figlia, di onesta genitrice:

Per togliervi dal volto la macchia vergognosa,

Convien or, Isabella, che voi stringa in isposa
ISA.                  (Oh Ciel!)

PLA.                                    (Pietosi numi!)

LUI.                                                                (Ah, mi sento morire!)

PAS.                  (Amico, questa pillola dura è da digerire). (piano a Fabrizio)

FER.                  Per voi questa mia destra, che ad altri avea serbata,

Per voi co' suoi decreti il ciel l'ha destinata.

Volea donna Marianna sposar per vostro amore;

Or sposerò voi sola per amor, per onore.

Gli occhi fissate al suolo? (a donna Isabella) Duca, voi sospirate?

Deh la ragion v'illumini, bell'alme innamorate.

So qual tormento è il vostro. So qual dolor vi affanna.

SCENA TREDICESIMA

Beltrame e detti.

BEL.                Signore, a cenni vostri è qui donna Marianna.

FER.                Giunge opportuna, e pare ce la conduca il fato.

ISA.                 (Misera, son perduta!) (da sé)

LUI.                                                       (Aimè, son disperato!)

BEL.                Senta. (La real guardia è agli ordini disposta). (piano a don Fernando)

FER.                Venga donna Marianna. (Stia la guardia nascosta). (piano a Beltrame, che parte)

PAS.                (Fabrizio, andiamo via)

FAB.                                                         (No, aspettiamo il padrone).

FER.                Duca, vi compatisco. Ma il ciel così dispone.

SCENA QUATTORDICESIMA

Donna Marianna, Paolina in abito da donna, ed i suddetti; poi Beltrame.

MARI.              Eccomi a voi, signore, in segno di mia stima,

Forse con qualche merito ch'io non aveva in prima. Sola, afflitta poc'anzi, da tutti abbandonata, La causa del mio stato ho a voi raccomandata, E interpretar potevasi la mia rassegnazione Arte di scaltra femmina, ovver disperazione. Pochi momenti sono è un cavalier venuto, Non dirò per qual fine, ad offerirmi aiuto. Mi esibisce egli stesso condurmi al regal piede, Per domandar giustizia, per ottener mercede, E per assicurarmi esserne il Re informato, Con un regio ministro sen venne accompagnato. Nel mar delle sventure ei mi offerisce il porto,


Ma al protettor primiero far non consento un torto.

Tanto di voi mi fido, in voi tanto riposo,

Che il mio destino altronde di procacciar non oso:

Certa che don Fernando ha un'anima onorata,

Certa ch'esser non posso tradita, abbandonata.

Ecco del mio destino, ecco il fatal momento:

Ah, da fiducia estrema incoraggir mi sento!

Duca, veggo i rimorsi che al vostro cuor fan guerra;

So che il rossor vi sforza fissar le luci in terra.

Ecco il giudice nostro. Suocero, amico e zio

So che voi lo vantate, ma ancora è padre mio.
FER.                  Ah sì, donna Marianna, tanto più meritate,

Quanto più nell'onore di un cavalier fidate.

Del protettor novello, per onestà e rispetto,

Il nome non vi chiedo, ma in cuor serbo il sospetto.

Qual che a voi lo conduce, sia zelo o sia malizia,

Sagrificar pretende la fama alla giustizia.

In cause di tal sorte, ove l'onor s'impegna,

Lo strepito fuggire ogni prudenza insegna.

Ed io prima di tutto fissai nel mio pensiero

Condur la causa vostra per nobile sentiero.

Celo a voi quel disegno che m'inspirò il mio zelo;

Altro dall'uom si medita, altro dispone il cielo.

Per altra via più facile al vostro ben provvedo.

Ecco il duca Luigi...
BEL.                                                   Signore... oh, cosa vedo? (viene per parlare a don Fernando,

e mostra di esser sorpreso osservando Pasquale)
FER.                  Donde tal maraviglia? (a Beltrame)

BEL.                                                      Di travedere io dubito. (come sopra)

FER.                  Parla, che ti sorprende?

BEL.                                                      Signor, ritorno subito. (parte)

FER.                  (Non è sciocco Beltrame, dubito che vi sia

Qualche forte motivo). (da sé)
PAS.                                                       (Fabrizio, andiamo via). (piano a Fabrizio)

SCENA QUINDICESIMA

Il Capitano don Roberto, Beltrame e detti.

BEL.                 Ecco due capitani.

PLA.                                                Stelle!

LUI.                                                             Numi!

FAB.                                                                        (Che vedo!)

FER.                  Qual prodigio è codesto?

PAS.                                                          (Ah ci siam, me n'avvedo). (tenta di nascondersi dietro a

Fabrizio)
FER.                  Chi siete voi? (a don Roberto)

ROB.                                       Signore, ardito in queste soglie

Venni da amor condotto ad abbracciar mia moglie,


So che da lei non merto di sua bontade il dono:

Placida mia adorata, domandovi perdono.
PLA.                 Ah, questi è il mio consorte. Ah santi numi! è questi.

Lo riconosco agli atti, e ai sentimenti onesti.

Perfido, scellerato. (cercando coll'occhio Pasquale)
FAB.                                                (Non ti smarrir, fa cuore). (piano a Pasquale)

Questi è un uomo onorato, codesto è un impostore.
ROB.                 Qual orribile inganno! Al volto, alla figura;

Veggo che in due soggetti scherzato ha la natura;

E l'arte, prevalendosi della natura istessa,

Vuole adombrare il vero, vuol l'innocenza oppressa.

Mi riconosca almeno la tenera famiglia.

Codesta, il cuor mel dice, codesta è la mia figlia.

Deh consolate un padre; deh consolate un sposo,

Che se partito è ingrato, a voi torna amoroso.

(Donna Placida e donna Isabella vogliono avanzare per abbracciare don Roberto)
PLA.                 Ah, il cuor me ne assicura, e il cuor non può mentire.

FER.                  Trattenetevi, donne: il ver si ha da scoprire.

Chi è di voi l'onorato, ha da soffrir l'affronto.

Ambi in carcere andrete.
ROB.                                                         Vadasi pur, son pronto.

PAS.                  Come! mi maraviglio, non mandasi prigione

Un capitan mio pari. Vi andrà quel lazzarone.
FAB.                 (Vanne per poco almeno, ch'io ti difenderò).

PAS.                  (In carcere, Fabrizio, per bacco, non ci vo).

LUI.                  Voi, che con un di loro giunta in Napoli siete,

Qual sia di questi due conoscere potrete. (a donna Marianna)
ROB.                 Ebbi con voi l'onore di essere accompagnato.

PAS.                  Con voi, signora mia, non mi sono imbarcato?

MARI.              Avanzati, Paolina.

PAO.                                                Eccomi qui, signora.

MARI.              A scioglier quest'inganno aiutami tu ancora.

PAS.                  (Amico, siam perduti). (a Fabrizio)

FAB.                                                      (Anch'io molto ne temo).

PAS.                  (Subito il capitano sia condannato a un remo).

MARI.              Quel ch'è con noi venuto, contentisi narrare

La seconda borrasca che si è sofferta in mare.
PAS.                  (Cosa ho da dire?) (a Fabrizio)

FAB.                                                (Inventati). (a Pasquale)

PAS.                                                                   (Se in inventar m'imbroglio

In mezzo alla borrasca vo a rompere in un scoglio).
ROB.                 Dirò, per compiacervi, che appena si è salpato

Dal porto di Messina, il mare si è turbato.

E allor, se alla feluca tardavasi il riparo,

Si andava a precipizio a battere nel Faro.

Questo primier periglio a dir non mi diffondo;

Colle sue circostanze descriverò il secondo.
MARI.              Per me scorgo abbastanza, che siete voi quel desso

PAO.                 Pare quest'altro ancora il capitano istesso:

Voglio venirne in chiaro. Nella feluca entrata,

Ditemi quella cosa che tosto ho domandata. (a Pasquale)


PAS.                  Da mangiar.

PAO.                                       Non è vero.

PAS.                                                             Da vomitar.

PAO.                                                                                 Porcone!

ROB.                 Io lo direi, signora, ma ho un po' di soggezione.

PAO.                 Bravo, voi lo saprete; dirlo non mi vergogno:

Ho domandato quello che a tutti fa bisogno.
FER.                  Orsù bastantemente il ver parmi scoperto.

Codesto è un impostore. Quegli è il ver don Roberto.

L'origine, la trama di tali tradimenti

Tu svelerai, mendace, fra i ceppi e fra i tormenti.

Venga a me l'offiziale. (a Beltrame)
BEL.                                                      Il tempo si fa brutto. (parte)

PAS.                  Senz'altre cerimonie, signor, vi dirò tutto.

Quegli che mi ha condotto a un tale precipizio,

Fu il signor Cavaliere, per opra di Fabrizio.
FAB.                 Ho fatto quel che ho fatto, per servire al padrone.

FER.                  Anime scellerate, ne avrete il guiderdone.

Tu di comando indegno esecutor ribaldo...
BEL.                 Signor, è qui di fuori il cavaliere Ansaldo.

FER.                  Venga, che a tempo ei giunge. (Beltrame parte)

LUI.                                                                   Ah perfido germano!

FER.                  No, no, nelle mie stanze non vi adirate invano.

Più di voi sono offeso, ed a me sol si aspetta

Usar doppia giustizia nel procurar vendetta.

SCENA SEDICESIMA Il Cavaliere Ansaldo e detti.

CAV.                Signore, il capitano, che a voi si raccomanda,

Giustizia all'onor suo pretende, e la domanda.

Opporsi è cosa ingiusta alle ragioni sue.
FER.                  Amico, il capitano qual è di questi due? (facendogli vedere anche don Roberto)

CAV.                Che stravaganza è questa? (a Fabrizio)

FAB.                                                            Un colpo inaspettato.

PAS.                  Dall'Indie sulle spalle il diavol l'ha portato.

CAV.                (Discoperto è l'inganno. Oimè! qual confusione?) (da sé)

FER.                  Cavalier, da par vostro vi par codest'azione?

Ah, così deturpate il sangue onde nasceste?

Quai perfide calunnie, quai macchine son queste?

Giunger fino all'eccesso, che un falso genitore

Rechi a figlia innocente perpetuo disonore?

Nutrir potete in seno sì orridi sentimenti?
CAV.                Ah consiglier ribaldo d'inganni e tradimenti! (a Fabrizio)

FAB.                 (Ecco i cento ducati che il Cavalier ci dà). (a Pasquale)

PAS.                  (Fabrizio, ti regalo anche la mia metà). (a Fabrizio)


SCENA DICIASSETTESIMA

Il Tenente della guardia, Beltrame e detti; poi vari Soldati.

BEL.                 Ecco il signor tenente.

TEN.                                                      Sono agli ordini vostri.

PAS.                  (Or ci daran la paga per i meriti nostri).

FER.                  Quel servitore indegno, quel finto capitano,

Da voi sian consegnati al Criminale in mano.

Il Cavalier s'arresti, e in un castel sen vada
CAV.                Tal onta ad un mio pari?

TEN.                                                         Cedetemi la spada.

CAV.                Comanda don Fernando? Chi tal poter gli ha dato?

FER.                  A voi conto non rende un ministro di stato.

TEN.                 Olà. Quei due si arrestino. Fra l'armi sian guidati,

E sian dal caporale al Criminal scortati. (i Soldati prendono fra l'armi Fabrizio e

Pasquale, disarmandoli)
FAB.                 Ah, per un vil guadagno a ciò sono arrivato.

PAS.                  Oh naso maladetto, tu m'hai precipitato. (partono fra i Soldati)

TEN.                 Seguitemi, signore.

CAV.                                               Ah, qual interno affanno

Destami la vergogna del meditato inganno!

Non temerei la pena di un vendicato amore,

Se il rossor non giungesse ad avvilirmi il cuore.

Finirò la mia vita in carcere profondo;

Con questa macchia in volto più non mi vegga il mondo. (parte col Tenente e i

Soldati)

SCENA ULTIMA

Il Principe Don Fernando, il Duca, donna Marianna, donna Placida, donna Isabella,

Paolina, don Roberto e Beltrame.

FER.                  Lode ai numi pietosi, ecco svelato il vero;

Eccoci ritornati nel pristino sentiero. L'amabile Isabella viver potrà sicura Di un padre per affetto, di un padre per natura. Donna Placida al seno può stringere lo sposo; La sposa don Roberto può stringere amoroso. Ma trema ancor la figlia, il Duca ancor si affanna, Del suo destino incerta è ancor donna Marianna. Se il capitan Roberto tardava anche un momento, Qual di voi saria stata la smania ed il tormento? Io consolar promisi di ciascheduno il cuore: Vediam se può sperarlo il mio paterno amore. Voi che amor conoscete, voi che virtude amate, (a donna Marianna) Mirate, e compatite quell'alme innamorate. Vostro del Duca è il cuore, vostra, è ver, la sua mano:


La man sperar potete, ma il cuor sperate invano;

E se la pace all'alma non vi promette amore,

Solo bramar vi resta di risarcir l'onore.

Questo serbar intatto per altra via si puote,

Senza che abbia uno sposo a procacciar la dote:

Ma con tale imeneo, che a stato vi conduca,

Per onor, per fortuna, pari a quello del Duca.

Anzi se unirvi ad esso può sol forza e dispetto,

L'altro il cuor vi esibisce per stima e per affetto.

Onde non sol venuta a risarcir la fama,

Ma troverete un sposo, che vi rispetta ed ama:

Che della virtù vostra il merto ha conosciuto,

Che degna vi considera d'ogni maggior tributo,

Che pronto in compiacervi in ogni incontro avrete,

Che è cavalier d'onore...
MARI.                                                      E il cavalier voi siete.

Signor, tanta fortuna so ch'io non merto, è vero,

Ma pur l'ha preveduta audace il mio pensiero.

Fidar io mi dovea di un cavaliere onesto,

Né immaginar potevasi mezzo miglior di questo.

Come potean tre cuori dar fine a' lor tormenti,

Se non entrava il quarto a renderli contenti?

Duca, di voi mi scordo, né lacerar mi sento

L'anima prevenuta di un tal distaccamento.

Ah sì, nei primi giorni l'ho dolcemente amato,

Ma come amar potevalo dell'amor mio scordato?

L'onor mi fe' sollecita, sol l'onor mio mi ha mosso;

Gloria maggiore al mondo desiderar non posso.

Voi cavalier sublime, voi dell'onor geloso,

Voi di Real Sovrano ministro poderoso,

In cui tante virtudi l'anima grande aduna,

Il ciel vi ha destinato per far la mia fortuna;

E pur, quant'io lo sono, felice or non sarei,

Se amabile non foste ancora agli occhi miei.

Sia dover, sia giustizia, sia inclinazione o amore,

Signor, ve lo protesto, vi ho consacrato il cuore.
ISA.                  Respiro.

LUI.                                  Perdonate, se sconoscente, ingrato... (a donna Marianna)

MARI.              Per sì bella cagione, signor, vi ho perdonato.

Principe, del cuor vostro il dubitare è vano;

Ma deh! per mio contento, porgetemi la mano.
FER.                  Pria che dal nuovo laccio sia la mia destra avvinta,

Donisi qualche giorno alla mia sposa estinta;

Dalle sue calde ceneri rimproverarmi io sento.

Voi la mia fede aveste. Son cavalier, non mento.
MARI.              Alle sventure avvezza, signor, mi trema il cuore;

Mi ha mancato di fede un cavalier d'onore.

Abbia l'estinta sposa il dovuto rispetto.

Tardisi ad occupare il marital suo letto.

Ma dandomi di sposo la mano in queste mura,

Del ben che mi offerite, rendetemi sicura.


Fin che la mia fortuna risplende in lontananza,

Avrò in petto il timore unito alla speranza;

E il Duca alla sua sposa esser non deve unito

Prima che il sacro nodo fra noi sia stabilito.
ISA.                  Deh, padre mio...

FER.                                                 V'intendo. Per rendervi felice,

Soffra le caste nozze l'estinta genitrice.

Speso per voi non abbiasi tanto sudore invano:

Su via, donna Marianna, porgetemi la mano.
MARI.              Eccola. Dal contento sentomi il cuore oppresso.

FER.                  Figli, miei cari figli, fate voi pur lo stesso.

LUI.                  Permettetemi, o cara... (a donna Marianna)

PLA.                                                      La destra a lui porgete. (a donna Isabella)

ISA.                  Eccola. Oh me felice!

LUI.                                                       L'idolo mio voi siete.

PLA.                 Che più rimane, o cieli, da domandarvi in dono?

ROB.                 Resta che a me si doni da Placida il perdono.

FER.                  Sì, non temete, amico; eccolo in quelle ciglia:

Ecco la sposa vostra; ecco la vostra figlia.

Ma fra di noi la bella abbia diviso il core,

Voi genitor le siete, Padre io son per amore.

Deh quest'amor sì tenero, deh quest'amor sì onesto,

Contento e fortunato rendami almeno in questo.

Altrui serva d'esempio il mio onorato impegno,

E gli uditor ci accordino di compiacenza un segno.

Fine della Commedia