Il peccato

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IL PECCATO

Commedia in tre atti

di GIUSEPPE LANZA

PERSONAGGI

IL DUCA DI GROTTALDA

MISIA

LUISA

CONTE DIEGO GALLIZZI

MARCHESE PAOLO MAZZARA

LUCA BATTISTA

MARIANNA

GAETANA

Sui monti Erei in Sicilia

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

Stanza di un'antica casa patrizia di campagna. In fondo una grande porta vetrata a tre arcate che dà su una veranda, donde si scende nel parco. A sinistra due porte; altra porta a destra. E' un pomeriggio estivo. La vetrata è coperta dalle tende; la stanza è nella pe­nombra.

SCENA PRIMA Il Duca e Battista

                                      - (La scena è vuota. Dalla destra entra il Duca seguito da Battista).

Il Duca                          - (è un uomo di sessant’anni, completamente ca­nuto, alto e robusto. Ha i lineamenti nobili del si­gnore di razza, marcati dalla sofferenza; voce piana e profonda; il gesto lento. Il suo sguardo, vivo e pe­netrante quando fissa qualcuno, è solitamente come assorto) Non ci si vede qua dentro.

Battista                         - (è un vecchio di ottant'anni, piccolo e magro. Più che l'ossequio formale dei domestico, ha per i suoi padroni un'affettuosa e come innata devozione. - Aprendo le tende) Se non si tiene chiuso, la casa diventa un forno: ci batte il sole, da questa parte.

Il Duca                          - Apri anche i vetri: così non si respira.

Battista                         - Poi prende un raffreddore, come l'altra volta.

Il Duca                          - Apri.

Battista                         - (apre tutte le tende e i vetri. La luce invade la stanza) Le ho preparato il caffè, Eccellenza. O preferisce un'aranciata?

Il Duca                          - Dammi il caffè.

Battista                         - (esce dalla destra e ritorna subito con un vassoio, che posa su un tavolinetto) E' stata a Rosmanno, Eccellenza?

Il Duca                          - A Rosmanno. (Prendendo il caffè) Il marito di tua nipote, caro Battista, me l'ha fatta grossa.

Battista                         - (addolorato) Che ha fatto?

Il Duca                          - Ieri gli ho detto di trovarsi stamat­tina all'alba a Rosmanno per dare ai sorve­glianti i miei ordini per la trebbiatura. Quan­do io sono arrivato lì, alle dieci, ancora non s'era visto.

Battista                         - (tra addolorato e contento) Lo per­doni, Eccellenza. E' per via di mia nipote.

Il Duca                          - Che c'entra tua nipote?

Battista                         - Le sono venute le doglie. Lassù, alla Rocca, sono soli. E' la prima volta. Quel poveraccio ha perduto la testa ed è andato al paese per la levatrice. Però ha mandato il ra­gazzo a Rosmanno, a portare gli ordini di Vostra Eccellenza. Ma quello scioccosa: il figlio della Rosa: tutto sua madre           - ha sba­gliato la strada e se n'è venuto qui. Io, per rimediare, ho mandato a Rosmanno Cristo­foro. Ma dev'essere giunto tardi.

Il Duca                          - Alla Rocca non ci sono altre donne?

Battista                         - Ce n'è, nelle vicinanze. Ma vanno a lavorare: la giornata non la pèrdono.

Il Duca                          - Mandaci subito Gaetana, che è pra­tica.

Battista                         - Ce l'ha già mandata la signora mar­chesa, ch'era giù quando è venuto il ragazzo a portare la notizia.

Il Duca                          - Manda qualcuno in paese a pregare a nome mio il dottore Marano di andare su­bito alla Rocca.

Battista                         - Il dottore, Eccellenza?

Il Duca                          - La prima volta, non si sa mai.

Battista                         - Che il Signore glielo ricompensi, Eccellenza.

Il Duca                          - Va', presto.

Battista                         - (esce sulla veranda) Lorenzo! Ehi, Lorenzo! Senti. (Scottipare giù per la scala; poco dopo ritorna) Ho mandato Lorenzo che cammina lesto.

Il Duca                          - Diventiamo bisnonni, eh, Battista. (Battista sorride, contento; ai commuove; sta per piangere) E che, piangi? Sciocco.

Battista                         - Povera orfana! Ci fosse almeno la buon'anima di mia figlia. Io non sono più buono a nulla: come un carretto sfasciato.

Il Duca                          - Questo, Battista, lo facciamo bat­tezzare da Luisa e dal suo fidanzato.

Battista                         - (con- lieta commozione) Da donna Lisetta!

Il Duca                          - Dov'è ora?

Battista                         - (va in fondo e guarda fuori) Eccola lì, sotto il carrubbo, che legge. (Il Duca s'av­vicina a Battista e guarda fuori) Vado a chia­marla, Eccellenza?

Il Duca                          - No. (Dopo una breve pausa, accen­nando fuori) Ti ricordi, Battista?

Battista                         - La buon'anima della signora du­chessa? Se mi ricordo! Mi pare ieri, mi pare. A quest'ora, sempre lì, che ricamava o leg­geva. (Breve pausa.) Fa cinque anni per San Cristoforo. (Si segna.) Che il Signore l'abbia in paradiso.

Il Duca                          - (venendo avanti, con <is$orta tristezza) Misia, dorme?

Battista                         - Dorme? (Con un gesto disperato) E' fuori, Eccellenza! A cavallo!

Il Duca                          - (con, doloroso stupore) A cavallo? con questo sole?

Battista                         - Un sole che, Dio liberi, può far cascare fulminati!

Il Duca                          - (camminando nervosamente, quasi tra se) Vuole rovinarsi.

Battista                         - Grazie a Dio, ha una salute di fer­ro; ma con questa dannazione di sole, non si scherza. Io l'ho pregata come una santa: « Faccia rinfrescare un po' l'aria. Un colpo di sole, Dio liberi, non ci vuole niente a pren­derlo. Se lo sa suo padre, va in collera ». Ma Vostra Eccellenza lo sa com'è: quando si met­te una cosa in testa, nessuno gliela leva. E risponde come se non le ricordassero il bene. Poco fa mi ha fatto una sfuriata.

Il Duca                          - Non devi prendertela a male, se qualche volta è un po' aspra.

Battista                         - (sorridendo bonariamente) A male, io? E che dice, Eccellenza! Come se non la conoscessi, donna Misuzza. L'ho portata sulle braccia, io. Ha un cuore d'oro. Lo so io quello che ha fatto in questi anni per mia nipote, per via ch'è figlioccia della buon'anima della signora duchessa. E quando mi sgrida, forse io non capisco che si tratta di momenti?... (Con tono confidenziale) E se sapesse, Eccel­lenza, come mi si stringe il cuore. Mi fa ri­cordare la buon'anima della signora duchessa, quando Vostra Eccellenza... Anzi volevo dirle...

Il Duca                          - Che cosa?

Battista                         - Stamattina mi sono accorto che donna Misia è entrata nella camera della buon'anima della signora duchessa.

Il Duca                          - (turbato) Per che fare?

Battista                         - Non so.

Il Duca                          - La chiave non era nella mia ca­mera?

Battista                         - Sì, Eccellenza. Deve averla presa subito dopo che Vostra Eccellenza è uscita. E lì, nella camera, deve aver acceso il can­deliere, perché non ha aperto le imposte del­la finestra. (Breve pausa.) Io credo, Eccel­lenza...

Il Duca                          - (con oscuro tremore) Che cosa?

Battista                         - Mi perdoni se mi permetto... Non so perché, stamattina mi sono ricordato di quando Vostra Eccellenza tornò dalla Spagna. Si ricorda? Donna Misia allora poteva avere undici anni, ma era così intelligente... Quan­do io le dissi: « Donna Misuzza, è venuto il papà » - lei si mise a saltare dalla gioia « il papà! il papà! » ma poi, subito dopo, come se... Non so... E' certo che scoppiò a piangere e scappò in giardino. Ora io credo, Eccellenza... (Dalla destra entra Luca).

SCENA SECONDA Il Duca, Luca, Battista

Luca                              - (è un giovane di ventisei anni. E' vestito alla cavallerizza, ed è sudato e ansante) Buon giorno, papà.

Il Duca                          - Oh, Luca. (Gli stringe la mano).

Luca                              - Sono morto. (Siede).

Battista                         - Bacio le mani, signor dottore.

Luca                              - Caro Battista.

Battista                         - Si segga lì. Qui c'è corrente d'aria. Può prendere un raffreddore.

Luca                              - Magari! con questo caldo!

Battista                         - (tra se) Sempre come un ragazzo.

Il Duca                          - Sei venuto a piedi?

Luca                              - La prima volta, a cavallo; la seconda, a piedi. Battista, fammi il favore: portami da bere.

Battista                         - Vuole un'aranciata o una tazza di caffè ben caldo?

Luca                              - Acqua! acqua!

Battista                         - Subito, subito. (S'avvia, poi ritor­na). Donna Lisetta l'aspetta. Glielo dico eh'è venuto?

Luca                              - Battista; se non bevo non capisco nien­te. (Battista esce).

Il Duca                          - Che cosa ti è successo?

Luca                              - Stavo per arrivare qui, a cavallo, paci­ficamente, quando imi vedo spuntare davanti Misia dall'accorciatoia, « Subito   - mi grida - va' subito al paese e di' al dottore Marano che vada alla Rocca perché la Rosalia sta per dare alla luce un bambino ».

Il Duca                          - Potevo andarci tu alla Rocca.

Luca                              - Quello che volevo fare. Ma Misia non s'è ancora convinta ch'io sono medico. « Ma che tu! Fa' il favore! Va' dal dottore Mara­no ». Quando è a cavallo, col frustino in ma­no, con quei suoi gesti napoleonici, non so perché, m'incute un rispettoso timore. E così sono tornato in paese al galoppo. Il dot­tore Marano ha il cavallo azzoppato; sicché gli ho dovuto prestare il mio. E io sono ve­nuto a piedi. E non so se mi spiego.

Il Duca                          - Misia è andata dalla Rosalia?

Luca                              - Non credo. L'ho vista imboccare lo stradone della miniera.

                                      - (Il Duca s'allontana, accigliato. Battista rien­tra con un vassoio).

Luca                              - Ah! (Beve). Grazie, Battista.

Battista                         - (al Duca) E' venuto dal paese il ragazzo con la posta. (Gli porge su un piccolo vassoio alcune lettere, poi sì avvicina a Luca). Glielo devo dire ch'è venuta vossignoria?

Luca                              - (alzandosi) Se mi dici dov'è, glielo dico io. (Battista lo conduce in fondo e sorri­dendo accenna fuori. Luca guarda, poi fa un gesto di saluto). Buon giorno! (Va sulla veranda ad incontrare Luisa). (Battista esce).

SCENA TERZA Il Duca, Luca, Luisa

Luca                              - (sulla veranda, stringendo le mani a Lui­sa) Come sta la mia fidanzata?

Luisa                             - (è una fresca creatura di vent'anni. In lei si alternano gaiezza infantile e trasognata tri­stezza). Bene. (Entrano). Oh, papà, sei tor­nato. (Gli porge la guancia, che il Duca, evi­dentemente turbato dalla lettura di una let­tera, le bacia distrattamente). Va tutto bene a Rosmanno?

Il Duca                          - (distratto) Sì.

Luisa                             - (accennando alla lettera che il Duca tie­ne ancora in mano) Scusa: non me n'ero accorta. (Si avvicina a Luca). Sai che viene da Palermo, per qualche settimana, la zia Anna Maria?

Luca                              - Ah, ne sentivamo proprio il bisogno!

Luisa                             - Non essere cattivo. La zia Anna è un po' all'antica, severa, ma ci vuole bene.

Luca                              - Troppo.

Luisa                             - Anche a te.

Luca                              - Purtroppo. Pazienza: una settimana di servizio di picchetto.

Luisa                             - Non ti fare sentire dal papà. A pro­posito, papà: dove la mettiamo la zia Anna?

Luca                              - (piano) In un museo.

Luisa                             - (piano) Basta, Luca.

Il Duca                          - (voltandosi, distratto) La zia Anna?

Luisa                             - Nella lettera dice che vuole che le si prepari la camera in cui dormì l'ultima volta che venne qui: sette anni fa.

Luca                              - (tra se) Che razza di memoria!

Il Duca                          - Accontentala.

Luisa                             - Ho domandato a Battista, perché io non me ne ricordavo. E' la camera... dove spirò la mamma.

Il Duca                          - (con pacata fermezza) No. Ho detto altre volte che quella esimerà non deve più servire per nessun uso.

Luisa                             - Cederò alla zia la mia camera. Spe­riamo che si accontenti. Io andrò su, nella cameretta vicina a quella di Misia.

Il Duca                          - Ecco.

Luisa                             - Che hai, papa?

Il Duca                          - (sorridendo a stento) Io? Niente, cara.

Luisa                             - (accennando alla lettera che il Duca tie­ne stretta in pugno) Qualche seccatura?

Il Duca                          - (mettendo in tasca la lettera) No, no.

Luisa                             - (con un sorriso infantile) Hai bisogno della tua segretaria?

Il Duca                          - (prendendole il capo tra le mani, con sorridente tristezza) Non ho bisogno della mia brava segretaria. Ho bisogno di vedere la mia buona figliuola. Così. E di vederla fe­lice. (A Luca) Capito?

Luca                              - (avvicinandosi) Questo è anche un bi­sogno mio, papà.

Il Duca                          - Ricordati che certi bisogni si devono sentire come doveri. E come doveri, anzi tutto, verso sé stessi. Siete giovani, sani, belli. Vi amate. Potete fare della vostra vita una cosa bella e sacra.

Luca                              - Lo dobbiamo.

Il Duca                          - Ecco: dovete. E solo così potrete essere felici. Che Dio vi benedica. (Li bacia in fronte). Io vado un momento su. Non usci­te, con questo sole. (Esce dalla prima porla di sinistra).

 SCENA QUARTA Luca e Luisa

Luisa                             - (con assorta tristezza) Quando il papà parla della nostra felicità, c'è sempre nei suoi occhi un'ombra di tristezza.

Luca                              - Non solamente allora. Ed è strano che Misia non lo capisca.

Luisa                             - Lo capisce anche troppo.

Luca                              - Non si direbbe.

Luisa                             - Tu parli come se si trattasse di una colpa sua.

Luca                              - Non ho detto questo.

Luisa                             - E non devi nemmeno pensarlo, Luca.

Luca                              - Non l'ho mai pensato. Solamente...

Luisa                             - Ecco: vedi? Solamente...

Luca                              - Volevo dire che Misia a volte agisce e risponde come se non capisse che la causa della tristezza di papà è lei.

Luisa                             - Non è lei: è il suo dolore.

Luca                              - Sembra che lei tenga a mostrare che non soffre nessun dolore.

Luisa                             - Non vuole vedere della pietà negli occhi di chi le parla. Era troppo felice e non si può rassegnare ad essere commiserata. La sua ironia e la sua asprezza celano un dolore cupo.

Luca                              - Forse avrebbe potuto evitarlo.

Luisa                             - - Che ne sappiamo, noi, di quello che successe? Non ha mai voluto parlarne. Solo al papà credo che abbia detto tutto.

Luca                              - Io so che Paolo non è un uomo vol­gare.

Luisa                             - Come? Abbandonare la moglie per un'altra donna, non è una volgarità?

Luca                              - Intanto - questo lo sappiamo - non fu lui ad abbandonarla.

Luisa                             - Se Misia lasciò la sua casa, a Roma, vuol dire che non poteva restarci. Chissà cosa avrà sofferto, povera Misia. E chissà quello che soffre. Io sorprendo a volte i suoi occhi estatici, pieni di un dolore che mi spaventa.

Luca                              - (vivamente) E' questo, quanto io non posso sopportare!

Luisa                             - (sorpresa) Che cosa?

Luca                              - Questo tuo spavento. L'atmosfera di tristezza che si respira qui ti corrode.

Luisa                             - (prendendogli le braccia, sorridendo) No, Luca.

Luca                              - Ecco: vedi? Nel tuo sorriso c'è come un presentimento di dolore.

Luisa                             - Non è vero, non è vero. Guardami. Ca­pisci che non è vero? Io mi vedo nei tuoi occhi, intatta. Non sento nulla di corroso in me.

Luca                              - Ora, che mi guardi, no.

Luisa                             - Mai. Perché ti guardo e ti vedo sempre.

Luca                              - (se la stringe al petto) Dobbiamo ve­derci sempre così, Lisetta.

Luisa                             - Sempre. (Entra il Duca).

SGENA QUINTA Il Duca, Luca, Luisa

Luisa                             - Faccio preparare il tè, papà?

Il Duca                          - Se vuoi. Ma per voialtri: io non ne ho voglia. (Si avvicina alla veranda). Inco­mincia a soffiare un po' di vento. Si respira. (Con un grido di spavento) Ma è pazza?

Luca                              - Chi?

Il Duca                          - Misia. Galoppa come una pazza. E in discesa!

Luisa                             - (accorre) Dio mio! può cadere!

Luca                              - Diego la segue. Non riesce a raggiun­gerla.

Il Duca                          - Ma vuole cadere per forza?

Luisa                             - Dio mio, lì c'è il precipizio!

Il Duca                          - (coprendosi gli occhi con le mani) Ah! (Qualche momento di silenzio angoscioso).

Luisa                             - (respirando, quasi senza voce) Dio sia ringraziato. (Il Duca viene avanti e si lascia cadere su una poltrona, esausto. Luisa gli si avvicina). Papà, non agitarti così.

Il Duca                          - (sorridendo a stento) Non sono agi­tato, cara.

Luca                              - Ecco: vengono.

                                      - (Si ode lo scalpiccio dei cavalli che si avvi­cinano rallentando a poco a poco la corsa).

Luisa                             - (va alla veranda) Vito! Vito! Viene la marchesa. Va' a prendere il cavallo. (/ ca­valli si fermano. Luisa scende qualche gra­dino). Misia! (Sale cingendo Misia per la vita).

SCENA SESTA Il Duca, Luca, Luisa, Misia

Luisa                             - Che spavento ci hai fatto prendere!

Misia                             - (è una bella donna di ventisei anni, alta, dal volto pallido e dai capelli neri, lunghi, folti e leggermente ondulati. La volontà di celare il suo tormento dà alla sua bellezza qualcosa di aspro e di maestoso. Ora, più che stanca, è come allucinata. Sorride) Perché?

 Luisa                            - Potevi cadere.

Misia                             - Non sono mai caduta. (Entrano). Che buio. Oh, Luca. Ti sei spaventato anche tu?

                                      - (ha un breve riso gutturale).

Luisa                             - Vieni di là a prendere qualche cosa.

Misia                             - Tu resta qui. Vado a cambiarmi (esce dalla seconda porta di sinistra).

                                      - (Dalla veranda entra Diego).

SCENA SETTIMA Il Duca, Diego, Luisa, Luca

Diego                            - (è un uomo di trentacinque anni, alto e robusto. Ha il volto pallido e ossuto, in cui risalta il cupo splendore degli occhi. Nella sua voce, nei suoi gesti, in tutta la sua persona c'è una maschia, armoniosa fermezza. Dominando la sua agitazione) Buon giorno, Lisetta. Come stai?

Luisa                             - Caro Diego.

Diego                            - Oh, Luca. Buon giorno, zio.

Il Duca                          - (con asprezza trattenuta) Buon giorno. E congratulazioni.

Diego                            - Per che cosa?

Il Duca                          - Per i tuoi progressi in equitazione. E' il modo di correre, in discesa?

Diego                            - Il cavallo ha preso la mano a Misia.

Il Duca                          - Non è cavallo da prendere la mano, quello. E specialmente a Misia.

Diego                            - Misia non era in uno stato normale. Anzi la prego di non essere severo con lei.

Il Duca                          - Potevi risparmiarti cotesta pre­ghiera.

Diego                            - Mi perdoni.

Il Duca                          - Perché non era in uno stato norma­le? Che cosa è successo?

Diego                            - Verso le due, Misia è venuta su alla mi­niera. Io lavoravo, nel mio studio. Mi ha chia­mato dal giardino perché l'accompagnassi al­la Rocca, dalla Rosalia, che doveva partorire.

Il Duca                          - Ebbene?

Diego                            - L'ho accompagnata. Lì, lei è entrata nella camera di quella poveretta, che doveva trovarsi proprio agli estremi.

Il Duca                          - Eh?

Diego                            - Sì, è morta.

Il Duca                          - Morta?

Luisa                             - (che è stata in disparte con Luca, avvici­nandosi) Chi è morto?

Diego                            - La Rosalia, dando alla luce un bel bam­bino.

Luisa                             - (coprendosi il volto con le mani) Oh! (si avvicina a Luca. Dopo aver scambiato qual­che frase sottovoce escono dalla seconda porta di sinistra).

SCENA OTTAVA Il Duca - Diego

Il Duca                          - Povero Battista.

Diego                            - (assorto) Quando Misia è uscita da quella camera era pallida come non l'avevo mai vista. Era andata per assistere a una na­scita e aveva assistito contemporaneamente anche a una morte. Ci siamo avviati a piedi, lentamente, conducendo i cavalli per le redini. A un certo punto lei ha detto, quasi tra se: « Orribile! ». Poi, come se rivedesse il volto di quella poveretta nei suoi ultimi momenti di vita: « E' in pace per sempre ». E pareva che l'invidiasse. Ha voluto montare a cavallo e s'è messa a galoppare come una pazza. Non so se nella sua corsa ci fosse quell'istintivo bisogno di sentirsi vivere che suscita a volte lo spettacolo della morte, o se un violento desi­derio di essere in pace per sempre. Ho passa­to un brutto momento, (breve pausa).

Il Duca                          - (assorto, quasi tra se) Povera figlia mia! (Si alza e cammina) Non avresti dovuto condurla lì.

Diego                            - Non volevo, dapprima. Ma lei lo desi­derava tanto, e c'era nel suo desiderio come il presentimento di un'intima conquista. Ho pensato che avrebbe potuto essere un bene per lei.

Il Duca                          - Tu, non lo sai che cosa può essere per lei un bene?

Diego                            - (sostenendo con sforzo il suo sguardo) Io?

Il Duca                          - Tu! tu! (Entra Misia).

SCENA NONA Il Duca, Diego, Misia

Misia                             - (è in abito di casa di colore chiaro) Oh, papà. (Gli si avvicina e gli porge la guan­cia).

Il Duca                          - (la bacia; poi le prende il mento con il pollice e Vindice, e la fissa) Come stai?

Misia                             - Benissimo. (A un moto del Duca) Ti dispiace?

Il Duca                          - Mi dispiace il tono della tua risposta.

Misia                             - Sto benissimo. (E poiché il Duca con­tinua a fissarla tristemente, con asprezza mal trattenuta) Non c'è nulla da compiangere, papà.

Il Duca                          - Non ho parlato.

Misia                             - Non è sempre necessario.

Il Duca                          - (con dolorosa esasperazione) Devo chiederti scusa?

Misia                             - (dopo un breve silenzio, senza guardarlo, pjjflno) Perdonami. (Pausa) Diego ti ha det­to della morte della Rosalia?

Il Duca                          - (dominando a stento la sua agitazione) Sì. Mi ha addolorato. Era una buona gio­vane. Sarà un colpo troppo forte per il povero Battista. Forse è meglio non fargli sapere nul­la per ora. Vado a raccomandarlo alle donne. (esce dalla seconda porta di sinistra).

SCENA DECIMA Misia - Diego

Misia                             - (assorta) Rosalia! Quel suo bel viso trasfigurato in quello strazio. C'era come con­densata tutta l'angoscia dell'esistenza. Ma quando s'è irrigidito nella morte, che sereni­tà! che pace! E come se tutto, intorno, mu­tasse stranamente aspetto, (dopo un breve si­lenzio, volgendosi a Diego) Perché mi guardi così? (tenta invano di ridere) Perché non vo­levi venire alla Rocca?

Diego                            - Non volevo che tu ci andassi.

Misia                             - (con ironia) Perché avrebbe potuto farmi del male, eh? Sembra che il buon Dio ti abbia affidato personalmente la mia tutela spirituale.

Diego                            - Non mi ha mandato il buon Dio a dirti di non andare là. Sei stata tu a venire da me per essere accompagnata.

Misia                             - E ti ho distolto dal tuo lavoro.

Diego                            - Il mio lavoro da un pezzo non riesce a essere nemmeno una distrazione.

Misia                             - Per colpa mia.

Diego                            - Per colpa del destino.

Misia                             - Subisci il nostro legame come una fa­talità.

Diego                            - E tu?

Misia                             - Io non ho mai subito niente.

Diego                            - Credi che sia sempre un segno di forza?

Misia                             - Non voglio saperlo. « Credi che sia sempre un segno di forza? ». (i*ide) Di ogni minima cosa tu hai bisogno di sapere il suo valore generale. Sono sicura che non hai mai detto a una donna; ce ti anno », senza prima aver fatto questo ragionamento: « Ciò che mi avvicina a questa donna, è veramente amore? Se non è amore, non devo, non posso dire: ti amo. E se è amore, quale valore può avere nella mia vita e nell'universo? ». (ride). Diego      - Non è un ragionamento: è un modo di

Misia                             - Molto divertente.

Diego                            - (duro) Che può dominare, anche se non diverte.

Misia                             - (con un sorriso ostile) Questa, è per me?

Diego                            - (triste) Ecco: ora mi guardi come un nemico. E sono il tuo amante!

Misia                             - (con astiosa amorosità) Non mi hai mai detto: « ti amo ».

Diego                            - Non ce lo siamo mai detto. (Misia lo fissa a lungo, poi volge il capo altrove, Diego piano, appassionatamente) Misia! (Le fa vol­gere il capo con la mano) Guardami.

Misia                             - (lo fissa; poi, non potendo sostenere il suo sguardo, socchiude gli occhi) Baciami. (E poiché Diego continua a guardarla con appas­sionata tristezza, ella gli prende il capo tra le mani e lo bacia sulla bocca. Poi, a provo­carlo) Tu non mi ami.

Diego                            - (con violenza mal trattenuta) Misia!

Misia                             - Non mi ami!

Diego                            - (scuotendola) Misia, perché fai così? Perché?

Misia                             - (dominata, con sincero amoroso terrore)

                                      - Sei bello. Spaventosamente bello.

Diego                            - (con amara violenza) E' il tuo tormen­to che ti si chiarisce e assume un volto in me. E ti attrae, ti spaventa. E ogni volta, come per dominare quest'attrazione paurosa, insorgi eb­bra e violenta come una baccante. Sempre cosi! E così ci siamo presi. Quel giorno, quando...

Misia                             - (mettendogli la mano sulla bocca, esausta) Taci.

Diego                            - (triste, abbattuto) Quel giorno, tu lo avrai maledetto.

Misia                             - (fissandolo, quasi con tenerezza) No.

Diego                            - No? Dianzi, Misia, quando a galoppo sfrenato sei arrivata alla svolta dello stradone a picco sul precipizio, io ho avuto la sensazione

                                      - non so: come un brivido: Misia ora lascia le staffe per cadere. E ho gridato forte, come un disperato, il tuo nome.

Misia                             - (arretra, fissandolo, tremando) Tu hai...?

Diego                            - (leggendoglielo negli occhi) Stavi per farlo!

Misia                             - (quasi senza voce) Sì. Il tuo grido mi ha trattenuta.

Diego                            - (prendendole le braccia) Misia!

Misia                             - (gli mostra il palmo delle mani) Il se­gno delle unghie: quando ho stretto forte le mani per tenere le redini che avevo quasi la­sciate. E' un segno tuo.

Diego                            - (le bacia quel segno, commosso) Perché, Misia? (Misia tace, assorta col petto an­sante) E non era, quella, una maledizione?

Misia                             - Forse un'espiazione.

Diego                            - Del nostro peccato?

Misia                             - Il nostro legame io non lo sento come un peccato.

Diego                            - (fissandola e scrollando tristemente il ca­po) Il peccato fu commesso da un altro. (Breve pausa) E in fondo tu non ami che lui.

Misia                             - (secca) Basta.

Diego                            - Ecco: basta. Se mi dicessi: « sì, lo amo », non mi daresti una conferma così cer­ta e dolorosa come quando dici: « basta ».

Misia                             - Godi a torturarmi. Forse nemmeno: a torturarti. (E poiché Diego sorride triste, con voce sorda) Non lo amo più. Non lo amo più.

Diego                            - Misia, vuoi venire con me?

Misia                             - (con mal celato tremore) Con te?

Diego                            - Leghiamo le nostre esistenze. Siamo della stessa razza, Misia. E non soltanto per la nostra lontana parentela. La felicità inco­sciente in cui vivemmo un giorno, io con mia moglie, tu con tuo marito, forse non era per noi, se ora ci appare così lontana a favolosa. Siamo forse di quelli che devono fare germo­gliare col proprio sangue le spine che li inco­ronano. Poco fa tu hai deriso il mio bisogno di vedere di ogni cosa il suo valore generale. E' come un nuovo istinto, Misia; l'istinto dell'esiliato che deve farsi da sé un'altra patria; l'istinto di chi sente che nella propria esi­stenza c'è chiuso un universo la cui armonia deve da se stesso creare con volontà disperata. Nel mio amore, Misia, c'è questa volontà. Non disperdiamo ciò che ci ha uniti e ciò che è nato dal nostro legame, perché disperderem­mo una parte preziosa di noi stessi. Vieni con me, nella mia casa, compagna della mia vita.

MlSIA                           - (con gli occhi sbiancati senza sguardo, il petto ansante; piano) Mio padre non lo permetterebbe senza dolore. Un dolore che potrebbe ucciderlo.

Diego                            - Tuo padre! Ma credi che tuo padre non sappia?

Misia                             - (quasi con spavento) No!

Diego                            - Io sono sicuro che sa.

Misia                             - Chi può averglielo detto?

Diego                            - Nessuno. E non era necessario. Tuo pa­dre, Misia, può permetterlo senza dolore. Io lo conosco. Non è la morale spicciola che ha valore per lui, ma quella che cerca nei senti­menti puri la sua ragione di essere e il suo più alto valore. Se tu gli dicessi che mi ami e che vuoi essere la mia compagna, lui - ne sono sicurissimo - ti risponderebbe: « Va' ».

Misia                             - Mio padre non deve sapere!

Diego                            - Tuo padre sa.

Misia                             - Sospetta, se mai.

Diego                            - Per certi uomini non ci sono sospetti. Il sospetto per loro è un'intuizione precisa del­la verità, e vale spesso la certezza. Io vedo da un po' di tempo negli occhi di tuo padre un rimprovero, a volte quasi affettuoso, a volte ostile; e non perché sono il tuo amante, ma per il sotterfugio della nostra relazione. Vuoi che io gli parli?

Misia                             - No!

Diego                            - Se tuo padre lo permettesse, tu verre­sti con me?

Misia                             - (debolmente) Mio padre non può per­metterlo.

Diego                            - Guardami. Se permettesse?

Misia                             - (schivando il suo sguardo) Non può permetterlo.

Diego                            - (le prende il capo tra le mani) Guar­dami. Guardami. (Lasciandola, con angoscia) Non vuoi: ecco la verità! (Va in fondo e re­spira profondamente, rivolto verso il giardino. Misia resta ferma, assorta, con lo sguardo nel vuoto, Diego, tornando, con un sorriso amaro) Ami ancora tuo marito.

Misia                             - (voltandosi vivamente, aspra) Sei per­fido e sciocco.

Diego                            - Sciocco soltanto. E più che sciocco, pazzo. Pazzo a cedere alla tentazione di que­sta speranza che mi gonfia il cuore di un'esal­tazione nuova, sino al punto di non farmi ve­dere quello che solo un cieco non vedrebbe.

Misia                             - (tesa, quasi ostile) Che cosa?

Diego                            - (con impeto doloroso) Vedi? Basta un accenno, un semplice accenno, e tu ti trasfi­guri: ti tendi, tremi... E cos'è, questo? Cosa è? (Misia ride nervosamente. Diego le prende le braccia). Se tuo marito tornasse? (Misia ha come un moto di spavento che tenta di mascherare con un gorgoglio arido di riso) Se Paolo tornasse?

Misia                             - Non tornerà.

Diego                            - Mi ha scritto.

Misia                             - (subito, senza controllo) Anche a te?

Diego                            - A chi altri ha scritto?

Misia                             - (riprendendosi) A nessuno, ch'io sap­pia.

Diego                            - Hai detto: «anche a te? ».

Misia                             - Ho detto - volevo dire - una cosa strana, ecco.

Diego                            - (la fissa scrollando il capo; poi, con pacata tristezza) Non è strano: eravamo amici.

Misia                             - (con simulata indifferenza) E che cosa ti ha scritto?

Diego                            - Che si è diviso da un pezzo da quella donna; che ha passato questi ultimi mesi in solitudine; e che in questa solitudine si è ritrovato innamorato di te, pentito, desideroso di ritornare.  

Misia                             - (ride) E lo ha comunicato a te!

Diego                            - Per sapere da me come il suo ritorno sarebbe accolto.

Misia                             - E tu, che cosa gli hai risposto?

Diego                            - Non gli ho risposto. In un solo caso avrei potuto rispondere: se avessi potuto dir­gli: Misia viene con me. Sono vissuto in questi quindici giorni con questa speranza. Ora, io, non gli posso più rispondere. Gli risponderai tu, quando ti scriverà - se ancora non ti ha scritto - o quando verrà.

Misia                             - Verrà? Ti ha scritto che verrà?

Diego                            - Non me lo ha scritto. Ma verrà. Verrà certamente, Misia. E allora tu...

Misia                             - (tesa, con voce sorda) Io, Diego, se Paolo verrà...

Diego                            - (interrompendola, con un sorriso amaro) Se Paolo verrà e ti chiamerà dal giardino con quel suo squillante « Misia! » che pareva un ringraziamento a Dio di essere così felice, tu, Misia...

Misia                             - (c. s.) Io non sentirò la sua voce. Perché sarò da te. (Entra il Duca).

SCENA UNDICESIMA Misia, Diego, il Duca

Diego                            - Buon giorno, zio. Me ne vado.

Il Duca                          - Perché sono entrato io?

Diego                            - Non per questo.

Il Duca                          - Dovrei parlarti.

Diego                            - Posso restare.

Il Duca                          - Ma devo andar via io. Mi hanno mandato a chiamare alla Rocca. La morte di quella poveretta avrà messo lo scompiglio. Si tratterà di dare qualche ordine. Questione di pochi minuti.

Diego                            - Posso accompagnarla. Mi parlerà lun­go la strada. Si tratta – suppongo -della lite del feudo.

Il Duca                          - No.

Diego                            - Comunque...

Il Duca                          - Tu vai a casa?

Diego                            - Sì.

Il Duca                          - Subito?

Diego                            - Subito.

Il Duca                          - Allora passerò da te al ritorno. Posso?

Diego                            - Non occorre chiederlo.

                                      - (Il Duca si avvia verso la porta di destra).

Misia                             - Papà.

Il Duca                          - (fermandosi) Che c'è?

Misia                             - Nulla. Credevo che non ti fossi ac­corto di me.

Il Duca                          - Arrivederci, Misia. (esce). (Entrano Luca e Lucia).

SCENA DODICESIMA Diego, Misia, Luca, Luisa

Luca                              - (porta un vassoio) Ho l'onore di ser­virvi il tè. Scusate se mi sono dimenticato di mettere i guanti bianchi.

Luisa                             - Il papà è andato via?

Diego                            - Sì, Lisetta. E' andato alla Rocca. (prendendole il mento) Che, perché questi occhi rossi? Lacrimucce?

Luca                              - Lacrimucce? Lacrimoni!

Misia                             - Cos'è, Lisetta?

Luisa                             - - Ma niente.

Luca                              - Battista stava per portare il vassoio col tè. Lei glielo leva dalle mani: « No, Bat­tista. Tu no, tu no ». E giù, lacrime dentro le tazze. Se io non fossi accorso a levarle il vas­soio, ci toccherebbe bere più lacrime che tè.

Diego                            - (con sorridente tenerezza) Cara bam­bina.

Luisa                             - Meno male: ti faccio sorridere. E' ne­cessario piangere per farti sorridere.

Diego                            - No, Lisetta: non è necessario piangere. Basta essere, essere semplicemente, come sei tu. Vedi? Fai sorridere anche Misia.

Luca                              - Che è una cosa rara.

Misia                             - (aspra) Perché, rara?

Diego                            - Hai guastato tutto, Luca. Arrivederci, ragazzi. Me ne vado.

Luisa                             - Ma che arrivederci. Ma che andare. Vieni qui, brutto selvaggio. Posa il frustino e prendi il tè con noi.

Diego                            - Grazie, Lisetta. Ma non prendo tè: lo sai.

Luisa                             - Sta un po' con noi. Luca, diglie­lo tu.

Luca                              - Io non oso proporgli un sacrificio.

Diego                            - No, caro ragazzaccio: non mi propor­resti un sacrificio. L'aria che si respira in que­sta casa mi ha fatto sempre bene.

Luca                              - Difatti, scappi.

Diego                            - Devo andare a lavorare. E anche per voi.

Luca                              - Per noi?

Diego                            - Non volete da me il progetto per la vostra casa nuziale?

Luisa                             - Ce lo fai? Ce lo fai davvero?

Diego                            - Ve l'ho promesso.

Luisa                             - (a Misia) L'altro giorno gli abbiamo chiesto scherzando il progetto di una casetta per la nostra villeggiatura, da costruire sul colle degli ulivi. E lui ce lo fa davvero. Caro Diego! E quando ce lo fai vedere?

Diego                            - Il progetto? Non ve lo farò vedere! Vedrete la casa, che sarà costruita sotto la mia direzione; col permesso, s'intende, del signor zio. Sarà il mio dono di nozze.

Luisa                             - - Caro! Caro selvaggio! E come sarà, la casa?

Diego                            - La vedrete. Avete fiducia nelle mie qualità di architetto?

Luca                              - Cieca.

Diego                            - E allora abbiate anche pazienza. Arri­vederci, (stringe la mano a tutti ed esce dalla veranda).

SCENA TREDICESIMA Misia, Luca, Luisa

Misia                             - (sulla veranda) Diego, assicurati che la cinghia della tua sella sia ben stretta. Poc'an­zi era un po' allentata, (resta sulla veranda. Si ode lo scolpicelo del cavallo che si allon­tana. Misia fa un gesto di saluto e segue Diego con lo sguardo).

Luisa                             - (disponendo per il tè) Com'è caro Die­go. Da quando s'è diviso da sua moglie, è di­ventato più selvaggio e... e più buono. Sor­ride come un bambino.

Luca                              - E' un miracolo che fai tu sola.

Luisa                             - Che?

Luca                              - Farlo sorridere così.

Misia                             - (viene avanti, invasa da una mesta tenerezza) Ve la farà, la casa. Vedrete come sa­rà bella.

Luisa                             - (invitandola a sedere vicino a se) Siedi, Misia.

Misia                             - Quello è il posto di Luca. (A Luca) Tu, perché mi guardi così?

Luca                              - Non sei in collera con me?

Misia                             - Sciocco. Siedi.

Luisa                             - Prendi il tè, Misia. E' quasi freddo.

Misia                             - Sì, cara. Grazie. L'idea di costruire una casa sul colle degli ulivi, Diego l'aveva da un pezzo.

Luca                              - Per noi?

Misia                             - No: così: gli piaceva il posto. Domina mezza Sicilia: si vede l'Etna, le montagne del­le Caronie, nei giorni di chiaro anche un lem­bo di mare... Vi ricordate quando siamo an­dati lassù a vedere l'alba? Allora - voi vi eravate allontanati - Diego mi disse: « Qui si dovrebbe costruire una bella casa, semplice e severa. Tra questi ulivi, sarebbe come un tem­pio ». Immagino la sua gioia quando gli avete chiesto il progetto per una casa vostra da co­struire lassù.

Luisa                             - Caro Diego selvaggio. Noi scherza­vamo...

Misia                             - Ma lui non scherza mai.

Luca                              - (a Luisa) Come potremo ricompensargli questo dono?

Misia                             - (con. profonda tenerezza) Facendo di quella casa un tempio, caro Luca. Sarà il più bel regalo che voi possiate fargli. E non solamente a lui. (Luisa l'abbraccia, commos­sa. Misia, tenendo la sorella stretta al petto quasi maternamente) Luca! Luca! Questa bambina ti ama! Se tu dovessi...

Luca                              - (le mette dolcemente la mano sulla boc­ca per farla tacere, poi le bacia la mano) Grazie, Misia. (si odono i sonagli di una car­rozza che si avvicina).

Luisa                             - Il papà già di ritorno?

Luca                              - - Il papà è andato a cavallo.

Misia                             - Che sia la zia Anna?

LUCA                           - La zia Anna senza farsi precedere da una dozzina di staffette?

Luisa                             - (va sulla veranda. Turbata) Misia!

Misia                             - Chi è?

Luisa                             - Paolo!

Misia                             - (si alza bruscamente facendo rovesciare la sedia. Pallidissima, tremante, quasi senza voce) Paolo?

Luisa                             - Sì. (La carrozza si,è fermata) Scende. (Misia fa per fuggire, ma è colta da una verti­gine e cerca annaspando un sostegno).

Luisa e Luca                 - (accorrendo spaventati) Misia!

Misia                             - (con voce soffocata) No! No! Manda­telo via! (;4 Luca) Mandalo via. Di' che non ci sono. Che non c'è nessuno. Più tardi. Do­mani. Ora no! Va'! va'! va'! (Luca esce dalla destra. Misia esce correndo dalla seconda por­ta di sinistra).

Luisa                             - (seguendola) Misia!

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

Dopo qualche ora.

Stanza di un'antica casa patrizia di campagna adattata a studio. In fondo una grande finestra. Porte laterali. Tavoli alti da disegno; scrivania; scaffali con libri. Manca poco al tramonto.

SCENA PRIMA Il Duca e Marianna

Marianna                       - (vecchietta arzilla, linda e sorridente, entra dalla destra introducendo il Duca) S'accomodi, Ec­cellenza. S'accomodi. Da quanto tempo non si vede! Sta bene, Eccellenza?

Il Duca                          - Bene, cara Marianna. E tu?

Marianna                       - Non sono degna di ringraziare il Signore. (Gli avvicina una poltrona) S'accomodi qui.

Il Duca                          - Diego non è ancora venuto?

Marianna                       - E' venuto, Eccellenza. E' giù, con l'am­ministratore della miniera. Non lo lasciano in pace un momento; specialmente ora, con quella storia delle case.

Il Duca                          - Quali case?

Marianna                       - Non lo sa? Don Diego s'è messo in testa di fabbricare quassù, vicino al palazzo, le case per tutti gli zolfatari e impiegati della miniera. Dice che dormire giù nella miniera fa male alla salute, per l'odore dello zolfo.

Il Duca                          - E' un'opera buona.

Marianna                       - E se sapesse che festa, per gli zolfatai quando l'hanno saputo. Già gli volevano bene perché da quando è venuto a stabilirsi qui, ha fatto aumentare a tutti la paga. Ora, poi, quando vedono lui è come se vedessero l'Arcangelo Gabriele.

Il Duca                          - Bravo Diego!

Marianna                       - Bravo sì, Eccellenza. Ma lavora come un dannato. Così si rovina la salute. Ora, per esempio, è arrivato tutto sudato e senza nemmeno cambiarsi è andato a ricevere l'amministratore, per non farlo aspet­tare. E a me, non mi sente. (Ride).

Il Duca                          - L'hai visto nascere tu, eh, Marianna?

Marianna                       - Nascere e crescere, Eccellenza. E un po' anche le ragazze di vostra Eccellenza. La marchesa Misia A proposito: il signor Marchese Paolo sta bene? Don Diego m'ha detto che è in una città forestiera, come ambasciatore.

Il Duca                          - (alzandosi e andando verso il fondo) Sì, sì.

Marianna                       - Bel giovane, anche lui. Un bel matrimo­nio, che Dio li benedica! Don Diego invece fu disgraziato nel matrimonio. E dire che pareva una santa. Povero don Diego. Oh, ma uomo fer­mo, però! Ah, per questo! (Dalla sinistra en­tra Diego).

SCENA SECONDA Il Duca, Diego, Marianna

Diego                            - Oh, zio. Aspetta da un pezzo? (A Ma­rianna) Perché non sei venuta a chiamarmi?

Il Duca                          - Abbiamo chiacchierato un po'. Non ci si vedeva da molto tempo con Marianna.

Diego                            - Abbiamo chiacchierato: eh, Marian­na? Sei contenta?

Marianna                       - (al Duca) Ora è capace di rim­proverarmi perché io ho fatto il mio dovere con Vostra Eccellenza.

Diego                            - Ti aspettano di là, Marianna.

Marianna                       - Ho capito, ho capito, (al Duca) Bacio le mani, Eccellenza.

Il Duca                          - Arrivederci, Marianna. (Marianna esce dalla destra).

SCENA TERZA Il Duca - Diego

Diego                            - Le avrà riempito la testa di chiac­chiere.

Il Duca                          - Mi ha fatto ricordare altri tempi. (Fa un gesto evasivo) E tu? Marianna mi ha accennato a qualche tuo progetto.

Diego                            - Lavoro.

Il Duca                          - Spero con gioia.

Diego                            - (concedendo) Con quella che per me, ora, può essere gioia: la serenità.

Il Duca                          - Pensi di restare sempre qui?

Diego                            - Spero di poterci restare. Riuscire a fissare senza sacrificio la propria vita in li­miti precisi e modesti credo che sia a volte un segno di grazia.

Il Duca                          - E allora perché dici che speri di poter restare qui e non dici che ci resterai di sicuro?

Diego                            - Perché forse non mi sarà possibile an­che volendolo.

Il Duca                          - Non c'è molta serenità nelle tue parole.

Diego                            - (sorride) Sono serenissimo, zio.

Il Duca                          - Apparentemente. Nascondi con se­renità uno stato d'animo non sereno. C'è in te quel pacato dominio di se stessi che fece di tuo padre un grande generale.

Diego                            - (assorto, con un sorriso amaro) Mio padre mi diceva che io, più che dominarmi, mi analizzo, (pausa).

Il Duca                          - Hai notizie di tua moglie?

Diego                            - lo non ho moglie, zio.

Il Duca                          - Di quella che fu tua moglie.

Diego                            - Non me ne ricordo.

Il Duca                          - Davvero? Sei sincero con te stesso?

Diego                            - E' il primo dovere che mi sono im­posto.

Il Duca                          - Non si direbbe.

Diego                            - Perché?

Il Duca                          - Perché chi sente come un dovere la sincerità verso sé stesso, dovrebbe sentire an­che come un dovere la sincerità verso gli al­tri. Almeno in certi casi, (pausa) non ri­spondi.

Diego                            - Non oso, zio.

Il Duca                          - Se la parola zio fa parte di un vano cerimoniale, puoi metterla da parte.

Diego                            - Ho dimenticato i cerimoniali. Lei, zio, è il solo uomo, dopo mio padre, a cui ho chiesto perdono: col cuore, più che con le parole.

Il Duca                          - Avresti dovuto usare anche « le pa­role ». Prima. E forse non avresti avuto nulla da farti perdonare. (Diego tace). Non dovevi aggiungere una meschinità e una disgrazia. (si allontana; poi, tornando) lo spero, voglio sperare di essere davanti a un uomo della mia razza. E non intendo alludere alla pa­rentela.

Diego                            - Ho capito, zio. E la ringrazio.

Il Duca                          - E per questo sono venuto da te, vi­sto che sinora tu non ti sei degnato di venire da me. (Breve pausa) A Misia non posso, non riesco a parlare. Ogni mio accenno, ogni mia parola la esasperano. E mi pare di tortu­rarla con la mia comprensione. (Breve pau­sa) Ho ricevuto oggi questa lettera del mar­chese Mazzara. Leggi. (Gli dà la lettera) Osa scrivermi ancora coane al padre di sua moglie.

Diego                            - (dopo aver letto) Ha scritto anche a me, quindici giorni fa.

Il Duca                          - A te?

Diego                            - Per sapere come il suo ritorno sareb­be stato accolto.

Il Duca                          - E tu, che cosa gli hai risposto?

Diego                            - Non gli ho risposto.

Il Duca                          - Perché?

Diego                            - Non gli posso rispondere, zio.

Il Duca                          - Perché non gli puoi rispondere?

Diego                            - (divagando, con evidente dolore) Pao­lo può essere veramente cambiato...

Il Duca                          - Questo non m'interessa. A me in­teressa mia figlia e la dignità della mia casa.

 Diego                           - E appunto: il ritorno di Misia a suo marito sarebbe...

Il Duca                          - (subito, con forza) Una cosa poco pulita e immorale. Sì! Ora, sarebbe immo­rale. E siccome io conosco mia figlia e so che nella sua vita non c'è mai stato ne ci potrà essere nulla di volgare, voglio che almeno vada con l'uomo che ama.

Diego                            - (con angustia prorompente) Ma chi è l'uomo che lei ama?

Il Duca                          - (colpito) Lo domandi a me, tu?

Diego                            - Non lo domando a lei! Lo domando a me stesso! all'aria! alla luce! Misia con me, nella mia casa, mia compagna? Ah! zio: que­sta nostra terra riprenderebbe per me tutto il suo splendore! Potesse accadere! Ma non è possibile (Dolorosamente assorto) Misia non mi ama.

Il Duca                          - Non ti ama? Ma allora... mi sono ingannato...? Diego! Guardami.

Diego                            - (lo fissa; poi, senza guardarlo, piano) Non si è ingannato.

Il Duca                          - Ah! (si copre il volto con le mani; poi, dopo una pausa, fissandolo) E tu! tu, non amato, hai potuto...

Diego                            - lo comprendo il suo dolore...

Il Duca                          - Lascia stare il mio dolore! E' la volgarità di quello che hai fatto!...

Diego                            - (con vibrante dolore) Nessuna volga­rità, zio!

Il Duca                          - Nessuna volgarità? Se tu sapevi che Misia non ti amava...

Diego                            - (c. s.) Non lo sapevo! Non lo so nem­meno ora! Non lo sa nemmeno lei! Ma mi guardi, mi guardi bene in viso! Pensi al viso di Misia. Vede, sente della volgarità in noi?

Il Duca                          - (non risponde; è convulso; s'allonta­na; si passa le mani tremanti sul capo. Poi, voltandosi, a mezza voce quasi tra se) La mia Misia! La sentivo nella mia casa, nella mia vita, come una luce, come un calore. Vivevo della sua pura gioia di vivere. Che cosa ne avete fatto! (Con impeto improvviso) Ma perché? perché?

Diego                            - (quasi col pianto nella gola) lo l'ama­vo, zio! Io l'amo!

Il Duca                          - Ma lei, no: l'hai detto tu. 0 almeno non ne eri sicuro. E cos'era il tuo amore se non ti faceva capire che lei cedeva a uno smarrimento...

Diego                            - (subito) Smarrimento? Dei sensi? No! né io, né lei! I sensi! Ma che cosa sono! Quando c'incontrammo dopo le nostre disgra­zie, in noi non c'era che incubo e angoscia. E quando due esseri si leggono negli occhi questa angoscia...

Il Duca                          - Ma non dicevi di averla dominata quell'angoscia?

Diego                            - Mi pareva! Ma la pietà che m'avvicinò dapprima a Misia la ridestò, quell'ango­scia, e la trasmutò in un nuovo amore. Così puro, così forte, questo amore, che ho chie­sto a Misia di essere la mia compagna alla luce del sole.

Il Duca                          - (in preda ad una lotta intima) Le hai proposto di venire con te?

Diego                            - Gliel'ho proposto.

Il Duca                          - E Misia?

Diego                            - Mi ha detto che lei non permetterebbe.

Il Duca                          - Io?

Diego                            - Era un modo di non rispondere.

Il Duca                          - Io non posso pensare che Misia non ti ami. Se no, non sarebbe giunta a tal punto.

Diego                            - E' un amore che non è amore. In fon­do non ama che suo marito. Eh, zio: Misia ha nelle vene un sangue siciliano maturato per secoli senza contaminazioni. C'era in lei quella totale, tremenda, santa dedizione a un solo amore che dorme in tutti noi. (Pausa).

Il Duca                          - Quello sciagurato! Che possa un giorno capire il bene che ha perduto.

Diego                            - Chissà se l'ha perduto!

Il Duca                          - (con fermezza) Che intendi dire? (Diego tace) Sai qual'è il tuo dovere, ora?

Diego                            - Quello che lei pensa come un dovere, per me sarebbe la felicità. Ma il mio dovere è un altro.

Il Duca                          - Quale? Quale?

Diego                            - Non rendere Misia più infelice di co­m'è. A ogni costo.

Il Duca                          - (con una strana vivacità) Cioè per­mettendo che ritorni con suo marito, eh? E tu credi che potrebbe essere felice? o meno infelice?

Diego                            - Purtroppo lo credo.

Il Duca                          - (quasi senza controllo) E tu credi di conoscerla? Ma sarebbe la più grande, la più struggente infelicità! (Si copre il volto con le mani) Che Dio non mi faccia vedere questo. (Dalla' destra entra Marianna).

SCENA QUARTA Il Duca, Diego, Marianna

Marianna                       - (al Duca, festosa) Eccellenza! Un'improvvisata! C'è don Paolo.

Il Duca                          - (voltandosi) Chi?

Marianna                       - Don Paolo. Viene in carrozza. L'ho visto dalla finestra. Guardi, guardi. (Va alla finestra) Ecco: è alla svolta. (Si odono i sonagli di una carrozza. Marianna s'avvia ver­so la porta di destra) Oh, che bella improv­visata! Bisogna mandare qualcuno da donna Misia.

Il Duca                          - Aspetta. (A Diego) Vado via.

Diego                            - Può scendere dalla scaletta.

Il Duca                          - (si avvia verso la sinistra; poi, tornan­do, a Marianna) No. Fallo salire.

Diego                            - Zio, è meglio che non lo veda per ora. Mi ascolti. Lo riceverò io.

Il Duca                          - (dominando a stento la sua agitazione) Che cosa gli dirai?

Diego                            - Come posso saperlo?

Il Duca                          - Bada, Diego! Non è per un convin­cimento morale: è per l'esperienza più dolo­rosa della mia vita che io voglio... (Si ode:)

La voce di Paolo           - Diego?

Diego                            - Esca da questa parte.

Il Duca                          - Ti aspetto stasera a casa mia. In­tanto parlerò a Misia. (esce dalla sinistra).

Diego                            - (a Marianna, che è rimasta in disparte con evidente sbalordimento) Va'. E silen­zio: capito? (Marianna esce dalla porta di destra, sulla quale poi appare Paolo).

SCENA QUINTA Diego - Paolo

Paolo                             - (è un bell'uomo di trent'anni, dagli occhi e dal volto mobilissimi. Resta sulla soglia, ti­ tubante) Diego! (corre a lui e lo abbrac­cia) Caro Diego. (E' commosso) Non ti aspet­tavi certo di vedermi comparire così.

Diego                            - Non me l'aspettavo.

Paolo                             - Hai ricevuto la mia lettera?

Diego                            - L'ho ricevuta.

Paolo                             - (con un sorriso amaro) Ma non mi hai risposto. E devi aver avuto le tue ragioni per non rispondermi. Io non ho potuto più resi­stere.

Diego                            - Vieni direttamente dal paese?

Paolo                             - In paese non ci sono entrato. Vengo dalla stazione. Ma non direttamente. Volevo venire subito qui, da te. Ma quando dallo stradone ho visto quella casa... E' stato più forte di me. Ho ordinato al cocchiere di pren­dere la svolta. Volevo solamente passarci vi­cino, a quella casa, vederla, così... Ma poi, lì, a cinquanta passi... Mi sono fermato. Non c'era nessuno in casa. Così mi è stato detto. Come a un estraneo. Mi sono sentite piegare le, gambe. Sono riuscito a stento a risalire in carrozza. (Siede accasciato. Dopo un breve silenzio) Diego: ho scritto a te e vengo ora da te perché tu solo puoi capire quello che ho sofferto e quello che soffro. (Diego ha un bre­ve riso amaro) L'ho sentito, sai, questo tuo riso in certe eterne notti insonni. E mi ha ferito e nello stesso tempo m'ha confortato.

Diego                            - (con ironia ostile) Ti ha confortato?

Paolo                             - Sì. Perché m'ha aiutato a sentire la coscienza della mia indegnità. E in questa co­scienza ho trovato finalmente un po' di pa­ce... come la speranza di una luce nuova, di un nuovo bene...

Diego                            - Indegnità, coscienza, pace, bene... Parli oscuro, Paolo.

Paolo                             - (si alza, come offeso; poi, dominandosi) Diego, ti supplico... (si passa le mani sul viso) Non irridere così. Vivo da due mesi chiuso in casa, solo. Mi sembra di avere i ner­vi scoperti. In certi momenti ho la sensazione come se il cervello mi si dovesse a un tratto scoperchiare e come se dovessi perdere la ra­gione.

Diego                            - (con impeto improvviso) Credi aver­la avuta, sinora, la ragione? L'avevi, la ra­gione, quando abbandonasti tua moglie?

Paolo                             - (debolmente) Non fui io ad abban­donarla.

Diego                            - Ah già: ti abbandonò lei. Tu avresti voluto la scenata di gelosia e di disperazione.

Paolo                             - Forse non l'avrei lasciata partire.

Diego                            - Ah, certo. Non l'avresti lasciata par­tire. Saresti partito tu, da vittima, con la tua amante. Invece, quel biglietto in cui ti diceva che partiva per la Sicilia, e che se tu avessi voluto, avresti potuto raggiungerla - quel biglietto ti avrà magari fatto ridere.

Paolo                             - Non mi fece ridere.

Diego                            - Ma non ti fece nemmeno partire per raggiungere tua moglie.

Paolo                             - Non mi torturare con questo ricordo.

Diego                            - Se fossi partito, subito, o l'indomani, tua «moglie, l'avresti trovata alla stazione di Napoli, dove aspettò per due giorni l'arrivo di tutti i treni da Roma, sicura che tu l'avre­sti raggiunta; e dove io la trovai per caso, quasi svenuta dalla commozione perché all'ar­rivo di un treno le era parso di vederti.

Paolo                             - (coprendosi il volto con le mani) Io lo immaginavo! lo sentivo!

Diego                            - Sì! E restasti a Roma!

Paolo                             - E restai! Ero preso di quell'altra: come un'arsura dissolvente, nel cervello, nel sangue, sino nelle midolla delle ossa! Ma quando incominciai a risentire il bisogno di qualcosa di puro...

Diego                            - Una cura ricostituente può fare sva­nire cotesto bisogno.

Paolo                             - (scattando) No, Diego! (piano) Non mi parlare così. (Quasi implorando) Cer­ca di dimenticare in questo momento che sei un parente di Misia.

Diego                            - Non è la parentela che mi fa parlare così: è il male che tu hai fatto.

Paolo                             - Voglio ripararlo! Io amo Misia come non l'ho mai amata.

Diego                            - Tu sei quello di prima? Ti senti quello di prima?

Paolo                             - Un altro, Diego! Un altro!

Diego                            - E non pensi che tua moglie può es­sere, anche lei, un'altra? Quella che il male che tu le hai fatto l'ha ridotta?

Paolo                             - Come?

Diego                            - Se amasse un altro uomo?

Paolo                             - (dolorosamente) Non è possibile, (con un profondo tremore) Misia... No! no! (Bre­ve pausa) Diego, sii sincero. Perché non hai risposto alla mia lettera? (Diego s'allontana, cupo) Io non voglio, non posso credere a quello che m'ha risposto Misia.

Diego                            - (subito voltandosi) Le hai scritto?

Paolo                             - Prima che a te.

Diego                            - (accasciato) E che cosa ti ha risposto?,

Paolo                             - (prende dalla tasca una lettera e gliela dà. Diego la legge. Paolo ripete a memoria il contenuto della lettera) « Puoi fare a meno di venire. Io ho degli amanti e sono assoluta­mente felice ».

Diego                            - (tra se) Degli amanti!

Paolo                             - E' possibile che Misia...?

Diego                            - (allontanandosi, con spasimo) Ma no! Misia. non ha avuto altri amanti che te. (Dalla destra entra Marianna).

SCENA SESTA Diego, Paolo, Marianna

Marianna                       - Eccellenza...

Diego                            - (voltandosi, abbattuto e trasognato) Che c'è?

Marianna                       - C'è... l'amministratore.

Diego                            - Che cosa vuole?

Marianna                       - Deve parlarle d'urgenza.

Diego                            - A me? Ah, già: quelle carte.

Marianna                       - Ecco, le carte. Gli servono su­bito.

Diego                            - Devo ancora cercarle,

Marianna                       - Intanto il signor marchese potreb­be andare su. Gli ho fatta preparare una tazza di brodo. (A Paolo) Le farà bene, dopo un viaggio così lungo.

Diego                            - (a Paolo) Va', va'.

Paolo                             - (piano) Io volevo prima sapere...

Diego                            - (con un sorriso amaro) Che vuoi eh e ti dica ancora di più? Va'. (Paolo esce dalla destra).

Marianna                       - (lo segue sino alla porta e rivolta verso l'esterno) Grazia, sta salendo il si­gnor marchese. Fa tutto a dovere. (Tornando, a Diego che s'è seduto alla scrivania e ha già aperto un cassetto) Non è l'amministratore. E donna Misia.

Diego                            - (alzandosi) Misia?

Marianna                       - E' tutta stralunata. Vuole parlar­le subito.

Diego                            - Le hai detto che c'è suo marito?

Marianna                       - No. Non so se ho fatto bene; ma dopo quella scena del signor duca...

Diego                            - Falla entrare.

Marianna                       - E' da quella parte. (Accenna a sinistra).

Diego                            - La chiamo io. Tu va' di là. (Marianna esce dalla destra). (Il tramonto incomincia a tingere il cielo di sanguigno).

SCENA SETTIMA Diego - Misia

Diego                            - (va alla porta di sinistra) Misia.

Misia                             - (entra. Ha il volto pallidissimo e irrigi­dito. E' pervasa da un continuo tremito, e tenta invano di dominarlo con gesti e con toni della voce secchi e netti) Sono venuta.

Diego                            - Hai incontrato tuo padre?

Misia                             - No.

Diego                            - E perché sei venuta?

Misia                             - Per restare con te. Per sempre.

Diego                            - Misia!

Misia                             - Oggi me l’hai proposto.

Diego                            - Ma tu non hai accettato oggi.

Misia                             - Ora accetto.

Diego                            - E tuo padre?

Misia                             - Credo che tu avessi ragione. Mio padre acconsentirà senza dolore.

Diego                            - Che cosa ti ha spinta a venire qui, ora?

Misia                             - Oggi ti ho detto che io non avrei sen­tito la voce di mio marito. Paolo è venuto. Non ho voluto vederlo, (gli prende le mani) Diego, ti amo. Non te l'ho mai detto. Ti amo. Voglio essere la tua compagna.

Diego                            - Misia! Misia! E' un inganno!

Misia                             - Un inganno a te?

 Diego                           - A te stessa! E un inganno pericoloso.

Misia                             - A furia di capire troppo tu rischi di non capire niente.

Diego                            - In questo momento vorrei veramente non capire niente.

Misia                             - Perché? Perché? Guardami. (Gli prende il capo tra le mani) Guardami.

Diego                            - I miei occhi non ti fanno più paura?

Misia                             - No.

Diego                            - E io ho paura dei tuoi, ora.

Misia                             - Sono stati sempre così.

Diego                            - - Ma non me li hai mai fissati in volto così.

Misia                             - Non ne ho avuto il coraggio.

Diego                            - Ed è questo coraggio che mi spaventa.

Misia                             - Mi hai sempre rimproverato di non averlo. Non mi rimproverare ora di averlo.

Diego                            - E perché l'hai, ora, questo coraggio?

Misia                             - Perché ho guardato in fondo a me stessa.

Diego                            - No! E' perché hai paura di guardare in fondo a te stessa. E' il coraggio della pau­ra, il tuo. Se guardassi in fondo a te stessa vedresti che ami ancora tuo ma...

Misia                             - (mettendogli la mano sulla bocca) Io amo te. E voglio essere la tua compagna.

Diego                            - (prendendole le braccia, con doloroso furore) Misia! Misia! Ma perché? perché?

Misia                             - Oggi hai detto che siamo della stessa razza. Lo pensi ancora?

Diego                            - Sì, ma in questo momento non ha nes­sun valore.

Misia                             - In questo momento ha tutto il suo va­lore, Diego! Quando tua moglie tornò e ti chiese perdono, tu le cadesti ai piedi?

Diego                            - No. Ma tremai sino alle radici più profonde del mio essere. E non tentai di na­scondere a me stesso il mio tremore. Perché io avevo accettato con superba umiltà il mio dolore; e ne ero stato macerato e maturato. Potevo essere signore di me perché di me ero stato e m'ero riconosciuto schiavo. Tu, no! Tu, non hai mai voluto accettare la tua sorte. Il tuo non è stato dolore, che è cosa severa e sacra, ma ribellione al dolore. Tu sei vissuta in questo tempo in uno stato di continua ri­bellione. Anche il nostro legame è stato per te una ribellione.

Misia                             - Dici delle cose assurde. Ribellione a che cosa?

Diego                            - A quel sentimento di rassegnazione che nasceva in te, ma a cui la tua giovinezza istintivamente si ribellava. Io l'avevo accolto, quel sentimento. Era la mia forza. Tu sentivi in me questa grande forza, che non riuscivi a conquistare. E forse ti ha spinta a essere mia un inconscio desiderio di dominarla e di sconvolgerla.

Misia                             - No! no! Io ho sempre desiderato di es­ser come te, degna di te.

Diego                            - Ma non ci sei riuscita, Misia! Forse prima non godesti e non soffristi abbastanza. Fermenta ancora nel tuo essere un amore che non arrivò alla sua estrema dedizione.

Misia                             - Taci! taci!

Diego                            - Ma come tacere! come tacere! Tu vuoi venire con me mentre ancora tremi d'amore per un altro!

Misia                             - i No!

Diego                            - Sì! sì! Oggi mi hai detto che tuo mari­to non ti aveva scritto.

Misia                             - Mi ha scritto.

Diego                            - E allora perché hai mentito? Tu, che non mentisci mai?

Misia                             - Perché gli ho risposto. E non volevo dirtelo.

Diego                            - Perché?

Misia                             - Gli ho risposto in un modo assurdo, e n'ero pentita.

Diego                            - « Degli amanti »!

Misia                             - Tu sai che non è vero.

Diego                            - Lo so. Ma in quel momento che lo scrivevi era vero. Perché in quel momento...

Misia                             - Io avevo...

Diego                            -  ... tu avevi davanti un solo volto: il suo! Tutto il resto era senza volto e senza nome. In quel momento tu avresti voluto po­tergli non scrivere ma gridare: vieni! E il nostro legame, l'hai certamente maledetto.

Misia                             - (con un grido soffocato) No! (Dopo una breve pausa, con tensione ferma) Diego: tu non puoi pensare che io non ti amo, che non ti ho mai amato.

Diego                            - Non lo penso. Ma è stato un amore...

Misia                             - Amore. Di qualunque natura, ma amo­re. Ebbene, anche se quello che tu supponi fosse vero...

Diego                            - Non è supposizione, Misia!

Misia                             - Anche se tutto fosse vero e io ora ti dicessi: nonostante ciò, voglio restare per sempre con te?

Diego                            - Te ne pentiresti domani amaramente.

Misia                             - Non me ne pentirò. Non è un atto sconsiderato che faccio.

Diego                            - E' un atto d'amore, Misia! Ma non per me. E' ostilità amorosa quella che ti fa sfuggire ora tuo marito.

Misia                             - (prendendogli le braccia) Diego, non mi abbandonare! Io voglio essere la tua com­pagna. C'è in questa mia volontà una suppli­ca estrema.

Diego                            - Tu vuoi ucciderti! Mi vuoi compagno del tuo suicidio.

Misia                             - Della mia vita, Diego! Dell'unica mia possibilità di vivere!

Diego                            - (prendendole il capo tra le mani, in un doloroso e amoroso furore) Misia! Misia!

Misia                             - Possibile che tu non capisca, Diego?

Diego                            - E' perché capisco! Potessi non capire! Tu, con me? Ah, Misia! Il tuo corpo, il tuo sguardo, il tuo respiro, la tua stessa angoscia, tutto, tutto di te s'è fatto come sostanza vitale di tutte le mie fibre. Io ti respiro!

Misia                             - E allora?

Diego                            - Io sono arrivato al punto di sentirti come un essere da me creato a mia immagine!

Misia                             - E qualcosa hai creato veramente in me. Non distruggere ciò che hai creato.

Diego                            - Quello che in te ho creato lo vedo ora nei tuoi occhi come qualche cosa di funebre! (La lascia, esausto, tremante; va alla, finestra; respira affannosamente. Misia si copre il volto con le mani, esausta. Dopo un breve silenzio, Diego si volta). Paolo è qui.

Misia                             - (arretrando) E' qui?

Diego                            - Il suo solo nome ti fa tremare.

Misia                             - (irrigidendosi) Non tremo.

Diego                            - Lo vuoi vedere?

Misia                             - (subito, quasi con spavento) No!

Diego                            - (ha un breve riso amaro, poi) Tu hai ricordato il ritorno di mia moglie. Mia mo­glie, io la ricevetti. Le parlai. Le dissi che forse l'amavo ancora, ma che ciò nonostante non potevo più accoglierla nella mia casa. Vuoi parlare a tuo marito?

Misia                             - No... non è necessario.

Diego                            - E' necessario, ma è anche pericoloso.

Misia                             - E allora gli parlerò.

Diego                            - (titubante) Misia!

Misia                             - Chiamalo. Siamo della stessa razza, Diego. Chiamalo.

Diego                            - (va alla porta di destra) Paolo! (Dopo un po') Vieni. C'è Misia.

SCENA OTTAVA Diego, Misia, Paolo

Paolo                             - (sulla porta, pallido e tremante, quasi senza voce) Misia! (Correndo verso di lei, appassionatamente) Misia!

 Misia                            - (irrigidita in una penosa, vacillante ten­sione, mette le mani avanti per fermarlo) Perché sei venuto? Io ti ho scritto di non venire.

Paolo                             - Sì, ma l'hai scritto in un modo...

Misia                             - Chiarissimo.

Paolo                             - ... in un modo ch'era come un invito a venire. Come potevo credere che tu, Mi­sia!... (Fa un passo verso di lei).

Misia                             - (quasi con un grido) Non ti avvici­nare. (Con voce soffocata) Non ti avvicinare.

Paolo                             - In quella lettera ti ho sentita mia.

Misia                             - (nega col capo. Più volle apre la bocca per parlare, ma non riesce ad articolare pa­rola. Finalmente) Io non sono più tua moglie.

Paolo                             - Misia!

Misia                             - (socchiudendo gli occhi) Io amo un altro uomo e voglio essere per sempre la sua compagna.

Diego                            - (in disparte, tutto un tremito, ha tenuto lo sguardo fisso su Misia. Ora, sempre fissan­dola, fa col capo, come a se stesso, doloro­samente, segno di no).

Paolo                             - (arretrando) Tu ami?... (Guarda Die­go. Ad un tratto, come una belva pronta a slanciarsi) Diego! Poc'anzi ti ho abbrac­ciato come un fratello! Diego!

Diego                            - (voltandosi e alzando il braccio per col­pirlo, con una terribile violenza in lui non sospettabile) Che vuoi?

Misia                             - (con. un grido) No!

Diego                            - (la guarda e il braccio gli ricade pesan­temente. Quasi con un singhiozzo nella gola) Che vuoi? Ma guardala! guardala! Non ha mai amato altri che te! Non ha mai avuto altri amanti che te!

Paolo                             - Misia!

Misia                             - (arretra barcollando e tenendo le mani in avanti. Con terrore, quasi supplicando) Non mi toccare! Non mi toccare! (Sta per cadere).

Paolo                             - (sorreggendola) Misia mia!

Diego                            - (con furia angosciosa) Portatela via! Portatela via!

Paolo                             - (che si trova vicino alla porta di destra, esce trascinandosi Misia quasi priva di sensi).

Diego                            - (ripete ancora, con voce soffocata e come invasato) Portatela via. (Poi va barcollan­do alla finestra, s'abbatte contro lo stipite, e si strappa convulsamente il colletto come se stesse per soffocare).

 

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

Il mattina seguente, poco prima dell'alba.

La stessa scena del primo atto. La vetrata del fondo è aperta. C'è ancora la luna,

SCENA PRIMA

Gaetana e Misia

                                      - (Gaetana, una donna di trentacinque anni, rassetta la stanza. Dalla seconda porta di sinistra entra Misia. In­dossa una veste viola cupo. Nel suo viso, nella sua voce, nei suoi movimenti c'è qualcosa di spettrale).

Gaetana                         - Ben levata, Eccellenza.

Misia                             - Buon giorno, Tana. (Vaga un po' per la stan­za, poi va in fondo e s'appoggia allo stipite della ve­trata, rivolta verso il giardino).

Gaetana                         - Come va così presto, Eccellenza? (Pausa. Continua il suo lavoro). Metto ora in ordine questa stanza perché poi devo dare una mano giù, per la pu­lizia dei magazzini: oggi incominciano a portare il fru­mento.

                                      - (Pausa. Si ode, affievolito dalla lontananza, il suono di campane a mortorio).

Misia                             - (trasalendo) Cos'è?

Gaetana                         - Vanno a prendere la povera Rosalia. Sic­come devono portare la bara a braccia sino al paese, ci vanno presto per non essere presi dal sole.

Misia                             - Sino a che ora tu sei rimasta lassù?

Gaetana                         - Sino a mezzanotte. E meno male che Vostra Eccellenza mi ci mandò. Là erano tutti simpatici. Tra uomini e ragazze, nella confusione, non sapevano dove mettere le mani.

Misia                             - (senza voltarsi, quasi tra se) Era giovane, bel­la, felice.

Gaetana                         - E buona, Eccellenza. E rispettosa: tal'e quale sua madre e suo nonno. Quel povero Battista! Se l'avesse visto, Eccellenza, quando lo seppe. Faceva strin­gere il cuore. Ha pianto tutta la notte come un bam­bino. Anche il signor Duca s'è svegliato. E' sceso giù verso le due. Per confortarlo l'ha persino abbracciato. E come quello non si poteva calmare, a furia di dirgli: « Basta, Battista. Non piangere più, Battista », si stava mettendo a piangere anche lui.

Misia                             - (tra se) Mio padre piange! (Pausa).

Gaetana                         - Il bambino me lo son portato io. Ho fatto bene, Eccellenza?

Misia                             - Sì.

Gaetana                         - (ha finito il suo lavoro) Oh! Anche questa è finita. Le faccio il caffè, Eccellenza?

Misia                             - No. Va' a riposarti un po', che devi essere stanca.

Gaetana                         - Ma che riposare. C'è tanto da fare, giù. Col suo permesso, Eccellenza. (Esce dalla destra).

                                      - (Dalla stessa porta entra Luisa).

SCENA SECONDA Misia e Luisa

Misia                             - (se la stringe al petto. Dopo una pausa) Luca è rimasto qui stanotte?

Luisa                             - Sì: non ho voluto farlo andar via.

Misia                             - Si è già levato?

Luisa                             - Non so: io non l'ho veduto.

Misia                             - Va', fallo svegliare. E poi andate a fare una bella, lunga passeggiata, prima che si levi il sole.

Luisa                             - No, Misia.

Misia                             - Via, non fare la bambina. Dove dorme Luca?

Luisa                             - Giù, a pianterreno.

Luisa                             - Misia!

Misia                             - (trasale, poi)

Luisa                             - (l'abbraccia)

Misia                             - Bene

Luisa                             - Perché ti sei levata così presto?

Misia                             - Così. Tu, piuttosto?

Luisa                             - Stanotte non ho chiuso occhio. Il pian­to di Battista, continuo, incessante... E poi...

Misia                             - Poi?

Luisa                             - (prendendole il capo tra le mani, con angoscia) Misia, che c'è stato? che c'è?

Misia                             - Niente, cara.

Luisa                             - Perché ti sei levata così presto? Perché sei qui, a quest'ora?

Misia                             - (svincolandosi dolcemente, senza riuscire a sorridere) Niente. Calmati.

Luisa                             - Dio mio!

Misia                             - Ma perché fai così?

Luisa                             - Non so... Ieri sera quando ti ho vista rientrare con Paolo, che quasi ti portava sulle braccia...

Misia                             - Ero stanca.

Luisa                             - Dove l'hai incontrato? E perché Pao­lo ha chiuso a chiave l'uscio della camera? Dio, che paura! E il papà che quando l'ha saputo s'è andato a chiudere anche lui e non ha voluto aprire nemmeno a me! Ha passeg­giato, ha passeggiato tutta la notte. Verso le due...

Misia                             - E' sceso da Battista.

Luisa                             - Ho visto. Perché io l'ho seguito da lontano, in punta di piedi, scalza, tremando come una foglia. Non so che cosa temessi.

Misia                             - Povera bambina!

Luisa                             - (abbracciandola e piangendo) Misia! Misuzza mia!

Misia                             - Perché piangi? Via, basta. Non vedi che io sono calma?

Luisa                             - E appunto la tua calma mi fa paura.

Misia                             - Bambina!

Luisa                             - (coprendole il volto con le mani) Non sorridere così! Mi fai più paura. Oh, Lisetta. Come stai?

Misia                             - (accompagnandola sino alla veranda) Va'. Non essere sciocca. Fate una bella pas­seggiata. E ritorna calma, eh. (La bacia. Luisa scompare per la scala. Sulla seconda porta di sinistra appare Paolo).

SCENA TERZA Misia e Paolo

Paolo                             - (correndo a lei) Misia! (Le prende le braccia e respira come liberandosi da un incubo). Quando mi sono svegliato e non t'ho veduta, il cuore mi s'è fermato. Non so che paura m'ha preso. Come se tutto fosse stato un sogno.

Misia                             - E' stato un sogno. (Paolo fa per ba­ciarla. Misia schiva con un gesto fermo il gesto di lui). Guardami. Chi vedi? Chi vedi?

Paolo                             - Misia mia!

Misia                             - Vedi la tua Misia?

Paolo                             - La mia Misia l'ho già riveduta ieri. Quando mi supplicavi di non toccarti, avevi il tuo volto esangue dell'abbandono. In un brivido ti ho risentita mia. (Fa per attirarla a se; ma Misia con le braccia lo tiene lon­tano, fissandolo con gli occhi spalancati). Non mi guardare così. Tutta la notte mi hai guar­dato con questi occhi spalancati.

Misia                             - Questi occhi non si chiuderanno più.

Paolo                             - (quasi con un grido d'angoscia) Per­donami, Misia.

Misia                             - (allontanandolo bruscamente da se, con voce sorda) Tutta la notte mi hai chiesto perdono.

Paolo                             - E te lo chiedo ancora. La mia vita è nel tuo perdono.

Misia                             - E la mia nel tuo.

Paolo                             - Io non ho nulla da perdonarti.

Misia                             - (con stupore) Hai dimenticato dove e come ini hai trovata? Paolo!

Paolo                             - (tenta di scherzare) Che c'è? « Pao­lo! » Sei sempre la stessa bambina selvaggia. Invece di buttare le braccia al collo del suo Paolo, si mette a raccontare storie per fare la donna fiera. Sciocca! Ma credi che non abbia capito che non c'era niente di vero?

Misia                             - Tu... (gli prende il capo tra le mani) tu non credi quello che dici. No, non ridere. Guardami. Guardami! Tu menti! Tu hai ca­pito. Tu sai! E devi veramente sognare se pensi che sia possibile vivere anche una sola ora della nostra vita nella menzogna. (S'al­lontana).

Paolo                             - (si copre il volto con le mani. Dopo un lungo silenzio, dolorosamente) Non era per viltà, Misia. Quando ieri, dopo quell'impeto che m'aveva accecato, io t'ho guardata in viso...

Misia                             - (con amara ironia) Era il mio volto dell'abbandono, eh?

Paolo                             - ... ho capito, ho sentito perché avevi terrore di quell'abbandono. Come in un lam­po ti ho riveduta com'eri prima, ho riveduto tutta la nostra vita di prima; e la tua ango­scia e il tuo terrore, li ho sentiti come una colpa mia. E senza dirlo, anche di questa colpa ti ho chiesto perdono.

Misia                             - (con lo sguardo nel vuoto) Dovevi am­mazzarmi, Paolo!

Paolo                             - Io, se mai, avrei dovuto uccidermi.

Misia                             - Non ieri, no. Allora, Paolo. Prima di baciare quella donna nella nostra camera, avresti dovuto avere la pietà di uccidermi.

Paolo                             - (prendendole convulsamente il capo tra le mani) Misia, guardami! Quella donna non esiste più. E' come se non fosse mai esi­stita. Tu non puoi immaginare quello che ho sofferto in questi mesi. Vivevo della speranza di rivederti, e tremavo al solo pensiero di doverti guardare in viso. E ora che t'ho ri­trovata, e ho respirato il profumo della tua persona, e t'ho risentita mia, mia come non mai...

Misia                             - (svincolandosi, con voce sorda) Questa notte per la prima volta ho sentito il mio corpo come una cosa immonda.

Paolo                             - (quasi con un grido) No, Misia!

Misia                             - Tu pensavi alla mia colpa come a una colpa tua, e mi guardavi con la pietà con cui si guarda la propria vittima. (Coprendosi il volto con le mani) Ah! che nausea! e che pietà di me stessa! (Alzando il capo) E sarà sempre così! Sempre così!

Paolo                             - (con angoscia) No, Misia! Sempre così, no! Dobbiamo dimenticare questo periodo atroce della nostra vita. Ora ce ne an­dremo. Viaggeremo. Lontano. Così lontano che nulla, nulla potrà ricordarci quello ch'è stato. Il dolore ci riunisce indissolubilmente. Ricostruiremo la nostra vita.

Misia                             - (con un sorriso gelido) Dimenticando, eh? Tu dici che il dolore ci riunisce, e vuoi ricostruire la nostra vita dimenticando que­sto dolore. Un edifizio senza basi. (Altro tono) Che cosa vuoi ricostruire! Eh Paolo: nella nostra vita di prima non c'era nulla di ce costruito »  era come un'armonia della na­tura. Ora che cosa vuoi ricostruire!

Paolo                             - La ritroveremo, quell'armonia. Noi, Misia, uniti per sempre: il passato non esi­sterà più!

Misia                             - Solo morendo potremo dimenticare. Perché vivere è ricordare.

Paolo                             - Anche se non potremo dimenticare completamente, il ricordo di quello che ab­biamo sofferto potrà dare alla nostra vita un altro valore.

Misia                             - Sì: un altro valore. Un altro, Paolo!

Paolo                             - Io sento nel mio amore e nel mio do­lore una purezza nuova. Non so: come qual­cosa di religioso.

Misia                             - (quasi soffiandoglielo sul viso) L'espia­zione!

Paolo                             - No, Misia!

Misia                             - -Sì! sì! Perché sempre, sempre ci guar­deremo così: con questa desolazione negli oc­chi e con questa muta implorazione di per­dono. E non vale perdonarci. Non vale! Tu mi hai già perdonata; io ti ho perdonato: e perché allora, perché ci guardiamo così?

Paolo                             - Misia!

Misia                             - Non è stata un'offesa. Abbiamo distrut­to qualche cosa che non era stata fatta da noi e che non possiamo ricostruire: qualche cosa che era fuori e al disopra di noi, pur essendo in noi. (Allontanandosi) Non dovevi venire, Paolo. Non dovevi venire!

Paolo                             - (raggiungendola, con estrema angoscia) Misia, noi non possiamo più separarci.

Misia                             - Ma nemmeno vivere insieme. (Dalla destra entra Gaetana).

SCENA QUARTA Misia, Paolo, Gaetana

Paolo                             - (a Gaetana che attraversa la scena)  Che c'è?

Gaetana                         - Vado a vedere se il signor duca s'è levato. Lo cercano giù. (Esce dalla prima por­ta a sinistra).

MlSlA                           - (come allucinata, con voce sorda) Non voglio che mio padre veda questa faccia. Non deve mai vederla questa faccia. (S'avvia cor­rendo verso la seconda porta di sinistra).

Paolo                             - (seguendola) Misia! (Escono).

SCENA QUINTA Il Duca e Gaetana, poi il Duca e Diego

Il Duca                          - (entra dalla prima porta di sinistra se­guito da Gaetana) Dov'è?

Gaetana                         - E' giù. M'ha detto che vuole par­lare da solo con vostra Eccellenza.

Il Duca                          - Fallo salire.

                                      - (Gaetana esce dalla porta di destra, dalla qua­le poco dopo entra Diego).

Diego                            - (è in abito da viaggio. Il suo viso rivela una grande desolazione; la sua voce è sorda e lontana). Buon giorno, zio.

Il Duca                          - (lo fissa in silenzio, poi) Stavo per uscire per venire da te.

Diego                            - Le porto i documenti più importanti della lite del feudo. Ho lasciato all'ammini­stratore l'incarico di darle le altre carte. Io non posso occuparmene più perché parto.

Il Duca                          - Si può sapere che cos'è successo ieri?

Diego                            - Misia non è rincasata ieri sera con suo marito?

Il Duca                          - E appunto per questo!

Diego                            - E che cosa vuole sapere d'altro, zio? Comunque, essi stessi gliel'avranno detto.

Il Duca                          - Non li ho veduti. Non ho voluto.

Diego                            - Glielo diranno quando li vedrà.

Il Duca                          - Forse non li vedrò più, perché me ne andrò anch'io.

Diego                            - E perché? Farebbe male.

Il Duca                          - Si sono incontrati da te?

Diego                            - Da me.

Il Duca                          - E tu lo hai permesso?

Diego                            - Non ne parliamo, zio.

Il Duca                          - Perché Misia è venuta da te? Mi hanno detto che qui non aveva voluto vedere suo marito. Non è certo venuta per vederlo da te.

Diego                            - (con un sorriso doloroso) Sa perché era venuta? Per restare con me, per sempre. E il suo non era, no, un atto sconsiderato. C'era in lei una volontà ferma, incrollabile.

Il Duca                          - E tu?

Diego                            - Io parto.

Il Duca                          - Me l'hai già detto. Io voglio sapere come mai, se Misia era venuta con quella volontà, tu hai permesso a Paolo d'incontrarsi con lei.

Diego                            - Più che permesso: l'ho voluto io.

Il Duca                          - Tu?

Diego                            - Io, zio. Io! Avrei dovuto essere cieco per non vedere che la volontà di Misia nascon­deva, per una ostilità momentanea, un tre­mendo amore per suo marito. E dovevo essere pazzo per accettare la sua offerta.

Il Duca                          - (con dolorosa violenza) Disgraziato! Disgraziato!

Diego                            - Lo so, zio. Ma è bene che questa scia­gura sia solo io a portarla. Se avessi accettato l'offerta di Misia, saremmo stati in due: io e lei. E forse in tre.

Il Duca                          - Che hai fatto!

Diego                            - Io sento di avere compiuto un dovere.

Il Duca                          - Quale dovere? Quale dovere?

Diego ;                          - Si amano, zio. Si amano. Si ritrovano dopo un doloroso distacco e riprendono insie­me il cammino.

Il Duca                          - Quale cammino riprendono? Quale? Tu non ti sei chiesto perché

Misia                             - pur amando, come tu dici, suo marito - voleva restare con te?

Diego                            - Era un inganno che incoscientemente faceva a sé stessa.

Il Duca                          - No! no! Era perché capiva che quel cammino, con suo marito, non poteva ripren­derlo. Era perché sentiva che solo vivendo con te avrebbe potuto guardare il sole. Era perché...

Diego                            - (lo interrompe) Zio, perdoni: lei non ha ancora visto Misia: tutto questo è sua im­maginazione. Io ho visto ieri il volto di Misia quando suo marito è entrato nel mio studio. Tutti i miei dubbi sono svaniti come quelle nebbie che sulle montagne nascondono per qualche istante il vuoto dei precipizi. Quel vuoto, io l'ho veduto. (Breve pausa).

Il Duca                          - Paolo sa?

Diego                            - Credo che abbia capito.

Il Duca                          - Se non l'ha capito, glielo dirà Misia.

Diego                            - Paolo è molto cambiato. Potrà dimen­ticare.

Il Duca                          - Ma non dimenticherà Misia, però. Nella sua disgrazia aveva avuto la fortuna di incontrare te. Dall'angoscia che vi aveva uniti avrebbe potuto sorgere per voi un'altra vita, con una sua fiera bellezza. E l'aveva capito, lei, questo, se voleva restare con te!

Diego                            - Ma zio: se Misia non potrà dimenticare vivendo con suo marito, come avrebbe potuto dimenticare vivendo con me? La sua vita sa­rebbe stata un'agonia.

Il Duca                          - No! Ora, ora incomincia per lei l'a­gonia! Ah! il destino avrebbe dovuto rispar­miarmi questo giorno. Io non posso più re­stare qui. Io non voglio vedere il viso di mia figlia     - (Si avvia),

Diego                            - Zio, forse non ci rivedremo più. Io oso chiederle perdono.

Il Duca                          - (si volta e lo fissa) Di che? Di averla amata? Di essere stato amato da lei? .Non c'è nulla da perdonare. Se di perdono la hai bi­sogno, è per averla ora abbandonata. E di que­sto, tu stesso dovrai perdonarti. (Esce dalla prima porta di ministra. Diego si avvia verso la destra. Dalla seconda porta di sinistra entra Misia).

SCENA SESTA Misia e Diego, poi Paolo

Misia                             - (entra con fretta circospetta e si dirige verso la veranda. Vedendo Diego si ferma e lo fissa per un attimo).

Diego                            - (dopo averla guardata fuggevolmente, vol­gendosi come per avviarsi) Addio, Misia.

Misia                             - (con voce sorda e lontana, senza guardar­lo) Addio, Diego.

Diego                            - Io sparisco. E' l'unico dono che mi re­sta a farti. Spero che ti porti fortuna.

Misia                             - Comprenderai tra poco che ieri io non ti volevo compagno del mio suicidio.

Diego                            - (avvicinandosi a lei di qualche passo, con un confuso tremore) Misia!

Misia                             - Addio, Diego. Che Dio t'accompagni. E perdonami il male che t'ho fatto.

Diego                            - Misia, io credevo...

Misia                             - (fissandolo, dapprima con gelida ironia, poi con tono caldo ma trattenuto) Che cosa credevi? Ieri, quando io sono venuta da te, quando era proprio il momento di compiere l'atto decisivo che avrebbe potuto dare al no­stro legame quel valore che desideravi, allora tu mi hai respinta. Tu, che hai capito di me certe cose a me stessa oscure, ieri non hai ca­pito che quella mia volontà non era incoscien­za; e hai frugato nel mio cuore con una specie di smania morbosa. Quello che io volevo domi­nare    - questa cieca, non so se divina o be­stiale, dedizione a mio marito        - tu me lo fa­cevi riaffluire nel sangue, facendomi sentire come una lacerante contraddizione ciò che anelavo come una suprema salvezza. E questo a ogni momento, a ogni mio tentativo di ag­grapparmi disperatamente a te, e sino all'ul­timo, quando sentivo con terrore che le forze mi si smarrivano.

Diego                            - Misia! io ero sicuro di averti fatto del bene.

Misia                             - (riprendendo la sua rigidità, senza guar­darlo) E come bene io l'ho accolto. Ma un giorno, se tu non avrai capito, qualcuno ti dirà quello che hai fatto.

Diego                            - (ha un lieve sussulto; quasi senza voce) Tuo padre?

Misia                             - Mio padre. Quando io avevo dieci an­ni, mio padre commise lo stesso peccato che ha commesso Paolo. E mia madre, come me. Si amavano. Dopo, si adorarono. Ma la loro fu un'adorazione angosciosa. Mia madre visse ancora dieci anni: furono dieci anni di ago­nia. Io, Diego...

                                      - (Dalla seconda porta di sinistra entra Paolo. Vedendo Diego si ferina e lo fissa torvo).

Misia                             - Non guardarlo così, Paolo. Quella è un'altra faccia di espiazione. (A Diego, con la voce che le s'incomincia a fare roca). Io, Die­go, non avrò quell'agonia.

Paolo                             - (con violenta esasperazione mal trattenu­ta) Misia, parla a me: vuoi che me ne vada?

Misia                             - (pervasa da un tremito crescente, con un sorriso gelido) Per il mio bene, eh? Tutti per il mio bene. (Col volto irrigidito) Ma ora ho già pensato io al mio bene. (Riesce con uno sforzo supremo a dominare il tremito che la scuote, e dritta, col capo eretto, gli occhi vi­trei spalancati 🙂 Io non avrò quell'agonia. (Vacilla e s'aggrappa alla spalliera d'una se­dia). Chiamate mio padre. Voglio essere bene detta da mio padre.

Diego                            - (tutto un tremito, forte) Misia! che hai fatto?

Paolo                             - (correndo a lei, disperatamente) Che hai fatto, Misia!

 

FINE