Il primo peccato

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IL PRIMO PECCATO

Commedia in quattro atti

di SALVATOR GOTTA

PERSONAGGI

MIMA DI COLLERETTO

Conte GIACOMO DI COLLERETTO, e

Contessa GISELLA DI COLLERETTO suoi suo­ceri

PIA, sua figlia

CLARA BOTTO

Barone RICCARDO ALIOTTI

Cavalier PEIRETTI

Madama PEIRETTI

STEFANO

IL DOTTORE

IL PIEVANO

IL Marchese PAULI

LUCIANA

La SAR­TA

CLEMENTINA, came­riera

GIOVANNI, cameriere

La voce di un pastore - Signore e signori che non parlano.

L'azione si svolge ai giorni no­stri, in una villa del Canavese e a Torino.

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

Grande sala di ri­trovo nella antica casa di campagna dei Conti di Colleretto. Mobilio barocchet­to-piemontese. Nell'angolo destro in fondo, un tavolino; nell'angolo di sini­stra, ma non proprio in fondo, una tavola di media grandezza che serve pure come scrivania e che è sovrastata da una lampada; nella pare­te di sinistra è pure un caminetto. Un di­vano In primo piano, verso destra, e una poltrona; gruppi di seggiole e poltrone vicino al commetto e intorno ai tavoli­ni. A tutte le pareti, quadri d'antenati e vecchie stampe. La sala deve dare un senso di grande intimità. In mezzo alla parete del fondo è una vasta portiera a vetri oltre la quale si scorge un tratto del piazzale inghiaiato ombreggiato da chiome d’alberi. Una porta in primo piano a sinistra e una a destra. Sono le cinque del pomeriggio; mese di maggio. Du­rante tutto ratto la portiera del fondo resta sempre aperta.

Mima                             - (è seduta alla tavola-scrivania davanti a un volu­minoso registro).

Clementina                    - (in piedi in mezzo alla sala, legge un foglio di carta che tiene in mano) a Ventiquattro federe di puro lino. Secondo armadio, piano terzo ».

Mima                             - (cerca l'indicazione nel registro) Va bene.

Clementina                    - « Trentasei asciugamani batista del mil-leottocentosettanta. Armadio secondo, piano primo. Le­gati a dozzine, con nastro rosa ».

Mima                             - Aspetta, aspetta... Nastro rosa? Ah, si! Nastro rosa. Eccolo. Va bene. Avanti.

Clementina                    - « Due catalogne di lana cammello »,

 Mima                            - Perché salti?

Clementina                    - Non salto, signora contessa. Abbiamo fatto l'elenco secondo la nuova disposizione delle guardarobe.

Mima                             - Le catalogne non dovrebbero stare negli armadi della biancheria. Per i capi di lana ci sono dei cofani apposta.

Clementina                    - Ma per le due coperte di cammello s'è fatta un'eccezione.

Mima                             - Perché?

Clementina                    - Ordine della signora contessa Gisella.

Mima                             - Ma... le tarme? Avete pensato alle tarme?

Clementina                    - Infatti io feci presente alla signora con­tessa Gisella il pericolo delle tarme. Anche poco fa. Ma la signora contessa Gisella non mi ha neanche dato ri­sposta.

Mima                             - Adesso dov'è?

Clementina                    - Chi?

Mima                             - Mia suocera, la contessa Gisella.

Clementina                    - Di là, con noi, nella stanza delle guardarobe; non ci dà pace. Più invecchia e più diventa in­sopportabile.

Mima                             - Clementina! Sai che non tollero apprezza­menti di cotesto genere.

Clementina                    - Mette il naso dappertutto, vuol sapere tutto! Anche la cuoca non ne può più. La direzione della casa l'avete voi, signora contessa. Da voi, che siete una persona giusta e di cuore, noi si accetta qualunque os­servazione.

Mima                             - (imperiosa) Basta!

Clementina                    - Sapete che cosa ha avuto il coraggio di dirmi, poco fa? Che non so distinguere la batista dalla tela di Fiandra! A me una cosa simile! A me che ho servito come guardarobiera nel castello di Racconigi! (piange).

Mima                             - Clementina! Non fate la stupida, via! Calma­tevi, su...

Clementina                    - (piangendo) . Un'umiliazione simile non l'ho mai avuta in vita mia! E me la disse in presenza della cuoca!

Mima                             - Sai che coi vecchi bisogna portare pazienza. Tu godi di tutta la mia fiducia. Chi dirige la casa sono io.

Clementina                    - Lo so. Appunto per questo mi sfogo un po' con voi!

Mima                             - Zitta e basta! Lasciami il foglio. Controllerò da sola. Torna nella stanza delle guardarobe. Bisogna finire di riordinare la biancheria entro oggi. Domani si incomincerà a ripulire la biblioteca. Bisognerà tirar fuori dalle scansie i libri, a tre o quattro per volta, spolverarli e rimetterli a posto senza spostare l'ordine del catalogo. Stasera torna mio suocero e sai come s'irrita quando gli spostano i libri.

Clementina                    - (schiarendosi in volto) Il signor «onte torna proprio stasera? Anche la signorina Pia?

Mima                             - Sì.

Clementina                    - Mi pare cent'anni che la signorina sia partita. Ed è appena un mese! Abbiamo visto la sua fo­tografia sul giornale.

Mima                             - Quale giornale?

Clementina                    - La « Gazzetta di Torino » di quest'oggi. Non l'avete vista? C'è tutta la descrizione del Carosello e tante fotografie; in un gruppo di dame a cavallo, c'è pure la signorina Pia. Proprio nel centro, vicino alla Prin­cipessa.

Clara                             - (entra dal fondo, canticchiando) Bonjour...

Mima                             - Oh, Clara! (A Clementina) Va, Clementina.

Clementina                    - (fa un piccolo inchino a Clara) Buon giorno, signorina Clara. (Via da destra).

Clara                             - Che meraviglia!

Mima                             - Dove sei stata? Non hai dormito?

Clara                             - Non voglio più dormire dopo colazione. Mi intontisce. Ho camminato.

Mima                             - (confrontando la lista di Clementina col suo regi­stro) Dove?

Clara                             - Ho camminato senza meta, prima nel giardi­no, poi nella vigna, poi nel bosco. Sono arrivata fino a quella casetta ch'è in riva alla Dora.

Mima                             - (c. s.) La cascina Germana.

Clara                             - Sono stata più di un'ora a parlare coi conta­dini. Che strana gente i contadini! Sai che non li capisco? (Con gioia quasi fanciullesca) E poi... sai che cosa ho vi­sto? Una mandra, una grossa mandra: un centinaio di bo­vine coi loro campani al collo. Sono qui sul prato, dietro la chiesa.

Mima                             - Vengono dalla pianura, vanno su ai pascoli dell'alta montagna. Tutti gli anni passano, in maggio. Portano l'estate.

Cura                              - Pensa che non avevo mai visto una mandra.

Mima                             - Ma no!

Clara                             - Vere mandre, con centinaia di mucche che somigliano, le avevo viste soltanto al cinematografo. Sono sempre vissuta in città; fino a diciassette anni a Torino, poi a Parigi, per oltre vent'anni.

Mima                             - Non hai mai passato una vacanza in montagna, che so io, in Svizzera, nella Francia stessa?

Clara                             - Mai! Per dieci anni di seguito ho passato le mie ferie a Biarritz. Conosco bene anche la nostra ri­viera. Mare, insomma. Le solitudini, i grandi silenzi della montagna e della campagna mi han sempre fatto una spe­cie di paura. Però... in questi giorni mi sono quasi con­vertita.

Mima                             - (sorridendo) Povera Clara!

Clara                             - Perché « povera Clara »?

Mima                             - Sei gentile. Ma io immagino la tua noia.

Clara                             - Noia?

Mima                             - L'ho provata anch'io, appena arrivata qui, sposa, vent'anni fa. Venivo anch'io dalla città; non mi ero mai mossa da Torino. Allora non s'usava, ricordi, che le sartine andassero in campagna, al mare o in montagna il sabato e la domenica, come adesso fanno.

Clara                             - (alzandosi dal divano, di scatto) Sì, ma codesti ricordi mi seccano.» mi invecchiano. Tu, invece, pare che li compiaccia a ripetermeli. E' la seconda volta, in due giorni.

Mima                             - (stupita di quello scatto) Scusami, Clara...

Clara                             - Ti scuso... figurati se non ti scuso! Ma ti dico pure che vorrei vederti più sicura nella posizione che oc­cupi, più fiera di te stessa.

Mima                             - Non ho mai creduto che l'orgoglio sia una virtù.

Clara                             - Ed io sì, invece. Ti confesso di essere orgo­gliosa, io, della strada che ho fatto, onestamente, usando ingegno, pazienza, lavorando sempre, dall'età di quattordici anni fino ad adesso che ne ho quaranta, e, forse, di più... Figlia dì un fattorino di via Stampatori! Sicuro! Piccola sartina! Ora direttrice di una fra le più impor­tanti sartorie di Parigi! E' una strada. Ne sono orgogliosa, io, permettimelo!

Mima                             - (ridendo)  E chi te lo contesta?

Clara                             - E tu, che fosti sartina come me...

Mima                             - Non gridare.

Glaba                            - (sottovoce) Hai sposato l'unico uomo che hai amato in vita tua, sei diventata la contessa di Colleretto, moglie esemplare, madre perfetta. Hai vinto, anche tu. Ma non un briciolo d'orgoglio! Mi fai rabbia! I ricordi del passato? Sono catene che ci tirano indietro. E il mon­do va avanti. Fanno benissimo le sartine del giorno d'oggi a divertirsi il sabato e la domenica. Noi s'andava a lavo­rare anche nei giorni festivi. E gratis! Stupide! Tre anni d'apprendisaggio gratis! Vergogna umana!

Mima                             - (sempre sorridente, tranquilla) Come sei diver­tente! Sempre la stessa rivoluzionaria! Cara! La tua com­pagnia di questi giorni mi ha giovato tanto, se tu sapessi! Guai se non avessi avuto te, qui, in questo mese in cui mia figlia mi è stata lontana. La prima volta, sai? La prima volta che sto un mese senza mia figlia.

Clara                             - Ritorna, oggi? Non sono arrivati contrordini?

Mima                             - No. Ho già mandato la carrozza alla stazione. (Brevissima pausa). Del resto... credo che tu ti sbagli nel giudicarmi. Non sono punto umile, io. Ma, vivendo in campagna, ho imparato a sentire un'ambizione che si va facendo sempre più rara.

Clara                             - Quale ambizione?

Mima                             - Quella di diventare « una signora », la vera signora di questa casa.

Clara                             - E non lo sei, forse?

Mima                             - La padrona non soltanto di nome, ma di fatto. « Dentro », mi capisci? Dentro me stessa. Come lo era il mio povero marito, come lo sono i miei suoceri, nati qui, da gente che ha sempre servito la terra in qualità di padroni degni, qui, attraverso non so quante generazioni. Tu dici che non bisogna ricordare il nostro passato? Perché, Clara? A me è utile, anzi. Il passato è là, come un ammonimento. Vedo sempre mio padre e mia madre, nel loro bugigattolo di portinai, sotto l'androne del palazzo di via della Rocca. Mi sorridono, di lontano. E io li amo molto di più adesso che non allora; perché allora, mio padre che si ubriacava tutte le sere, mi faceva soffrire; e mia madre che lo insultava... Amica mia, sempre di più mi convinco quanto sia difficile arrivare, nel corso d'una sola vita, alla vera nobiltà, quella dello spirito. L'educa­zione! Farla su noi stessi! Ecco una strada: la mia strada.

Clara                             - E non l'hai fatta?

Mima                             - Non completamente. Cammino... cammino an­cora e mi guardo indietro, ogni tanto, con un certo ter­rore.

Clara                             - Terrore! Giuro che non ti capisco.

Mima                             - Lo so. Non è facile. E' una «osa troppo per­sonale. Tu sei la prima cui ne parlo. E queste cose, a dirle, perdono il loro significato. Sembrano esagerazioni.

Clara                             - Ma non sei felice? Che ti manca? Sì, hai avuto la disgrazia di perdere tuo marito, sei anni fa. Ma l'angoscia di quella grossa sciagura oramai è passata. Adori tua figlia. Vivi per lei. Non ti manca nulla. In­quietudini... d'amore, forse?

Mima                             - No! Oh, no! Ho rinunziato all'amore, da tanto tempo!

Clara                             - Non sei mai stata un temperamento erotico. Tu sei la donna che non può essere che d'un sci uomo. Un uomo solo in tutta la vita! Tipo di donna piuttosto raro, il tuo! Degno del massimo rispetto...

Mima                             - (ridendo) Ma non di invidia, tu dici. Ti prego, non parliamo più di me. Tu... piuttosto...

Clara                             - Oh, io non appartengo certo al genere « ec­cezioni ». Io sono... come dire?... nella regola. Per quanto, sai... gli uomini non mi abbiano mai fatto perdere la testa. Quel tanto che è necessario...

Mima                             - Perché non ti sei sposata?

Clara                             - Qualche occasione l'ho avuta. Anche l'anno scorso. Un senatore, figurati! Mi voleva a tutti i costi. Molto ricco, nemmeno tanto vecchio, per quanto senatore.

Mima                             - E perché non l'hai sposato?

Clara                             - Avrei dovuto abbandonare la bottega... e di­ventare francese... E poi... piangeva da un occhio solo.

Mima                             - Come?

Clara                             - L'altro occhio l'aveva perduto in un accidente automobilistico.

Mima                             - (ride) Che tipo!

Gisella                           - (vestita di nero, con foggia antiquata, inci­priata, elegante, un velo di pizzo nero sui capelli bianchi accuratamente pettinati, si affaccia guardinga dalla porta di destra) Si può?

Mima                             - Oh, marnali! Vieni, vieni...

Clara                             - Contessa...

Gisella                           - (avanza tenendo in mano un mucchietto di asciugamani stirati e piegati, legati con un nastrino az­zurro) Sentivo parlare... non sapevo se avessi visite... Non avevo riconosciuto la voce della signorina.

Clara                             - Si rideva, contessa.

Mima                             - No, mamàn, Clementina non ha colpa. Sono io che ho messo quegli asciugamani nel secondo arma' dio. Ho spostato parte della biancheria di Fiandra, l'ho messa tutta insieme; anche qui, nell'inventario. Vuoi vedere?

Gisella                           -  No, no, figurati! Se l'hai fatto tu... è ben fatto.

Mima                             - Ma non ho più nastro rosa. E' finito. Bisogna che me ne faccia comprare una decina di metri a Torino.

Gisella                           - Si trova anche giù, in paese.

Mima                             - Ma in paese costa di più!

Gisella                           - Oh, allora certo conviene aspettare che qualcuno di noi vada a Torino! (Si odono i sonagli d'una carrozza che avanza nel viale).

Mima                             - Zitto! La carrozza! Sono qui. (Esce correndo dalla porta del fondo).

Gisella                           - Ma che c'è?

Clara                             - La carrozza che è andata alla stazione a pren­dere vostro marito e Pia.

Gisella                           - Possibile? Già qui? Ma che ore sono? (Esce dal fondo).

Clementina                    - (entra da destra, affannata) La carroz­za! Arrivano! (Via dal fondo).

(Vocìo esterno. La carrozza si è fermata. Voci confuse di saluto. In scena non è rimasta che Clara. Poco dopo entrano dal fondo Giacomo e Pia con Mima in mezzo, sottobraccio, Gisella, madama Peiretti, il cavalier Pei­retti, Stefano. Clementina porta le valige: le posa in terra e si ferma nel fondo. Tutti vociano a soggetto).

Giacomo                       - Il treno è arrivato puntualissimo. Ottimo viaggio. (Scorge Clara e le va incontro) Oh, la signorina Clara!

Clara                             - Caro conte! Sono ancora qua (stretta di mano).

Giacomo                       - (animato di giocondità, galante alla maniera dei vecchi gentiluomini) Sarebbe stato un grave do­lore per me non rivedervi. Posso abbracciarvi? (la ab­braccia e la bacia).

Clara                             - (abbracciando il vecchio allegramente) Ma sì! Con gioia!

Tutti                              - (ridono).

Gisella                           - Mi fa piacere che vi teniate buona compa­gnia. Dacché ci siete voi, Mima sembra un'altra. Voi siete molto, molto simpatica.

Clara                             - Oh, grazie, contessa!

Gisella                           - Avete dello spirito... siete franca. Una buo­na amica. Vorrei che rimaneste qui ancora molto tempo.

Clara                             - Siete molto gentile, contessa. Ma come si fa? Il lavoro! Sabato scade la mia licenza.

Mima                             - Mi ha già promesso che tornerà. Quest'in­verno, vero?

Gisella                           - Dovreste venire per le feste di Natale e Capodanno. Noi qui usiamo solennizzarle ancora come una volta; con tutti i nostri contadini, gli amici del vi­cinato... Feste tradizionali, insomma. Se nevica, sono più belle. Vero, Mima?

Mima                             - Sì, mamàn.

Gisella                           - (a Mima) Permetti, cara. (A Clara) Scusate, signorina. Stiamo facendo la pulizia generale della casa. Due volte all'anno si riordina tutto.

Clara                             - Fate, fate...

Gisella                           - (a Mima) Nel secondo armadio, dove tutta la biancheria è legata con nastrini rosa, ho trovato questi asciugamani legati col nastrino blu. Naturalmente, Cle­mentina, che vuol fare di testa sua...

Gisella                           - Abbraccia tutti. Sembra impazzito. II Ca­rosello gli ha dato alla testa.

Mima                             - Caro papà! Fatti vedere. Che eleganza!

Giacomo                       - Abito nuovo!

Gisella                           - Ti sei fatto un abito nuovo!

Pia                                 - Ah, ma vedrete i regali che vi abbiamo portato! Spese pazze, vero, nonno? (Va ad abbracciare Clara) Come stai, Clara?

Clara                             - (a Pia) Vieni qua, che ti veda! Come stai bene! Divertita, vero?

Pia                                 - Molto molto. Ah, la città!

Clara                             - Abbiamo saputo dei tuoi successi. Racconterai.

Pia                                 - Non sapremo da che parte incominciare. Vero, nonno?

Mima                             - Adesso sedete. (Ai Peiretti) Venite avanti. Accomodatevi.

Madama Peiretti           - No, no, grazie. Noi andiamo su­bito; a casa ci aspettano.

Peiretti                          - Gentilmente alla stazione Giacomo ci ha offerto di portarci a casa con la sua carrozza. Noi non abbiamo pensato di avvisare la nostra gente.

Gisella                           - Avete fatto il viaggio insieme?

Madama Peiretti           - Da Torino. Sicuro.

Peiretti                          - Siamo stati a vedere il Carosello anche noi. Spettacolo indimenticabile.

Mima                             - Stefano, vieni. Come stai?

Peiretti                          - (a Stefano che è rimasto quasi nel vano della finta) Vieni avanti. Non saluti? (Irascibile) Lo pren­derei a schiaffi!

Mima                             - Ma no! (Si avvicina a Stefano e lo prende sottobraccio).

Madama Peiretti           - (al marito) Se lo tratti così, è peggio. (A Gisella). E timido, ma soprattutto quando c'è tuo padre. Suo padre non lo capisce. In treno ha parlato molto, con Pia. Lui... per Pia ha una specie di adora­zione. Ha voluto che lo portassimo a Torino a vedere il Carosello soltanto perché vi prendeva parte Pia.

Giacomo                       - Clara, non conoscete i nostri amici Peiretti? (Presenta) II cavalier Peiretti, la sua gentile consorte madama Peiretti. La signorina Clara Botto... parigina. I signori Peiretti abitano, come noi, inverno e estate in campagna; hanno una tenuta confinante con la nostra. E questo è il giovanotto. (Presentando) Stefano Peiretti, cultore di musica, nonché di studi storici. E poeta, si­curo! Anche poeta!

Stefano                         - Oh, conte, che dite mai? Io sono un con­cilino, nient'altro che un contadino.

Pia                                 - Sa tutta la «Divina Commedia » a memoria.

Stefano                         - Quasi... non tutta, Pia, non tutta! Il «Pa­radiso » è terribile.

Clara                             - Ma bravo!

Mima                             - (a Clementina) Clementina, porta il caffè.

Madama Peiretti           - No, no, grazie, noi andiamo.

Giacomo                       - Un goccino di vermut.

Peiretti                          - Niente, caro. Io non prendo mai niente prima di pranzo. Si fa tardi.

Giacomo                       - La carrozza è lì che vi aspetta. Vi porta a casa.

Peiretti                          - Ma non occorre. Siamo a due passi.

Madama Peiretti           - (a Mima) Allora... buona sera, cara. Puoi andar fiera di tua figlia; ha avuto un grande successo.

Mima                             - Ci vedremo domattina a Messa. (Peiretti, ma­dama Peiretti, Stefano, Gisella, Mima, Giacomo escono dal fondo salutandosi e parlando a soggetto).

Clementina                    - (a Pia) Finalmente tornata, signorina, abbiamo letto i giornali, e viste le fotografie, a cavallo in costume! Ci racconterete, vero signorina?

Pia                                 - Verrò in cucina stasera, quando la nonna sarà andata a letto. Zitti! Ritorna! (A Clara) Clara, accom­pagnami in camera mia.

Clara                             - Sì, cara. (Escono da sinistra, meno Clemen­tina).

Clementina                    - (rimasta sola qualche attimo, va per ordi­nare i cuscini sul sofà, vede il pacco degli asciugamani lasciato da Gisella, lo prende) Ecco dove mette la roba. E poi sgrida me.

(S’odono i sonagli della carrozza che si allontana dal viale).

Gisella                           - (rientra dal fondo, a Clementina) Dove porti quegli asciugamani?

Clementina                    - Al loro posto, contessa. Nell'armadio dei nastrini blu.

Gisella                           - Sbagliato! Sbagliato! Il loro posto è nell'armadio dei nastrini rosa.

Mima                             - (entrando con Giacomo, a Clementina) Pia, dov'è andata?

Clementina                    - In camera sua, a svestirsi

Mima                             -  Poteva anche aspettare. Non l'ho quasi vista. Metti a posto quella roba, poi dille che scenda.

Clementina                    - Sì, signora. (Via da sinistra).

Giacomo                       - (siede. A Mima) Devi andar fiera di tua figlia. Ora che non ci sono più estranei, posso dirti che il suo successo è stato veramente magnifico. E non soltanto al Carosello. Al Carosello, intendiamoci, ha rappresen­tato la sua parte in modo perfetto. Intanto... nessuna delle sue compagne sa stare a cavallo come lei. E il merito di chi è? Mio, tutto mio che le ho insegnato a cavalcare fin da bambina. Bel portamento, padronanza del cavallo, galoppo ben disteso... Fé D'Ostiani le ha fatto un elogio pubblico, presenti tutte le quadriglie. Ero presente anch'io.

Gisella                           - Tu devi aver messo il naso dappertutto.

Giacomo                       - Che espressioni, Gisella!

Gisella                           - Ma sì! Hai preso una cert'aria da zerbi­notto...

Mima                             - (abbraccia il suocero) Papà caro! Lui è mon­dano, lui!

Gisella                           - Lui è vecchio, lui!

Giacomo i                     - Ho perfino ballato...

Gisella                           - Ballato!

Giacomo                       - Con la marchesa Del Villars.

Gisella                           - Maria Cristina.

Giacomo                       - Maria Cristina. Proprio!

Gisella                           - Fra tutt'e due sommate cento cinquant'anni. E dove avete ballato?

Giacomo                       - Al Palazzo Reale, al gran ballo di Corte. E anche là il successo di Pia fu straordinario. Tanto che... (misterioso) Insomma, io non voglio anticipare le notizie. (A Mima) Ti dirà lei, tua figlia... Certo... e que­sto da una parte è doloroso... non passerà molto tempo che...

Mima                             - Che vuoi dire, papà?

Giacomo                       - (la guarda sorridente) Mi hai capito.

Mima                             - No, non ho capito.

Giacomo                       - Ma sì! Va là! Del resto... ottimo partito! Più di così non sarebbe possibile desiderare. (Scorgendo Pia che sta entrando) Zitti! Eccola qui. Io mi ritiro un momento. Vado a ripulirmi. Vieni, Gisella. Madre e fi­glia hanno parecchie cose da dirsi. A più tardi. (A Gi­sella) Vieni, vieni...

Gisella                           - (a Mima) Ma che diavolo gli è successo? Che si sia innamorato anche lui? Tutto è possibile.

Giacomo                       - (canticchia) « Il mondo è facile, - tutto è possibile, - chi ci vuol credere - ei crederà...»         - (Via da destra con Gisella).

Pia                                 - (entrata poco prima, salutati con la mano i nonni, dice sorridendo, tranquilla) Mi hai fatta chiamare, mamma? ,

Mima                             - Sì, cara.

Pia                                 - Sono salita in camera mia a togliermi il cap­pello, a lavarmi le mani.

Mima                             - (le muove incontro, sorridendo, la fissa qualche attimo negli occhi, in silenzio, tenendole le mani su le spalle) Sei tornata... non mi hai quasi salutata... Mi sembri indifferente, lontana...

Pia                                 - Mamma!

Mima                             - (interrompendola) Non siamo mai state un mese divise, noi due. Se t'allontanavi da me mezza gior­nata, per andare a Torino a far commissioni, o in casa di una qualche tua amica, tornavi spersa della tua mamma... (Attimo di pausa). Esagerazioni, vero?

Pia                                 - (subito smarrita) Perché parli così?

Mima                             - Esagerazioni, sicuro! La colpa è mia. Ho cer­cato di educarti secondo la mia sensibilità, e forse ho fatto male. Clara mi dà torto.

Pia                                 - Clara? Che c'entra?

Mima                             - E' mia amica dall'infanzia. Rimasta «ola con lei, dopo tanti anni che non la vedevo, s'è molto parlato di ipersensibilità, di sentimenti che lei definisce ecces­sivi, o, almeno, non adatti ai tempi. Clara vive in una grande città ed ha una conoscenza maggiore della mia dei tempi moderni, della gioventù, dei... (si interrompe scru­tando la figlia, di sottecchi).

Pia                                 - (tace, lascia cadere una pausa, assorta in se stessa).

Mima                             - Non dici niente?

Pia                                 - Che cosa devo dire; mamma? Non ti capisco.

Mima                             - Possibile?

Pia                                 - Non capisco dove vuoi arrivare.

Mima                             - A una giustificazione, forse! Come ho detto anche a Clara, io non ho preordinato l'educazione che t'ho data. L'ho imparata qui, io stessa, entrando in que­sta casa, vivendo in campagna vent'anni. Tuo padre, i tuoi nonni, e anche le cose che ci stanno intorno, hanno fatto me, così come sono. Ed io ho creduto' bene di pla­smare anche te secondo questa scuola del sentimento. Dare importanza ai moti anche minimi del nostro ani­mo; confidarsi anche senza parole, procurare di stare vi­cini il più possibile, sono virtù e difetti che io ti ho instillato e che tu hai accettato: con gioia, pensavo.

Pia                                 - Infatti...

Mima                             - Però sono bastati questi giorni di vita in città per farti diversa! Capisco: vita eccezionale: il Carosello, feste, balli, successi mondani. Ma tutto eiò avrebbe dovuto farti tornare animata, contenta! Invece eccoti lì, fredda, indifferente...

Pia                                 - (con un sorriso enigmatico) Oh, indifferente no...

Mima                             - Ti hanno fatto la corte. Il nonno me l'ha ac­cennato (la osserva).

Pia                                 - (sempre chiusa in se stessa) Che ti ha detto il nonno?

Mima                             - Poche parole vaghe. Cose che immaginavo. Ma immaginavo anche che, tornando, mi saresti venuta incontro, felice di confidarti con la mamma. Non credo di essere mai stata una mamma severa   - una mamma vecchia...

Pia                                 - (non potendone più, con le lacrime nella voce) Ti prego... lasciami andare! Ti racconterò, ma non ora. Sono frastornata. Il ritorno alla mia casa, invece di pacificarmi, mi ha dato una specie di angoscia.

Mima                             - (spaventata, la prende alle braccia) Pia! Cosa dici?...

Pia                                 -  Oh, nulla che ti debba spaventare! Ciò che miè successo è normale... Mi credi?

Mima i                           - Sì... ti credo.

Pia                                 - Ma il sentimento che provo è così forte che mi isola da tutto e da tutti. Anche da te, sì, perdonami! Ho bisogno di solitudine. Il mio stato d'animo non ti deve offendere, non contrasta coi sentimenti che mi hai messo nel cuore. Forse... fu appunto la scuola del senti­mento che mi ha condotta a questa grande passione...

Mima                             - Passione?! Addirittura?

Pia                                 - Passione, mamma! (Si butta nelle braccia di Mima) Oh, mamma!

Mima                             - (l'accarezza, rasserenata da quello sfogo che final­mente ha potuto ridarle la confidenza della figliuola) Ed alla mamma pensavi di poter tenere nascosta una cosa così importante? Chi ti può comprendere meglio di me? Ma ora calmati, su, su. Che ti veda in faccia. Ecco!,. Ora mi dirai pure chi è il tuo incantatore...

Pia                                 - No, per ora no; basta, ti prego! Lasciami an-dare.

Mima                             - Uno dei giovanotti del Carosello?

Pia                                 - Sì, ma lasciami. Ti racconterò tutto, ma ora no. Ti prego!

(Voci dall'interno: quelle di Giacomo, Gisella e Clara che entrano poi subito da destra).

Giacomo                       - Eccole ancora qua. Disturbiamo?

Pia                                 - Scusatemi... (fa per andarsene da sinistra).

Mima                             - (a Pia) Dove vai?

Pia                                 - In camera mia. Permetterai... (Via di corsa da sinistra).

Clara                             - Che c'è? Piange?

Giacomo                       - Ti ha detto?

Mima                             - Si, ma non tutto; mi spiegherai tu!

Giacomo                       - Come ho detto di là a mia moglie e alla signorina Clara...

Mima                             - Ah, voi sapete di già?

Gisella                           - E siamo felicissimi della buona notizia. Ci congratuliamo anche con te.

Mima                             - Vi ringrazio. Ma io ho capito soltanto che mia figlia è innamorata. Di chi?

Gisella                           - Un gran signore... bel nome... milioni...

Giacomo                       - Un uomo, non un ragazzo. E che uomo! Bisognava vederlo a cavallo, nella sua lucente armatura di guerriero del Cinquecento. Indossava l'armatura auten­tica ch'era stata portata da un suo antenato alla battaglia di San Quintino. Bello! Bello!

Gisella                           - E s'è innamorato della nostra Pia... con l'en­tusiasmo di un fanciullo. Ha già chiesto la sua mano.

Mima                             - A chi?

Giacomo                       - Non precipitiamo ; siamo precisi. Si è con­fidato con me, sì, ieri mattina. E' venuto apposta a cer­carmi all'albergo. Io mi sono riservato di parlare con te, ben s'intende. Verrà qua. Farà la sua brava richiesta a te.

Mima                             - Ma chi è, dunque?

Gisella                           - (come chi rivela una parola straordinaria: compitando le parole) Riccardo Aliotti.

Mima                             - Chi?

Giacomo                       - Il barone Riccardo Allotti... Il figlio di Tonin Aliotti, che fu mio compagno di corso nel collegio di Moncalieri...

Gisella                           - E di quell'americana che morì l'anno scorso a Parigi, arcimilionaria. Figlio unico... erede di tutto... Palazzo a Torino, terre, case...

Mima                             - (come stordita, ma ancora incredula, apparente-mente calma) Aliotti! Quello che ha sempre abitato all'estero?... Prima in America, poi a Parigi?...

Giacomo                       - Sì, quello. Degli Aliotti non c'è più che lui.

Mima                             - (a Clara che stava in disparte, turbatissima) Non mi hai detto, tu, d'averlo visto a Parigi recente­mente?

Clara                             - Infatti, venne a trovarmi in sartoria pochi giorni prima che io partissi per l'Italia.

Giacomo                       - (a Clara) Ah! Lo conoscete?

Clara                             - E’ mio buon amico, sì.

Giacomo                       - Tornato per il Carosello. Ma non andrà più via. Promessa data, promessa formale. E' l'unica con­dizione che io mi sono permesso di porgli: nostra nipote noi vorremmo poterla avere vicina, vederla spesso.

Gisella                           - A Torino. Ha riaperto il suo palazzo di To­rino; Io sta già rimettendo in ordine.

Mima                             - Ma... se Riccardo Aliotti è quello che dite... ha più di quarant'anni.

Giacomo                       - Meno, meno...

Mima                             - Era amico del povero Carlo, suo compagno di liceo, se non sbaglio.

Gisella                           - Sì, ma...

Mima                             - Potrebbe essere il padre di Pia.

Giacomo                       - Vent'anni di differenza; meno di vent'anni. E' un uomo sano, forte, d'aspetto giovanile.

Gisella                           - Perché i matrimoni riescan bene, l'uomo deve sempre essere più anziano della donna.

Mima                             - Ma vent'anni di differenza mi paion tanti... troppi. Ad ogni modo... vedremo. Mi pare che vi siate esaltati tutti, fino a perdere la testa. Bisognerà chiedere informazioni... A proposito, tu... (rivolgendosi a Clara, energicamente) tu che te ne stai in disparte... non m'hai detto ieri l'altro, quando mi hai parlato di codesto Allot­ti, che è venuto a trovarti in sartoria per ordinare dei ve­stiti alla sua amante, una pittrice polacca? E non m'hai detto che a Parigi egli gode fama di gaudente, di liber­tino?

Claba                             - Non ho detto libertino. Oh, Dio! E' un uomo ricco...

Mima                             - (scattando con violenza) E perché è ricco deve essergli permesso ogni capriccio, compreso quello di portarsi via mia figlia? Voi siete pazzi! Pazzi! Mia figlia... è la mia carne, il mio sangue!

Giacomo                       - (stupitissimo di quel tono) Mima! Ma che succede?

Gisella                           - (a Clara) In vent'anni che è in questa casa non l'abbiamo mai sentita gridare così...

Mima                             - (si riprende subito. Siede, affranta) Scusa­temi... Brasatemi...

Giacomo                       - (le carezza i capelli stando in piedi dietro la poltrona) Calmati. Hai ragione. Non bisogna preci­pitare le cose. Calmati!

Mima                             - (con un filo di voce)  Oh, papà!

Giacomo                       - Ed ora lasciamola in pace. Andiamo. La notizia è stata troppo improvvisa. Adora sua figlia. An­diamo... andiamo... (Via da destra con Gisella e con Clan).

Mima                             - (rimasta sola si guarda intorno con stupore desolata, poi si copre il viso con le mani; spasima; mor­mora) No! No! (Squilla il campanello del telefono, Si rialza. Il campanello squilla ancora. Va stancamente all’apparecchio, stacca il microfono) Pronto? Sì, pronto, pronto. Chi parla? Chi? Ah! (Pausa) No, io non sono Pia... Pia è tornata, sì, ha fatto buon viaggio. Adesso ri­posa. No, non la posso chiamare. Io sono la mamma... Grazie!... Sentite, barone... io non vi conosco... non ho i! piacere di conoscervi personalmente. Ma tuttavia vi chie­do un favore. Ho bisogno di parlare con voi... Verrò io a Torino: domani. Passerò io da voi. Alle undici. Via della Rocca, ventitré. Conosco il palazzo. Grazie. Buona sera. (Riattacca il ricevitore, si abbandona su una seg­giola e resta là con gli occhi fissi nel vuoto).

(S'ode uno scampanìo: quello dell’armento che s'av­vicina).

Giacomo                       - (entra timidamente da destra, seguito da Gi­sella) E' permesso? Mima... si può?

Mima                             - (sorridendo, mestamente) Venite... venite...

Giacomo                       - Mima, scusa... Non senti?

Mima                             - Che cosa?

Giacomo                       - La mandra. Ha invaso uno dei nostri prati, qui vicino alla strada...

Mima                             - (stancamente) E che importa, papà? Un po' d'erba...

Gisella                           - Quelle bestiacce rovinano il prato.

Mima                             - E io... che ci posso fare?

Giacomo                       - Dire ai pastori che le mandino via. Tu hai più autorità di noi. Sei energica... La padrona, qui, sei tu.

Mima                             - Io, la padrona?

Giacomo                       - Dopo la morte di tuo marito, non siamo andati d'accordo che avresti preso tu la direzione della casa, delle terre? Questo ti dico anche... per quel che riguarda il matrimonio di Pia... La padrona sei tu... Deci­derai tu...

Mima                             - (si alza, subito ridivenuta fiera, forte) Sì. De­ciderò io. (Muove, sicura, verso la porta di fondo e grida, verso l’esterno, ad alta voce, energicamente) Ehi! Pa­stori! Andatevene!

La voce di un pastore   - (dall'interno) Le bestie ci sono scappate.

Mima                             - (c. s.) Cacciatele via!

La voce del pastore       - Ma sì, andiamo, andiamo...

Mima                             - (c. s.) Via subito! O slego i cani. Via! Via! Via! (Scompare dal fondo. Lo scampanìo s'allontana).

Giacomo                       - (a Gisella, con un malizioso sorriso) Hai visto? Basta darle un po' d'autorità... E se ne fa quel che si vuole.

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

Sontuosa sala nell'antico palazzo Aliotti, a Torino. La sala è adibita a studio: lo studio di Riccardo. Una ricca tavola, a sinistra, con suvvi delle carte, qualche libro, un calamaio artistico, la fotografia di una giovane donna a cavallo, chiusa in una cornice d'argento, ritta sul suo peduncolo, un grosso portacenere ad acqua, di cristallo. Quadri d'antenati guerrieri alle pareti. In primo piano un divano, verso destra; una grossa poltrona per chi siede al tavolo; un'altra, eguale, quasi in mezzo alla scena, tra il tavolo e il divano. Una porta in fondo e una a destra.

Giovanni                       - (è seduto nella poltrona centrale e dorme, il mento sul petto. La mano destra gli penzola giù dal brac­catolo; da essa gli è caduto il piumino spolveratore che giace sul tappeto. Un campanello elettrico suona, ripetutamente, nell'interno).

Riccardo                       - (entra da destra. E' vestito da mattina, elegan­tissimo, ma uno dei suoi piedi è calzato della scarpa, l'al­tro di una pantofola. Tiene in mano la scarpa non cal­zata e un mazzo di bellissimi fiori sciolti. Resta un at­timo sorpreso vedendo Giovanni che dorme, poi sorride, depone i fiori sul divano e, in punta di piedi, s'avvicina al dormiente, gli mette, adagissimo, la scarpa sulle ginoc­chia congiunte, poi prende il piumino e, stando a tergo di Giovanni, gli vellica il cranio pelato. Ciò facendo egli ha l'aria di divertirsi, quasi un ragazzo).

Giovanni                       - (sentendosi vellicare il cranio, fa prima il gesto di cacciare una mosca. Poi apre gli occhi, vede la scarpa sulle sue ginocchia, la prende, se la rigira tra le mani, stupitissimo) Una scarpa? (Si volta, vede Ric­cardo, s'alza in piedi di scatto, confuso) Signor barone...

Riccardo                       - (fintamente severo) Non una parola.

Giovanni                       - Mille scuse, signor barone...

Riccardo                       - (c. s.) Basta! Marmotta! Ho sonato tre volte. Di là ci sono i tappezzieri da sorvegliare... Bisogna mettere i fiori nei vasi... non mi hai ancora portato il caffè e latte...

Giovanni                       - Il signor barone l'ha già bevuto!...

Riccardo                       - Quando? Ieri mattina.

Giovanni                       - Un'ora fa.

Riccardo                       - Sei ben sicuro?

Giovanni                       - L'ho portato io nella stanza da bagno.

Riccardo                       - Però... ti licenzio lo stesso. Ti dò gli otto giorni.

Giovanni                       - Allora... sedici, signor barone.

Riccardo                       - Come!

Giovanni                       - Otto il signor barone me li ha già dati ieri!...

Riccardo                       - Mettimi la scarpa.

Giovanni                       - Pronto, signor barone.

Riccardo                       - (con un altro tono di voce) Sai che questo piede mi fa male? (Siede sulla poltrona centrale).

Giovanni                       - (gli si accoccola ai piedi, gli toglie la panto­fola) Ma come ha fatto il signor barone a farsi male?

Riccardo                       - Quei maledetti stivaloni del Carosello. Il destro doveva avere un difetto. In quei giorni non me ne sono accorto. Ma adesso il piede mi fa male.

Giovanni                       - (sempre accoccolato, palpa il piede) Dove?

Riccardo                       - Ahi! (di scatto allunga il piede).

Giovanni                       - (spinto indietro da quel piede, ruzzola in terra).

Riccardo                       - (lo rialza, premurosissimo) Oh, scusa! Ti sei fatto male? (Lo abbraccia) Povero Giovanni!

Giovanni                       - Niente, niente! (Gli infila la scarpa, piano piano) Bisogna premere il piede. Così. Ecco. Forza. Fa male? E' passato. (Allaccia la scarpa) Ora il signor ba­rone provi a camminare.

Riccardo                       - (fa qualche passo) - Sì, sì... va... Come hai fatto? Io non riuscivo a infilarla. Giovanni, sei un an­gelo (gli dà un buffetto su una guancia). E adesso... spic­ciarsi. Su, presto! I fiori! Dove ho messo i fiori? Eccoli là. Distribuirli per bene nei vasi. Dove sono i vasi?

Giovanni                       - Vado a prenderli in salone.

Riccardo                       - No, ho cambiato idea. Molti fieri in giro... può sembrare una civetteria, un segno di mollezza. Che ne dici? Uno, ecco, uno solo (prende un fiore nel mazzo). Il più bello. Questo. Lo metterò qui, in questo porta­cenere, davanti al ritratto di... lei. L'hai visto?

Giovanni                       - Che cosa?

Riccardo                       - Il ritratto. Ho fatto fare l'ingrandimento. Bella, non è vero? Così è come l'ho vista la prima volta, alle prove del Carosello. Bella!...

Giovanni                       - (guarda la fotografia) Bello anche il cavallo.

Riccardo                       - Macché! E' un brocco! Non capisci niente. Vattene. E porta via quei fiori.

Giovanni                       - (raccoglie i fiori dal divano e fa per an­darsene).

Riccardo                       - Aspetta. Verrà una signora. Ho già dato ordine io al portiere di' farla salire. (Guarda l’orologio) Le undici. Sarà qui a momenti. La farai passare in questa sala. E poi, fin che non ti chiamerò io... non ci sarò per nessuno. Nessuno, hai capito?

Giovanni                       - Sì, signor barone. (Un attimo di silenzio). Stamattina è arrivata quella roba che avevamo lasciato a Parigi. Due bauli. Devo aprirli?

Riccardo                       - Non c'è premura; è roba d'inverno. Però... bisognerà aprirli, si capisce. A Parigi non si torna più, ! Hai l'aria di non crederci.

Giovanni                       - A questo mondo tutto è possibile.

Riccardo                       -  Devi metter bene in testa che il mio passato non esiste più. Io mi sposo. Hai capito? Mi sposo. Inutile che mi guardi' con quegli occhi da citrullo. Si cambia vita. La cambierai anche tu.

Giovanni                       - Non sarà facile.

Riccardo                       - Perché?

Giovanni                       - Io ho sempre servito dei signori scapoli. Da quindici anni sono col signor barone. Credo di es­sermi sempre mostrato... all'altezza di tutte le situazioni. Anch'io ho una certa disposizione naturale alla varietà...

Riccardo                       -  Basta con la varietà. Ti sposerai anche tu.

Giovanni                       - Con chi?

Riccardo                       - Con la mia cuoca... quando ci sarà. La sceglierai tu, di tuo gusto. Vattene.

Giovanni                       - Sta bene.

Riccardo                       - Hai otto giorni di tempo per riflettere.

Giovanni                       - Sedici, signor barone. (Scampanellata).

Riccardo                       - . Eccola. Va ad aprire, presto.

Giovanni                       - (via dal fondo).

Riccardo                       - (si ricompone. Resta in attesa qualche attimo).

Giovanni                       - (entra dal fondo, annunzia, impeccabile) La signora contessa di Colleretto.

Riccardo                       - Falla passare.

Giovanni                       - (esce lasciando la porta aperta).

Mima                             - (entra e resta qualche attimo a fissare Riccardo, emozionata, ma dominandosi).

Giovanni                       - (chiude la porta dietro di lei).

Riccardo                       - (muove incontro a Mima, sereno, si inchina a un passo da lei) Contessa... Quale onore! Accomo­datevi.

Mima                             - (non gli ha dato la mano. Avanza di qualche passo, si guarda intorno come smarrita, torna a fissare Riccardo, sempre senza poter proferire una parola).

Riccardo                       - Vi sono molto, molto grato! Sarei venuto io, domani, nella vostra villa. Il conte Giacomo ve l'avrà detto. Accompagnandolo alla stazione, ieri mattina, gli domandai il favore di essere presentato a voi. Non po­tete immaginare quanto vivo fosse in me il desiderio di conoscervi...

Mima                             - (come se non avesse udito le parole di lui, seguendo i propri pensieri)  Qui era l'appartamento di vostra madre, non è vero?

Riccardo                       - (stupito) Sì. Conoscete il palazzo?

Mima                             - (padroneggiandosi molto) Mio marito me ne parlò tante volte.

Riccardo                       - Il povero Carlo! Fu mio compagno di scuola. Si giocava qui insieme, da ragazzi... Era buono! Il più mite dei miei compagni: l'unico con cui andassi d'accordo. Allora... io ero un demonio.

Mima                             - (siede sul divano) E vostra madre... non è più?

Riccardo                       - (accosta la poltrona e siede anche lui) L'ho perduta l'anno scorso. E' morta a Parigi.

Mima                             - Era... molto bella.

Riccardo                       - Avete conosciuto la mia mamma? Ma quando? Dove?

Mima                             - Qui, a Torino. Io ero una ragazzina...

Riccardo                       - Perché... voi siete torinese, contessa? Scu­sate se ve lo domando. So così poco dei miei compae­sani! Quando Carlo di Colleretto si sposò, io ero già fuori d'Italia da un pezzo. Andai via a diciott'anni, subito dopo la morte di mio padre. La mamma era americana.

Mima                             - Lo so.

Riccardo                       - E dopo la morte del babbo non volle più stare qui. Mi portò via con se. Da allora ho vissuto quasi sempre all'estero, seguendo la mamma, che adoravo. Ma scusate... io vi parlo di me...

Mima                             - Sì, continuate. Mi fa piacere. E' pure giusto che... impari a conoscervi, non è vero? Sono venuta apposta.

Riccardo                       - Grazie! Vostra figlia aveva ragione quando mi diceva che siete una adorabile creatura...

Mima                             - Dunque... ditemi di voi. Siete stato un ra­gazzo... discolo?

Riccardo                       - Oh, sì! Terribile! Ma non cattivo, però, Vivace, esuberante all'eccesso. Mio padre, ch'era un uomo d'antico stampo, un buon uomo, poveretto, era disperato! Quanti castighi mi inflisse! Mi chiudeva in ca­mera... io scappavo dai tetti.

Mima                             - E correvate sui cornicioni della casa ri­schiando di precipitare nel cortile... Carlo me lo rac­contò parlandomi della sua giovinezza. E... dopo i di­ciottenni...

Riccardo                       - Mia madre mi mise in collegio. I maestri inglesi mi domarono coi loro sistemi... diciamo così... tradizionali (fa con la mano il gesto delle busse). E poi... con gli anni... un poco di giudizio lo acquistai. Uscito dal collegio, viaggiai molto, sempre con mia madre, ch'era un'inquieta, come me. Ella riuscì sempre a tenermi in una specie di soggezione col fascino della sua intelli­genza e con la straordinaria variabilità del suo carattere. Sapeva essere « snob » dell'arte a Parigi, aristocratica a Londra, borghese a Nuova York. Da lei ho appreso il gusto di tutte le audacie nel campo della fantasia, nella interpretazione dei colori e dei suoni. Ho fatto dell'arte anch'io, si. A Parigi avevo uno studio da pittore. Se fossi stato povero, forse avrei potuto anche farmi un nome, come artista.

Mima                             - E in Italia non siete mai tornato?

Riccardo                       - Sono venuto per la guerra, che ho fatto tutta: quattro anni. Ho una medaglia al valore. Pure restando all'estero, ho sempre pensato e agito da buon italiano.

Mima                             - E ora contate di stabilirvi a Torino?

Riccardo                       - L'idea di tornare mi balenò improvvisa... a Parigi.

Mima                             - A Parigi?

Riccardo                       - Sì, una notte che rincasai... solo. Mia madre era stata per tanti anni la mia consigliera: iro­nica, imperiosa, spesso enigmatica, la mia maestra di vita, insomma. Ed ecco che dopo un anno dalla sua morte, ella mi appare... come una straniera e sento il bisogno di tornare qui, verso mio padre, nella casa di mio padre. Misteriosi richiami. (Attimo di silenzio). Mio padre era un buon uomo, come vi ho detto, dalle abitudini invete­rate, forse un po' ridicole. C'è un suo ritratto, di là, che Io rappresenta magro, insaccato nel suo pastrano azzurro da ufficiale, l'elmo da dragone che gli mangia mezza la faccia e pare tenuto su dai baffi dritti, puntati sotto la visiera.

Mima                             - Lo ricordo.

Riccardo                       - Eppure... fu lui a richiamarmi. E dopo che fui tornato, con la scusa di partecipare al Carosello, dopo che conobbi vostra figlia, e presi la decisione che ho presa, mi parve di aver compiuto un dovere... verso la memoria di mio padre. E' strano! Ed è anche strano come conobbi vostra figlia, come la sentii vicina a me, con una tenerezza infinita, subito. Vi giuro che non ero affatto predisposto a un sentimento così grande, che divenne poi così fermo in me! Perché, signora, io mi sono sentito attratto da vostra figlia? Non lo so. Come un bisogno accorato di abdicare dalla mia libertà, una specie di giocondità fresca, istintiva, di rinascere!

Mima                             - (ha chinato il volto sul palmo delle mani).

Riccardo                       - Ciò che dico vi fa soffrire? Perché? Non dovete soffrire se io vi assicuro che a vostra figlia voglio un bene immenso! E anche lei me ne vuole! Tanto, sapete, ma tanto!

Mima                             - (desolata, ma sforzandosi di padroneggiarsi) Pia è una ragazzina... Non sa nulla della vita... Siete il primo uomo che le ha fatto la corte...

Riccardo                       - Non le ho fatto la corte.

Mima                             - Fra lei e voi ci sono vent'anni di differenza.

Riccardo                       - (stupito) Voi dunque vi opponete, signora!

Mima                             - Scusatemi, ma io penso che non siate l'uomo adatto per mia figlia. Vi siete illuso di amarla perché l'avete vista in una cornice eccezionale, quasi in un quadro di illusioni.

Riccardo                       - (con fermezza) Contessa, io vi dò la mia parola di gentiluomo che amo Pia e che ho avuto tutto il tempo e la calma per riflettere sul passo che sto per compiere. Alla mia età non ci si spesa per capriccio.

Mima                             - Ebbene... voi non potete sposare mia figlia.

Riccardo                       - Me la negate?!

Mima                             - Sì.

Riccardo                       - Vorrete favorire di dirmi il perché. Le ragioni che avete addotte non mi paiono bastevoli a giu­stificare l'affronto che mi fate.

Mima                             - (esasperata, con uno scatto violento) Mia figlia è... ciò che ho al mondo di più sacro.

Riccardo                       - Non ne dubito.

Mima                             - (si torce le mani, poi prorompe) Ma è dunque possibile che un uomo perda la coscienza del passato fino a questo punto? Dunque per voi... una donna non è un'esistenza... è un minuto che passa! e la si può di­menticare come se non esistesse più? Ma guardatemi in faccia! Guardatemi bene! Possibile che non ci sia più nulla in me di quella che ero ventiquattr'anni fa? Una ragazzina, è vero! Avevo sedici anni! Una piccola strac-ciona! La figlia di Menico, del portinaio di questo palazzo...

Riccardo                       - (arretrando) Mima!

Mima                             - Sì, Mima! Mima!

Riccardo                       - Ma no! Oh, ma no! No! (Attimo di per­plessità dolorosa). E come potevo immaginare... come potevo riconoscervi? Ricordare?

Mima                             - Infatti... il nostro rapporto non ebbe che la durata di pochi minuti... pochi minuti di follìa.

Riccardo                       - Avevo la vostra età anch'io.

Mima                             - Ma non è di quei minuti di cecità che vi faccio colpa. Furono attimi di cecità anche per me... Ignari della vita entrambi... Eravamo soli in questo pa­lazzo. Mi avevate chiamata perché vi liberassi da questa prigione ove vostro padre vi aveva chiuso, per castigo...

Riccardo                       -  Oh, è terribile! Ma come avete fatto a...

Mima                             - A salire fino al grado in cui mi vedete?

Riccardo                       - Non dico questo.

Mima                             - Ricorderete, spero, che dopo quel giorno non mi avete più vista. O non vi siete neanche accorto che dalla portineria Mima se n'era andata, dopo quel giorno? Ciò che era successo, per voi aveva avuto l'im­portanza di pochi attimi, per me fu la vergogna di tutta la vita!

Riccardo                       - Ma ora calmatevi, signora. Vi prego! Se­dete! Voglio sapere, sì. Raccontatemi. Dopo quel giorno...

Mima                             - Sono andata ad abitare in casa di una mia zia che aveva un piccolo negozio in via della Consolata. Capii subito che ciò che era successo era gravissimo, soprattutto per la mia coscienza: di fronte a me stessa, che avevo ceduto, non tanto alla prepotenza di un ra­gazzaccio... ma alla mia debolezza di donna! Come ve­dete, non vi ho ritenuto il solo responsabile del fatto! Io non ho mai creduto che quando capitano simili fatti la responsabilità sia solo dell'uomo.

Riccardo                       - Un pomeriggio di domenica... d'agosto... ricordo... sì, ora ricordo. Tutti se ne erano andati, anche i servitori. Io mi sentivo come una belva chiusa in una gabbia... Dalla finestra vi vidi passare nel cortile. In portineria c'erano le chiavi di questo appartamento. Vi supplicai di salire, di aprirmi...

Mima                             - Minacciando di saltare giù dalla finestra se non fossi salita. Vi credetti capace di farlo. Vi giudicavo un pazzo-. (La vostra prepotenza mi soggiogava. Nient'altro che questo, badate bene; di voi non ho mai sentito altro fascino che quello della prepotenza. Nessun sentimento ho provato per voi: né prima ne dopo. Forse... neanche d'odio! Ma quanto piangere! Che vergogna! Appunto perché avevo dato la mia purezza, così, senza amore, in un attimo di cecità! Voi non potete capire l'avvilimento d'una donna che ha un senso d'onestà istintivo e si sente rovinata! Voi, il giorno dopo... mi avevate già dimen­ticata...

Riccardo                       - No, Mima.

Mima                             - Ma sì. Avevate perduto non solo la memoria del mio volto, ma persino la memoria del fatto! Del resto, non me ne importa, ve l'ho detto. Non ho portato in me un odio particolare contro un uomo: contro tutti gli uomini, forse!, ad eccezione di uno, che venne più tardi, molto più tardi, e fu l'unico che amai. Riccardo     - Carlo. Dove l'avete conosciuto?

Mima                             - Era studente all'Università. Io lavoravo in una sartoria, dalla De Gasperi. Mi seguì in strada, ogni sera, per circa un anno, prima di parlarmi.

Riccardo                       - Immagino che a lui abbiate poi detto.., la verità.

Mima                             - Si capisce. Quando mi convinsi che veramente mi amava e prima che mi sposasse.

Riccardo                       - (si copre il volto con le mani).

Mima                             - Egli... non c'è più... però vi dispiace, vero?, che abbia saputo. Sentite quanto vi abbia disprezzato! Odiato! Eh, sì! Odiato! Per vostra e nostra fortuna al­lora voi eravate già via dall'Italia. Dio, che ho tanto pregato, aveva esaudito il mio voto: avevo chiesto a Dio una sola grazia: di non vedervi mai più. (Pausa). Ma... forse non avevo espiato abbastanza. Ed ecco che ora... dopo ventiquattro anni, tornate sulla mia strada! Tornate e nientemeno per portarmi via mia figlia! Mia figlia a voi! La mia carne a voi! Ancora una volta! (Ride convulsamente) Ah! Ah! Pare incredibile! V'assicuro che, da ieri sera, da quando ho saputo, non riesco a convincermi che sia vero! Io che ho passato tutta la mia vita a salire, giorno per giorno, da uno stato di miseria morale a uno stato di nobiltà - non quella del titolo che porto ma quella dello spirito - io che ho vissuto per la mia casa, non preoccupata d'altro che di rendermene degna, tutto d'un colpo dovrei precipitare giù nella miseria da cui sono partita? E dovreste proprio essere voi, ancora voi, a rovinarmi?

 Riccardo                      - (che l’era stata a sentire, scuro in volto, minaccioso) Basta, signora! Vi prego di calmarvi!

Mima                             - (c. s.) Mia figlia! Stretta fra le braccia da voi!... baciata... da voi! No!... (Disperata) Questo non avverrà... Piuttosto... vi ammazzo!

Riccardo                       - (violentissimo) Basta! (le è balzato di fronte).

Mima                             - (lo fissa, come ipnotizzata da quell'aspetto vio­lento, forse il medesimo che l’aveva soggiogata venti, quattr'anni addietro. E' scossa da un fremito) No!.., Che cosa ho detto?... Perdonatemi! Non connetto più..

Riccardo                       - (sempre energico e insieme ironico) Me ne sto accorgendo... contessa. (La fissa sempre) Sedete! Procurate di ritrovare la vostra calma. E' necessario.

Mima                             - (si abbandona sul divano e scoppia in pianto),

Riccardo                       - (fa qualche passo nella stanza, ira silenzio) Avete parlato solo voi! Un fiume di parole! E mi­nacce! Con me le minacce non giovano a nulla.

Mima                             - (tra le lacrime) Non fatemi del male.

Riccardo                       - (c. s.) Io? E' il destino che ci colpisce: duramente. Colpisce anche me, non solo voi: e anche una creatura innocente che entrambi amiamo.

Mima                             - Oh, so bene che soffrirà! Vi ama! Mi sono bastate poche sue frasi, ieri sera, per convincermi... che l'avete suggestionata, trasformata! So che avrò contro di me tutti, nella casa. Non capiranno il perché del mio diniego e io non potrò dire loro la verità. A meno che,,. non sia necessario. Se sarà necessario... se proprio non avrò altri mezzi per persuadere mia figlia... allora le dirò la verità. Una madre, per la sua creatura, può anche umiliarsi.

Riccardo                       - Voi non farete questo.

Mima                             - E allora... promettetemi che non la ve­drete più.

Riccardo                       - (dopo una pausa) Sì, questo sì: ve lo prometto.

Mima                             - E se lei... vi scriverà, cercherà di comuni­care con voi...

Riccardo                       - Non le risponderò. Non mi troverà. So di poter mantenere le promesse che faccio; anche a costo di soffrire atrocemente. La vostra rivelazione, per quanto terribile, non riesce a distruggere il mio amore, che è indipendente da tutto e da tutti, anche da voi, scusale, anche dal nostro passato comune. Io non rivedrò vostra figlia, non metterò piede nella vostra casa... se non quando mi doveste chiamare voi, signora.

Mima                             - Io?

Riccardo                       - Voi, sì, voi! Non so ancora se resterò qui o se ritornerò a Parigi. A ogni modo, saprete sempre dove trovarmi, all'occorrenza. Vi terrò informata.

Mima                             - (smarrita) Grazie! Grazie! (Attimi di silenzio doloroso). Credo... che non abbiamo più nulla da dirci..,

Riccardo                       - (fa un gesto di assentimento aprendo le brac­cia e lasciandole cadere lungo i fianchi, sconsolato. Preme un bottone di campanello elettrico).

Giovanni                       - (compare subito dal fondo).

Riccardo                       - Giovanni, accompagnate la contessa (fa un inchino).

Mima                             - (risponde all'inchino abbassando il capo sul petto, poi esce, senza dargli la mano, un po' curva).

Giovanni                       - (esce dopo di lei, chiude la porta).

Riccardo                       - (rimasto solo, resta qualche attimo immobile, assorto; poi i suoi occhi cadono sul ritratto di Pia. Lo prende con le due mani, lo fissa a lungo, scuote il capo mestamente, lo ripone al suo posto, suona il campanello).

 Giovanni                      - (rientra dal fondo).

Riccardo                       - Giovanni.» hai aperto i bauli che sono arrivati da Parigi stamattina?

Giovanni                       - No, signor barone.

Riccardo                       - Hai fatto bene. Si torna via.

Giovanni                       - Lo immaginavo, signor barone. Meglio così.

Riccardo                       - No, Giovanni. Questa volta... partire non è meglio: è triste!... è molto triste!...

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

La stessa scena del primo atto. E" una notte d'inverno. La porta del fondo è chiusa; oltre la vetrata si intrave­dono gli alberi del parco, carichi di neve. E' acceso il lampadario pendente dal soffitto. Sono pure accese le lampade che illuminano i due angoli del fondo. Nel caminetto splende la fiamma.

 (All’aprirsi del velario si vedono, sedute in primo piano, accanto al caminetto, Mima, che appare sofferente, le spalle ravvolte in uno scialletto, e Clara. Intorno al tavolino che e nell'angolo destro Gisella, il dottore, ma­dama Peiretti e il pievano, giocano a carte. Pia, seduta al tavolino di sinistra, è curva sopra un libro illustrato; Stefano le è vicino, in piedi).

Mima                             - (sta facendo un lavoro a maglia).

Clara                             - (protesa verso il caminetto) Il fuoco! Che cosa bella! Ma bisognerà attizzarlo. Come si fa? (si accoccola davanti la pietra del focolare, prende le mol­lette e fruga tra le braci).

Mima                             - (per aiutarla) Aspetta, aspetta...

Clara                             - No, voglio fare io! Lascia! Mi diverte. Da quanto tempo non vedo il fuoco d'un caminetto! Da quando ero bambina, forse. Ti ricordi che ce n'era uno in camera mia, nell'alloggio che abitavo in via Stampatori?

Mima                             - (lascia cadere il lavoro e le mani sul grembo, abbandona la testa sulla spalliera della poltrona) E sopra il caminetto c'era una stampa incorniciata di con­chiglie...

Clara                             - Una stampa olandese: bella. L'avevo com­prata io a Porta Palazzo, per pochi soldi. Ce l'ho ancora. Sai che a Parigi tornano di moda le cornici di valve, i fiori sotto vetro, i frutti di marmo, le cosiddette «buone cose di pessimo gusto », insomma?

Mima                             - Qui ce ne sono tante!

Pia                                 - (che pure di lontano, fingendo di guardare le vignette del libro, stava attenta al discorso di Clara e di sua madre, intervenendo) E varrebbe la pena di venderle.

Mima                             - (sottovoce a Clara) Vedi? E' sempre lì con le orecchie tese. Ascolta tutto.

Clara                             - Che dici, Pia?

Pia                                 - Niente. Una sciocchezza.

 

Mima                             - (volgendosi a Pia) Vendere, perché? Tornano di moda, hai sentito?

Pia                                 - (ironica) In casa mostra! La moda! E' ridicolo! (Si alza e avanza verso la ribalta, seguita da Stefano) Pensa, Clara, che qui si conservano, forse da secoli, non soltanto le cose che hanno un certo valore, ma le cian­frusaglie più insignificanti. Qui non si buttano via nem­meno i pezzettini di carta. Nell'ammezzato e sul solaio ci sono stanze piene di casse, cassette, cassettoni, che contengono vecchi abiti, vecchi cappellini, giocattoli rotti, pacchi di lettere e di cartoline illustrate...

Stefano                         - « Conservare » è una delle principali virtù delle vecchie famiglie. Anche in casa nostra non si butta via nulla, se non previo meditato ragionamento. A ogni cosa, anche povera, di apparente minima importanza, è legata una memoria. Tutto può tornar utile a un certo momento della vita. Io, che mi occupo di studi storici... lo so.

Pia                                 - Tu ti occupi di studi storici, i miei nonni sono stati educati al cosiddetto «culto delle memorie » fin da bambini. Ma chi non capisco è la mamma. Eppure lei è la più conservatrice di tutti. Ferocemente conser­vatrice!

Clara                             - « Ferocemente »! Che parola!

Mima                             - (sul cui volto si è impresso un grande dolore, per non rispondere si alza e si avvia, stancamente, verso la porta di sinistra).

Clara                             - (a Mima) Dove vai?

Mima                             - Torno subito. (Via).

Clara                             - (a Pia) Perché tratti tua madre così? Mi sorprende, Pia.

Pia                                 - E che ho detto? Stefano, che ho detto? Ti pare che l'abbia offesa?

Stefano                         - (timido) No... veramente... Però... Scusa, sai...

Pia                                 - (a Clara) Fa sempre così. Tutto ciò che dico io la urta. E allora si alza e se ne va. Una volta discu­teva, mi sgridava. Ti ricordi quand'eri qui, in maggio? Era severa, ma giusta. Ed io l'ho sempre rispettata, l'ho sempre obbedita.

Stefano                         - (c. s.) Com'è tuo dovere... scusa...

Pia                                 - (scattando, nervosissima) Taci, tu! Non inter-rompermi! (A Clara) Da sei mesi a questa parte la mamma è molto mutata nei miei riguardi. Tu sei ap­pena arrivata. Resterai qui qualche giorno. Osservala! Oh, se tu sapessi, Clara, che cos'è diventata questa casa da sei mesi a questa parte!

Clara                             - Calmati, su, via! Mi sembri molto nervosa, anche tu.

Stefano                         - Ecco. Anch'io le dico sempre...

Clara                             - Zitti! E' qui!

Mima                             - (rientra con un fazzolettino in mano: si vede che ha pianto).

Pia                                 - Io esco. Qui si soffoca. Vieni, Stefano. Ci deve essere la luna. (S'avvia verso la porta del fondo).

Mima                             - Non andare fuori senza niente indosso, Pia. Fa molto freddo.

Pia                                 - (non risponde, come se non avesse udito. Esce e richiude).

Gisella                           - (a Mima) Ma dove va? Fuori, senza paltò? Ma Mima!

Mima                             - (a Stefano) Stefano, per favore, portale il paltò. Guarda... è lì nell'anticamera.

Stefano                         - So, so... (Corre verso sinistra, riesce vestito del proprio soprabito, portando un mantello femminile.

Attraversa la sala in fretta, esce dal fondo e chiude la porta).

Il Dottore                      - (appena Stefano ha aperto e richiuso la porta del fondo) La porta! La porta! Mi farete pren­dere un accidente. Sono matti, questi ragazzi.

Il Pievano                      - Non ve la prendete coi ragazzi, dottore. Avete sbagliato a buttar giù il quattro. Ah, ah! (ride raccogliendo le carte).

Il Dottore                      - Non avevo altro.

Madama Peiretti           - Ma dottore, scusate! Io avevo « ori » in mano. Voi non dovevate giocare il quattro.

Gisella                           - Se non aveva altro, poveretto! (Ride) Pa­zienza, dottore. Ci prenderemo la rivincita domani sera. (Si alza. Anche gli altri tre giocatori si alzano e muovono verso Mima e Clara sedute accanto al fuoco).

Il Dottore                      - (a Mima) E così... come sta questa nostra ammalata immaginaria?

Mima                             - Oh, dottore!

Il Dottore                      - La guarigione non dipende dai miei medicamenti, ma dalla vostra buona volontà! Mette-tevelo bene in testa.

Mima                             - Mi sento sfinita, dottore.

Il Dottore                      - La settimana ventura riprenderemo le iniezioni. Ma insisto nel dire che la debolezza, l'inappe­tenza, l'insonnia passeranno quando vi persuaderete a non dare importanza alle quisquiglie, a non preoccuparvi troppo della casa, della figlia, della terra, e che so io... delle lenzuola, dei tappeti, della pulizia... Sciocchezze!

Mima                             - Voi dovreste esser buono, dottore!

Il Dottore                      - Cosa? No, no. Sonniferi più. Basta! Inutile insistere.

Mima                             - Stanotte non ho chiuso occhio (parla sotto­voce al dottore).

Il Pievano                      - (facendo crocchio, un po' in disparte, con madama Peiretti e Gisella; a Clara) Siete arrivata stasera, signorina? Vi ho vista in chiesa, alla novena.

Clara                             - Che meraviglia, signor pievano, quei canti, quelle luci!

Il Pievano                      - (a madama Peiretti) Viene da Parigi dove ci sono Notre .Darne, la Madeleine e trova bella la no­stra piccola chiesa!

Clara                             - Purtroppo, signor pievano, devo confessarvi che io sono una di quelle che frequentano solo le pic­cole chiese, quelle dei villaggi.

Il Pievano                      - Ah... ah... male... male!

Madama Peiretti           - Vedrete com'è suggestiva la notte di Natale, qui! Andremo tutti alla Mes6a della mezza1-notte.

Clara                             - Ma certo!

Gisella                           - E' venuta apposta per passare le feste con noi. Quest'anno, però, la casa non è molto allegra.

Clara                             - Ma no, contessa, vedrete, vedrete...

Gisella                           - Mima non sta bene... E poi... (si asciuga due lacrimucce).

Madama Peiretti           - Cose che passano. Su... su... co­raggio.

(Pia e Stefano rientrano dal fondo, imbacuccati nei loro soprabiti. Battono le suole delle scarpe contro la pietra della soglia prima d'entrare per liberar le suole dalla neve).

Pia                                 - Che bellezza! E' una notte magnifica.

Mima                             - (a Pia) Togliti il paltò, adesso.

Pia                                 - Fa un bel freddo, secco... (Si toglie il mantello e lo butta su una poltrona)

Madama Peiretti           - E' tardi, bisogna andare. Stefano, va a vedere se il papà ha finito di parlare col conte.

Stefano                         - Dove sono?

Gisella                           - Di là, nello studio.

Stefano                         - Sì, mamma. (Via da destra).

Mima                             - (preme il bottone di un campanello elettrico).

Clementina                    - (entra da sinistra).

Mima                             - Clementina, i mantelli dei signori.

Clementina                    - (esce da sinistra e ritorna subito portando i mantelli e i cappelli di Peiretti, del pievano e del dot­tore).

Il Pievano                      - (facendosi mettere il pastrano sulle spalle da Clementina) Oh, ecco! Brava, Clementina! Non occorre infilarlo. Mettimelo solo sulle spalle. Quattro passi e siamo a casa.

Mima                             - Aspettate, dottore... (l’aiuta).

Il Dottore                      - Oh, grazie, grazie!

Pia                                 - (aiuta madama Peiretti che, oltre a infilarsi il mantello foderato di pelliccia, si ravvolge intorno al capo aita sciarpa di lana. Frattanto entrano da destra il cavalier Pei­retti, Giacomo e Stefano).

Peiretti                          - Oh, eccovi già pronti per la partenza. Scusate, scusate. Chi ha vinto?

Gisella                           - Il pievano e madama Peiretti. Il dottore, stasera, non ha fatto che sbagli.

Il Dottore                      - Quando non si hanno le carte...

Clara                             - (a Giacomo) Come va, caro?

Giacomo                       - (triste in viso) Eh!... così...! Ho avuto un lungo colloquio col mio amico Peiretti.

Stefano                         - (intanto è andato a prendersi la lanterna e l'ha accesa) Ecco fatto. (La alza in mano) «Lumen de lumine»! Andiamo? (A Gisella) Buona sera, contessa! (Saluti a soggetto).

Il Dottore                      - Non passiamo dal viale. C'è troppa neve.

Giacomo                       - Stasera non ho avuto tempo di farla spaz­zare…

Il Pievano                      - Si fa più presto dalla scorciatoia.

Gisella                           - Fate attenzione, madama Peiretti: giù per quei sassi si scivola.

Madama Peiretti           - Grazie!... Buona notte!...

Peiretti                          - (a parte, a Giacomo) Allora... siamo intesi. A domani. Ti aspetto.

Giacomo                       - Verrò subito dopo colazione. Verso le due. Va bene? Buona notte.

Madama Peiretti           - (a Stefano) Stefano, va avanti tu con la lanterna. (Gli ospiti escono da sinistra, seguiti da Mima e da Clementina).

Gisella                           - Io mi ritiro. Sono un po' stanca. Buona notte, signorina Clara. Spero non avrete freddo. Vi ab­biamo preparato il letto con due coperte di lana. Ne troverete una terza piegata sulla poltrona.

Clara                             - Grazie. Io non patisco il freddo. Buon ri­poso, contessa.

Gisella                           - (a Giacomo) Tu vieni presto?

Giacomo                       - Sì, sì, fra un momento.

Gisella                           - (a Pia) Pia, mi vieni a salutare prima di andare a letto?

Pia                                 - Sì, nonna.

Gisella                           - (via da destra).

Clara                             - Dunque, conte...

Giacomo                       - (siede) Dunque... eccoci qua. Non sereni, eh no! Pensare che ci si faceva una festa d'avervi qui con noi per Natale! In queste ultime settimane sono per­fino stato tentato di scrivervi di non venire. Poi non ho osato. Del resto... voi siete tanto buona amica di Mima e di noi tutti... che sopporterete con santa pazienza i nostri guai.

Clara                             - Non bisogna esagerarli, conte. Tutti abbiamo dei guai.

Giacomo                       - Lo so. Per temperamento io sono tutt'altro che pessimista. Ma stavolta la decisione che mi tocca prendere è grave.

Clara                             - Quale decisione?

Giacomo                       - (guarda verso la porta di sinistra) Mima dov'è andata?

Pia                                 - (che già prima teneva d'occhio la porta di sinistra) E' salita dalla nonna.

Giacomo                       - Non vorrei che arrivasse d'improvviso.

Pia                                 - Sto attenta io. Ma non scende subito. E' andata su con Clementina a combinare la spesa di domani.

Giacomo                       - Non che io voglia tenere un segreto a mia nuora. No di certo. Saprà anche lei; ma non stasera.

Pia                                 - Devo ritirarmi anch'io, nonno?

Giacomo                       - No. Tu... un poco al corrente della cosa sei già. Ho bisogno di sfogarmi con qualcuno, sì. Non ne posso più!

Pia                                 - (l’abbraccia) Nonno!

Giacomo                       - (allontanandola dolcemente) Siedi. Brava.

Clara                             - Ma che cosa è successo?

Giacomo                       - Da sei mesi, signorina, la pace se n'è an­data da questa casa. Voi eravate qui questa primavera quando...

Clara                             - Sì, sono al corrente. Mima mi ha scritto a Parigi.

Giacomo                       - Mima si è opposta al matrimonio di sua figlia con Riccardo Aliotti. E' andata lei a Torino a par­lare con l'Aliotti. Che cosa precisamente lei e Riccardo si siano detto in quel colloquio, noi non sappiamo.

Pia                                 - Né lo sapremo mai.

Giacomo                       - A noi ha detto che il barone non è per­sona adatta a sua figlia, un uomo troppo vissuto, tuttora legato a un'amica; e poi... che c'è troppa differenza di età fra lui e Pia... Insomma, ragioni plausibili che né mia moglie né io, in coscienza, abbiamo potuto contra­stare. Del resto... la figliuola è sua.

Pia                                 - E io non mi sposerei mai contro la volontà di mia madre, soprattutto perché so che darei un dispiacere troppo grave ai nonni. La mamma... il mio sacrificio non lo merita.

Clara                             - Non dire questo, Pia!

Pia                                 - Se sono arrivata a pensare così di mia madre... è perché ho le mie buone ragioni.

Giacomo                       - Ma no! Ma no! Perché si devono fare delle brutte supposizioni? Le obbiezioni di tua madre sono fondate su argomenti plausibilissimi. E io posso capirla. E' una donna di principii rigidi, che adora sua figlia.

Pia                                 - Mi adora! (Ride amara). E il suo egoismo, nonno, dove lo metti?

Giacomo                       - Non c'è grande affetto che non porti con se anche una certa dose d'egoismo. Ma del resto... la­sciamo stare Mima. Il barone Aliotti chi l'ha visto più? Chi ne ha più saputo nulla? Non s'è più fatto vivo né con Pia, né con me, né, ch'io sappia, con Mima. Pare che se ne sia tornato a Parigi.

Clara                             - Sì, è a Parigi.

Pia                                 - L'hai visto?

Clara                             - Più d'una volta. Anche pochi giorni fa...

Pia                                 - Ah! (Ansiosissima) E t'ha parlato di me?

Clara                             - (incerta) Sì... qualche accenno...

Pia                                 - (c. s.) No, no, dimmi... So che sei sua buona amica da tanti anni. T'ha detto del colloquio che ha avuto con mia madre? T'ha spiegato le ragioni per cui...

Clara                             - No! Questo no! E' un gentiluomo. Né io l'avrei voluto ascoltare. Piuttosto... quello che so è che egli non t'ha dimenticata. So che soffre anche lui. Questo te lo dico perché ho buona speranza che tutto s’accomodi e tua madre finisca per convincersi che Riccardo non è indegno di te, di voi. Da sei mesi, dacché è tor­nato a Parigi, conduce una vita ritiratissima, lavora molto, ha fatto un'esposizione dei suoi quadri, con successo.

Pia                                 - Lo vedi, nonno? Lo vedi? Te lo dicevo! Egli non mi ha dimenticata! Lo sentivo! (si butta nelle brac­cia del nonno).

Giacomo                       - Calmati, su, ora calmati. Meglio così. Se Veramente ti vuol bene tornerà. Ma intanto... (a Clara) intanto io non posso aspettare il beneplacito del barone Aliotti per ridare pace alla mia famiglia. La verità si è che qui non si può più vivere, signorina Clara. E allora ho deciso di vendere la casa e la terra.

Clara                             - No! Voi non farete questo, conte!

Giacomo                       - (calmo e triste) Sì, Clara. Fra le varie so­luzioni, l'unica che mi pare utile è questa: vendere la casa, la terra e andarci a stabilire tutti in città.

Ciara                             - Ma avete riflettuto...

Giacomo                       - Non ho mai fatto altro nella mia vita. Se hanno un difetto quei che vivono in campagna, è che riflettono troppo. Ed è un male. Alla mia età, pensate!, e coi miei principii, giungere a una simile conclusione! Vi parrà enorme, non è vero? Ma voi vedete che a vi­vere in campagna tutto l'anno non resiste quasi più nes­suno. E' una specie... come dire?... di vento che spazza via la gente dai campi e la spinge verso le città. Gente di tutti i ceti, di tutte le condizioni! In città c'è la vita, la vita vera, multiforme, varia, divertente. Ci sono i ci­nematografi, i teatri, il « foot-ball », i negozi, i tranvai ; là si corre, si vola e si parla, soprattutto si parla, si parla, magari senza dir nulla; ma viene la sera, e uno va a letto stanco senza avere avuto tempo di riflettere ai proprii guai. E questo è molto importante! Del resto, voi che vivete a Parigi ne sapete qualche cosa.

Clara                             - Io sono venuta via da Parigi, ieri, come da un inferno. Sapeste come ho desiderato la vostra casa, come l'ho sognata durante questi sei mesi...

Giacomo                       - Sogni, ecco, sogni. Poesia! Voi venite qua per fermarvi otto giorni, quindici al massimo... No, cre­dete! Noi andremo a stabilirci a Torino, in un apparta­mento, si capisce... Non potremo passarci il lusso di un palazzo. Pia, dopo un mese, avrà le sue amiche, i suoi « flirt »...

Pia                                 - Questo non lo devi dire, nonno!

Giacomo                       - Ma sì! Dopo un mese ti sembrerà infinita­mente stupido di avere tanto sofferto nell'attesa di Ric­cardo Aliotti, il principe azzurro! E anche Mima si di­strarrà. A Torino lei ci è nata...

Clara                             - Ma ha dato tutta la sua anima a questa casa, a questa terra.

Giacomo                       - Lo so! Eh... Io so! Sarà lei, forse, quella che soffrirà più di tutti a staccarsi di qui. E' è per questo che non ho il coraggio di rivelarle la mia decisione. Ma poi... si abituerà. E là ci sarà più facile curarla. Perché... Mima non sta bene... non sta bene...

Clara                             - Lo so, conte.

Giacomo                       - Io la vedo... La conosco... Nessuno la co­nosce e l'apprezza come me... (Pausa. Si preme due dita sugli occhi per impedire che ne sgorghino le lacrime).

Clara                             - Stabilirsi in città! Lo capisco! Ma non mi pare che per far ciò sia necessario vendere la casa e la terra. Non potreste affittare?

Giacomo                       - Non ne ricaverei un reddito che basti per vivere decorosamente in città. Tutta la mia sostanza è qui, signorina. Non mi vergogno di dirlo. Invece, se vendo, realizzo un capitale. L'offerta che m'ha fatto il mio amico Peiretti è ottima. Lui ha convenienza di in­grandire la sua proprietà confinante con la mia.

Clara                             - Peiretti è il signore ch'era qui poco fa? Il padre di Stefano?

Pia                                 - Si.

Giacomo                       - Domani faremo un compromesso, domani nel pomeriggio. Verrà su un notaio...

Clara                             - Come mi dispiace!

Giacomo                       - Oh, signorina Clara! Pensate... che qui io sono nato, ho passato tutta la vita.

Pia                                 - (guardando a sinistra) Zitti! Viene la mamma!

Mima                             - (entra da sinistra) Siete ancora qui? (A Gia­como) La mamma ti prega di salire. E' quasi mezzanotte, papà.

Giacomo                       - Vado, sì, vado.

Mima                             - Pia, vai anche tu. Poi verrò a salutarti in ca­mera tua.

Pia                                 - (a Clara) Buona notte, Clara.

Clara                             - Ti vedo ancora. Salirò con la mamma.

Giacomo                       - (a Clara) Buon riposo, cara signorina.

Clara                             - A domani, conte.

Giacomo                       - (bacia Mima sui capelli, teneramente).

Mima                             - Buona notte, papà.

(Giacomo e Pia escono da destra).

Clara                             - (accoccolatasi davanti al caminetto) Il fuoco si è spento.

Mima                             - Siedi un momento. Hai avuto un colloquio con mio suocero e con Pia. Vi ho sentiti parlare anima­tamente; stavo scendendo, sono tornata su. So benissimo che la mia presenza vi avrebbe fatto tacere.

Clara                             - Ma no, Mima! Senti, andiamo a letto. Par­leremo domani. Anch'io sono stanca. Ho viaggiato...

Mima                             - (quasi non l'avesse udita) Mio suocero, quando è entrato qui col cavalier Peiretti, aveva una faccia spet­trale.

Clara                             - Spettrale! Che esagerazione!

Mima                             - Non vuoi che lo conosca, io? A tutta questa mia gente io leggo i pensieri sul viso, Clara. Ti prego, dimmi che cosa ti ha detto mio suocero. M'interessa quel che può averti detto lui: di Pia non mi importa, per quanto mi dimostri sempre più la sua ostilità. L'hai sen­tita, stasera? Che tono? Ma non importa!... Di buona o di mala voglia, dovrà obbedirmi.

Clara                             - Cara Mima, sono finiti i tempi in cui era fa­cile dominare la gioventù!...

Mima                             - In città, forse, ma non qui. Qui, mia figlia farà quello che voglio io!

Clara                             - Fin che potrai, restare qui.

Mima                             - (sospettosa) Parla chiaro, è meglio. Qualche cosa ho intuito. A me non sfugge niente. Parole vaghe, buttate là per preparare il terreno... Colloqui misteriosi fra Pia ed i nonni... Perfino tra le persone di servizio qualche cosa è trapelato. Che è? Mio suocero vuole affit­tare un appartamento in città e mandarvi me e mia figlia?... E' questo?... E Pia soffia nel fuoco perché spera che... quel signore... da Parigi si trasferisca a Torino? E' questo?

Clara                             - Senti, Mima. Io posso dirti che tuo suocero non ha nessuna intenzione di tenerti dei segreti. Ti dirà, lui, domani.

Mima                             - E per avere i mezzi di mandare Pia e me ad abitare in città, mio suocero si adatterebbe ad affittare parte dei terreni a Peiretti! Da un pezzo Peiretti gli sta attorno, lo blandisce. Sfido! Terreni come i nostri, il signor Peiretti non se li sogna nemmeno. I Peiretti, gente falsa e senza cuore, che specula sulle disgrazie altrui! Sciacalli! Veri sciacalli! Io l'ho sempre detto.

Clara                             - Tuo suocero... vende; ha deciso di vendere casa e terra.

Mima                             - Vendere la casa? Questa casa? Ma non hai capito! E' impossibile. Mio suocero è un agricoltore, figlio di agricoltori. E' nato qui, come suo padre, come suo nonno! Tu non sai che cosa voglia dire l'attacca­mento alla terra. In questa terra ho messo radici anch'io; ed io... non sono che una trapiantata, vivo qui solo da vent'anni. Ma non potrei più staccarmi di qui senza sentirai... strappare il cuore. E vuoi che mio suocero pos­sa... Ma no, no! In città lui! In un appartamento di città! Ma morirebbe dopo un mese. E se fosse vero ciò che tu credi d'aver capito, pensi che io potrei permetterlo? Ma io mi batterei, lotterei...

Clara                             - Non ti illudere di poter lottare, Mima. E' una cosa decisa, un patto concluso fra il signor Peiretti e tuo suocero, definito questa sera, di là nello studio. Domani verrà il notaio.

Mima                             - T'ha detto questo?!

Clara                             - Ma sì! E senza esaltazione, con grande ma­linconia ma anche con fermezza. Tuo suocero è un uomo di buon senso e di gran cuore. Molto più energico di quel che non sembri. Vuole che torni la pace fra voi; ed ha capito che qui non è possibile farla tornare. Qui siete tutti i giorni, tutte le ore l'uno contro l'altro, come lupi in una gabbia. L'isolamento stesso favorisce i vostri dissidi, li ingrandisce. A furia di fissarli e fissarli, anche i fuscelli diventano travi.

Mima                             - (ha gli occhi fissi al suolo, come intontita).

Clara                             - Ma sì, va là! Del tuo caso hai fatto tu stessa una tragedia mentre... non è che una povera triste com­media. Sapessi quante donne si sono trovate nel caso tuo e non hanno fatto tragedie, hanno sopportato, in si­lenzio, pel bene della loro creatura.

Mima                             - (scattando) Basta! Non posso sentirti parlare così! E' ignominioso. Sei l'unica, tu, a conoscere il mio segreto. Te l'ho confidato come a una sorella.

Clara                             - Ma io lo sapevo, da « allora »... da quand'era­vamo ragazzine. E ti giuro che me n'ero dimenticata.

Mima                             - Non parlare così! Con cotesto cinismo! Con­tro di me! Anche tu! Anche tu contro di me!...

Clara                             - E allora accetta la soluzione di tuo suocero. Andatevene di qua. Porta tua figlia a Torino, dalle modo di distrarsi, di innamorarsi d'un altro uomo... No? Ma allora... l'egoista sei tu, scusa! Tu non vuoi perdere niente, sacrificare niente-.

Mima                             - (come folgorata) L'egoista sono io! Sì, sì, hai ragione... L'egoista sono io!

Clara                             - Non fraintendermi.

Mima                             - (c. s.) Basta, basta! Ma c'è ancora una solu­zione, alla quale non hai pensato. Sfido! Non può ve­nirti in mente... se mi giudichi un'egoista...

Clara                             - Quale soluzione?

Mima                             - Dire la verità... umiliarmi! Tante volte sono stata sul punto di farlo.

Clara                             - Non capisco.

Mima                             - Raccontare a mia figlia... tutto! Lasciare che giudichi me fino in fondo, giudichi lui e giudichi se stessa. Lasciarla libera di decidere, insomma.

Clara                             - Ma tu sei pazza! Non farai questo!

Mima                             - Sì, io farò questo. E subito. Chiamala, sarà ancora alzata. Chiamala... (Grida) Pia!

Clara                             - (la prende nelle sue braccia, le mette una mano mila bocca) Non ti permetterò di commettere un'in­famia simile.

Mima                             - (divincolandosi, grida) Pia! Pia!

Clara                             - Minia, ti scongiuro. E' una pazzia!

Mima                             - (c. s.) Pia! Pia!

Pia                                 - (avvolta in una vestaglia, entra da destra, spaventatissima) Mamma!

Mima                             - (come la vede, comincia a tremare, poi tende le braccia alla figliuola, si abbatte sulla poltrona) Pia!...

Pia                                 - (accorre presso la madre, l’abbraccia) Mamma! Mamma!

Mima                             - (stringe la figliuola a sé, conquisomele, la tasta con numi folli, di cieca. Il suo dolore è immenso. Per qualche attimo non le consente di parlare. Compita poi, a voce rotta) Pia! Senti, bambina, senti... Clara ha detto bene... Ha detto che sono un'egoista...

Clara                             - Ma no...

Mima                             - Ha ragione. Sono una grande egoista! La causa di tutto il male che tu hai sofferto in questi mesi è mia, solo mia. Ma io, vedi, credevo di far bene impe­llendoti di sposare Riccardo Aliotti. Non lo giudicavo un uomo adatto a te. Ora Clara mi dice... che è cam­biato... e che ti ama, veramente... Se è così... io lo chiamo. Verrà soltanto se lo chiamerò io; così siamo rimasti in­tesi. Bisogna mandargli... subito... un telegramma...

Pia                                 - Ma no, mamma! Domani...

Mima                             - Subito! Un telegramma! Lo spedirai tu stessa domattina. Poi gli scriverò anche una lettera. Ma subito il telegramma. Va di là, prendi una penna, un foglietto di carta...

Pia                                 - Mamma cara...

Mima                             - Va, ti dico... va!...

Pia                                 - (esce dalla porta di destra, correndo).

Mima                             - Non ho avuto il coraggio! (Singhiozza) Hai ragione! Hai ragione! Sono un'egoista!

Clara                             - (la stringe fra le braccia).

Fine del terzo atto

ATTO QUARTO

La stessa scena degli atti primo e terzo. La sala è adorna di moltissimi fiori. E' un mattino di primavera. Nella parte sinistra della scena appare una lunga tavola appa­recchiata su cui sono piatti di dolciumi, bottiglie, bic­chieri, come d'uso per un ricevimento di nozze sontuoso.

(All'aprirsi del velario si vedono Clara e Riccardo se­duti nel divano che è in primo piano, entrambi elegan­tissimi: lei in cappello, lui in tait. Fuori della porta aperta nel fondo si vedono, nel giardino, seduti su pol­trone di vimini, alcuni signori e signore, in abito da ce­rimonia nuziale; gli anziani vestiti all'antica, i giovani secondo la moda d'oggi. Il cavalier Peiretti e il dottore, in tait e cilindro, passeggiano avanti e indietro nel viale discorrendo. Si vede pure il marchese Pauli, vestito ire divisa da maggiore di cavalleria).

Clara                             - Dunque, raccontatemi. Io non so nulla. Sono stata a Parigi quattro mesi. Sono arrivata ieri sera. Rac­contatemi.

 Riccardo                      - Non c'è molto da raccontare! Io ero certo che Mima si sarebbe un giorno trovata contro tutti nella casa e avrebbe dovuto richiamarmi. Tuttavia, quando ri­cevetti quel telegramma, a Parigi, quattro mesi fa, esitai prima di rispondere. Il mio amore per Pia, in quei mesi di lontananza, era divenuto più solido, più profondo, lo sapete.

Clara                             - Sì, me ne parlaste molte volte.

Riccardo                       - Ma, dopo il telegramma, fui preso... quasi da uno sgomento, da scrupoli che prima non sentivo. Prima, verso Mima non provavo che del rancore: uno strano rancore, sì, sì, quasi quello del ragazzo ingiusta­mente contrastato. Dopo, per qualche giorno, dubitai «e Mima non avesse avuto ragione a contrastarmi, e se io non fossi privo di senso morale...

Clara                             - Ma no!

Riccardo                       - Non crediate che il quesito non me lo sia posto, tante e tante volte! Ebbene... la mia coscienza mi ha sempre assolto. Io amo Pia e nulla inquina il senti­mento che provo per lei. Vi giuro, Clara, che io non ho il minimo ricordo di ciò che avvenne fra Mima e me, tanti anni fa.

Clara                             - Ma lo credo, figuratevi!...

Riccardo                       - Anche dopo che lei venne a Torino, a ri­destare il mio sopito ricordo, io non ebbi, di quel pec­cato dì giovinezza - che era il primo peccato, anche per me - quell'impressione così terribile che forse, se­condo lei, avrei dovuto avere. Che volete che vi dica? Dopo la rivelazione, mi parve di continuare... a non ri­cordarmi di quella ragazzata.

Clara                             - (ridendo) Siete un nomo, caro! Per voi uo­mini, certe cose... che fate senza amore, sono sempre ra­gazzate, anche se le fate a quarant'anni.

Riccardo                       - Ma no, no, non è questo!...

Clara                             - Non vi giustificate! Non occorre... con me. Figuratevi! Ammetterete, però, che per una donna, certe ragazzate  - specialmente la prima  - abbiano una qual­che importanza.

Riccardo                       - Ma sì, ma sì! Non fraintendetemi! Io ca­pisco lo stato d'animo di Mima verso di me: lo giusti­fico. Mima è una donna semplice, in fondo, di una onestà meravigliosa, istintiva, perfetta. E questo non fa che ac­crescere l'ammirazione che ho per lei... anche se lei mi odia.

Clara                             - Vi odia? Anche dopo di avere acconsentito a darvi sua figlia?

Riccardo                       - Appena io tornai da Parigi ci si rivide a Torino: il colloquio fu brevissimo. Mi parve calma, e 6enza rancore. Avvenne il fidanzamento, e presi a fre­quentare questa casa. Tutto procedeva senza urti appa­renti, tanto che... mi illusi che anche lei avesse finito per dimenticare.

Clara                             - E poi? Da quando ricominciò a mostrarsi ostile verso di voi?

Riccardo                       - Di mano in mano che il giorno fissato per le nozze si avvicinava. Lei era sempre propensa a riman­darlo, questo giorno. E a poco a poco divenne... quella che avete trovato ieri sera arrivando. Ha voluto pochis­sima gente al matrimonio, solo i più' intimi. Tutto la ir­rita, la fa soffrire!...

Clara                             - Non so che cosa non darei per alleviare la pena di quella poveretta!

Riccardo                       - E io? Non solo il mio rispetto, ma il mio affetto è diventato per lei grandissimo. Le voglio un im­menso bene. Sentite: occupatevi di lei, solo di lei. Sta­tele vicina, vi prego. Io farò tutto il possibile per evitarle la mia presenza, quando si dovrà distaccare dalla figlia... Zitto, zitto! Viene qualcuno.

Clara                             - Io salgo da lei. Dev'essere ancora in camera sua. (Via da sinistra).

Giacomo                       - (dall'interno) Lascia, lascia, Stefano. Chia­ma mia moglie. (Entra da destra, seguito da Stefano. Sono tutti e due in tait. Depone il cilindro su una pol­trona).

Riccardo                       -  Che c'è, nonno? La cravatta? Qua! Te la faccio io.

Giacomo                       - Scusa, sai, Riccardo, ma il nodo della cravatta è sempre stato per me un grande mistero.

Stefano                         - Come il nodo gordiano. (A Riccardo) Buon giorno, barone.

Riccardo                       - (accingendosi a fare il nodo della cravatta a Giacomo) Oh, addio, giovanotto! (La campana della pieve suona a distesa).

Gisella                           - (agghindata lussuosamente ma secondo la moda del suo secolo, cappellino in testa, s'affaccia alla porta del fondo) Sentite? Suonano! Sono pronti gli sposi?

Riccardo                       -  Un momento, nonna.

Stefano                         - C'è tempo. Questa è solo la prima cam­pana. C'è tempo un quarto d'ora, contessa.

Gisella                           - Ma dite che si spiccino.

Riccardo                       - Io sono pronto, Pia viene subito. La stanno vestendo.

Gisella                           - (esce dal fondo).

Giacomo                       - (a Riccardo che gli aggiusta la cravatta) Basta, Riccardo. Ma sì, andrà bene! Io non devo più piacere che a me stesso.

Riccardo                       - (scherzoso) Sei elegantissimo. Che vi pare, Stefano? Voi che siete l'«arbiter elegantiarum » del paese.

Stefano                         - Bene, bene. Vero tipo di « vieux gentil-homme campagnard ». (A Riccardo). Mi piace molto il vostro plastron. Parigi?

Riccardo                       - Ma no! Torino. Io non mi sono mai ve­stito a Parigi. Il cilindro, nonno…. dove hai messo il ci­lindro?

Stefano                         - Eccolo. (Va a prendere un antiquato ci­lindro posato sulla poltrona e lo porta al conte).

Giacomo                       - Oh, grazie! (si mette in testa il cilindro).

Riccardo                       - (guardando il vecchio) Benissimo!

Giacomo                       - (si toglie il cilindro) Questo cilindro ha Una storia. L'ho comprato nel millenovecento, quando si festeggiò il bimillenario di Ivrea. Avevamo organizzato una esposizione agraria e io ne ero il presidente. A inau­gurare l'esposizione venne Enrico Panzacchi, che allora era ministro... dell'istruzione, mi pare.

Stefano                         - Panzacchi! Il poeta!

Riccardo                       - Mai sentito nominare.

Stefano                         - Amico del Carducci... Eh... perbacco!

Giacomo                       - Bravo! Dunque... io, come presidente, do­vevo fare il discorso. Mi alzo, e metto il cilindro su una poltrona.

Riccardo                       - La poltrona del Panzacchi.

Giacomo                       - (a Riccardo) Hai capito... Guarda qui il segno (mostra il cilindro).

Riccardo                       - (ridendo) Era un poeta pesante, il Pan­zacchi?

Stefano                         - (che non ha capito) Tutt'altro, tutt'altro... (Recita con enfasi) « Canti di galli uscian d'ogni cascina  e le siepi lucean per la rugiada - quando all'incerta luce mattutina - caracollava» sulla bianca strada... ».

Mima                             - (entra da sinistra vestita elegantemente ma senza cappello. Apparirà, durante tutto Fatto, in stato di grande eccitazione nervosa, sia quando finge gaiezza che conte quando,si irrita).

Clara                             - (elegantissima, in cappello, la segue per allac­ciare a Mima il vestito sulla schiena) Aspetta... aspetta...

Mima                             -  Ma non importa...

Clara                             - Aspetta (l’abbottona). Che impazienza!

Mima                             - E' tardi. (A Giacomo) Pia non è ancora scesa? Ma che fa? Non è ancora vestita?

Riccardo                       - Credo di sì. C'è su la sarta.

Stefano                         - E anche la signorina Luciana.

Riccardo                       - Chi è?

Giacomo                       - Una compagna di scuola di Pia.

Mima                             - (che intanto aveva dato un'occhiata nel giardino) Gli invitati ci sono già. Quella si fa aspettare, come al solito.

Clara                             - Ma no, Mima.

Mima                             - Volevo vestirla io. Perché me lo avete im­pedito?

Clara                             - Ma chi la poteva vestire meglio della sarta che le ha fatto l'abito?

Mima                             - Chissà come le ha puntato il velo!

Clara                             - Il velo glielo punterai tu. Vado a vedere. Sen­sate. (Esce in fretta da destra).

Mima                             - (a Giacomo e a Riccardo) E voi andate a in­trattenere gli ospiti, fuori. Che fate qui? Avete offerto il caffè, il vermut? (Verso il fondo) Mamma...

Gisella                           - (appare sulla soglia del fondo) Mima...

Mima                             - Il caffè, il vermut...

Gisella                           - Ma sì! Già fatto! Di' a Pia che s'affretti, piuttosto. (Via dal fondo).

Riccardo e Giacomo     - (escono lentamente dal fondo e vanno a unirsi ai gruppi che s'intravedono nel giardino).

Mima                             - (a Stefano) No, tu resta qui. Starami vicino.

Stefano                         - (stupito e subito commosso) Sì, signora Mima.

Mima                             - Andrai in chiesa tu?

Stefano                         - Eh, sì! Come tutti.

Mima                             - Io no.

Stefano                         - Come! Non accompagnerete vostra figlia all'altare? .

Mima                             - No! M'hanno fatto fare questo vestito per la cerimonia, me l'hanno messo addosso perché qui, oramai, da qualche mese tutti comandano, meno io. Ma in chiesa no: nessuno potrà obbligarmi ad andare. L'ho detto ai miei suoceri, a mia figlia. Pare si siano persuasi. Tu mi farai compagnia, vero?

Stefano                         - Sì, contessa. Sarebbe penoso, anche per me...

Mima                             - Lo so, Stefano. Ti capisce. Ed è per questo che ti voglio vicino.

(Entrano da destra, Clara, Pia, la sarta e Luciana. Pia è vestita da sposa, di bianco, col velo in testa. La sarta ha in mano una scatoletta contenente molti spilli e il necessario per cucire).

Pia                                 - Mamma, scusa, sai!

Mima                             - (irritatissima) Avete fatto tutto voi... E avete fatto malissimo! Qua, che ti veda- Ma no, ma no, ma no!

La Sarta                        - Che cosa non va, signora contessa?

Mima                             - Il velo. E' questo il modo di puntare un velo da sposa?

La Sarta                        - Signora contessa…..

Mima                             - (intanto si affanna a riappuntare il velo, a ritocccare le pieghe del vestito, ecc.) Che pasticcio! Uno spillo, qua; Luciana, uno spillo. Dove cerchi gli spilli? Lì... lì... nella scatola della signorina. Ci vuol altro che uno spillo!... Voi fate la sarta, vero?... Vi assicuro che posso darvi delle lezioni.

La Sarta                        - Ma signora contessa!

Clara                             - (fa alla sarta cenno di lasciarla fare).

Mima                             - (a Pia) E tu sta dritta! Su! Perché sei così pallida? Ti sei data la cipria malissimo.

Luciana                         - Ecco, ecco... (offre le sua scatoletta di ci­pria).

Mima                             - (incipria il viso della figlia) E i fiori d'a­rancio?

Clara                             - Eccoli (offre il mazzetto).

Mima                             - I guanti...

Luciana                         - (porge i guanti).

Pia                                 - (se li infila) Dov'è Riccardo?

Mima                             - Non lo so. E fai attenzione quando ti ingi­nocchi, quando siedi. Tu, Luciana, le starai vicino, vero?

Luciana                         - Sì, contessa.

Mima                             - Chissà come hanno disposto i fiori in chiesa.

Clara                             - Benissimo. Sono andata a vedere io. Il presbi­terio sembra un giardino.

(Entrano dal fondo Giacomo, Riccardo, Gisella, madama Peiretti, il cav. Peiretti, il dottore, signore e signori, mentre un altro gruppo di signore e signori si affolla nel giardino e nel vano della porta).

Giacomo i                     - Oh, finalmente!

Gisella                           - (a Pia) Fatti vedere!

Il Dottore                      - Come sei bella! (Tutti si affollano in­torno alla sposa e applaudono. Vocìo a soggetto).

Pia                                 - (mettendosi sotto al braccio di Riccardo che le si è avvicinato sorridente) Va bene, cosà?

Riccardo                       - Adorabile!

Peiretti                          - Ma ora vi dovete staccare. Non credetevi di poter andare in chiesa così, sottobraccio. Al ritorno, solo al ritorno, quando sarete marito e moglie.

Gisella                           - (è venuta in primo piano e parla a parte con Mima) Dunque non vuoi proprio venire? Che figura! Chissà cosa dirà la gente!

Mima                             - Non importa, mamma!

Gisella                           - La strada è zeppa di gente venuta da tutte le" parti del contado. E' un grande avvenimento.

Mima                             - (ironica) Oh, senza dubbio! Un grande avve­nimento!

Clara                             - (s'è pure avvicinata a Mima) Su, vieni!

Mima                             - Anche tu? Anche tu?

Clara                             - No.» no... (A Gisella}? Lasciatela stare, con­ tessa. (A Mima) Non resterai in casa sola. Vuoi che ti faccia compagnia io?

Mima                             - No. Rimane Stefano. Andate, andate... Guar­dala! (Accennando a Pia) Vuoi vedere che se ne va e non mi saluta nemmeno? Sa che non vado in chiesa. (A Clara) No, non la chiamare. Guai a te se la chiami! Va... va... (Rimane in disparte con Stefano a osservare il corteo che si va rumorosamente formando).

Madama Peiretti           - (sul vocìo) La sposa al braccio del nonno... lo sposo con la contessa Gisella... i testimoni... qua: dottore, mi dia il braccio... marchese, dia il braccio a Clara.

Il Marchese Pauli          - (testimonio di Riccardo, in divisa di maggiore di cavalleria, dà il braccio a Clara) Cara signorina! Sono molto, molto felice... (le sue parole si perdono nel vocìo).

(Le campane suonano a festa. Il corteo si avvia, esce dal fondo verso sinistra e scompare. Poco dopo si odono gli applausi lontani del pubblico assiepato sulla strada).

La Sarta                        - (a Mima) Se permettete, signora contessa, vado anch'io in chiesa a vedere.

Mima                             - Ma sì, sì!... (La sarta esce dal fondo). (Per qualche minuto Mima e Stefano restano immobili sulla soglia del fondo e guardano verso sinistra, mentre echeggiano gli applausi della folla e continua il suono fe­stoso delle campane).

Mima                             - (rientra, siede sul divano. Parla a stento) Sie­di, Stefano.

Stefano                         - (le siede vicino, le prende le mani) Corag­gio, signora... Occorre farsi tanta forza.

Mima                             - Tanta... sì, caro Stefano! Come ti sono grata! Io so tutto... Le volevi bene, vero? Zitto! Zitto! Vorre­sti domandarmi perché ti parlo così adesso che non c'è più niente da fare?

Stefano                         - No, signora. Io capivo benissimo che voi eravate contraria a sposare Pia col barone. Ma il destino...

Mima                             - Ecco... il destino.

Stefano                         - Pia e Riccardo si adorano. E questa è la sola verità importante; di fronte alla quale tutto il resto non conta nulla. Se io volevo bene a Pia? Oh!... Fin da quando era una bambina. Eravamo cresciuti qui quasi insieme. Continuare il mio sogno di ragazzo per tutta la vita, sarebbe stato troppo bello. Impossibile... come tutti i sogni. E per voi... tenervi la figliuola vicina, qui, tutta la vita, sarebbe pure stato un sogno. Un sogno! Invece... bisogna farsi forza, rassegnarsi alla realtà e vedere Pia andarsene lontano... Ho sentito dire che andranno a sta­bilirsi a Roma...

Mima                             - Vicini non li voglio io!

Stefano                         - Perché dite così?

Mima                             - Lontano, il più lontano possibile. Magari all'estero.

Stefano                         - Dite così adesso perché la vostra pena è ce­dente. Ma poi... Li aspetteremo insieme, signora. Io verrò sempre a tenervi compagnia. Adesso mi pare di com­prendervi meglio.

Mima                             - Comprendermi? E' difficile: anche per i miei suoceri, per mia figlia stessa.

Stefano                         - Ma no!

Mima                             - Eppure non sono una donna complicata. Non avevo che un'aspirazione: vivere con chiarezza secondo le regole più comuni dell'onestà. Sai che cosa mi fa più soffrire in quest'ora? Il pensare che mia figlia sia ancora quella che io ero... all'età di sedici anni... con le mie illu­sioni, con la mia innocenza... (si copre il volto con le mani e tace un attimo, assorta) Perché Pia... è innocente! Lo posso affermare: l'ho seguita da vicino sempre, an­che in questi mesi del fidanzamento, anzi, soprattutto in questi mesi. Fra qualche ora sarà d'un uomo... che ha molto vissuto. Ah, è una sofferenza di carne... come un'of­fesa, una violenza al mio istinto. Non resisto, non resisto! (S'alza in piedi, si aggira nella stanza, torcendosi le mani).

Stefano                         - (che l'ha seguita guardandola perplesso) Signora! Non fate cosi!

Mima                             - (si ferma di scatto, allucinata) Zitto! Hai sen­tito?

Stefano                         - Che cosa? C'è un grande silenzio intorno a noi. In casa non ci sono neanche i servitori. Sono andati in chiesa anche loro.

Mima                             - (si mette una mano sulla fronte) E' vero! Che grande silenzio... A volte ho come delle allucinazioni. Non dirlo a nessuno, sai?

Stefano                         - Ma no, signora!

Mima                             - Durano pochi momenti. Poi passano. Mi pare sempre che qualche cosa debba accadere... non so... un miracolo che interrompa il corso degli avvenimenti. Ep­pure ho potuto rivedere Riccardo, accoglierlo in questa casa, provvedere al corredo di Pia, avere occhio a tutto, a tutto».

Stefano                         - Vi siete stancata troppo, specie in queste ultime settimane.

Mima                             - Stancarmi mi fa bene! Ogni giorno che pas­sava, e quest'ora si avvicinava, il mio orgasmo cresceva.» cresceva... e sempre più speravo nel miracolo. Ah, Dio!... (ha un capogiro, barcolla).

Stefano                         - (la sostiene) Sedete, signora! Volete qual­che cosa? Un cordiale?

Mima                             - (gli sorride) No, figliolo, no. (Pausa). Credi che durerà molto la cerimonia?

Stefano                         - Non so, non credo.

Mima                             - Il rito del matrimonio «i celebra prima della Messa?... Adesso sarà già finito... Com'è lungo a passare questo tempo! Chissà se i servitori sono già tornati! Ho detto loro di venire a casa subito. Ci sono ancora tante cose da fare... (Si aggira nella sala chiamando)

Clemen­tina                    - Clementina... (Silenzio). Nessuno! Ancora nessuno! Un passo nel viale... (Va alla porta del fondo e chiama) Clementina!

Clementina                    - (dall’esterno) Signora... (Entra dal fondo quasi correndo) Eccomi, signora.

Mima                             - (severa) E gli altri?

Clementina                    - Stanno venendo anche loro.

Mima                             - (c. s.) Ci sono molte cose da fare. Bisogna finire di preparare la tavola del buffe.

Clementina                    - E’ già pronta, signora contessa.

Mima                             - Sei stata in chiesa?

Clementina                    - Sì, signora.

Stefano                         - La cerimonia è finita?

Clementina                    - Lo sposalizio, ma non la Messa. (Com­mossa) La nostra signorina, inginocchiata davanti all'al­ tare, tra tanta musica, tutta bianca, non pare una creatura di questo mondo. E' un angelo. Io ho pianto tanto! (piange).

Mima                             - (dopo una pausa) Un angelo!...

Clementina                    - (risponde assentendo col capo e singhioz­zando. Tina campana della chiesa batte dei tocchi eguali) Ecco! L'Elevazione! (si inginocchia).

Mima                             - (immobile in mezzo alla scena si copre il viso con le mani e resta così qualche attimo. Poi giunge le mani sul petto, alza gli occhi al cielo e mormora) Dio! Ferma il tempo! Fa che quest'ora non passi!

(La campanella continua a sonare. Si fa buio com­pleto. Si odono le note di una marcia nuziale. Dopo poche battute, si riaccende la luce e l’animazione sulla scena è grandissima. Il ricevimento è già avvenuto, tut­tavia molti dei convenuti tengono ancora in mano il bicchiere, qualcuno tratto tratto s'avvicina alla tavola, si serve di leccornie, mangiucchia, si mesce del vino e beve. Gli invitati animano pure quella parte del giar­dino che si vede attraverso la porta del fondo. Una fisarmonica suona una monferrina, nel cortile dei con­tadini che non deve essere lontano).

Mima                             - (coti un calice di sciampagna in mano è presso la tavola. Appare eccitata, di un'allegria fittizia) Voi, maggiore, eravate a Pinerolo nel 'tredici? Allora avrete conosciuto mio marito.

Pauli                              - Certamente, contessa. Ricordo benissimo anche la signorina Clara: Clara Botto, non è vero?

Mima                             - No, basta. E' la terza coppa che bevo. Gii mi gira un po' la testa. Non sono abituata.

Pauli                              - Oggi è una giornata eccezionale.

Mima                             - (ride) Eccezionale! Oh, certo! Eccezionale! (Continua a parlare con Pauli).

Giacomo                       - (in. primo piano, a destra, con Clara e Stefano, guardando Mima) Adesso mi preoccupano gli addii, la partenza. Fatele attenzione voi, Clara. Tenitela qui.

Stefano                         - Se fosse possibile che gli sposi se ne andassero senza salutare nessuno».

Giacomo                       - Questo, no, non è possibile. (Alludendo a Mima) Che vi pare? Adesso ride.

Clara                             - Ma è un riso fittizio. E’ eccitatissima.

Il Pievano                      - (avanza verso Giacomo tenendo in mano un bicchiere di vino rosso)  Questo, conte, è della Vignarossa. Mi sbaglio? E fu imbottigliato il giorno dell'armistizio!

Giacomo                       -  Bravo, pievano! Come fate a ricordare?

Il Pievano                      - Mi avete invitato a pranzo quella sera. E mi avete detto: queste bottiglie le terremo per le nozze della bambina.

Giacomo                       - E’ vero, pievano, è vero.

Il Pievano                      - (sorseggia il vino) Squisito!

Stefano                         - Voi, sciampagna non ne bevete?

Il Pievano                      - Ah, no! Sciampagna... mai! (S'allon­tana verso il fondo con Stefano, parlando).

Mima                             - (staccatasi da Pauli, avanza verso la ribalta, con Clara. Siede nel divano. E', nel viso, disfatta) t Lasciatemi sedere un -momento. Non ne posso più! Ah!.., la mia testa.

Clara                             - Hai bevuto dello sciampagna.

Mima                             - Forse è il vino. Sarà il vino.» Dov'è Pia?

Clara                             -  In camera sua: si sta vestendo.

Giacomo                       - (in piedi presso il divano, carezza a Mima i capelli) Se sapessi come soffro, anch'io... Eppure bisogna farsi forza...

Mima                             - Papà, ti prego! Non dirmi più niente. Pos­sibilmente lasciatemi stare...

Giacomo                       - (a un cenno di Clara si allontana verso il fondo) Scusa, scusa.

Mima                             - (a Clara, sottovoce) I saluti, adesso!». Bada che lui. non lo voglio salutare!... che non venga a parlarmi.

Clara                             - Ma sì. Lo sa già.

Mima                             - Prima, ho potuto sopportarlo... Ma oggi.,. non posso più. Solo a vederlo, divento pazza!

Gisella                           - (entrata dal fondo) Gli sposi? Non ci sono ancora? Perderanno il treno. Ci vogliono dieci minuti per andare alla stazione.

Il Dottore                      - Certo, non hanno tempo- da buttar via.

Giacomo                       - La macchina è pronta?

Gisella                           - Sì.

Mima                             - (riprendendosi) Le valige? Hanno portato giù le valige di Pia?

Gisella                           - Le ho già fatte caricare.

Mima                             - Tutto? Vedere! Voglio vedere io. (Va, ra­pida, verso il fondo).

Gisella                           - Mima, c'è tutto; ho controllato io.

Mima                             - (non le bada, scompare dalla porta di fondo).

Clara                             - (la segue a distanza).

Giacomo                       - (a Gisella) Lasciala fare!

Madama Peiretti           - Ma sì, lasciatela lare, poveretta! Sono momenti terribili, questi, per una madre.

Il Pievano                      - Il distacco dell'unica figlia...

Giacomo                       - (commosso) Certo si è che per noi la bambina è come perduta. Non la vedremo più.

Gisella                           - (irritala e con le lacrime nella voce) Non dire queste cose, non voglio sentirle dire! (piange).

Madama Peiretti           - Certo! Sciocchezze! (la consola).

Il Dottore                      - Torneranno. Vedrete! In nessun luogo del mondo si sentiranno a casa loro!

Giacomo                       - Sì... Due... tre giorni ogni tanto... per ve­dere se siamo ancora al mondo. Qui tutto è vecchio, dot­tore! La gioventù vuole tutt'altro «limali E ha ragione.

Il Pievano                      - E’ la vita. Bisogna rassegnarsi.

Giacomo                       - Noi, sì. Io e lei, forse! Ma Mima...

Peiretti                          - (entro dal fondo allegrissimo e un po' brillo).

Madama Peiretti           - Eccolo qua, finalmente. Dove sei finito?

Peiretti                          - Nel cortile, coi contadini. Là si balla, si balla. Ho ballato anch'io.

Stefano                         - Papà!

Madama Peiretti           - Non gli diane» retta. Non è vero. Non ha mai saputo ballare, neanche quando era giova­notto.

Peiretti                          -Ho ballato con un pezzo di traccagnotta... La Gigina, sapete? La figlia del cavallante. Bella ragazza! Un po' piccola, ma fresca come una mela.

Il Pievano                      - Cavaliere.» cavaliere

(Pia e Riccardo, vestiti da viaggia, entrano da destra seguiti da Luciana e da Clementina che porta una vali­getta da viaggio. Tutti i presenti sulla scena si affollano intorno agli sposi, parlando a soggetto: «.Eccoli, eccoli ».  «Evviva gli sposi! »).

Riccardo                       - Scusateci. E' tardissimo. Sarà un miracolo >e non perderemo il treno. La macchina è pronta? Le valige? Andiamo, via! (S'avvia verso il fondo).

Pia                                 - La mamma! Dov'è la mamma... (Mima seguita da Clara entra dal fondo prima che Riccardo ne esca).

Pia                                 - (come scorge sua madre le muove incontro. L'ab­braccio avviene nel centro della scena) Mamma! Mam­ma cara!

Mima                             - (non può pronunciare una parola, non può nean­che piangere: è tutta uno spasimo. La scena dell'ab­braccio dura qualche attimo, straziante).

Pia                                 - Mamma! Non fare così! Tornerò presto. Poi verrai a Roma tu. Staremo sempre insieme. Mamma». -enti, mamma... (La scena si è quasi svuotata. 1JL0 maggior parte degli invitati sono già andati presso la macchina che, naturalmente, dalla porta del fondo non è visibile. Assistono all'abbraccio della madre e della figlia, molto commossi, qualcuno piangente, Gisella, Giacomo, Clara; Luciana, Stefano e Clementina).

Riccardo                       - (che era già scomparso riappare sulla soglia del fondo, gridando, impetuoso) Pia, presto, presto!

Pia                                 - Vengo, Riccardo,  - (Si stacca violentemente dalle braccia di Mima e fugge dal fondo seguita da Gisella, Giacomo, Luciana, Stefano e Clementina).

Mima                             - (resta barcollante qualche attimo, le mani an­cora protese verso il fondo donde la figlia è uscita. Poi i suoi gesti saranno quelli di una creatura che ha perduto ogni controllo su sé stessa) No! No! (A Clara) Chiama! Chiama lui! Non me la porta via così (Evita Clara che vorrebbe trattenerla e corre verso la porta del fondo gridando) Riccardo! Riccardo! (Poi arretra e va ad ap­poggiarsi con le mani alla grande tavola del buffe).

Clara                             - Mima, per carità!...

Riccardo                       - (entra, la vede in quello stato, le corre vi­cino) Mima», ti scongiuro!

Mima                             - Mia figlia, no! Mia figlia, no!

Riccardo                       - (l’afferra nelle braccia, le tappa la bocca con la mano perché di fuori non s'odano quei gridi).

Mima                             - (sulla tavola ha afferrato un coltello).

Clara                             - (che ha visto il gesto, le impedisce di alzare si braccio, le stringe il polso destro così forte che il coltello cade al suolo).

PlA                                - (dall’interno chiama) Riccardo! Riccardo!

Clara                             - (a Riccardo) Andate! Andate!...

Riccardo                       - Portatela via di qui.» Che nessuno la veda in questo stato... (fugge dal fondo).

Mima                             - (si abbatte semisvenuta nelle braccia di Clara barbugliando parole incomprensibili).

Clara                             - (la sorregge e la fa sedere sulla poltrona vicina) Mima! Su... Mima! Coraggio! (Si ode il suono del clacson dell'automobile che parte e il coro dei saluti: «Evviva gli sposi! ». «Buon viaggio». «Scrivi, Pia/.»»).

Stefano                         - (entra dal fondo).

Clara                             - (appena lo scorge) Stefano! Chiamate il dot­tore! Presto!

Gisella                           - Addio, Pia!...

Giacomo                       - Addio!.»

Clara                             - Mima! Fatti forza! La gente ritorna! Ecco il dottore.

Mima                             - (confusamente) No! Nessuno! Non voglio nessuno!

Il Dottore                      - (entra e accorre subito presso Mima. Calmo) Contessa... Che c'è? Niente! Niente! (le prende il polso e le ausculta il cuore).

Mima                             - (lo guarda con un desolato sorriso). .

Tutti                              - (rientrano ma sono fermati verso il fondo dalla voce del dottore).

Il Dottore                      - State indietro, per favore. Non è niente. Uno svenimento. Era prevedibile. Niente di grave. (Solo Giacomo, Gisella e Clementina vengono in primo piano, spaventatissimi).

Gisella                           - Mima...

Giacomo                       - Figlia mia...

Mima                             - (li guarda sorridendo) Sono partiti?

Giacomo                       - Sì. Ma torneranno presto. L'hanno pro­messo.

Mima                             - Non importa... non importa...

Gisella                           - Come ti senti?

Mima                             - Meglio, mamma, molto meglio.

Il Dottore                      - Non fatela parlare. Adesso la portiamo su, in camera sua!

Mima                             - Ci vado da sola... Sono forte... E' passato. (Si alza lentamente in piedi. Al dottore che cerca di soste­nerla) No!... Non occorre! E' passato! Strano! Ho la sensazione di rinascere.»    (A quei che stanno in fondo) Venite avanti... e scusatemi. Quando si hanno dei figli si diventa tremendamente egoisti. Ma a questo mondo-non «ì sono solo i figli.» Ci sono tante altre cose in una casa!... In questa casa!... Addio, signori... Voi potete re­stare... Io sono molto «tanca, scusatemi!...

Il Dottore                      - Accompagnatela...

Mima                             - No, non occorre!... La grande prova è pas­sata!.» Addio, signori!... (e si avvia per uscire mentre cala il velario).

FINE