Il processo

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IL PROCESSO

IL PROCESSO

di Antonella Bertoli

Atto unico

Personaggi:

Il I° Giudice

Giudice a latere di destra

Giudice a latere di sinistra

Imputato

due Guardie Nere

la Pubblica Opinione

la Strega

tre Ragazze

tre Ragazzi

Quinte nere, un tavolo dietro il quale sono seduti i tre giudici con toghe nere e le facce colorate di nero o con maschere nere. Dietro uno striscione che reca la scritta “La Giustizia non è di questo mondo?”.

La luce illumina il tavolo con i Giudici.

Si alza il Giudice in mezzo dicendo:

«Entri l’imputato»

La luce illumina tutto il palco, ma è una luce soffusa, gialla.

L’imputato, vestito con camicia e pantaloni bianchi, entra accompagnato da due Guardie vestite di nero con cappuccio nero. Lo tengono per le due braccia, lo fanno sedere su una sedia posta davanti al tavolo dei Giudici quindi di spalle al pubblico.

l I° Giudice dice:

«Giudice a latere, legga l’imputazione!»

Il Giudice di destra si alza in piedi e svolge un rotolo che legge:

«Il delinquente che ora compare di fronte a questa Corte frodato ebbe lo Stato di Desolandia istituendo un Società denominata Guascognia agli effetti pubblici. In realtà trattavasi di setta segreta i cui adepti agivano in qualità di falsi consulenti occultando i carteggi e presentandone di fasulli. In codesto modo carpiva il pubblico contributo, inventando servizi di comodo per le Fazende e le Fattorie statali e parastatali. Intascava così i talleri derivantegli da false documentazioni. Con il suo manipolo di manigoldi entrava dai Fattori e dai Capifazione, proponendo loro progetti da presentare allo Stato per ottenere prebende che poi intascava direttamente.

Solo per merito di un Consigliere di amministrazione pentito e delle testimonianze dei Capifazione della destra, del centro e della sinistra si è potuta scoprire la losca trama intessuta dal Delinquente qui presente e procedere all’arresto.

Un evviva per le Guardie Nere.»

I tre Giudici si alzano in piedi gridando «Evviva!». Poi si risiedono.

Le due Guardie Nere alzano le braccia e ringraziano a gesti i Giudici e il pubblico (alla guisa dei campioni di sport).

Poi con le mani costringono l’Imputato ad abbassare la testa.

Il I° Giudice si rialza in piedi e dice:

«Si proceda.»

Il Giudice a sinistra srotola un altro foglio e legge:

«Signori della onorevole Corte qui riunita in segreta seduta, signor pubblico, signore guardie nere, la storia dell’imputato che impudentemente si presenta al cospetto di questa onorevole Corte, senza aver pensato di propria sponte a togliersi di mezzo fisicamente e soprattutto a liberare l’aere del pensiero sgradevole e sovversivo che ha diffuso, minando l’ordine e la stabilità della comunità di Desolandia, è grandemente illuminante sulla sua colpevolezza. Egli nasce colpevole, dacchè la sua vita fu menzognera da quando dio distolse gli occhi dal villaggio in cui nacque, che giace abbandonato e per le cui vie si aggirano raminghe poche figure stranite dal vizio e dalla carenza di libagioni. L’unica virtute che vi si può ascrivere è la presenza di monaci illuminati per scacciare il demonio, insediatovisi fin dalla fine della guerra santa contro gli eretici che per scaldarsi osavano tagliare i rami del filare di alberi che conduce al santuario della madonna che si volle nera, proprio per contrastare quel libero agire e cantare e giocare che ingannava i pellegrini.

Figure che invece di rabbrividire e sostare negli androni dei palazzi, a contentarsi di ciò che gli Alti Lignaggi si degnavano di loro concedere, a morire di stenti e freddo, osavano appropriarsi di legno da ardere e di selvaggina che giammai nacque libera.

Il delinquente osava fin dalla tenera età disertare i sacramenti, approdando alla scuola dell’eretico e studiando testi messi al bando dall’Ordine costituito. Né tantomeno disdegnava, seguitando nella crescita, di iscriversi alla Universitade, dove maestri di quella filosofia che nulla ha da spartire con i Sacri testi dei Padri e del Nero Codice, lo istruivano sulle azioni da compiere per sovvertire lo Stato e le istituzioni. Né osava tacere di fronte alla Pubblica Opinione, ma di tante orazioni urlate alla folla costellava la sua indegna vita.

Non pago di condurre un’esistenza rivoluzionaria nel borgo natìo, tentò, purtroppo riuscendovi, di esportare in tutto lo Stato di Desolandia le sue idee sovversive che penetrarono financo nelle istituzioni. Tale rimase Desolandia per quasi un decennio, preda delle trame malsane di costui, e di altri malefici sodali, fino a quando persone di Alto Lignaggio si ribellarono e lo denunciarono alla nostra Corte.

Costui (e indica con l’indice puntato l’imputato) istigava la plebaglia dall’alto dello scranno di Capofazione cui lo avevan condotto artifizi e raggiri, nonché una pozione magica composta ad hoc dalla strega che tre giorni or sono abbiam bruciato sulla pubblica Piazza provinciale, che recava i segni del diavolo nelle labbra carnose tinte di rosso acceso e nelle bionde chiome fluenti.

La strega, pur non confessando e porofessandosi innocente, è stata giudicata colpevole dalla Suprema Corte dei Bianchi e dei Rossi, nonché degli Azzurri e la prova della sua nefandezza consiste nella negazione stessa del raggiro e della somministrazione di tal pozione, nonché nell’arte diabolica con la quale, essa diavolessa, conduceva alla messa in atto di rivoluzioni atte a sovvertire paesaggi e politiche di Desolandia, in malefico sodalizio col Delinquente qui seduto.»

Buio in sala. Un occhio di bue, luce rossa, segue una figura femminile dalle lunghe chiome bionde e con un vestito provocante, che si trascina in mezzo al palco e si alza dicendo:

«Nulla feci per tradire. Nulla misi in atto per contrastare le leggi dello stato. Pensai e studiai e scrissi parole di fuoco per cambiare, questo si, il nome di Desolandia in altro nome che potesse ricordare colorati animi e liberi pensieri. Lavoro volea per i giovani uomini che si trascinano per le strade, scuole volea non fasulle per i fanciulli, salari decenti per gli operai, salvare m’illudea la fabbrica dello zucchero, senza nulla pagare volea riscaldare le ossa stanche e solitarie dei vecchi abbandonati. Villaggi gaudenti e persone felici ad abitare una terra di verde pitturata e di azzurro colorata. Mari azzurri e spiagge pulite immaginai, colmi di viandanti che giungean in queste nostre terre a goder del volo dei gabbiani, dello stormir delle fronde, della musica del vento tra le canne. Volea far sparire le Guardie nere: non più spioni ma esseri felici d’arcobaleno vestiti. Volea che anche voi, signori giudici, si anche voi, diventaste parte di questa terra. Non esseri infelici che trovano goduria nel provocare guai e pene e sofferenze all’altrui. Desolandia volea far diventare un sogno. E non per me. Volea che il sogno fosse di tutti. Ma voi (e volge le braccia verso i Giudici) fatti non foste per sognare. Voi che non percorreste le strade della fantasia, dello studio e del sapere, voi che nella mente e ancor più nel cuore portate i segni della violenza di un’educazione di ordini e disciplina. Voi che viveste con togati vestiti di nero che vi han costruito l’animo d’un solo colore… Voi mai potreste adire al sogno. Sogno che rimase solo nostro… Sogno che tentaste di consumare tra le fiamme di questa pira che arde… Voi mi bruciaste e la mia unica colpa fu quella di parlare a voce alta contro chi vi comanda, contro i neri che stanno in alto, assisi sul camino a strisce che si erge là, in fondo alle terre basse, a dipingere il volto di Desolandia.

E le fiamme si, mi han consumato. Han divampato sulle mie chiome di grano, han divorato le mie vesti di seta… Ma non riuscirono a bruciare il sogno… Il sogno che colora e trascolora. Il sogno che anche ora vi avvolge, vi avviluppa, vi affanna, vi affligge… vi strappa dalla miseria in cui l’incuria e l’ignoranza vi stan precipitando…»

La donna alle parole “Voi mi bruciaste…” si tocca il corpo e si alza i capelli. La luce sale e scende illuminando di rosso le mani e le parti del corpo che lei tocca. Si allontana strisciando dal palco ed esce di scena.

Buio.

La scena torna quella di prima.

Il I° Giudice si alza in piedi e dice:

«Cos’ha da dire a sua discolpa l’Imputato?»

Le due Guardie Nere strattonano l’Imputato per le braccia e lo fanno alzare.

L’Imputato si alza in piedi (è sempre di spalle rispetto al pubblico) ed apre le braccia.

Le due Guardie Nere gli si pongono di fianco e sono di profilo rispetto al pubblico.

L’Imputato, sempre con le braccia spalancate emette un urlo:

«Aahhhhhhhhhhhhhhh!!!!!!»

I tre Giudici balzano in piedi e il I° Giudice esclama urlando:

«Disonore! Disonore! L’Imputato non può emettere alcun suono diverso da parole pacate che forse, forse! potranno alleviare la pena che questa Corte ha già deciso di infliggergli. Questa onorata Corte, concessagli dalla pietà della Pubblica Opinione, non potrà sopportare svilimenti né tanto meno manifestazioni di dubbia moralità e di sicura malafede. L’Imputato parli con suoni comprensibili e non gutturali. Le è impedito allargare le braccia, le è impedito alzare la testa, le è impedito urlare, le è impedito raccontare il non vero. Questa onorata Corte si ritira per deliberare se è sua facoltà tentare di discolparsi o condannarla per direttissima al silenzio eterno.»

I Giudici in fila e in processione escono col passo dell’oca dalla scena dalla parte opposta da cui è uscita la Strega .

Buio.

Occhio di bue sull’Imputato che si alza lentamente dalla sedia e si gira verso il pubblico allargando le braccia. Sospira forte. Ansima.

Si avvicina al pubblico al limite del palcoscenico.

Sospira dicendo:

«Dovrei parlare, raccontare, dire. Favellare. Ma ciò che uscirà da questa bocca nulla potrà scalfire delle loro convinzioni. Io solo. Io niente. Io nessuno. Io delinquente, io santo, io fasullo, io, io.»

Urla: «Ioooooooooooooooo!»

Si accascia sul palcoscenico e si prende la testa tra le mani. Poi si rialza di scatto. In piedi. Parla:

«La storia scritta venne da molte mani. L’inchiostro mai fu solo nero su bianco. Cambiano i colori e cambiano i fogli. I manoscritti di questa vicenda nel vento si perdono. Quel vento che soffiava impetuoso sulle nostre teste disperdendone i ricordi e le verità. Quel vento che si trasformò in tempo. Quel tempo che trascolorò la vita stessa rendendola sciagurata o sfigurata o impetuosa e degna d’essere vissuta. I giorni divennero bui e le tenebre ci avvolsero. Ancora ci avvolgono e nel buio potremo trovare la verità? Questa Corte ingannata dai Potenti, dall’Alto Lignaggio immensamente rigirata nelle spire di un inganno che affonda le sue radici nel Potere, questa Corte sta scrivendo le pagine più nere di questa terra. Desolandia. Desolandia. Desolandia. Che in quel decennio stavamo trasformando in un paradiso amato, giocato, vissuto, colorato. Dove siete? Dove siete andati amici, amici di quel tempo che fu. Che mai fu più vivace e spensierato. Dove siete andati colori della mia giovinezza, discussioni della mia prima maturità? Dove siete finiti amori e passioni, dolori e impegno? Dove? Dove?»

 

L’Imputato, mettendosi al centro del palco, si riaccascia al suolo in preda ai ricordi.

Buio.

Subito una luce illumina tre ragazze vestite di veli e tre ragazzi a torso nudo e jeans che entrano a passo di danza e lo circondano facendo un girotondo, accarezzandolo e blandendolo.

Sempre a passo di danza escono dalla stessa parte dalla quale è uscita la Strega.

Buio.

La scena si re-illumina ed entrano i tre Giudici in processione che ritornano ai loro posti seduti. Le Guardie Nere sono sempre a braccia incrociate a fianco dell’Imputato il quale è in piedi tra le due guardie.

Il I° Giudice si alza in piedi e declama:

«Imputato. L’onorata Corte ha deciso, nella sua suprema magnanimità di darle l’ultima possibilità di discolparsi. La sua buona sorte ringrazi e il fatto che non venga ascritto negli annali di questo Stato che la Giustizia fu male amministrata. In cielo e in terra, noi, depositari della suprema verità, le concediamo di avvalersi della facoltà di sospendere il giudizio. Si proceda.»

Il I° Giudice si risiede.

L’Imputato si avvicina al tavolo dei giudici con passi titubanti. Parla:

«Mi sia concesso, signori giudici, di chiamare in causa, prima di esporre i fatti, così come si sono verificati nei miei ricordi e nei miei intendimenti, di chiamare a deporre in mia vece, la Pubblica Opinione…»

Il I° Giudice:

«E sia! Entri la Pubblica Opinione!»

Una luce illumina una persona senza testa, vestita di una tunica lunga fino ai piedi di colore neutro. La persona avanza al centro del palcoscenico e si mette di fianco all’imputato. I due sono rivolti a mezzo verso il pubblico.

Parla per primo l’Imputato:

«Onorevole Pubblica Opinione lei conosce la mia stirpe. Illumini i Giudici al riguardo: fummo felloni e compimmo ladrocinii? o ci dedicammo a coltivare le arti e le scienze, anche amministrative ed economiche?»

Risponde la Pubblica Opinione con voce profonda che pare scaturire dalle viscere della terra:

«Foste della stirpe dei dottori, dediti alle scienze e all’applicazione di quelle alla cosa pubblica.»

Prende la parola il I° Giudice:

«La menzogna è qui punita con l’amputazione della lingua. Risponda il vero a codesta domanda: Fu l’Imputato capofazione di una fazenda che prendeva talleri pubblici?»

Risponde la Pubblica Opinione:

«Esatta fu la domanda ed esatta sarà la risposta. Si, l’Imputato guidò una Fazenda che prese talleri pubblici.»

Prende la parola il Giudice di Destra:

«Dica ad onor del vero la Pubblica Opinione: fu l’Imputato capofazione denunciato per aver intascato i talleri altrimenti pubblici?»

Risponde la Pubblica Opinione:

«Rispondo ad onor del vero che l’Imputato capofazione fu denunciato per aver intascato talleri altrimenti pubblici.»

Prende la parola il Giudice di sinistra:

«Dica senza incorrere in errori d’omissione e senza tema d’esser smentita: l’Imputato fu in seguito a denuncia tratto in arresto e avviato a processo?»

Risponde la Pubblica Opinione:

«Senza tema di smentita affermo che l’Imputato qui è ora processato dopo essere stato tratto in arresto da codesta onorevole Corte.»

Riprende la parola l’Imputato:

«Dica ora la Pubblica Opinione se mai essa fu a conoscenza che io sottoscritto e la mia antica stirpe ci macchiamo di delitti contro la legge di Desolandia o se invece agimmo per conto dello Stato per attuarne migliorìe. Dica se come capofazione, la Pubblica Opinione ha memoria di nefandezze come l’intascare talleri pubblici?»

Interviene il I° Giudice:

«L’Imputato sta corrompendo la testimone, alla quale ricordo che la pena prevista per falsa testimonianza e per parole discordanti con quelle della Corte è il silenzio supremo.»

Risponde la Pubblica Opinione:

«L’alba sta sorgendo ed or ora mi sovviene che Desolandia si appresta a levar mattino. Mi duole dover ammettere tuttavia che alle domande devo rispondere si e no, in tal guisa che si! può esser vero ciò che l’Imputato ha testè affermato, ma che è altrettanto vero ciò che non ha affermato. E che comunque a Desolandia ciò che conta è quanto affermato dalla Corte e anche quanto non ha affermato. E il silenzio supremo mai si potrà applicare alla Pubblica Opinione, la sola sovrana. Giudice supremo che decide le sorti del bene e del male. Giustizia assoluta che impone la morte o la vita. La Pubblica Opinione si congeda. Senza levar tristezza o pena ancora. Siate innocenti o siate colpevoli, noi non potrem giudicare. Potremo solo… sparlare… E che sia dianzi a bocca aperta o negli androni e nelle taverne a sussurrare negli orecchi, noi soli potrem giudicare. E che il fato vi sia propizio, non ci interessa il tipo di giudizio. Avrem potuto esser liberi e sognare lunghi giorni colorati, ma chiniam la testa al potere e ce ne andiamo sciagurati, senza sapere di esserlo. Individui non siamo, ma una massa informe e neutra che alla logica non risponde, ma solo a colui che meglio c’imbonisce…»

Ciò detto la Pubblica Opinione si allontana col passo dell’oca dal palcoscenico uscendo dalla parte dove erano entrati e usciti i Giudici. L’Imputato viene trascinato a sedersi dalle due Guardie Nere.

Riprende la parola ilI° Giudice alzandosi in piedi:

«Ciò detto e fatto, signor Imputato. Questa Corte le ha concesso l’ennesima indulgenza restando con un nulla di fatto. La Pubblica Opinione ha emesso la sua sentenza. Il vuoto più assoluto è dato agli insiemi delle genti. La moltitudine non pensa e il gregge è condotto da un cane, di qualunque sia la razza non ha importanza. Ma anche di un’altra colpa, Imputato lei si macchiò: l’aver preteso d’essere difeso dalla Pubblica Opinione, che, si sa, non compie reato, né assolve né condanna. Il suo ennesimo fatale errore è stato condividere la colpa di credersi individuo, fuori dal gregge, senza cane in guisa di guida. E, peccato ancor più grave, d’aver fatto credere ad altri di esser individui, con pensieri e parole e idee proprie. Per questo la sua condanna sarà esemplare. Affinché non abbia tale malavirtù aggredire giovin menti in via di modellamento e di coltivazione. Avanti ora. È il suo momento. Illustri a queste orecchie come ha inseguito la scienza di cui parlava dianzi.»

L’Imputato si rialza in piedi e ricomincia a parlare (la luce illumina solo lui e mette in ombra il resto del palcoscenico):

«Né misero, né fellone, né derelitto. Mi diedi alle scienze applicandovi la filosofia dotta appresa all’universiade, l’errore mio fatale fu quello di credermi cadetto di guascogna perchè non la sopporto la gente che non sogna. Venite pure avanti buffoni che accusate, nuovi protagonisti, politici rampanti, ruffiani e portaborse: il pubblico vi applaude perché è ammaestrato agli orpelli e all’arrivismo. Buttate giù le carte che tanto non serviranno a coprire le spese di queste mie parole. Non me ne frega niente se anch’io sono sbagliato in questo paese di orsi ammaestrati, dove basta tirar la catena perché il ballo finisca o ricominci da capo. Credevo d’essere individuo, certo. Credevo d’esser uno in mezzo a tanti altri uno. Individui, non massa, non gente. Cani non volevo a condurre il gregge, ma menti solide e libere. Idee colorate, prepotenti e pressanti che mi mordevano il collo e mi indussero a presentarmi ai Potenti per metterle in atto. Comprare e vendere, informare, educare e formare, stabilire relazioni di là e di fuori da Desolandia: questa fu la mia colpa e di questo me ne vanto. Voi giudici, voi Potenti, Voi d’Alto Lignaggio che di me non conoscete che ciò che un manipolo di Guardie Nere vi han prodotto come truffa, voi spogliatevi del misero colore che portate e la mente aprite alla libertà.

Godetevi il successo finchè ne avete il tempo, perché la penna intingerò fin nel vostro orgoglio e con la mia spada vi uccido quando voglio. Fra i templi del deserto in cui avete ridotto questa terra, si ergerà la stirpe mia antica, risorta dai guerrieri che avete già bruciato ma le cui ceneri si risolleveranno ad azzannarvi alla gola e a ristabilire la verità. Fui dotto, diceste, lo ammetteste anche voi. Ma non abbastanza scaltro. Non in grado di comprendere che di alleanze avevo bisogno. Che i Potenti vanno blanditi e che il sano e l’innocente il Potere non lo conserva, perché l’intelligenza non si sporca, mentre l’ignoranza diventa l’unica suprema realtà. Così i vostri talleri pubblici sono stati usati per risanare fazende, distribuiti a Capifazione per risollevare le sorti delle aziende di Desolandia, affinché sparisse quel nome per sempre dalle carte del viandante. Fatale mi fu credermi onnipotente e attorniato da buonafede. La realtà mi ha riservato rose appassite in un vaso e sbarre quadrate per finestra. Guardie nere come compagne e ingiurie come dialogo. Ma voi che mi accusate non siete riusciti a produrre una sola scrittura contraria alla mia, ho confutato punto per punto il malaffare che mi avete lanciato addosso. Dove sono i talleri che mi dite aver preso e speso? Dove i conti su cui li ho versati? Anche fuori da Desolandia la mia vicenda è pagina bianca. Talleri o dollari o euro o altra valuta non risulta, dato che il portamonete è sempre vuoto e al massimo qualche centesimo mi scrolla le tasche e tintinna cascando in mano a qualche zingara. Zingara fu la mia vita e zingara fu la donna che predisse il mio fato. Fortuna, fortuna, e poi la caduta. Caddi, è vero, ma per risorgere. E anche se la condanna sarà l’eterno silenzio, ebbene sarà proprio il silenzio, sarà la voce del pensiero che si leverà alta a portarmi lontano.»

Buio.si sentono delle voci che gridano libertà, cantano, urlano, ridono. La scena si illumina e sul palco ci sono i tre ragazzi e le tre ragazze che danzano e fanno il girotondo. Sottofondo musicale l’Inno alla Gioia di Beethoven.

FINE