Il profumo delle magnolie

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IL PROFUMO DELLE MAGNOLIE

Commedia in un atto

di GIUSEPPE LANZA

PERSONAGGI

MARIO

ANTONIO

DELLARO

UN GIOVANOTTO

SILVIA, moglie di Mario

TECLA, moglie di Antonio

BERTA, cameriera

Commedia formattata da

Lo studio di Mario.

In fondo una vetrata che dà su una veranda, donde si scende in giardino. A sinistra, in fondo, la comune. Porte laterali in primo piano. Una scrivania,; un tavolo alto da disegno; scaffali con libri; poltrone; telefono. È un pomeriggio primaverile.

Mario                               - (è seduto alla scrivania e rovista febbrilmente in un cassetto. Scorre qualche lettera; s'indugia a guardare qualche oggetto; annusa qualche fiore secco. Il viso gli si contrae in smorfie dolorose).

Silvia                               - (entra dal fondo quasi di corsa portando, stretto al petto, un fascio di fiori. Accorgendosi a un tratto di Mario) Oh!

Mario                               - (parlerà con torbida ironia e ogni sua battuta sarà piena m di morbosi sottintesi) Ti spavento, io?

Silvia                               - (lieta) Sei qui?

Mario                               - Già, qui.

Silvia                               - Quando sei rincasato?

Mario                               - Pocanzi.

Silvia                               - Perché non mi hai chiamata?

Mario                               - Credevo che fossi uscita.

Silvia                               - Potevi domandare alla Berta.

Mario                               - Non chiedo alle cameriere, io. (Silvia ride). È una cosa ridicola, cara?

Silvia                               - L'hai detto con un tono...

Mario                               - Col tono giusto. Sono forse un marito da chiederei alla cameriera dov'è la propria moglie?

Silvia                               - Che hai? Sei in collera?

Mario                               - (cupo) Io non sono mai in collera. Per gli uomini! come me la collera non esiste.

Silvia                               - (triste, a fior di labbro) Si vede.

Mario                               - Eh?

Silvia                               - (sforzandosi di essere lieta) Che ore sono? Giù, in giardino, ho perduto la nozione del tempo.

Mario                               - E hai acquistato quella dei fiori.

Silvia                               - Quella, l'ho sempre avuta.

Mario                               - Mai come da un mese.

Silvia                               - Cioè da quando siamo qui.

Mario                               - Precisamente!

Silvia                               - Perché mai ho avuto tanti fiori a mia disposizione come in questo paese.

Mario                               - Naturalmente.

Silvia                               - (mostra i fiori) Belli, no?

Mario                               - Bellissimi.

Silvia                               - È una gioia coglierli, no?

Mario                               - Non ne colgo, io.

Silvia                               - E senti che profumo.

Mario                               - (allontanandosi) Sento.

Silvia                               - (prendendo dal fascio alcune verbene) Guarda cosa ho scoperto in fondo al giardino, dietro la siepe di biancospino, Le verbene. Ricordi? Sai cos'è domani?

Mario                               - Mercoledì.

Silvia                               - (ride) Bravo.

Mario                               - Ed è anche... Te ne sei ricordata? (Silvia ride). Perché ridi?

Silvia                               - Mi domandi se me ne sono ricor­data. Pocanzi, quando ho trovato le verbene... Rammenti quel mazzo enorme che la zia Te­resa ci fece trovare in camera il giorno del no­stro matrimonio? Ebbene, pocanzi ho improvvisamente ricordato - macché! Ho visto, ho quasi sentito,., quella camera, quella notte... come se fosse stata ieri. (Prendendogli il capo tra le mani, nella trepida attesa di un bacio). Come se fosse ora. (Lasciandolo). Ma tu non ricordi niente, tu!

Mario                               - Ricordo tutto, io. Tutto. Anche ciò che per gli altri non sarebbe ricordabile.

Silvia                               - Ma che hai? Che hai?... Perché mi guardi così?

Mario                               - Ti contemplo, cara. Questo paese ti ha fatta quasi rinascere.

Silvia                               - Rimpiangi Milano. L'ho capito da un pezzo.

Mario                               - Non rimpiango niente. Non sono uomo da rimpiangere, io. I deboli rimpiangono. E se tu mi credi un debole, sbagli. Da Milano volli andarmene io.

Silvia                               - E io fui felice.

Mario                               - Già. Speravi di trovare qui la tua cara amica Tecla... E hai trovato di più e di meglio: la gioia. Non ti ho mai veduta e non ti ho mai sentita così violentemente viva e fe­lice.

Silvia                               - È un rimprovero?

Mario                               - No, cara: è una constatazione.

Silvia                               - (piano, triste) Speravo di potertela comunicare un po' questa... felicità.

Mario                               - Ah, sì, eh? Speravi questo, eh? E il pericolo c'è stato veramente.

Silvia                               - Il pericolo!

Mario                               - Sì, cara. Questa specie di gioia, sì. Perché offusca la mente. E può togliere, agli uomini come me, la possibilità di altre gioie: dì un'altra natura, ma gioie. La gioia, per esem­pio, di poterti contemplare lucidamente, ora, così come sei, impaurita e fremente...

Silvia                               - (prendendogli le braccia, esasperata) E perché sono così?

Mario                               - (coti cupa violenza) Perché sei così? Perché ?

Silvia                               - Tu lo sai perché io fui contenta di andar via da Milano.

Mario                               - Lo so, io?

Silvia                               - Lo sai bene, anche se non ne abbiamo mai parlato. Possibile che tu ora mi vo­glia male per quella partenza?

Mario                               - (lasciandola, cupo) Non ti voglio male. Non sono uomo da voler male, io! (So­lenne) Devi metterti in testa questo: che io non ti voglio male. Non te ne vorrò mai. Per nes­sun motivo. Capisci? Ma voglio evitare che la volgarità s'insinui nella nostra vita.

Silvia                               - (con tremore) Nella nostra vita?

Mario                               - Nella nostra vita. E non c'è che un mezzo per evitare la volgarità. Ed è la sincerità.

Silvia                               - (quasi senza voce) Non capisco.

Mario                               - (con un sorriso convulso) Natural­mente. E certamente non ricordi il giuramento che ci facemmo quand'eravamo fidanzati.

Silvia                               - Ah! (China il capo).

Mario                               - Allora ci giurammo che il giorno in cui l'amore in uno di. noi due sarebbe finito...

Silvia                               - Basta: ricordo.

Mario                               - Forse la mia buona memoria ti sor­prende.

Silvia                               - Non mi sorprende.

Mario                               - O forse ti sorprende la serenità con cui ti ho ricordato quel giuramento.

Silvia                               - Nemmeno.

Mario                               - Tanto meglio. Da me, da un uomo come me, non potevi aspettarti diversamente. Dunque, sincerità. (Tace, come aspettando che Silvia parli; poi riprende, sicuro e pacato) Puoi ben guardarmi senza... dolore. (Breve pausa. Silvia è sempre col capo chino). Nessun senti­mento è volgare e immorale in sé stesso. I sen­timenti sono... quello che sono: come una gior­nata di, sole o un accidente. È forse immorale rompersi una gamba? E perché dovrebbe essere immorale amare un essere, anche quando si è legati dalla legge a un altro? Non è cosa che dipende dalla nostra volontà. Ma tacerli, certi sentimenti, e vivere nella menzogna, questo, sì, è volgare e immorale. E bisogna evitarlo, ad ogni costo. Capisci?

Silvia                               - (trattenendo il pianto) Capisco per­fettamente.

Maria                               - Non addolorati. (Le alza il capo con la mano) E non piangere, eh? Guardami. Io sono sereno (ma trema).

Silvia                               - Lo vedo.

Mario                               - E serena devi essere tu. Possiamo oramai parlarci apertamente, come tra amici. La sincerità trasfigura, purifica tutto. (Sulla co­mune appare Berta).

Berta                                - Signora, c'è la sarta, per la prova dell'abito.

Silvia                               - Dille che non sono in casa.

Berta                                - Va bene. (Via).

Mario                               - (disfatto) Ma perché mentisci?

Silvia                               - Io mentisco?

Mario                               - Fai dire alla sarta una menzogna.

Silvia                               - (quasi smaniando) Non ho voglia di provare abiti, ora.

Mario                               - E perché non le hai fatto dire così?

Silvia                               - Si sarebbe offesa.

Mario                               - (animandosi) No! Non offende mai la sincerità! Mai!

Silvia                               - Ti sta tanto a cuore la sarta?

Mario                               - Non c'entra la sarta! È la menzo­gna in sé stessa. L'abitudine alla menzogna! È una cosa mostruosa e asfissiante. Non si re­spira nella menzogna. Io non ho mai mentito, io!

Silvia                               - (esasperata) E vuoi continuare a non mentire, eh?

Mario                               - Ad ogni costo!

Silvia                               - L'ho capito. Basta. Non torturarmi più.

Mario                               - (raffreddandosi, cupo) Sei tu che lo vuoi. Non sono uomo da torturare una don­na, io. (Si muove nervosamente; si ferma da­vanti a un tavolinetto su cui sono i fiori portati da Silvia, e quasi meccanicamente li scompiglia, senza guardarli. A un tratto si ferma, con le narici dilatate, come sentendo un profumo noto. Guarda i fiori. Con calma torbida e sorridendo ambiguamente) Oh, le magnolie! Nemmeno a farlo apposta. (A Silvia, che è dolorosamente assorta) Ne aveva un mazzo, mi pare, quel gio­vane pittore che ti salutò con molta effusione alla stazione di Bologna.

Silvia                               - (come destandosi, con felinità dogliosa) Te ne ricordi, eh, della stazione di Bologna.

Mario                               - Io ricordo anche quello che non è ricordabile. Quel pittore si chiama... Come si chiama?

Silvia                               - Non so.

Mario                               - Strano.

Silvia                               - L'ho conosciuto a Milano in casa d'amici. L'ho veduto poche volte sempre di sfuggita.

Mario                               - Già. Ti disse, mi pare, che doveva venire qui. (Silvia tace, assorta). Tu non ricor­di, evidentemente. E siccome a casa nostra an­cora non s'è visto, vuol dire che ancora non è venuto, evidentemente, (Breve pausa). Che pro­fumo! Io lo sento da un pezzo questo profumo. Qui l'ho sentito per la prima volta passando vicino a... alla casa dei nostri amici. Forse i fiori erano nella villa accanto. Forse non ce n'erano. Ma il profumo l'ho sentito, con un'acu­tezza strana. Non vai oggi dalla tua cara amica Tecla?

Silvia                               - No.

Mario                               - Strano. Questo profumo...

Silvia                               - (acre) Ti è famigliare: lo so.

Mario                               - Già.

Silvia                               - Scommetto che conservi ancora del­le magnolie secche in qualche cassetto.

Mario                               - In questo cassetto. (Lo indica). Mi fa ricordare...

Silvia                               - Quella che non hai mai dimenticata.

Mario                               - No: qualche cosa di me: di quando mi lasciavo comunicare certa gioia. E sì, mi fa anche ricordare qualcosa di quella donna: un groviglio torbido di voluttà dolorose, di perfidie, di menzogne...

Silvia                               - (alzandosi, con violenza) Questo non ti impedisce di amarla ancora.

Mario                               - (con un sorriso convulso) No, sai. Lascia stare. La gelosia, ora non ci manche­rebbe altro! (Silvia fa per andare. Egli la trat­tiene per un braccio). Te ne vai?

Silvia                               - Ma cosa vuoi che faccia? Vuoi che parta? Che me ne vada? Vuoi andartene tu?

Mario                               - Vuoi e vuoi! Si tratta di sapere quello che vuoi tu!

Silvia                               - Io?

Mario                               - Sicché uno di noi due deve parti­re, eh?

Silvia                               - Vedo che è necessario.

Mario                               - Ah, sì, eh? E solo ora la senti que­sta necessità?

Silvia                               - Se tu non avessi parlato con tanta sincerità...

Mario                               - Ed era necessaria la mia sinceri­tà, eh?

Tecla                                - (da fuori) Permesso? (Entra dalla comune). Buon giorno. Come state?

Mario                               - Benissimo, carissima amica.

Tecla                                - Che tono!

Mario                               - Anche a voi non piace il tono?

Tecla                                - Vi ho disturbati? Scappo subito, Oh Dio, che testa! Già me n'ero dimenticata. (A Mario, dandogli una carta da visita) C'è di là questo signore, che vuole parlarvi. Ho detto alla cameriera di farlo passare nel salotto. Sbri­gatevi perché sta per venire mio marito.

Mario                               - Veramente non ci sarebbe più bi­sogno di ricevere questo signore.

Tecla                                - Tanto meglio. Fategli dire che non siete in casa.

Mario                               - Non mentisco, io!

Tecla                                - La gran menzogna! E allora andate, che Dio vi benedica.

Mario                               - La mia presenza vi infastidisce?

Tecla                                - (spingendolo verso la porta di sinistra in primo piano) Moltissimo. Tornate pre­sto, eh.

Mario                               - (esce ghignando).

Tecla                                - È noioso tuo marito, certe volte. Peggio del mio. Sono venuta per rimanere d'ac­cordo per domani. A casa mia: intesi? L'hai detto a tuo marito?

Silvia                               - Mio marito...

Tecla                                - Non vorrebbe? E secondo lui, do­mani dovreste restar qui, soli?

Silvia                               - Domani, cara Tecla...

Tecla                                - Domani? Che c'è? E perché questa faccia scura?

Silvia                               - Domani festeggeremo l'anniversario in un modo originale: Mario andrà per la sua strada, ed io per la mia.

Tecla                                - Eh? Scherzi o parli sul serio?

Silvia                               - L'ho sempre temuto questo giorno. Mario, quella donna, non l'ha mai dimenticata.

Tecla                                - Ma che ti salta in mente? Se ti ado­ra! È noioso, ma ti adora.

Silvia                               - Eh no: forse mi ha sposata per con­vincersi che s'era liberato da quella donna. Ma io non l'ho mai sentito interamente mio. Sì, forse, i primi tempi. Ma anche allora, anche allora io sentivo certe volte che si allontanava bruscamente, da un momento all'altro: lo sguar­do gli si faceva duro; la voce gli si abbassava, come se venisse da lontano; il viso gli si irri­gidiva...

Tecla                                - Sei sempre la stessa, cara mia. In­cominciasti quando eri fidanzata: ce Mi ama ve­ramente? Sarà interamente mio? ».

Silvia                               - Come vedi, non avevo torto.

Tecla                                - Io non vedo niente. E hai torto, hai sempre avuto torto. E non ridere così perché mi fai rabbia. Mario con mio marito non ha mai avuto segreti. Mio marito, con me - figu­rati! Gli leggo negli occhi anche i pensieri. Eb­bene, da quando vi siete sposati - anzi da mol­to tempo prima - Mario, quella donna, non l'ha più veduta.

Silvia                               - L'ha veduta.

Tecla                                - Se l'avesse veduta, mio marito lo saprebbe; e lo saprei anch'io.

Silvia.............................. - L'ha veduta. L'ha veduta alla sta­zione di Bologna, quand'eravamo in viaggio per venire qui. Lui è sceso dal treno per andare al buffet. Nella stazione c'era fermo anche il tre­ no che veniva da Roma. Lei era lì.

Tecla                                - L'hai vista tu?

Silvia                               - Lei, non l'ho vista. Ma ho visto un'altra attrice della sua compagnia: quella che faceva la parte della zia in quella commedia: ricordi?

Tecla                                - Con quell'orrore di cappellino ros­so con Vaigrette nera?

Silvia                               - Precisamente. Era lì. C'era tutta la compagnia. E c'era anche lei: Anna Leonati. E si sono veduti e parlati.

Tecla                                - Li hai veduti tu, che si parlavano?

Silvia                               - No: perché sono stata distratta da un imbecille di pittore che avevo conosciuto a Milano, e che, proprio appena Mario è sceso, mi ha vista al finestrino ed è venuto a salu­tarmi.

Tecla                                - Ma chi te l'ha detto che si sono parlati?

Silvia                               - C'era bisogno che qualcuno me lo dicesse?

Tecla                                - Tu non li hai veduti; nessuno te l'ha detto... Insomma, come hai capito?

Silvia                               - L'ho capito quando Mario è tor­nato. Già, prima, mentre dal finestrino parlavo con quel pittore, e vedevo a un finestrino dell'altro treno quella streghetta di attrice...

Tecla                                - Quella che faceva la zia? Non è mica una streghetta: è carina.

Silvia                               - O fammi il favore! Con quel naso così e con quella bocca larga mezzo metro!

Tecla                                - Be', e dal finestrino tu cosa vedevi?

Silvia                               - Niente, non vedevo niente. Ma sen­tivo un malessere strano. Guardavo quell'attri­ce, che rideva... E forse anche il profumo delle magnolie che aveva quel pittore... Perché tu devi sapere che un giorno, a Milano, trovai in un cassetto di mio marito delle magnolie sec­che, insieme con altri ricordi di Anna Leonati. Ora, lì, quell'attrice e quel profumo... Non so... provavo un malessere strano... Poi, quando Mario tornò, fu come un lampo. Era pallido pallido; si sforzava di essere naturale, di sor­ridere, ma non ci riusciva; gli tremavano le labbra e aveva quasi paura di guardarmi.

Tecla                                - Be', e ammesso che l'abbia vista e che le abbia parlato? Naturale che lì per lì fos­se turbato. Anche mio marito l'anno scorso in­contrò a Viareggio...

Silvia                               - Ma tuo marito restò con te. Mario, invece, ora andrà a raggiungere la sua amante.

Tecla                                - La tua, cara Silvia, è una malattia.

Silvia                               - (con uno scatto) Ma se me l'ha det­to lui!

Tecla                                - (stupita) Ti ha detto...?

Silvia                               - Me l'ha fatto capire chiaramente, alludendo anche all'incontro della stazione di Bologna, alla magnolie del pittore e a quel pro­fumo che gli fa sempre ricordare... quello che non ha mai dimenticato. E voleva che io - io stessa: capisci? - gli dicessi di lasciarmi, di partire, di andare da quella donna!

Tecla                                - Ma guarda che canaglia!

Silvia                               - No, non è una canaglia.

Tecla                                - Allora è un imbecille.

Silvia                               - No: è onesto. Vuole evitare la vol­garità della menzogna. Ha fatto bene a essere sincero. Tanto, vivere così sarebbe peggio. Ha fatto bene, ha fatto bene. (Piange).

Tecla                                - E non piangere, che tanto non ci guadagni niente.

Silvia                               - Non piango, non piango. (E pian­ge). Io sono serena. Perché ero preparata.

(Dalla comune entra Antonio).

Antonio                           - (festoso) Buon giorno. (A Tecla) Oh, brava: mi hai aspettato. (A Silvia) Come state?

Silvia                               - (piangendo) Bene, bene. (Esce da destra).

Antonio                           - Be', che c'è?

Tecla                                - (seguendo Silvia) C'è che siete delle belle canaglie, voialtri uomini! (Esce). (Da sinistra entra Mario).

Antonio                           - Oh, bravo, vieni qui. Sei una ca­naglia anche tu. Tra canaglie ci s'intende. Mi spieghi che cosa succede qui? Entro: tua mo­glie scappa piangendo.

Mario                               - (ghignando) Anche il pianto, ora.

Antonio                           - Mia moglie mi dice - anzi ci dice - canaglie.

Mario                               - Tua moglie, eh? Quella cara crea­tura di tua moglie!

Antonio                           - Be'? E tu, che diavolo hai che sudi così? (Gli tocca la fronte) E sudi freddo, ohe!

Mario                               - Io sono serenissimo.

Antonio                           - Si vede: tremi come una foglia.

Mario                               - No: mi tremano le mani, forse.

Antonio                           - E le gambe, senza forse.

Mario                               - E anche le gambe. Ma io non tremo. Capisci?

Antonio                           - Chiarissimo: non c'è che dire. E siediti, fammi il favore.

Mario                               - (siede) Io sono sereno. Perché del resto sapevo tutto. Non avevo bisogno delle notizie che m'ha portate quel signore.

Antonio                           - Quale signore?

Mario                               - Quello ch'è venuto pocanzi.

Antonio                           - Chiarissimo anche questo. Che I notizie t'ha portate?

Mario                               - Nulla di nuovo: che Silvia ha un amante. E non fare quella faccia, che tanto tu lo sapevi.

Antonio                           - Io?

Mario                               - No? Peggio per te. E tanto meglio  per tua moglie.

Antonio                           - Che c'entra mia moglie?

Mario                               - Io almeno me ne sono accorto da I un pezzo. Forse prima ancora che incominciasse.

Antonio                           - Ma che cosa?

Mario                               - L'amore di mia moglie per un altro.

Antonio                           - Silvia? Quella bambina?

Mario                               - Quella bambina.

Antonio                           - Che ti adora.

Mario                               - Che mi adorava. E che forse, a modo suo, mi vuole bene ancora. (Alzandosi, con crescente orgasmo) Ed è questo che è spaventoso: che forse mi vuole bene ancora! Capisci? Capisci?

Antonio                           - Niente! Non capisco niente!

Mario                               - Di certe cose tu non hai mai capito niente. (Con ghignante gioia) Io mi giocherei la testa che se quel giorno, alla stazione di Bologna, tu  e forse chiunque altro - ti fossi! trovato al mio posto, non avresti sentito, noni avresti capito niente!

Antonio                           - Io ho capito che è difficilissimo capire, e ti saluto.

Mario                               - (fermandolo per un braccio) Quand'eravamo in viaggio per venire qui, io scesi alla stazione di Bologna per andare al buffet. Silvia restò sul treno. Tornando, io vidi che parlava animatamente, dal finestrino, con un giovane.

Antonio                           - Chi era?

Mario                               - Non lo so. Cioè ora lo so: è il suo amante. Ma non so come si chiama. Non lo conosco nemmeno di vista, perché mentre io mi avvicinavo egli si affrettò a salutare mia moglie e ad allontanarsi, gridandole che sarebbe venuto qui, in questo paese, per dipingere certi paesaggi. Tra la folla, non riuscii a vedere bene il suo viso. Ma sentii - ah, questo sì! Sentii benissimo il profumo di un mazzo di magnolie ch'egli aveva in mano; e contemporaneamente sorpresi negli occhi di mia moglie, che continuava à salutarlo con la mano, uno sguardo...!

Antonio                           - Che specie di sguardo?

Mario                               - Come si fa a definire l'essenza di uno sguardo? C'era quel tremore stupefatto e ansioso...

Antonio                           - Ma era sempre uno sguardo

Mario                               - Già, uno sguardo. Ed è questo il meraviglioso! Perché per quel semplice sguardo e per quel profumo...

Antonio                           - Ah! caro, se anche un profumo...

Mario                               - (con commiserazione, come rivolgen­dosi a un terzo) Un profumo!... Non ha nes­sun valore, per te un profumo, eh? Eh già: non si vede! non si tocca! Come se le cose più stra­ordinarie, più tremende della vita non fossero quelle che non si vedono, non si toccano, non si esprimono. La musica - cos'è la musica? Suoni. Li tocchi, li vedi, tu, i suoni? E non pos­sono ridestare, come da un sonno profondo, sen­timenti ch'erano in te, e che tu stesso ignoravi? E i profumi non sono come i suoni? Non può un profumo...

Antonio                           - Smetti di apostrofarmi, e torna alla stazione di Bologna.

Mario                               - (cupo) Ci sono. Volevo farti capire come quel profumo di magnolie ridestò in me con un'acutezza spaventosa... (Animandosi). Ti ricordi degli ultimi giorni che passai con Anna, la mia amante? La nostra camera era piena di magnolie: delle magnolie ch'ella riceveva dall'altro. Le perfidie di quella donna, le sue in­genue mostruosità, piacere, tormento - tutti i ricordi di allora sono per me impregnati di quel profumo. Ora, sentirlo, lì, alla stazione, fu come sentire un misterioso, squillante segna­le d'allarme. Mia moglie, davanti a me, era an­cora la mia Silvia? Sarebbe sempre stata la mia Silvia? Nei suoi occhi c'era ancora, come cri­stallizzato, lo sguardo tremulo e ansioso che aveva avuto per l'altro. E aveva paura di guar­darmi. E io tremavo di quella sua paura.

Antonio                           - Be', tutto qui?

Mario                               - Tutto qui? (Ride convulsamente; poi, con concitazione affannosa) Silvia da dieci giorni passa il pomeriggio fuori. A me ha detto che va da tua moglie.

Antonio                           - Ed è vero. Me l'ha detto Tecla.

Mario                               - Cara, quella Tecla!

Antonio                           - Ce l'hai anche con mia moglie?

Mario                               - Non c'è stata a casa tua! Un giorno, per caso - il primo giorno ch'è uscita - , l'ho vista in istrada. L'ho seguita. Tu stai al n. 9 di Via Libertà, eh? Lei, invece, andava al n. 11: una vecchia casetta a due piani. Col pretesto di un'eventuale demolizione di quella casa, ho mandato un mio dipendente - quel signore che è venuto pocanzi - a vedere chi ci sta. Al primo piano ci stanno due vecchie bigotte che non ricevono mai nessuno. Al secondo, un pit­tore. Dove andava Silvia? Eh? Non protesti? E c'è tornata dieci giorni di seguito. Tre ore al giorno. Trenta ore!

Antonio                           - (sbalordito) A me sembra incre­dibile.

Mario                               - E tua moglie, quella cara creatura di tua moglie, sa. E favorisce.

Antonio                           - Questo, poi!

Mario                               - Non ti ha detto che Silvia è stata in questi giorni con lei? (Prendendolo per il bavero della giacca) Te l'ha detto o non te l'ha detto?

Antonio                           - (cupo, piano) Me l'ha detto.

Mario                               - E ha mentito. Ti ha mentito. Ab­bandonati, caro, ai santi affetti, come hai sem­pre consigliato a me. Abbandonati. Ti ha men­tito! Ti può mentire! Se non t'ha ingannato, t'ingannerà!

Antonio                           - (deciso, per mascherare il suo tur­bamento) Lascia stare mia moglie, che non m'ha ingannato e non m'ingannerà. Con Silvia hai avuto delle spiegazioni?

Mario                               - (esausto, truce) Non sono uomo da chiedere a una donna spiegazioni dei suoi sen­timenti. I sentimenti del resto non si spiegano.

Antonio                           - Ma lei sa che tu sai?

Mario                               - Lo sa. E ha confessato.

Antonio                           - Eh?

Mario                               - Come confessano le donne: tacendo.

Antonio                           - Gliel'hai detto tu che sai?

Mario                               - Non sono uomo da dire certe cose a una donna. Gliel'ho fatto capire.

Antonio                           - Mi sembra lo stesso.

Mario                               - Non è lo stesso. Perché io non gliel'ho fatto capire per rimproverarla o per chie­derle delle spiegazioni, ma per esortarla a es­sere sincera. (Con crescente cupo orgasmo) Perché è questa, è questa la cosa mostruosa: la menzogna! Non l'amore per un altro, ma la finzione di un amore ch'è finito. E menzogna senza giustificazione e senza necessità. Me la spiego in una donna che perdendo il marito perde il pane, o che teme la vendetta del ma­rito. Ma lei è ricca; lei sa che io non sono uomo da vendicarmi; eppure mentisce! E con le arti più sottili e volgari. Sino a fingersi gelosa, ora, di Anna. Proprio, proprio come quella, come Anna, che mi faceva le scenate di gelosia quan­do tornava dai convegni con l'altro. E sai che le somiglia?

Antonio                           - Silvia ad Anna? Ah, questo poi!

Mario                               - Sì, sì. Non nei lineamenti, io. Ma in certe espressioni del viso: in un sorriso tre­mulo, qui, agli angoli della bocca; in un certo battere di palpebre nella menzogna; in certi gorgogli voluttuosi di riso. Preciso! preciso! Io ti giuro che in certi momenti mi è parso di avere quella, non Silvia, tra le braccia! Sino a sentire, a sentire perfettamente l'odore del suo corpo.

Antonio                           - (affettuosamente) Calmati, caro Mario.

Mario                               - Sono calmissimo.

Antonio                           - E pensa serenamente a quello che intendi fare.

Mario                               - Occorre pensarci? Ci separiamo. Lei se ne va col suo amante... (Con un rigur­gito di orgasmo) E dopo le mie affettuose esor­tazioni alla sincerità, credi che abbia sentito la doverosa necessità di dirmi: ce Ora io me ne devo andare da questa casa»? Macché! macché! «Vuoi che me ne vada? Vuoi andartene tu? ». Io         capisci? dovevo dirglielo io!

Antonio                           - E non ricominciare perché ti pi­glia un accidente.

Mario                               - Non mi piglia. Sono troppo padro­ne di me. E ora, nonostante tutto, sono sere­nissimo.

Antonio                           - (asciugandosi il sudore dalla fronte) Invece io, al solo pensare a certe cose, mi sento mancare il terreno sotto i piedi.

Mario                               - Questo succede quando ci si abban­dona ai sentimenti. Io, dopo quell'esperienza con Anna, non mi sono più abbandonato, io! (Siede esausto, cupo, tremante). E ora sono serenissimo. Mia moglie se ne va col suo aman­te, e io mi rimetto a lavorare serenamente. Ri­prenderò la mia storia universale dell'ingegne­ria: un compito che può riempire la vita di un uomo.

Antonio                           - Alla tua storia dell'ingegneria ci pensi ogni volta che ti capita un accidente d'amore,

Mario                               - Ci ho pensato sempre. L'amore mi ha distratto. Ora eviteremo anche questa distra­zione. (Si ode il campanello del telefono).

Mario                               - (si alza e prende il ricevitore) Pron­to. Sì, parla col 3724. Come? Desidera par­lare con la signora Silvia? Va bene. Aspetti. (Posa il ricevitore e fa per uscire, ma subito torna con mal celata agitazione, e lo riprende) Pronto. Scusi, chi devo dire che desidera parlarle? Eh? Chi è al telefono? Io? Io sono... il domestico.

Antonio                           - E viva la sincerità.

Mario                               - Come ha detto? Il pittore Dellaro? Ah! Quello che abita in Via Libertà n. 11? (Quasi senza voce) Va bene. (Posa lentamente il ricevitore) Così: vedi? Anche al telefono. E devo chiamargliela io. Capisci?

Antonio                           - Se gli dici che sei il domestico!

Mario                               - Le altre volte sarà stata la camerie­ra. Sapeva anche lei. L'accomoderò io.

Antonio                           - Bada che quello, al telefono, sen­te tutto.

Mario                               - Ah, già. Devo chiamargliela, eh? Ah no! (Prende il ricevitore) Pronto. Pronto. La signora è occupata. La prega di venire su­bito qui. Sì, lei. Se può venire? Ma se la signora la prega! Sì, subito. (Toglie la co­municazione) .

Antonio                           - Sei matto? Perché lo fai venire?

Mario                               - (tremante) Non ti preoccupare. So­no serenissimo.

Antonio                           - Si vede! Tu farai qualche pazzia.

Mario                               - Una cosa saggissima, farò io. No, ca­ro, non agitarti così.

Antonio                           - Mario, Mario, calmati.

Mario                               - Io sono calmissimo. Calmati tu, piut­tosto.

Antonio                           - Tremi tutto.

Mario                               - Io? Perché mi vedi le mani...

Antonio                           - Le mani sì, e tu no: lo so. Ma fammi il santissimo favore di non fare entrare qui quell'uomo.

Mario                               - Siediti, perché ti sta prendendo uno svenimento. Farò una cosa saggissima, ti ho detto. Prima, voglio conoscerlo. È lecito, no? Poi li metterò a braccetto e li accompagnerò alla porta.

Tecla                                - (entrando da destra) Dei sali. Datemi dei sali. Silvia sta male.

Mario                               - Sta male? Che peccato!

Tecla                                - Datemi dei sali.

Mario                               - Subito, subito. (Esce da sinistra).

Antonio                           - (prendendo Tecla per un braccio) Vieni qui. Tu mi hai detto che in questi giorni Silvia ha passato il pomeriggio con te. Guardami negli occhi. È vero o non è vero?

Tecla                                - Giusto ora!

Antonio                           - È vero o non è vero?

Tecla                                - È tutta una storia. Ti dirò poi.

Antonio                           - Allora hai mentito! È la prima volta! Per quanto io sappia!

Tecla                                - (dandogli un colpetto sulla guancia) Carino, quando fai la faccia feroce.

Mario                               - (rientrando) Ecco i sali, carissima amica. Ditele che si prepari per una visita che le farà molto piacere.

Tecla                                - Voi! voi! (Esce da destra).

Berta                                - (entrando) Signor ingegnere...

Mario                               - Cara, carissima Berta!

Berta                                - C'è un signore che domanda della signora.

Mario                               - Lo conosci bene tu quel signore, eh?

Berta                                - È la prima volta che lo vedo.

Mario                               - Naturalmente. Fallo salire, fallo salire.

Berta                                - Deve entrare qui?

Mario                               - Qui, qui. Ti stupisce, eh?

Berta                                - Ah, per me... (Esce).

Antonio                           - Senti, Mario...

Mario                               - No, caro, non te ne andare.

Antonio                           - Non me ne vado! Ma fammi il fa­vore...

Mario                               - Fosti testimonio nel primo matri­monio di mia moglie: devi esserlo ora anche in questo suo secondo matrimonio ideale.

Antonio                           - Mario, sei in uno stato!

Mario                               - Serenissimo. È il giorno più sereno della mia vita. (Va alla porta di destra) Silvia, vieni cara. E anche voi, carissima Tecla. Veni­te, venite. (Sulla comune appare un giovanotto elegantemente vestito con in mano un quadro involto in una tela).

Il giovanotto                    - Permesso? (Antonio è pron­to come per evitare una lotta).

Mario                               - Avanti! Avanti! Lei è il pittore Del­laro?

Il giovanotto                    - Nossignore. Io sono il figlio della portinaia del signor Dellaro. Il signor Del­laro viene ora. Mi ha incaricato di portar qui questo quadro. (Da destra entrano Silvia e Tecla).

Mario                               - (lasciandosi cadere su una sedia, a Sil­via, senza guardarla) C'è qui... Hanno por­tato per te un quadro.

Silvia                               - Per me? (Vede il giovanotto) Ah, è forse...

Il giovanotto                    - Lo manda il signor Dellaro.

Silvia                               - (prende il quadro) Va bene. Grazie.

Il giovanotto                    - Riverisco. (Esce).

Tecla                                - Potevi anche dargli la mancia. (Fa per toglierle il quadro) Vediamo com'è venuto.

Silvia                               - (nervosamente) Ma no! Perché?

Tecla                                - Per vederlo.

Silvia                               - Tanto, ora...

Mario                               - Fa' pure, cara; fa' pure.

Silvia                               - No, ti prego, Tecla! (Posa il qua­dro).

Berta                                - (dalla comune) C'è il signor Dellaro

Silvia                               - (meravigliata) Dellaro, qui!

Mario                               - (alzandosi e facendo sforzi sovrumani per stare in piedi) Già, qui.

Berta                                - Domanda di lei.

Mario                               - Domanda di te, cara. Hai sentito? Bisogna riceverlo.

Silvia                               - (a Berta) Fallo entrare. (Berta esce. A Mario) Ti prego, ti supplico di non far capire niente. (Sulla comune appare Dellaro: un vecchietto di circa ottant’anni. Silvia gli va in­contro) Caro Maestro! È venuto sin qui!

Dellaro                             - In carrozza. Sono venuto in car­rozza.

Silvia                               - Ma è sempre uno strapazzo. Prenda il mio braccio.

Tecla                                - Buon giorno, Maestro.

Dellaro                             - Oh, signora! Anche lei qui, eh? E questi signori, sono i vostri mariti? Bisogna presentarmi.

Silvia                               - Mario, vieni. (Mario, assolutamen­te inebetito, si avvicina) Mio marito. Il marito di Tecla. Il pittore Dellaro.

Dellaro                             - Fortunatissimo.

Silvia                               - (a Mario) Dellaro: non ricordi? (A Dellaro) Mio marito è disturbato per certi suoi affari. Lo scusi. (A Mario) Ricordi quel mio ri­tratto da bambina che ti piaceva tanto?

Mario                               - (improvvisamente) Paolo Dellaro! Ricordo.

Silvia                               - (a Dellaro) Mio marito ancora non sa nulla. (A Mario) Quindici giorni fa seppi per caso, in un negozio, che il Maestro s'era stabi­lito qui e che faceva l'eremita. Riuscii subito a scovarlo. (A Dellaro) Ma ce n'è voluto, eh, per farmi ricevere.

Dellaro                             - Potevo immaginare che fosse la mia Silviuccia?

Silvia                               - (a Mario) Tu sai che il Maestro fu per la mia famiglia più che un parente. Quando fui nel suo studio, lo indussi a farmi un ritratto a tua insaputa per regalartelo domani per il nostro anniversario.

Tecla                                - Lo possiamo vedere ora questo ri­tratto, no? (S'allontana per prendere il quadro. Silvia la segue).

Mario                               - (si è rischiarato dapprima in un felice stupore; ora, a Dellaro, piano, morbosamente) E... suo figlio?

Dellaro                             - (con ridente stupore) Mio figlio? Non ho figli.

Mario                               - Suo nipote?

Dellaro                             - Non ho nipoti. Sono solo.

Tecla                                - (davanti al quadro) È bellissimo.

Dellaro                             - (agli uomini) È straordinario co­me le donne belle trovano facilmente tutto bello.

Silvia                               - Ma lei è ancora in piedi, Maestro.

Dellaro                             - Già. E starei meglio seduto. (Ri­de. Antonio fa per prendere una sedia).

Silvia                               - No, non qui. Andiamo di là. Prenda il mio braccio, Maestro. (A Mario) Tu, se vuoi, puoi continuare... a lavorare. Il Maestro ti scusa.

Dellaro                             - Per l'amor di Dio! (Dellaro, Sil­via e Tecla escono da destra. Antonio fa per seguirli; poi torna).

Antonio                           - È quello l'amante di tua moglie?

Mario                               - Mia moglie è un angelo. E io sono un mostro. Quella bambina aveva avuto un pen­siero così affettuoso; e io... Le apparenze giu­stificavano il mio sospetto; ma quello che ho pensato io, solo un mostro poteva pensarlo. Tu non puoi averne l'idea. Quello che t'ho detto è niente! niente! Ti prego: va' di là e man­dami Silvia. Voglio chiederle perdono. (Anto­nio esce da destra. Dalla comune entra Berta con in mano un mazzo di magnolie e una let­tera).

Berta                                - Hanno portato questi fiori per la signora.

Mario                               - (cupo) Magnolie! Chi gliele manda?

Berta                                - Non so. Qui c'è il biglietto. (Gli dà i fiori e la lettera, ed esce).

Mario                               - (guarda le magnolie e la lettera. Il viso gli si contrae in smorfie dolorose; e trema. Apre febbrilmente la lettera e la legge a stento) «Per farmi perdonare la villania di non averle offerto quelle che avevo alla stazione di Bo­logna, e con la speranza di poterle presto ba­ciare la mano. Roberto Marazzi ».

Antonio                           - (entrando da destra) 0 Mario, ora ti faccio ridere.

Mario                               - (truce) Non voglio ridere.

Antonio                           - Sai che ha detto Silvia a mia mo­glie? Che hai? E queste magnolie?

Mario                               - (agitandogli le magnolie davanti al viso) Quello della stazione di Bologna! Leg­gi, leggi. (Gli dà In lettera).

Antonio                           - (dopo aver letto) E be'?

Mario                               - Bee'? Beee'?

Antonio                           - Doveva venire: è venuto, e glielo fa sapere.

Mario                               - Ah, sì, eh? Ah, sì, eh? Ma che uo­mo sei?

Silvia                               - (entrando da destra, quasi fuori di sé dalla gioia) Mario mio! Antonio mi ha detto tutto. E io che invece aveva pensato!... E tu vuoi chiedermi perdono? Macché perdono! Io sono felice!

Mario                               - Ah, sì, eh? Sei felice, eh?

Antonio                           - Ma questa casa è un manicomio! Se non me ne vado, impazzisco anch'io. (Esce).

Mario                               - Me ne vado anch'io. Se resto ancora qui rischio di perdere la mia calma. Tieni, cara. Hanno portato questi fiori per te. Tieni! (Glieli mette sgarbatamente sul petto e vi chiude sopra le braccia di lei; poi va alla comune) Berta! Berta! Preparami le valigie e il baule.

Silvia                               - (che nel frattempo ha letto il biglietto) Perché vuoi partire? Perché? (Gli si avvici­na) O Mario! Guardami. È per questo biglietto? Che cosa credi? Che cosa pensi?

Berta                                - (apparendo sulla comune) Signor ingegnere, devo preparare il baule grande o quello piccolo?

Mario                               - (sgarbato) Nessun baule. Va' via. (Berta via).

Silvia                               - (sorridendo) Possibile che tu pensi ancora...?

Mario                               - Niente. Non penso niente.

Silvia                               - E allora perché volevi partire? E perché tremi?

Mario                               - (furioso) Non tremo. Non ho mai tremato, io! E butta quelle magnolie dalla fi­nestra! Non senti che appestano l'aria?

FINE