Il racconto d’inverno

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A T T O P R I M O

WILLIAM SHAKESPEARE

IL RACCONTO D’INVERNO

Dramma in 5 atti

Traduzione e note di Goffredo Raponi

Titolo originale: “THE WINTER’S TALE”


NOTE PRELIMINARI

1) Il testo inglese adottato per la traduzione è quello curato dal prof. Peter Alexander (William Shakespeare - “The Complete Works”, Collins, London & Glasgow, 1951/60, pagg. XXXII-1370), con qualche variante suggerita da altri testi, in particolare quello dell’edizione dell’“Oxford Shakespeare” curata da G. Welles & G. Taylor per la Oxford University Press, New York, 1988/94.

2) Alcune didascalie ed indicazioni sceniche (stage instructions) sono state aggiunte dal traduttore per la migliore comprensione scenica alla lettura, cui questa traduzione è essenzialmente intesa ed ordinata. Si è lasciato comunque invariato, rispettivamente all’inizio ed alla fine di ciascuna scena - o all’entrata ed all’uscita dei personaggi nel corso della stessa scena - la rituale indicazione Exit / Exeunt (Esce / Escono), avvertendo peraltro che non sempre essa indica movimenti di entrata ed uscita, potendosi dare che i personaggi cui essa si riferisce o si trovino già in scena all’inizio di essa, o vi restino al termine.

3) Il metro è l’endecasillabo sciolto, alternato da settenari.

4) I nomi dei personaggi che si prestano alla italianizzazione(Leonte, Polissene, Mamilio, Archidamo, Autolico, Duncano, Fleante) sono resi nella forma italiana.

5) Dalla citata edizione dell’Alexander è anche riprodotta la divisione in atti e scene (che, com’è noto, non si trova nell’in-folio, ma è stata elaborata, con l’elenco dei personaggi, da diversi curatori nel tempo, con varianti talvolta cospicue).


PERSONAGGI

LEONTE, re di Sicilia

MAMILIO, suo figlio, principe di Sicilia

CAMILLO

ANTIGONO, nobili siciliani

CLEOMENE

DIONE

POLISSENE, re di Boemia

FLORIZEL, suo figlio

 

ARCHIDAMO, nobile boemo

UN VECCHIO PASTORE, presunto padre di Perdita

UN CONTADINO, suo figlio

AUTOLICO, vagabondo

UN MARINAIO

UN CARCERIERE

ERMIONE, regina di Sicilia, moglie di Leonte

PERDITA, sua figlia e di Leonte

PAOLINA, moglie di Antigono

EMILIA, dama di compagnia di Ermione

MOPSA

DORCA, pastorelle

IL TEMPO (in funzione di CORO)

Altri nobili e dame, ufficiali, servitori, pastori e pastorelle.

SCENA: parte in Sicilia, parte in Boemia.


ATTO PRIMO

SCENA I

Sicilia, il palazzo di Leonte

Entrano ARCHIDAMO e CAMILLO

ARCHIDAMO - Se v’accadrà, Camillo, vi dicevo,

di visitare un giorno la Boemia

per una circostanza come questa

ond’io mi trovo adesso qui in servizio,

constaterete quanto sia diversa

dalla vostra Sicilia.

CAMILLO - Giustappunto

credo che questa estate il nostro re

abbia in mente di rendere al Boemia(1)

la visita di Stato che gli deve.

ARCHIDAMO - Se l’accoglienza che potremo offrirgli

non ci farà arrossire di vergogna,

il nostro affetto ce ne scuserà,

perché davvero noi...

CAMILLO - Ovvia, vi prego...

ARCHIDAMO - No, no, vi parlo assai liberamente,

sapendo quel che dico: noi laggiù

non potremo in egual magnificenza,

in sì prezioso... non so se mi spiego...

Vorrà dire che vi propineremo

tali bevande da indurvi in torpore

e far che i vostri sensi, obnubilati,

s’inclinino, se non proprio a lodare,

a giudicare con minor durezza

la nostra insufficienza.

CAMILLO - Esagerate.

Volete ripagare troppo caro

ciò che v’è dato tanto di buon cuore.

Non saranno mai troppe pel Sicilia

le gentilezze da usare al Boemia.

Sono cresciuti insieme da bambini

e s’è da allora radicata in loro

una tale affettuosa fratellanza,

che non può che ramificare ancora.(2)

Se le lor più mature dignità

e gli impegni della regalità

han potuto di fatto separarli,

i contatti, se non fisicamente,

si sono mantenuti sempre vivi

sia sotto forma di continui scambi

d’ambascerie, di lettere, di doni,

sia in reciproche affettuosità;

talché, se pur lontani,

si son sempre sentiti assai vicini

come due che si stringano la mano

attraverso lo spazio, e che s’abbraccino

da un punto all’altro degli opposti venti.(3)

Conservi il cielo questo loro affetto!

ARCHIDAMO - Oh, per questo non c’è malizia al mondo

o altro cosa che possa infettarlo.

Avete qui, nel vostro giovin principe

Mamilio, un ineffabile motivo

di compiacervi: è un giovane signore

il più ricco di fulgide promesse

ch’io abbia conosciuto.

CAMILLO - Oh, questo sì!

Molte speranze sono in lui riposte.

È un gran bravo ragazzo,

di quelli che riescono da soli

a dar nuovo vigore a tutto il popolo

e nuova vita ai nostri vecchi cuori.

C’erano tanti, prima che nascesse,

che andavan sulle grucce;(4)

ora bramano tutti viver tanto

da poterlo vedere un uomo fatto.

ARCHIDAMO - Avrebber preferito di morire,

altrimenti?

CAMILLO - Direi proprio di sì,

salvo che non avessero altra causa

per voler seguitare a stare in vita.

ARCHIDAMO - Avrebbero potuto contentarsi

di seguitare a viver sulle grucce,

anche con un sovrano senza figli,

aspettando che ne venisse uno...

(Escono)

SCENA II

La stessa

Entrano LEONTE, ERMIONE, POLISSENE e nobili

POLISSENE - Nove passaggi dell’equorea stella(5)

ha già contato il pastore, dal tempo

che abbiam lasciato il trono senza un peso;(6)

se pur riempir volessimo egual tempo,

fratello, a ringraziarti,

saremmo sempre in debito con te;

sicché, come si fa con uno zero

quando lo sistemiamo al posto giusto,(7)

io ti moltiplico con un sol “grazie”

i mille e mille che gli stan davanti.

LEONTE - Questi grazie trattienteli con te

ancor per qualche tempo,

e serbali per quando partirai.

POLISSENE - Che sarà appunto domani, mio caro.

Sono, credimi, sempre più assillato

dal timore di ciò che può succedere

o maturar laggiù in mia assenza:

timor che soffi un qualche vento infido,

sì da farmi trovar poi troppo giuste

certe mie apprensioni.

Senza dire che l’esser già rimasto

presso di voi per così lungo tempo

può aver stancato le vostre maestà.

LEONTE - (Ridendo) Siamo induriti a sopportar ben altro,

fratello mio!

POLISSENE - Ma più non posso stare.

LEONTE - Un’altra settimana?

POLISSENE - No, domani.

LEONTE - Allora dividiamo per metà

la settimana, e non ammetto repliche!

POLISSENE - Non pressarmi così, te ne scongiuro.

Nessuna lingua al mondo

più della tua varrebbe a persuadermi,

ed anche adesso sarebbe così

se a suffragar codesta tua richiesta

ci fosse una real necessità,

pur in contrasto con il mio interesse.

Ma gli affari mi chiamano di forza

in patria, e trattenermene lontano

sarebbe infliggere un castigo a me,

sia pure per amore,

ed a voi due un peso ed un fastidio.

E dunque addio, carissimo fratello.

LEONTE - (A Ermione)

E la regina ha la lingua legata?

Su, parlate anche voi!

ERMIONE - Ho creduto finora di star zitta,

Sire, sperando che riusciste voi

a strappargli dall’animo il proposito

di partire domani; ma, signore,

voi lo pregate con troppa freddezza:

dovete dirgli che siete sicuro

che nella sua Boemia tutto è in ordine,

e che avete di ciò conferma certa

da informazioni giuntevi ancor ieri.

Ditegli questo, e lo avrete scalzato

della più valida sua resistenza.

LEONTE - Ben detto, Ermione, giusto!

ERMIONE - Se dicesse d’avere il desiderio

di tornare per rivedere il figlio,

sarebbe già una solida ragione.

Lo dica, e noi lo lasceremo andare;

lo giuri, e non sarà chi lo trattenga,

anzi lo cacceremo a conocchiate.(8)

(A Polissene)

E nondimeno m’avventurerò

a chieder la regal vostra presenza

in prestito per altri sette giorni.

Quando sarete voi ad ospitare

nella vostra Boemia il mio signore,

io vi prometto di dargli licenza

di trattenersi ancora un mese in più

del termine fissato;

(A Leonte) E voi, mio caro,

sapete ch’io non sgarro d’un secondo

nell’amore che deve al suo signore

una moglie devota...(9)

(A Polissene)

Resterete?

POLISSENE - No, signora.

ERMIONE - Davvero, non volete?

POLISSENE - Non posso, per davvero...

ERMIONE - “Per davvero”:

mi contrariate con pretesti fiacchi;

ma se pur mi faceste giuramenti

da scardinare le stelle dall’orbite,

vi direi sempre: “Sire, non si parte!”

E voi non partirete, “per davvero”:

e il “per davvero” d’una gentildonna

non è da meno di quello d’un uomo.

Malgrado ciò, volete proprio andare?

Volete proprio vedermi costretta

a trattenervi come prigioniero

invece che come ospite gradito,

così che alla partenza

dovrete rimborsarci la diaria,

risparmiando così di ringraziarci?(10)

Che dite allora? Prigioniero? Ospite?

Col vostro perentorio “per davvero”

sarete l’uno o l’altro. A voi di scegliere.

POLISSENE - Ospite allora, gentile signora.

Restare come vostro prigioniero

presupporrebbe ch’io v’avessi fatto

chi sa qual torto: cosa meno facile

a me da fare che a voi da punire.

ERMIONE - Non sarò dunque vostra carceriera,

ma gentile anfitrione... Avanti, su,

che vo’ sentirmi raccontar da voi

le marachelle che, da ragazzini,

combinavate con il mio signore.

Eravate due bei monelli, eh?

POLISSENE - Eh, due monelli, amabile regina,

per i quali non esisteva il “dopo”,

ogni domani essendo uguale all’oggi,

convinti di restar sempre ragazzi.

ERMIONE - E chi era il più birba: il mio signore?

POLISSENE - Eravamo, a dir vero, mia signora,

come due agnellini nati insieme;

non facevamo che ruzzare al sole

belandoci innocenza ad innocenza,

del tutto ignari di che cosa è male,

incapaci perfino di sognare

che fosse al mondo chi lo conoscesse.

Se avessimo continuato a vivere

quella vita e la nostra fanciullezza

non si fosse venuta irrobustendo,

via via cogli anni d’un più forte sangue,

avremmo ben potuto dichiararci

“senza colpa” perfino avanti al cielo,

quasi che fosse stata cancellata

in entrambi la colpa originale.(11)

ERMIONE - Deduciamo da ciò che nel peccato

siete caduti dopo. Dico bene?

POLISSENE - Oh, sì, mia colendissima signora,

le tentazioni sono venute dopo;

ché al tempo di quei nostri giorni implumi

mia moglie era soltanto una bambina,

e la vostra preziosa maestà

non aveva incrociato ancora l’occhio

del giovane compagno mio di giochi.

ERMIONE - Dio vi perdoni! Che non si concluda

con questo, salvognuno,

che la regina vostra moglie ed io

saremmo due demòni tentatori.

Ma sorvoliamo.(12) Siam pronte, comunque,

a rispondere entrambe dei peccati

che vi possiamo aver fatto commettere,

a patto che con noi faceste il primo

e con noi seguitaste a consumarne,

senza mai scivolare con un’altra.

LEONTE - Allora, vinto?(13)

ERMIONE - Resta, mio signore.

LEONTE - Con me, non ci sarebbe stato verso.

Ermione, mia diletta,

non hai parlato mai a miglior fine!

ERMIONE - Davvero, mai?

LEONTE - Sì, tranne un’altra volta.

ERMIONE - Ah, sì? Due volte allora avrei parlato

a buon fine? E qual era l’altra volta?

Ditemelo, vi prego.

Rimpinzateci, uomini, di lodi

da ingrassarci come oche da cortile!(14)

Ogni atto che a buon fine sia compiuto

e si lasci morire senza lode

ne soffoca sul nascere atri mille

cui quella lode poteva dar vita.(15)

Le lodi sono la nostra mercede:

voi potete, con un sommesso bacio,

farci fare al galoppo mille leghe,

e sì e no cento yarde con lo sprone.

Ma ritorniamo al punto:

la mia seconda azione meritoria

è stata dunque questa

d’aver convinto lui a rimanere:

Qual è stata la prima?

Ché questa d’oggi, se non v’ho frainteso,

avrebbe una sorella nata prima.

Vorrei tanto poterla chiamar “Grazia”.

Solo una volta, dunque, prima d’oggi,

ho parlato a buon fine. E quando è stato?

Parlate, su, mi struggo di saperlo.

LEONTE - Fu quando, dopo che tre acerbi mesi

furon trascorsi inaciditi a morte,

io riuscii ad ottener da te

che mi porgessi la tua bianca mano

e in essa suggellando l’amor mio,

mi dicessi: “Io sono tua per sempre”.

ERMIONE - Ah, quella sì, può battezzarsi “Grazia”!

(A Polissene)

Ecco, dunque, vedete?

Ho parlato due volte a buon effetto:

con la prima mi sono guadagnato

un marito regale per la vita,

con l’altra il permanere d’un amico

per qualche tempo.

(Gli dà la mano e s’allontana con lui)

LEONTE - (Tra sé, osservandoli mentre s’allontanano)

Eh, quanto calore!...

Troppo... A mischiare troppo l’amicizia

si finisce col mescolare il sangue...

Ho il tremor cordis.(16)Sento il cuore in petto

che mi balla, e non già di gioia, no,

sicuramente... Certe confidenze

possono ben mostrarsi a viso aperto,

attingendo una lor disinvoltura

dalla cordialità, dalla bontà,

dalla fertilità del sentimento,

e bene convenirsi a chi le mostra.

Questo è possibile, lo posso ammettere.

Ma palpeggiarsi il cavo della mano,

e strizzarsi le dita, come fanno,

scambiandosi studiati sorrisetti

quasi a volersi specchiar l’un nell’altro,

e trar sospiri da cervo morente...(17)

Ah, questo genere di confidenze

non garba né al mio cuore, né al mio ciglio!(18)

Mamilio, tu sei il mio ragazzo, vero?

MAMILIO - Certo, mio buon signore.

LEONTE - E come no! Ma bravo il mio galletto!

Ehi, là, ci siamo sporcato il nasino?

(Chinandosi a pulire il naso al bambino)

È una copia del mio, dicono tutti.

Noi, capitano, s’ha da star smacchiati...

voglio dire “puliti”, capitano.

Macchiato è il bue, la vacca, il vitellino,

e son tutti cornuti...(19)

(Tra sé, sempre osservando Ermione e Polissene)

E lei non cessa d’arpeggiar le dita

sopra il palmo di lui...(20)

(A Mamilio)

Eh, vitellino?...

Non sei tu il mio dolce vitellino?

MAMILIO - Sì, se così vi piace, mio signore.

LEONTE - Per somigliare proprio tutto a me,

ti manca certo la fronte rocciosa

e la ramaglia che ci cresce sopra;

eppure dicono che siamo identici,

somiglianti come due gusci d’uovo.

Così, almeno, dicono le donne,

che però sono facili a dir tutto;

ma fossero pur esse più insincere

degli abiti ritinti a nero-lutto,

più del vento e dell’acqua,(21) fosser false

come desideran che siano i dadi

coloro che non pongono alcun limite

frammezzo a quel ch’è loro e quel ch’è nostro,

ebbene rimarrebbe sempre vero

che questo bimbo rassomiglia a me.

Vieni, signor paggetto,

guardami in faccia con quegli occhi azzurri,

mio dolce bricconcello, anima mia,

fetta della mia carne... E può tua madre...

È mai possibile?... Ahimè, lascivia,

il tuo pugnale imbrocca sempre il centro!

Tu fai possibile l’inverosimile,

partecipi coi sogni...(22) È mai possibile?...

Tu collabori con il non-reale

anche al di là dei limiti del lecito...

Ed io che scopro qui questa realtà

sento che mi s’intorbida il cervello

e la fronte si fa scabra e callosa.(23)

(Polissene ed Ermione, che hanno osservato da lontano Leonte, si sono accorti del suo improvviso turbamento)

POLISSENE - Che avrà Sicilia?

ERMIONE - Pare alquanto scosso.

POLISSENE - (Avvicinandosi)

Beh, signor mio, che c’è? Che ti succede?

Ti senti bene, mio grande fratello?

ERMIONE - Che fronte corrucciata, mio signore!

Siete in collera?

LEONTE - No, in fede mia.

Però come talvolta la natura

può tradire la sua frivolità,(24)

la sua mollezza, e diventar trastullo

per i cuori più duri!

Guardando i lineamenti di mio figlio,

ho avuto l’impressione come quando

tornassi indietro di ventitré anni

e mi vedessi ancora come lui:

nel mio giubbetto di velluto verde,

senza braghe, col pugnaletto al fianco

ben protetto dalla sua brava fodera

affinché non mordesse il padroncino

e riuscisse a lui pericoloso

come son spesso simili ornamenti...

Come allora ero simile - ho pensato -

a questo nocciolino, a questo frugolo,

a questo nostro gentiluomo in erba.

(A Mamilio)

Onesto amico, quando sarai grande

accetterai le uova per moneta?(25)

MAMILIO - Io? No, signore, a costo di rissarmi.(26)

LEONTE - Rissarti? Beh, t’assista la fortuna!

(A Polissene)

Fratello sei così preso anche tu

del tuo giovane principe

com’io, vedi, son di questo mio?

POLISSENE - È lui, signore, quando sono in casa,

la mia occupazione, la mia gioia,

il mio oggetto: ora amico giurato,

ed un minuto dopo mio nemico;

egli è il mio parassita, il mio soldato,

il mio primo ministro, insomma, tutto.

Riesce a rendermi un giorno di luglio

meno lungo d’un giorno di dicembre,

e con l’estro della sua fanciullezza

mi solleva da tutti quei pensieri

che mi farebbero indurire il sangue.

LEONTE - E lo stesso è per me questo birbante.

Io e lui ora andiamo a fare un giro,

e vi lasciamo ai vostri lenti passi.(27)

Ermione, mostra quanto tieni a me

prodigandoti pel fratello nostro:

che possa riuscirgli il meno caro

quanto in Sicilia v’è di più prezioso.

Dopo di te e di questo birboncello,

è lui che sul mio cuore ha più diritti.

ERMIONE - Se doveste cercarci,

siamo in giardino. Vi attendiamo là?

LEONTE - Fate pure secondo che vi aggrada;

se rimanete sotto il nostro cielo,

ovunque siate, vi ritroveremo.

(Tra sé)

Vi sto gettando l’esca, pesciolini,

e non ve n’accorgete... Andate, andate...

e lei gli porge il becco e l’imbeccata,

e s’arma dell’audacia della moglie

agli occhi del marito compiacente!

(Escono Polissene, Ermione e seguito)

Andati... Biforcuto, con due corna

spesse un pollice, infisse nelle testa,

sulle orecchie, giù giù, fino al ginocchio!(28)

Va’ a giocare, ragazzo, va’ a giocare.

Tua madre pure gioca, e gioco anch’io,

ma recito una parte così ingrata

che finirà per condurmi alla tomba

a suon di fischi; e scherno e irrisione

saranno allor la mia campana a morto.

Cornuti ce ne sono stati al mondo

prima d’ora (o mi sbaglio?), e c’è più d’uno

anche in questo momento che vi parlo(29)

che si tien sottobraccio la sua sposa

lontan le mille miglia dal pensare

che quella, lui assente, è scivolata

sì frammezzo alla griglia del suo stagno

e il caro suo vicino, Ser Sorriso,

è venuto a pescar nel suo vivaio.(30)

C’è tuttavia da consolarsi in questo,

pensando a quanti uomini

avranno in casa di simili chiuse

che sono state, lor malgrado, aperte

come la mia. Dovesser disperarsi

tutti quelli che han mogli fuorviate,

un buon decimo dell’umanità

si dovrebbe impiccare.

È un male irrimediabile, credetemi,

un pianeta lascivo

che quando è nella fase di ascendenza

estende il proprio influsso dappertutto,

da est a ovest, da nord a sud;

non esistono chiuse per il ventre:

il nemico vi può entrare e uscire

armi e bagagli. Ad essere infettati

da questo male son molte migliaia,

e non lo sanno...

(A Mamilio)

Che dici, ragazzo?(31)

MAMILIO - Somiglio a voi, io, dicono gli altri.

LEONTE - Già, questa è sempre una consolazione...

(S’accorge della presenza di Camillo)

Oh, Camillo, sei qui?

CAMILLO - Sì, mio signore.

LEONTE - Va’ a giocare, Mamilio, va’, da bravo...(32)

Camillo, allora questo gran sovrano

resta con noi ancor per qualche tempo.

CAMILLO - Ce n’è voluto, però, mio signore,

perché l’àncora sua tenesse il fondo.

Voi a gettarla, e quella a tornar su.

LEONTE - Ah, l’hai notato, eh?

CAMILLO - Alle vostre preghiere, certamente,

non sarebbe rimasto: i suoi affari

erano, protestava, più importanti.

LEONTE - Ah, te ne sei accorto...

(Tra sé)

Mi par già di sentirli tutti quanti

ridermi dietro e bisbigliar tra loro:

“Sicilia è un... eccetera, eccetera...”

E la cosa dev’esser bene avanti,

s’io sono l’ultimo a subodorarla.

(Forte)

Perché è rimasto allora, tu che dici?

CAMILLO - Per corrispondere alle insistenze

della brava regina.

LEONTE - “Brava”, sì,

merito suo, non c’è dubbio; ma “brava”,

per come van le cose, non direi...

Oltre a te, l’ha notato qualcun altro?(33)

Ché la tua mente è piuttosto spugnosa,

assorbe più delle comuni zucche.

L’hanno notato solo i più avvertiti,

le teste, dico, fuori del comune,

e son restate le più basse cieche

alla faccenda? Di’!

CAMILLO - Quale faccenda?

I più l’hanno capito, così credo,

che il Boemia si fermerà più a lungo.

LEONTE - Ah!

CAMILLO - Sì, che si ferma ancor per qualche tempo.

LEONTE - Già, ma per qual motivo?

CAMILLO - Per soddisfare la vostra maestà

e i desideri della graziosissima

nostra signora.

LEONTE - “Soddisfare”, eh

i desideri della tua regina...

Soddisfare... Basta così, Camillo.

Camillo, tu sei stato sempre a parte

di tutto quanto m’è vicino al cuore,

come dei più segreti miei pensieri,

nei quali tu, come un buon sacerdote,

sei penetrato a far mondo il mio petto;

ed ogni volta son da te partito

contrito e migliorato peccatore.

M’accorgo ora d’essermi ingannato

sulla tua apparente integrità.

CAMILLO - Che dite, mio signore? Dio non voglia!

LEONTE - Mi spiego meglio: tu non sei onesto.

O, se pure sei incline all’onestà,

tu le recidi i tendini alle gambe

perché non corra in direzione giusta,

e mi costringi a far conto di te

come, sì, d’un fedele servitore,

ma negligente; oppure d’uno stolto

che vede svolgersi sotto i suoi occhi

una partita giocata allo spasimo

sopra una posta quanto mai preziosa,

e si crede che sia tutto uno scherzo.

CAMILLO - Mio grazioso signore, può ben essere

ch’io possa esservi apparso negligente,

stolto ed anche pauroso: nessun uomo

tanto immune può dirsi da difetti

di questo genere, che prima o poi,

negligenza, stoltezza, timidezza

non abbiano a manifestarsi in lui

nel disbrigo dei quotidiani affari.

In quelli riservati vostri, Sire,

può esser forse stata mia stoltezza

negliger di proposito qualcosa;

e negligenza fu, da parte mia,

apparire volutamente stolto,

non soppesandone bene gli effetti;

fu timidezza esitare a far cosa

sul cui lecito avevo qualche dubbio,

anche quando l’urgenza del momento

gridava contro la minima remora:

è una paura questa, mio signore,

da cui son contagiati anche i più saggi;

comunque sono tutte debolezze

da cui non fu mai immune l’onestà.

Ma, Vostra Grazia, siatemi più esplicito,

ve ne scongiuro, ch’io possa scoprire

il vero volto della mia mancanza:

ché non è mia, se non la riconosco.

LEONTE - Ma non hai visto - e devi averlo visto

se non hai dentro gli occhi un cristallino

coriaceo più del corno d’un caprone;

non hai udito - e devi averlo udito,

perché la chiacchiera non resta muta

davanti a un tale palese spettacolo;

non hai pensato - ché non sa pensare

col suo cervello chi non lo pensasse -,

che mia moglie è malfida?

E se per tale tu la riconosci

- o negami, se no, di possedere

tanto d’occhi, d’orecchi e comprendonio -,

devi dir che mia moglie è una baldracca,(34)

e si merita il turpe appellativo

che s’affibbia a qualunque filatrice(35)

che si marita a frittata già fatta.

Di’ ch’è così, e trovaci una scusa.

CAMILLO - Se a parlarmi così della regina

non foste voi, signore,

a sentirla oltraggiata in questo modo

non resterei inerte.

Ch’io sia dannato se v’ho mai sentito

dir cosa tanto di voi meno degna,

parole che soltanto a riferirle

sarebbe far peccato ancor più nero

delle colpe di cui voi l’accusate.

LEONTE - È nulla, allora, per te, bisbigliarsi,

poggiarsi l’uno all’altra guancia a guancia,

sfiorarsi naso a naso,

baciarsi sulla bocca a labbra aperte?

Interrompere il riso in un sospiro

(segno infallibile d’un’onestà

pronta a spezzarsi), accavallarsi i piedi,

andarsi nascondendo pei cantoni,

desiderar d’accelerare il tempo

sì che l’ore diventino minuti,(36)

che mezzodì diventi mezzanotte,

e che gli occhi di tutti, salvo i loro,

siano accecati dalle cataratte

così da non veder la lor sconcezza?

È nulla tutto questo?

Allora è nulla il mondo e tutto in esso,

allora è nulla il cielo che ci copre,

nulla il Boemia, nulla anche mia moglie!

E nulla sono questi stessi nulla,

se tutto questo è nulla!

CAMILLO - Mio signore,

voi dovreste pensare a liberarvi

da codeste morbose fantasie,

e subito, ché son pericolose.

LEONTE - Ma son fondate. Negalo, se puoi.

CAMILLO - Lo nego, sì, signore: non lo sono.

LEONTE - Tu menti per la gola! Sì, tu menti!

Io ti dico, Camillo, che tu menti!

E t’aborro, e ti giudico un villano

dei più volgari, uno schiavo insensato,

se non un tentennante opportunista

che vede il bene a braccetto col male

ed è proclive all’uno come all’altro:

avesse il fegato infetto mia moglie

così come ha contaminata l’anima,(37)

non camperebbe un volger di clessidra.

CAMILLO - Chi è che la contamina?

LEONTE - Boemia!

Colui che adesso se la sta portando

appesa al collo come una medaglia.

Se avessi intorno a me uomini fidi

che avesser tanto d’occhi per vedere

non solo ciò che a loro fa profitto

per il loro interesse personale,

ma tutto ciò che offende l’onor mio,

s’adopererebbero a che sia disfatto

quel che più oltre non dev’essere fatto.(38)

E tu stesso, che a lei fai da coppiere,

tu, ch’io dal basso ho sollevato in alto

ed insediato a dignitose cariche,

tu che puoi ben veder, limpidamente

come la terra il cielo e il ciel la terra,

tutta l’ambascia che mi brucia dentro,

potresti ben pensare, dico io,

a preparare una coppa drogata

che al mio nemico procuri una smorfia

da restargli in eterno sulla bocca,(39)

e a me ridoni un sorso di salute.

CAMILLO - Potrei farlo, sì, certo, mio signore,

e non con un veleno micidiale,

ma con un farmaco a più lento effetto,

che non operi subitaneamente.

Ma non riesco a credere, signore,

che nella mia venerata padrona

(donna di sì sovrana castità)

si sia prodotta una tal devianza...

Innamorata d’un altro...(40)

LEONTE - E non crederlo!

Tienti pure il tuo dubbio, e va’ all’inferno!

Mi reputi sì stolto e dissennato

da impormi da me stesso un tal tormento?

E da inquinare così la purezza

ed il candore delle mie lenzuola

(che, intemerate, danno pace al sonno,

ma macchiate son tutte pruni e spine,

ortiche, pungiglioni di vespacce)?

E da gettare scandalo, così,

sovra il sangue del principe, mio figlio,

(ch’io credo mio, ed amo come mio),

senza aver maturato attentamente

un tal agire? Potrei fare questo?

Si può impazzire fino a questo punto?

CAMILLO - Debbo credervi, sire, ed io vi credo;

vedrò di sbarazzarvi del Boemia:

a patto che, tolto di mezzo lui,

vostra altezza riprenda la regina

vostra com’era prima,

non fosse che riguardo a vostro figlio

e per tappar le bocche maldicenti

in corti e regni amici ed alleati.

LEONTE - Avevo già da me stesso deciso

di fare questo che tu mi consigli:

non gettare l’infamia sul suo onore;

non lo farò.

CAMILLO - Allora, mio signore,

andate, e con l’aperto e chiaro volto

di cui si veste a festa l’amicizia,

intrattenetevi con la regina

ed il Boemia. Io sono il suo coppiere:

se avrà da me bevanda salutare,

non contatemi più tra i vostri servi.

LEONTE - Basta, allora. Fa’ questo,

e ti sarai acquistata per sempre

la metà del mio cuore; non lo fare,

e avrai spaccato a metà quello tuo.

CAMILLO - Va bene, mio signore, lo farò.

LEONTE - Ed io vorrò seguire il tuo consiglio:

farò con loro il viso dell’amico.

(Esce)

CAMILLO - Oh, povera signora!... Già, ma io

in quale situazione ora mi trovo?

Mi tocca avvelenare il buon Polissene

non avendo, per farlo, altra ragione

che quella d’obbedire ad un padrone,

ad uno che in rivolta con se stesso,

vuol che lo siano tutti intorno a lui.

Quest’azione mi può far progredire;

ma quando pur trovassi mille esempi

di gente ch’è riuscita a far fortuna

assassinando dei re consacrati,

non lo farei; e poi che riportati

non ve n’è né su bronzo, né su pietra

o pergamena, da un’azione simile

la stessa scelleraggine si astenga.

Dovrò comunque abbandonar la corte:

perché farlo o non farlo, sono certo

d’andar incontro a sicura rovina.

Mia buona stella, affàcciati a regnare

sulle mie sorti. Ma ecco il Boema.

Entra POLISSENE

POLISSENE - (Tra sé)

È strano: ho l’impressione

che il mio favore qui vada scemando.

(Vede Camillo)

Non mi saluta?... Buon giorno, Camillo!

CAMILLO - Riverisco, molto regal signore.

POLISSENE - Il re ha una tal cera,

che sembra come se avesse perduto

una provincia o una terra del regno

a lui più cara della stessa vita.

L’ho incontrato e gli ho porto il mio saluto,

ma ho visto che, con gli occhi volti altrove

e con le labbra strette a gran disprezzo

mi evitava, lasciandomi a pensare

che cosa possa mai covargli dentro

per cambiare così di punto in bianco

il suo atteggiamento ai miei riguardi.

CAMILLO - Io non oso saperlo, monsignore.

POLISSENE - Come sarebbe a dire “non osate”?

Sapete e non osate?... Siate chiaro.

Non parlate coi “circa” e i “chi lo sa”;

ché, per quello che siete voi qui dentro,

non mi potete dir di non sapere,

né dir che non osate. Il vostro aspetto

è già per me uno specchio, buon Camillo,

che riflette, alterato come il vostro,

l’aspetto mio; il che mi fa pensare,

vedendomi così mutato io stesso,

esser proprio io la vera causa

di tanto mutamento.

CAMILLO - Mio signore,

c’è un male qui che sconvolge la vita

a qualcuno di noi; non ne so il nome,

ma siete voi che l’avete portato

pur trovandovi in ottima salute.

POLISSENE - L’avrei portato io? Che storia è questa?

Non mi verrete a dire,

che ho lo sguardo del basilisco, io.(41)

Ho guardato migliaia di persone,

che tutte han ricevuto, dal mio sguardo,

miglior sorte, e nessuna è stata uccisa.

Camillo, so che siete un gentiluomo

provvisto di quei doni di cultura

che adornano la nobiltà di nascita

non meno che la dignità del nome

per li rami trasmessoci dagli avi:

vi scongiuro, se mai sappiate cosa

di cui convien ch’io abbia conoscenza,

non tenetela prigioniera in petto

facendo finta di non saper niente.(42)

CAMILLO - Non vi posso rispondere.

POLISSENE - Dovete.

Un male ch’io avrei portato qui,

pur stando bene? Voglio una risposta!

Tu m’intendi, mio buon Camillo, vero?

In nome dei reciproci doveri

tra uomini d’onore quali siamo,

non ultimo dei quali

è rispondere a questa mia richiesta,

svelami quale insidioso malanno

tu sospetti mi stia strisciando contro;

s’esso è lontano, e quanto, se è vicino,

quanto è vicino, come prevenirlo;

se no, in qual modo meglio sopportarlo.

CAMILLO - Sire, ve lo dirò:

dacché ne son richiesto sul mio onore,

e da uno che reputo onorevole.

Dunque ascoltate bene il mio consiglio,

che dev’esser seguito senza indugio

tosto ch’io l’abbia appena profferito:

o sia a voi che a me

non resterà che piangerci perduti

sin da questo momento, e buona notte.

POLISSENE - Avanti, su, parlate!

CAMILLO - Ho avuto l’ordine di assassinarvi.

POLISSENE - Da chi?

CAMILLO - Dal re in persona.

POLISSENE - E perché mai?

CAMILLO - Egli crede, anzi giura in piena fede,

come l’avesse visto coi suoi occhi

o addirittura fosse stato lui

uno strumento per forzarvi a tanto,

che vi siete accostato in modo illecito

alla regina.

POLISSENE - Oh, se questo è vero,

che la più nobil parte del mio sangue

si riduca a una putrida poltiglia,

e s’accoppi in eterno il nome mio

con quello di colui che si macchiò

di tradire il “Migliore”!(43)

Si tramuti la mia fragrante fama

in un tale fetore da colpire

la più dura narice, ovunque io vada;

e sia fuggito, che dico, aborrito,

ogni contatto con la mia persona

più della più schifosa pestilenza

di cui resti memoria udita o scritta.

CAMILLO - Si può fare qualunque giuramento

su tutti gli astri in cielo e i loro influssi,

per rimuoverlo da un tale idea:

sarebbe come proibire al mare

d’obbedire all’influsso della luna

voler coi giuramenti eliminare,

o scrollare, per quante sian ragioni,

l’edificio di questa sua follia

basato su tal salda convinzione

che durerà finché il suo corpo è in piedi.

POLISSENE - Come è potuto mai prodursi questo?

CAMILLO - Non so, ma di una cosa son convinto:

ch’è più sicuro adesso per noi due

defilarci da ciò che s’è prodotto,

che domandarci come s’è prodotto.

Se volete affidarvi alla lealtà

che sta racchiusa in questa mia carcassa

che porterete con voi come pegno,

fuggiamo via da qui stanotte stessa!

Informerò in segreto il vostro seguito,

e, per diverse porte, a due o a tre,

li farò uscire fuori di città.

In quanto a me, pongo al vostro servizio

tutte le mie fortune, ormai perdute

per me, con questa mia rivelazione;

Non lasciatevi prender da incertezze,

ché sull’onore dei miei genitori,

quel che v’ho detto è tutta verità;

e, se voleste ancor frapporre indugio

in cerca d’altre prove, io me n’andrò;

e voi starete qui, non più sicuro

d’un condannato a morte dalla voce

d’un re che la sua morte ha già deciso.

POLISSENE - Io ti credo. Gli ho letto in faccia il cuore.

Qua la mano, sii tu il mio pilota,

il tuo posto sarà sempre al mio fianco.

Le mie navi son pronte per salpare,

e la mia gente aspetta da due giorni

la mia partenza. Questa gelosia

ha per oggetto una creatura rara;

e dev’essere tanto più bruciante

per quanto ell’è preziosa;

tanto più materiata di violenza

per quanto egli è potente;

e tanto più crudele e più spietata

sarà la sua vendetta,

ch’ei si crede così disonorato

da chi si professò sempre suo amico.

Mi sento come all’ombra del terrore:

una pronta partenza

dia scampo a me e conforto alla regina

oggetto cieco della sua follia,

ma indenne dal suo torbido sospetto.(44)

Camillo, andiamo. Se sarai riuscito

a trarre salva di qui la mia vita,

ti sarai guadagnato il mio rispetto

come fossi mio padre. Via, al sicuro!

CAMILLO - Io dispongo, in ragione del mio grado,

delle chiavi di tutte le posterle

della città. Voglia l’Altezza vostra

profittar del momento.(45) Andiamo, sire.

(Escono)


ATTO SECONDO

SCENA I

Sicilia, il palazzo di Leonte.

Entra ERMIONE con MAMILIO e DAME del seguito

ERMIONE - (Alle Dame)

Prendetelo con voi, questo ragazzo:

M’indispone, non lo resisto più.

PRIMA DAMA - Venite, mio prezioso signorino

Mi volete compagna ai vostri giochi?

MAMILIO - No, con voi no.

PRIMA DAMA - Perché, dolce signore?

MAMILIO - Voi non fate che darmi dei bacetti

e mi parlate come a un bamboccetto

qual ero prima.

(Alla seconda dama)

Preferisco voi.

SECONDA DAMA - E per quale ragione, mio signore?

MAMILIO - Oh, non perché le vostre sopracciglia

son più nere; per quanto quelle nere

stanno meglio alle donne, come dicono,

a patto che non siano troppo folte,

ma fatte a semicerchio, a mezzaluna,

come se disegnate con la penna.

SECONDA DAMA - Sentitelo! Chi v’ha insegnato questo?

MAMILIO - L’ho imparato dal viso delle donne.

Ditemi un po’, di che colore sono

le vostre sopracciglia?

PRIMA DAMA - Blu, signore.

MAMILIO - No, voi scherzate. Il naso di una dama

ho visto blu, ma non le sopracciglia.

PRIMA DAMA - Sentite: la regina vostra madre

si va facendo sempre più rotonda;

uno di questi giorni avremo qui

un nuovo principino da accudire,

e allora per giocare insieme a noi

quando vi garberà,

saremo noi a dirvi “sì” o “no”.(46)

SECONDA DAMA - S’è ingrossata davvero, ultimamente:

un palloncino, Dio la benedica!

Possa tutto riuscirle per il meglio!

ERMIONE - Che vi dite di bello voi, costì?

(A Mamilio)

Vieni qua, signorino; la tua mamma

è di nuovo con te. Siediti qui,

accanto a me, e raccontami una favola.

MAMILIO - Allegra o triste? Come la volete?

ERMIONE - Allegra, allegra! Più allegra che puoi:

MAMILIO - Per l’inverno, però, meglio una triste.(47)

Ne so una di spiriti e folletti.

ERMIONE - Sentiamo allora quella, signorino

Su, vieni, siediti e fa’ del tuo meglio

per spaventami con questi tuoi spiriti,

ché in ciò tu sei davvero molto bravo...

MAMILIO - (Senza sedere)

C’era una volta un uomo...

ERMIONE - No, devi star seduto.

(Mamilio si siede) Avanti adesso.

MAMILIO - ... che abitava vicino a un cimitero...

(Ve la racconto piano, sottovoce,

così quei grilli non la sentiranno...)

ERMIONE - Allora vieni, dimmela all’orecchio.

Entrano LEONTE, ANTIGONO e alcuni NOBILI

LEONTE - (Ad un Nobile)

L’avete visto là? Con la sua scorta?

E Camillo con lui?

UN NOBILE - Sì, mio signore.

Li ho visti dietro il boschetto dei pini.

Non ho mai visto uomini più ratti

a divorar la strada. Li ho seguiti

così con l’occhio fino alle lor navi.

LEONTE - Quale conferma al mio giusto giudizio!

Com’era tutto vero il mio sospetto!

Ahimè, poterne rimanere ignaro!

Maledizione a questa mia certezza!

Uno può avere un ragno velenoso

nella tazza, annegato, e trangugiarlo,

e poi andarsene in giro tranquillo

senza sentirne danno, perché ignaro

della presenza infetta del veleno;(48)

se poi, però, lo schifoso ingrediente

gli vien messo sott’occhio, il disgraziato

si sentirà squassar la gola e i fianchi

dai più violenti conati di vomito.

Io l’ho bevuto, il ragno, ed anche visto.

In ciò Camillo gli ha tenuto mano,

sicuramente: è stato il suo mezzano:(49)

contro di me, contro la mia corona,

c’è una cospirazione. I miei sospetti

si dimostrano adesso tutti giusti.

Quell’infido furfante di Camillo

era sicuramente già al suo soldo

prima ch’io l’assumessi al mio servizio:

gli ha rivelato lui il mio disegno...

E così io rimango una cosuccia,

un giocattolo nelle loro mani,

con cui spassarsi a loro piacimento.

Come han potuto tanto facilmente

farsi aprir le posterle?

UN NOBILE - Grazie alla grande sua autorità,

che in molti casi, e per ordine vostro,

è prevalsa non meno che così.

LEONTE - Lo so, purtroppo...

(A Ermione, strappandole di mano Mamilio)

Dammi qua il ragazzo!

Meno male che non sei stata tu

ad allattarlo, ché se qualche tratto

egli ha di me, ha troppo del tuo sangue.

ERMIONE - Che cos’è, uno scherzo?

LEONTE - (Alle dame)

Conducetelo via! Allontanatelo!

Il ragazzo non deve star con lei:

si trastulli con chi l’ha messa incinta!

Perché è stato Polissene

che t’ha fatta gonfiare in questo modo!

(Mamilio è condotto via)

ERMIONE - Mi basterebbe dirvi: “Non è vero”,

e son sicura che mi credereste,

per quanto in vena di contraddizione.

LEONTE - (Ai presenti)

Miei signori, guardatela,

osservatela bene, siate pronti

a sussurrare appena tra di voi:

“Che bella donna!”, e aggiungerete subito,

in lealtà di cuore: “Che peccato

ch’ella non sia virtuosa ed onorata!”;

siate pronti a lodar queste sue forme,

d’alta lode sicuramente degne,

e subito sarà chi farà spallucce

tra di voi, e chi “uhm” e chi “eh”,

questi piccoli marchi d’ignominia

che usa la calunnia... Oh, no, mi sbaglio,

che usa l’indulgenza: la calunnia

marchia d’infamia la stessa virtù...

Insomma, avrete appena detto: “È bella”

che quell’alzar di spalle, e gli “hum” e gli “eh”

s’insinueranno in mezzo, prima ancora

che abbiate fatto in tempo a dire: “È onesta”.

Perché, lo sappian tutti,

da chi ha maggior cagione di dolersene,

questa donna è un’adultera!

ERMIONE - Fosse un ribaldo ad affermare questo,

il più incallito ribaldo del mondo,

sarebbe, sol per questo, più ribaldo;

voi, mio signore, fate solo errore:

mi scambiate per una che non sono.

LEONTE - A scambiare sei stata tu, signora,

Leonte con Polissene, tu... no,

non voglio dare in pubblico tal titolo

ad una del tuo rango,

che poi non abbia la trivialità,

sul mio esempio, a usare tal linguaggio

in tutti i gradi, e ne resti abolita

la distinzione dei comportamenti

tra il principesco ed il volgar plebeo.

Ho detto solamente ch’ella è adultera,

ed ho detto con chi;

ed oltre a questo è rea di tradimento;

e con lei è in combutta anche Camillo:

uno che sa anche ciò che lei stessa

dovrebbe vergognarsi di sapere

insieme al suo luridissimo complice:

ossia ch’è una volgare cambia-letto,(50)

una di quelle a cui il popolino

dà i titoli più sconci; ed in segreto

sapeva già di questa loro fuga.

ERMIONE - No, sull’anima mia, nessuna intesa

con loro, quanto a questo!

Ah, qual rimorso non sarà per voi

l’avermi svergognata ingiustamente

così davanti a tutti!

Appena tutto vi sarà più chiaro,

non vi basterà certo, mio signore,

venirmi a dire “mi sono sbagliato”

per rendermi giustizia.

LEONTE - No, s’io sbaglio

nel valutar le stesse fondamenta

su cui mi baso, il centro della terra

non è grande nemmeno quanto basta

a sostenere in piedi mentre gira

il trottolino d’uno scolaretto.(51)

Conducetela al carcere!

E il primo che si leverà a difenderla

s’accuserà da sé, sol che apra bocca.

ERMIONE - Su di me impera una maligna stella;

devo subire con rassegnazione,

aspettando che il cielo mi riguardi

con più benigno volto.

Signori io non son facile alle lacrime,

come invece è comune pel mio sesso;

e l’assenza d’inutile rugiada

sulla mia guancia potrà inaridire

in voi ogni barlume di pietà;

ma l’ambascia che ho dentro

dell’onor mio ferito brucia troppo

perché possa riuscire ad annegarlo

uno scroscio di pianto. Giudicatemi,

vi supplico, mieinobili signori,

coi pensieri che umana carità

può suggerire a ciascuno di voi.

E si faccia la volontà del re.

LEONTE - (Alle guardie)

Avete udito, o no?

ERMIONE - (Alle dame) M’accompagnate?

(A Leonte)

Voglia l’Altezza vostra consentire

che le mie donne restino con me:

il mio stato, vedete, lo richiede.

Ehilà, sciocchine, che son quelle lacrime?

Non c’è motivo. Quando apprenderete

che la vostra padrona ha meritato

d’esser messa in prigione,

allora sì, struggetevi di lacrime

nel vedermici andare;(52)

ma questa prova(53) in cui sono impegnata

avviene solo a mio maggior onore.(54)

(A Leonte)

Adieu, signore. Mai un solo istante

desiderai di vedervi dispiaciuto;

adesso credo che vi ci vedrò.

(Alle dame)

Mie donne, andiamo, ne avete licenza.

LEONTE - (Alle guardie)

Avanti procedete a quanto ho detto!

(Esce Ermione con le dame, sotto scorta)

UN NOBILE - Oh, Altezza, richiamatela, vi supplico!

ANTIGONO - Siate ben certo, Sire,

di quel che fate: che la vostra legge

non abbia a dimostrarsi una violenza

che colpirebbe tre sovrani insieme:

voi stesso, la regina e vostro figlio.

UN NOBILE - Quanto a lei, mio signore,

mi giocherei la vita, ed anche subito,

se voi me lo chiedete,

che la vostra regina è senza macchia

al cospetto del cielo e vostro... Intendo

per questa cosa di cui l’accusate.

ANTIGONO - S’ella dovesse risultar diversa,

io farò delle stanze di mia moglie

le mie stalle; non uscirò di casa

se non con lei; non presterò più fede

a quel che mi dirà,

se non l’avrò ben veduto e toccato:

perché se è falsa la regina vostra,

non c’è più pollice di donna al mondo,

non c’è oncia di carne femminile

che non sia falsa.

LEONTE - Basta.

UN NOBILE - Buon signore...

ANTIGONO - Per voi parliamo, sire, non per noi:

vi deve aver montato queste ubbie

qualche malciurlatore, che per questo

meriterebbe d’essere dannato.

Mi piacerebbe di saper chi è,

questo balordo, per dargliene quattro!

Se veramente l’onore di lei

fosse incrinato, come voi credete,

io ho tre figlie: la prima di undici,

di nove e cinque la seconda e l’altra:

se quest’accusa risultasse vera,

ne pagherebbero anch’esse lo scotto:

sull’onor mio, le fo castrare tutte,

che non arrivino ai quattordici anni

per empirmi la casa di bastardi.

Sono le mie eredi,

ma preferisco una progenie sterile(55)

prima ch’esse mi possan procreare

una progenie spuria.

LEONTE - Basta! Basta!

Perché voi odoriate questa cosa

col freddo olfatto del naso d’un morto:

ma io la vedo e la tocco con mano,

ecco, così, come mi senti tu;(56)

ed ho davanti agli occhi,

gli strumenti di questa sensazione.(57)

ANTIGONO - Se davver è così come voi dite,(58)

non abbiam più bisogno d’una tomba

per seppellirvi morta l’onestà:

non ne rimane su nemmeno un grano

a raddolcir la faccia

di questo letamaio ch’è la terra.

LEONTE - Che! Mi si nega fede?

UN NOBILE - In questo caso,

che la si neghi a voi anzi che a me,

lo stimo meglio, sire; ed io, per me,

per quanto ciò vi possa dispiacere,(59)

sarei sicuramente più contento

che n’esca franco l’onore di lei,

che non provato il vostro sospettare.

LEONTE - Ma perché mi dilungo a dissertare

con voi di questo, invece di seguire

direttamente il mio possente impulso?

La mia prerogativa di decidere

non ha bisogno del vostro consiglio;

se ho ritenuto di farvene parte,

è per mia natural condiscendenza;

ma se per insipienza vera o finta

voi non potete, oppure non volete

assaporar con me la verità,

sappiate allora che i vostri consigli

non sono più richiesti: la questione

- perdite, benefici, procedure -

è solo, e giustamente, affare mio.

ANTIGONO - E così fosse stata fino ad ora!

Aveste voi serbato questo affare

nel silenzio della coscienza vostra,

senza averlo scoperto in faccia a tutti!

LEONTE - E come avrei potuto farlo, eh?

Tu sei rimbecillito dall’età,

o sei nato imbecille. A far così

ci ha costretti la fuga di Camillo,

l’intimità sfacciata tra quei due,

tanto palese che saltava agli occhi,(60)

sì che solo mancasse, a confermarla,

la flagranza, la prova visuale.

Comunque per aver maggior conferma,

(poiché sarebbe assai pericoloso

agir sotto l’impulso della collera

in un’azione di tanta importanza),

ho già spedito per la sacra Delfo,

a quel tempio d’Apollo, due miei uomini,

Cleomene e Dione,

di cui sapete la grande perizia;

essi ci recheranno dall’oracolo

il responso completo,(61) e sarà questo

a frenare o spronarmi nell’agire.

Ho fatto bene?

UN NOBILE - Ottimamente, Sire.

LEONTE - Pur s’io per me ne sappia a sufficienza,

e non m’occorra saperne di più,

l’oracolo metterà il cuore in pace

(Indica Antigono)

a costui e quant’altri, come lui,

la cui ingenua credulità

non vuol capitolare all’evidenza.

Nel frattempo ci è parsa precauzione

segregar lei dalla nostra persona,

troppo esposta altrimenti al suo disegno

di consumare intero il tradimento,

secondo il compito che le han lasciato

i due che son fuggiti. Ora seguitemi,

dobbiam parlare in pubblico: la cosa

dovrà eccitare gli animi di tutti...

ANTIGONO - (A parte)

Sì, alle risa, per quel ch’io posso credere,

se conoscessero la verità!

(Escono)

SCENA II

Sicilia, davanti alla prigione

Entra PAOLINA, un GENTILUOMO e altri

PAOLINA - Andatemi a chiamare il carceriere,

e fategli sapere chi c’è qui.

(Esce uno del seguito)

Regina nostra, non c’è in tutta Europa

corte che sia per te troppo regale;

che ci fai tu in prigione?

Entra il CARCERIERE

Buon signore, mi conoscete, vero?

CARCERIERE - Vi conosco per una degna dama,

ch’io tengo in molto onore.

PAOLINA - Compiacetevi

allora di condurmi alla regina.

CARCERIERE - Questo, madama, no, non posso farlo.

Ho ordini precisi.

PAOLINA - Quanta briga

per impedire all’onestà e all’onore

di ricevere visite cortesi!

Posso almeno vedere le sue donne?

Una qualsiasi di loro, l’Emilia?

CARCERIERE - Vogliate prima far allontanare,

madama, questi che sono con voi;

ed io vi condurrò fuori l’Emilia.

PAOLINA - Andatela a chiamare, per favore.

(Ai suoi)

Voialtri ritiratevi un momento.

(Escono il gentiluomo e gli altri)

CARCERIERE - In più, signora, sarà necessario

ch’io assista al colloquio.

PAOLINA - Bene, sia.

(Esce il carceriere)

Quanti lambiccamenti

per far macchiato dove non è macchia!

Da superare l’arte dei tintori!

Rientra il CARCERIERE con EMILIA

(A Emilia)

Cara signora, dite, come sta

sua grazia la regina?

EMILIA - Così bene

come può stare una tanto grande

e tanto sventurata:

tra spaventi e dolori che mai donna

come lei delicata ebbe a soffrire,

ha partorito prima del suo tempo.

PAOLINA - Un maschio?

EMILIA - No, una femmina,

una bella creatura, sana e vispa.

La regina ne trae assai conforto.

“Povera prigioniera mia”, le dice,

“innocente è tua madre, come te”.

PAOLINA - Ah, questo è vero, e son pronta a giurarlo!

E siano eternamente maledette

queste nefaste e insane ubbie del re!

Se lo deve sentir gridare in faccia,

e se lo sentirà; sarà affar mio,

è compito più adatto ad una donna.

E se non glielo dico alla maggiore,

mi si gonfi di pustole la lingua

da non esser più buona a far da tromba

a questa rabbia che mi fa paonazza.

Per favore, portate alla regina,

Emilia, i sensi della mia devozione:

se vorrà confidare a me la bimba,

m’assumo io di presentarla al re

e di patrocinare la sua causa

presso di lui con tutte le mie forze.

Chi sa che non lo possa raddolcire

la vista della bimba: l’innocenza

con il silenzio della sua purezza

riesce tante volte a persuadere

dove non sono valse le parole.

EMILIA - Degnissima signora,

son sì palesi in voi pietà ed onore

che non potrà toccar che un lieto fine

a questa vostra generosa impresa.

Non vedo donna di voi meglio adatta

a sì grande incombenza.

Vi piaccia di passar nell’altra stanza:

voglio informar senz’altro la regina

di questa vostra offerta nobilissima,

ch’è quanto ella si martellava in testa

stamane, senza osar di delegare

alcuno a tale delicato incarico,

per tema di riceverne un rifiuto.

PAOLINA - Ditele, Emilia, che userò per questo

quanta lingua mi trovo; e se il parlare

che n’uscirà sarà pari al coraggio

che sento ardermi in petto,

nessuno dubiti della riuscita.

EMILIA - E che il cielo v’assista!

Vado dalla regina; e voi, di grazia,

venite pur di qua, ch’è più vicino.

CARCERIERE - (A Paolina)

Signora, se piacesse alla regina

d’affidarvi l’infante, come dite,

non so che guaio potrà capitarmi,

non avendo alcun ordine al riguardo.

EMILIA - Niente paura, amico: quella bimba,

che è stata fino ad ora prigioniera

nel ventre di sua madre, adesso è uscita

libera ed affrancata dalla legge

e dal processo di madre natura;

essa perciò non ha nessuna parte

nelle furie del re, né alcuna colpa,

ammesso pure che una colpa esista,

nelle deviazioni di sua madre.

CARCERIERE - Questo lo credo anch’io.

PAOLINA - Non dovete temere; sul mio onore,

mi frapporrò tra voi ed il pericolo.

(Escono)

SCENA III

Sicilia, sala nel palazzo di Leonte

Entra LEONTE, solo(62)

LEONTE - Mai riposo, né il giorno né la notte!

Prendersela così, è debolezza,

soltanto debolezza... Se la causa,

o una parte di essa: lei, l’adultera,

più non restasse in vita... perché l’altra,

quel re da lupanare, è ormai lontano,

fuori di tiro e fuor della portata

del mio braccio, al sicuro da ogni insidia...

ma lei posso uncinarla... supponiamo

che possa scomparir, data alle fiamme,

già questo mi potrebbe ridonare

metà del mio riposo...

Entra un SERVO

Che succede?

SERVO - Mio signore...

LEONTE - Il ragazzo, come sta?

SERVO - Ha riposato bene questa notte.

Si spera che il suo male sia passato.

LEONTE - Che nobiltà di figlio!

Ha intuito l’infamia della madre,

e s’è ammalato subito, sfiorito,

illanguidito, quasi avesse preso

e legato a se stesso la vergogna;

ed ha perduto spirito, appetito,

sonno, sfiorendo quasi a vista d’occhio.(63)

(Al servo)

Lasciami solo, va’, torna da lui.

(Esce il servo)

Schifo, schifo... ma non pensiamo a lui,(64)

ché non posso pensare a una vendetta

da quella parte tornerebbe sempre

contro di me. Egli è troppo potente,

di per sé, per vassalli ed alleati;

per ora mi convien lasciarlo stare.

Ma su di lei vendetta posso fare,

e subito. Polissene e Camillo

se la ridono adesso alle mie spalle,

e si prendon trastullo alla mia pena;

non riderebbero, se la mia mano

li raggiungesse: e più non rida lei,

che ho sottomano, tutta in mio potere!

Entra PAOLINA con la bimba in braccio; ANTIGONO è con lei, mentre alcuni nobili e servi cercano di impedirle di entrare

UN NOBILE - Qui non potete entrare.

PAOLINA - Ovvia, signori,

siate buoni, piuttosto assecondatemi!

Temete più per l’ira sua tirannica,

che per la sorte - ahimè! - della regina?...

Un’anima gentile ed innocente

più pura che non sia egli geloso?

ANTIGONO - Non insistere, via.

UN SERVO - Stanotte il re,

non ha potuto dormire, signora,

ed ha ordinato di non far passare

chiunque sia che chieda di vederlo.

PAOLINA - Calmatevi, brav’uomo: io sono qui

proprio per riportare al re il suo sonno.

Son quelli come voi,

che gli vanno strisciando sempre intorno

come tante ombre, e ad ogni suo lamento

fan finta di mandare un gran sospiro;

son quelli come voi

a nutrirgli i motivi dell’insonnia.

Io vengo con parole salutari,

quanto vere ed oneste, a liberarlo

precisamente dallo stato d’animo

che gli impedisce di prendere sonno.

LEONTE - Beh, cos’è questo chiasso?

PAOLINA - Nessun chiasso,

signore, ma un colloquio necessario

su chi chiamare a fare da padrino

ad un battesimo per vostra altezza.

LEONTE - Come! Cacciate via questa insolente!

Antigono, ti avevo pur imposto

di non lasciarla venire da me;

sapevo già che l’avrebbe tentato.

ANTIGONO - Così le avevo detto, mio signore;

che si dovesse astener dal venire,

sotto pena da parte vostra e mia.

LEONTE - E che! Non sei capace di frenarla?

PAOLINA - Da cose disoneste, sì, lo può;

in questa - a meno che, sul vostro esempio,

non voglia mettere anche me in prigione,

perché sprigiono onore(65)- state certo,

non dovrà dirmi lui quel che ho da fare.

ANTIGONO - Ecco, sentite: quando vuol la briglia,

la lascio correre; ma non inciampa.

PAOLINA - Mio buon sovrano, io vengo...

Ah, vogliate ascoltare, vi scongiuro,

una che si professa apertamente

vostra serva leale, vostro medico,

e vostra consigliera devotissima,

pur s’ella rischi d’apparirlo meno,

per recare conforto ai vostri affanni,

di quanti possano apparirvi tali...

Io vengo a voi, dicevo, dalla parte

della buona regina vostra...

LEONTE - Buona!

PAOLINA - Buona regina, sì, buona regina,

mio signore, lo dico e lo ripeto;

e sarei anche pronta, fossi uomo,

magari il più scalcinato dei vostri,

a battermi armi in pugno per provarlo.

LEONTE - Trascinatela fuori!

PAOLINA - (Agli astanti)

Colui che non fa conto dei suoi occhi

mi tocchi lui per primo! Me ne andrò,

ma prima devo eseguire il mio incarico.

(A Leonte)

La vostra buona regina signore,

- che buona ell’è - v’ha dato un figlioletto:

questa...

(Depone la neonata ai piedi di Leonte)

La raccomanda al vostro bene.

LEONTE - Fuori, megera! Via di qui! Alla porta!

Scaltrissima ruffiana scaldaletti!

PAOLINA - No, io non sono quella che voi dite!

Di queste cose sono tanto ignara

quanto voi nel chiamarmi in questo modo;

e son non meno onesta

di quanto siete voi fuor di ragione;

il che, vi garantisco, è sufficiente

ad una donna a passar per onesta,

per come gira il mondo.

LEONTE - (Ai presenti)

Traditori!

Che aspettate a buttarla fuori, eh?

(Ad Antigono)

Ridalle la bastarda, vecchio scemo,

schiavo di femmina, gallo spennato,

che ti lasci buttar giù dalla pertica

da Madama pollastra!(66) Qua, raccoglila,

ti ripeto, e ridalla alla tua strega!

PAOLINA - (Ad Antigono)

Maledizione eterna alle tue mani,

se rimuovi da lì la principessa,

dopo tutti quegli insensati insulti

che le ha gettato addosso.

LEONTE - Eccolo là, ha paura di sua moglie!

PAOLINA - Così ne aveste voi di quella vostra!

Allora sì, non ci sarebbe dubbio

che chiamereste vostri i vostri figli!

LEONTE - Nido di traditori! Tutti quanti!

ANTIGONO - Io non lo sono, per la sacra luce!

PAOLINA - Né lo sono io, né alcuno qui presente,

fuor d’uno, ed è lui stesso,

che il sacro onore suo, della regina,

del suo figliolo pieno di speranze

e di questa creatura appena nata

consegna alla calunnia, il cui pungiglio

è più aguzzo di quello d’una spada;

e si rifiuta - ed è una dannazione

che non si possa, come stan le cose,

imporglielo - di togliersi di dosso

quest’idea fissa, ch’è tanto malsana

quanto salda fu mai o quercia o pietra.

LEONTE - Linguacciuta sgualdrina,

che prima ha smantellato suo marito,

ed or con la sua lingua morde me.(67)

Questa marmocchia non è roba mia:

è frutto di Polissene.

Vattene via con lei, e dalle fuoco

insieme a quella che l’ha partorita.

PAOLINA - È vostra, invece; e vi somiglia tanto,

che si potrebbe dir, col vecchio adagio:

“Il peggio è ch’ella vi somiglia troppo!”

Guardatela, signori: anche se in piccolo,

è la copia perfetta di suo padre:

il naso, gli occhi, le labbra, son suoi;

sue le ciglia, la fronte,

le fossette sul mento e sulla guancia;

il sorriso, la forma della mano,

delle dita, dell’unghie. O tu, Natura,

benigna dea ch’hai voluto formarla

tanto simile a chi l’ha generata,

se tu presiedi, o dea, ad ordinare

sullo stesso modello anche la mente,

non includere fra i colori il giallo,(68)

ch’ella non abbia a sospettare un giorno,

come fa lui adesso, che i suoi figli

non siano del marito.

LEONTE - Immonda strega!

(Ad Antigono)

E tu imbecille, che non sei capace

di far tacere quella sua linguaccia,

meriteresti d’essere impiccato.

ANTIGONO - Fate impiccare tutti quei mariti

che non son capaci di far questo,

e resterete senza manco un suddito!

LEONTE - Insomma basta! Portatela via!

PAOLINA - Non saprebbe far questo

il più indegno e inumano dei sovrani.

LEONTE - Io ti faccio bruciare!(69)

PAOLINA - Non m’importa:

eretico sarà chi accenda il rogo,

non già colei che vi brucerà dentro!

Non vi voglio tacciare da tiranno,

ma questo scellerato trattamento

che usate contro la vostra regina,

senza riuscire a produrre altra prova

che le vostre sbilenche fantasie,

puzza di tirannia lontano un miglio

e vi farà apparire, non che ignobile,

inumano e nefasto innanzi a tutto il mondo.

LEONTE - Per il vostro dovere di vassalli,

via, portatela fuori!

Fossi davvero il tiranno che dice,

a quest’ora dove sarebbe lei?

Se veramente mi sapesse tale,

mai oserebbe chiamarmi così!

Si porti via, ho detto!

PAOLINA - (Ai nobili che la stanno afferrando)

Me ne vado,

senza che mi spingiate tanto, prego.

Badate voi alla vostra bambina,

signore, è vostra. Le conceda Giove

un più benigno spirito per guida.(70)

Via tutte queste mani addosso a me,

voi, che gli siete così compiacenti

in queste assurde e folli sue stranezze.

(Esce, lasciando l’infante ai piedi di Leonte)

LEONTE - Traditori! L’hai tu montata a questo

tua moglie, eh?... Mia figlia? Via di qua!

E poi che mostri tanta tenerezza

per questa cosa, va’, portala via,

e falla divorare dalle fiamme;

sì, proprio tu, ho detto, e nessun altro,

e fallo subito. Se dentro un’ora

non mi porti conferma che l’hai fatto,

dandomene la prova, t’assicuro

che ne dovrai risponder con la testa

e col resto di quanto chiami tuo.

Se rifiuti di farlo,

e vuoi metterti contro la mia collera,

dimmelo, e sarò io, con queste mani

a farle schizzar fuori le cervella

alla bastarda. Tu devi bruciarla,

ché tu sei stato ad istigar tua moglie.

ANTIGONO - No, sire, questi nobili signori

posson testimoniare, a lor piacendo,

che non è vero.

UN NOBILE - Infatti, mio signore:

egli non ha davvero alcuna colpa

della venuta di sua moglie qui.

LEONTE - Mentite tutti, tutti!

UN NOBILE - Vostra altezza,

vi supplico di farci miglior credito;

da sudditi leali,

quali sempre ci siamo dimostrati,

vi supplichiamo, in nome dei servigi

prestativi in passato, e dei futuri,

che desistiate da questo proposito,

che nella sua cruenta efferatezza

non può menar che a un esito funesto.

Ecco, c’inginocchiamo tutti quanti.

(S’inginocchiano)

LEONTE - (Tra sé)

Sono una piuma esposta a tutti i venti...

Dovrò io dunque seguitare a vivere

sempre vedendomi dinanzi agli occhi

questa bastarda, che mi s’inginocchia

e che mi chiama padre?... Meglio adesso

darla alle fiamme, ch’essere costretto

a maledirla dopo... Eppure, no:

che viva pure... No, nemmeno questo!

(Ad Antigono)

Avvicìnati, senti: tu, messere,

che sei stato sì tenero e zelante

con la comare tua, là, Donna Chioccia,(71)

per salvare la vita alla bastarda

- ché bastarda lo è, questo è sicuro

com’è vero che questa barba è grigia -(72)

che cosa sei disposto a fare adesso

per salvare la vita a questa putta?

ANTIGONO - Qualsiasi cosa, Sire,

di cui siano capaci le mie forze

e che nobiltà d’animo m’imponga:

sarebbe il meno ch’io potessi fare.

Darò l’ultima goccia del mio sangue

per salvare quest’anima innocente,

tutto quello che mi sarà possibile.

LEONTE - E possibile questo ti sarà:

Giura su questa spada(73)

ch’eseguirai quello che sto per dirti.

ANTIGONO - Lo giuro, mio signore.

LEONTE - Ebbene, ascolta ed esegui a puntino.

Intendi bene, perché se fallisci

in qualsiasi punto dell’impresa,

sarà la morte non solo per te,

ma per quella linguaccia di tua moglie,

alla quale per ora perdoniamo.

Noi t’ingiungiamo, qual nostro vassallo,

di portare con te questa bastarda

in qualche sito remoto e deserto

ben lontano dai nostri territori

e, senz’altra pietà, di abbandonarla

a se stessa ed alla mercé del clima.

Essa è venuta a noi da estraneo caso,

ed io t’impongo, come vuol giustizia,

che, a rischio di dannare la tua anima

e di soffrir tormenti sul tuo corpo,

tu l’abbandoni in qualche estraneo sito

al caso, che la nutra o la distrugga.

Prendila, su.

ANTIGONO - Farò così, lo giuro...

se pur sarebbe stato più pietoso

che le si fosse data morte subito...

(Raccoglie da terra la bimba e la tiene in braccio)

Vieni, povera putta:

ispiri qualche spirito celeste

i corvi e i nibbi a farti da nutrici:

si dice che talvolta lupi ed orsi,

dimentichi di lor feralità,

si sien fatti ministri

di tali uffici d’umana pietà.

(A Leonte)

Voglia il cielo, maestà,

che voi possiate sempre prosperare

più che non meriti tal vostro agire.

(All’infante)

E tu, meschina, derelitta cosa

condannata a perire, possa il cielo

assisterti e combattere al tuo fianco(74)

contro questa efferata crudeltà.

(Esce con l’infante)

LEONTE - No, non alleverò frutto non mio!

(Entra un SERVO)

SERVO - Piaccia all’Altezza vostra, messaggeri

son qui giunti da un’ora da quei due

che mandaste all’oracolo di Delfo;

dicono che Cleomene e Dione,

felicemente da lì ritornati,

son già sbarcati e s’affrettano a corte.

UN NOBILE - Più solleciti d’ogni previsione,

Sire, se m’è concesso rilevarlo!

LEONTE - Infatti, sì, sono rimasti assenti

solo ventitré giorni:

veramente un sollecito ritorno.

Segno che il grande Apollo

vuol che luce sia fatta in questo affare

quanto più presto. E dunque, miei signori,

convocate senz’altro una sessione

di corte di giustizia

per sottoporre a normale processo

l’infedelissima nostra consorte

che, secondo che vuol la nostra legge,

come in pubblico è stata incriminata,

in pubblico dev’esser giudicata.

Fin ch’ella sarà in vita,

mi sarà di gran peso il cuore in petto.

Vi prego, intanto, di lasciarmi solo

e di por mente a quanto v’ho ordinato.


ATTO TERZO

SCENA I

Un porto in Sicilia

Entrano CLEOMEME e DIONE

CLEOMENE - Un’aria mite, un dolcissimo clima,

ferace l’isola, splendido il tempio,

di molto superiore alla sua fama.(75)

DIONE - Per non parlar dei sacri paramenti

(ché m’han proprio colpito: celestiali!

non saprei definirli in altro modo),

e della veneranda gravità

di quelli che li indossano.

E il sacrificio! Che solennità,

qual sovrumana spiritualità

nel rituale dell’offerta al Dio!

CLEOMENE - Ma soprattutto, come un’esplosione,

la voce dell’oracolo, assordante

quale tuono di Giove! sì percossi

e soverchiati n’ebbi tutti i sensi,

che quasi ne rimasi annichilito.

DIONE - Se questo nostro viaggio

sarà così propizio alla regina

- Oh, Dio lo voglia! - come grato e celere

esso s’è dimostrato per noi due,

avremo bene usato il nostro tempo.

CLEOMENE - Volgi tu, grande Apollo, tutto al meglio!

Tutti questi proclami, devo dire,

che scaricano accuse contro Ermione

mi suonan male.(76)

DIONE - A chiarir questo affare

e a chiuderlo definitivamente

servirà la violenza con la quale

esso è stato condotto.

Quando l’oracolo qui suggellato

dalle mani del grande sacerdote

d’Apollo svelerà il suo contenuto,

qualcosa di prezioso

balzerà alla nostra conoscenza.

Suvvia, cavalli freschi!...

E si concluda tutto per il meglio!

(Escono)

SCENA II

Sicilia, la corte di giustizia

Entra LEONTE con NOBILI e FUNZIONARI

LEONTE - Quest’assise, con indicibil pena

lo diciamo, è per noi un colpo al cuore.

L’incriminata è una figlia di re,

nostra sposa, da noi fin troppo amata.

Storni da noi l’accusa di tiranno

il fatto stesso che trattiamo il caso

pubblicamente, come vuol giustizia:

una giustizia che dovrà concludere

con la condanna o con l’assoluzione.

S’introduca la nostra prigioniera.

UN FUNZIONARIO - È desiderio di sua maestà

che la regina venga di persona

davanti a questa corte. Ora silenzio!

Entra, sotto scorta, ERMIONE, con PAOLINA e dame del seguito

LEONTE - Si dia lettura dell’atto d’accusa.

UN FUNZIONARIO - (Leggendo)

“Ermione sposa del nobil Leonte,

“re di Sicilia, tu sei qui chiamata

“a risponder d’altro tradimento

“per aver con Polissene,

“re di Boemia, commesso adulterio

“ed aver cospirato con Camillo

“allo scopo di togliere la vita

“al re nostro signore e tuo consorte:

“il qual proposito da vari fatti

“essendo stato in parte rivelato,

“tu, Ermione, tradendo la tua fede

“e l’obbedienza di fedele suddita,

“hai consigliato ed aiutato i due

“a cercar scampo di notte, fuggendo”.

ERMIONE - Dal momento che quel che ho da ribattere

a quest’accusa è sol negarla vera,

e non ho altri testi che me stessa

a suffragarlo, mi varrà ben poco

ch’io mi dichiari adesso “non colpevole”;

la mia integrità

essendo ritenuta falsità,

come tale sarà da voi accolta.

E tuttavia se è vero

che i poteri divini ognor rivolti

hanno gli sguardi alle azioni degli uomini,

non esito a pensar che l’innocenza

possa far arrossire la calunnia,

e la pazienza tremar la tirannide.

Voi per primo sapete, mio signore,

se pur sembriate l’ultimo a saperlo,

se tutta la mia vita fino ad oggi,

sia stata sempre casta e intemerata

per quanto ora è infelice; e l’è a tal punto

da sorpassare qualunque tragedia

che sia stata pensata e recitata

per commuovere il pubblico. Signori,

voi qui vedete in me

la compagna di letto d’un sovrano,

partecipe della metà del trono,

figlia d’un grande re,

madre d’un principe di grandi attese,

qui tratta a cicalare ed a parlare

per la vita e l’onore, avanti a tutti

che vogliano venire ad ascoltarla.

Quanto alla vita, io la tengo al prezzo

in cui tengo il dolore

(di cui farei volentieri risparmio);

ma l’onore è tal bene

che da me passa per retaggio ai miei:

e questo solo son qui a difendere.

Sire, m’appello alla vostra coscienza

per dir com’ero nelle vostre grazie

(e con qual merito da parte mia)

prima che a corte arrivasse Polissene.

E dopo ch’è arrivato, in che ecceduto

ho io dai limiti del mio contegno

verso di lui, per vedermi costretta

a comparir così?... Se nei miei atti,

o solamente nelle mie intenzioni

io mi sia inclinata d’un inezia

al di là dei confini dell’onore,

si faccia pietra il cuore

di tutti questi che ora m’ascoltano,

e venga il mio più prossimo parente

a gridarmi “vergogna!” sulla tomba.

LEONTE - Mai prima mi fu dato di conoscere

che alcuna di sì turpi nefandezze

fosse meno sfrontata nel negarsi

di quanto lo sia stata nel commettersi.

ERMIONE - Se pure questo è vero, un tale detto,

sire, non può applicarsi certo a me.

LEONTE - Sei tu che mi rifiuti di applicartelo.

ERMIONE - Più di qualche istintiva debolezza,(77)

che mi viene imputata come colpa,

non devo riconoscermi. A Polissene,

col quale vengo qui incriminata,

ammetto, sì, d’aver voluto bene,

com’egli in tutto onore meritava,

e con l’affetto che si conveniva

ad una gentildonna del mio rango;

lo stesso affetto, e non uno diverso,

che voi mi dicevate di portargli:

e penso che se non l’avessi fatto,

sarebbe stata in me disobbedienza

e ingratitudine a voi e all’amico

il cui affetto s’era dichiarato

liberamente a voi fin da bambino,

appena non poté formar parola.

In quanto poi alla cospirazione,

non ne so proprio nemmeno il sapore,

benché mi venga adesso scodellata

perch’io l’assaggi; tutto quel che so

è che Camillo era persona onesta;

ma perché sia fuggito dalla corte,

gli stessi dèi, se non sanno di più

di quanto ne so io, non sanno niente.

LEONTE - Tu sapevi della sua fuga, invece,

così come sai bene

quel che ti resta a fare in sua assenza.

ERMIONE - Voi parlate, signore,

un linguaggio per me incomprensibile.

Ma la mia vita è ormai alla mercé

dei vostri sogni, ed io ve la depongo.

LEONTE - I miei sogni son ciò che tu hai fatto:

hai avuto un bastardo da Polissene,

ed io, secondo te, l’avrei sognato!

Come sei stata senza alcun pudore,

al par di tutte quelle del tuo stampo,

sei senz’ombra di verità; e negarla

ti pregiudica più che non ti giovi;

perché così come la tua bastarda

è stata giustamente rigettata,

non essendovi un padre a riconoscerla,

- e tu, non lei, di questa malefatta

porti la colpa - dovrai anche tu

assaporare la nostra giustizia,

da cui, nella migliore delle ipotesi,

non aspettarti meno che la morte.

ERMIONE - Risparmiatevi le minacce, Sire.

L’orco con cui vorreste spaventarmi

io corro ad abbracciarlo. Ormai la vita

per me non può valere più di tanto…

Il suo coronamento e il suo conforto,

il favor vostro, lo do per perduto,

perché sento che è morto,

anche se non riesco a figurarmi

come ciò sia potuto mai succedere.

La mia seconda gioia,

e quel ch’è il primo frutto del mio corpo(78)

non posso avvicinarlo,

mi vien vietato come un’appestata.

La terza mia consolazione, nata

sotto nemica stella, mi è strappata

dal seno - l’innocente sua boccuccia

ancor piena del suo latte innocente -

per essere condotta fuori a morte;

io stessa, proclamata prostituta

ai quattro venti, mi vedo privata

con trista odiosità dei privilegi

di partoriente che sono appannaggio

di donne d’ogni rango e condizione,

e trascinata infine in questo luogo,

di forza, esposta ai rigori dell’aria

prima d’aver potuto riacquistare

un minimo di forze dopo il parto.

Ditemi voi, allora, mio signore,

quali consolazioni io possa avere

ormai da viva per temere la morte.

E dunque, proseguite.

Ma ancora questo mi resta da dire

- e non fraintendetemi, vi prego:

non è per la mia vita,

che considero meno di un fuscello,

ma per l’onore che voglio intoccato:

se sarò condannata

sulla base di mere congetture,

senz’altre prove che quelle svegliate

in voi da questa vostra gelosia,(79)

questo io chiamo abuso, non giustizia.

e avanti a tutti voi, degni signori,

io m’appello al giudizio dell’oracolo:

sia mio giudice Apollo!

UN NOBILE - Questa richiesta è del tutto legittima:

per conseguenza, e nel nome di Apollo,

si produca il responso del suo oracolo.

(Escono alcuni ufficiali di giustizia)

ERMIONE - Mio padre era imperador di Russia.

Oh, fosse vivo e fosse adesso qui,

a assistere al processo di sua figlia;

e potesse vedere

con occhio di pietà, non di vendetta,

tutta l’immensità della mia pena!(80)

Rientrano gli ufficiali con CLEOMENE e DIONE

UN UFFICIALE - Ora voi due, Cleomene e Dione,

qui, sopra questa spada di giustizia,

giurerete d’aver viaggiato a Delfo,

e d’aver riportato quest’oracolo

sotto sacro sigillo conservato

dal sommo sacerdote; e tal sigillo

mai aver voi tentato di violare,

per leggerne il segreto.

CLEOMENE e DIONE - Lo giuriamo!

LEONTE - Dispiegatelo, e datene lettura.

UFFICIALE - (Apre il sigillo della pergamena e legge)

“Ermione è casta. Polissene è integro.

“Camillo è suddito onesto e leale.

“Leonte è re(81) dispotico e geloso.

“L’innocente neonata

“è stata onestamente concepita.

“Senza un erede il re sarà vissuto

“se non ritroverà quel che è perduto”.

TUTTI I NOBILI - Sia gloria al grande Apollo!

ERMIONE - Gloria a lui!

LEONTE - (All’ufficiale)

Hai letto giusto?

UFFICIALE - Sì, vostra maestà,

esattamente quello che c’è scritto.

LEONTE - Non c’è niente di vero nell’oracolo!

Il processo prosegua. È tutto falso!

Entra un SERVO, trafelato

SERVO - Il mio signore, il mio signore, il re!

LEONTE - Che succede?

SERVO - Oh, signore, vostro figlio...

(ah, m’odierete a darvi quest’annuncio!)

il principe Mamilio, al sol pensiero

della sorte toccata alla regina,

per la paura, è andato.

LEONTE - Come! Andato?

SERVO - È morto.

LEONTE - Apollo! Questa è la sua ira!

I cieli stessi vogliono punire

la mia iniquità!

(Ermione sviene)

Che le succede?

PAOLINA - Questa notizia ha ucciso la regina.

Guardatela: ha il volto della morte!(82)

LEONTE - Ha solo il cuore oppresso. Si riavrà.

Toglietela da qui...

(Tra sé)

Fui troppo credulo

nei miei sospetti su di lei... Paolina,

vi prego, datele amorevolmente

qualcosa che riesca a rianimarla.

(Escono Paolina e le dame trasportando Ermione)

O grande Apollo, dammi il tuo perdono

per la mia empietà verso il tuo oracolo!

Ricercherò la pace con Polissene,

ridonerò il mio cuore alla regina,

richiamerò con me il buon Camillo

che, pienamente su lui ricreduto,

proclamo uomo leale e pietoso.

Tratto dalla mia cieca gelosia

a pensieri di morte e di vendetta

avevo scelto lui a mio strumento

per dar morte all’amico mio Polissene

con veleno; e così sarebbe stato

se, nel fondo del suo nobile animo

lui non avesse voluto esitare

ad eseguir quel mio sventato incarico,

e l’ha fatto, benché farlo o non farlo

sapesse che gli avrebbe comportato

o ricompensa o morte,

che a tanto io l’avevo incoraggiato

e di tanto l’avevo minacciato;

ma lui, nella sua grande umanità

e nel suo alto senso dell’onore,

dopo aver rivelato al re mio ospite

il mio proposito, se n’è partito

lasciando qui tutte le sue sostanze

(assai cospicue, come voi sapete)

e affidandosi a tutte le incertezze

d’un rischio certo, di null’altro ricco

che della sua onorabilità.

Com’ei rifulge, accanto alla mia ruggine!

Come più fosco rende il mio agire

la luce dell’umana sua pietà!

Rientra PAOLINA, infuriata

PAOLINA - Ahi, giorno di sventura! Oh, dannazione!

Ohimè, tagliatemi questi legacci(83)

che non li spezzi il mio cuore che scoppia!

UN NOBILE - Perché così infuriata, mia signora?

PAOLINA - (A Leonte)

Qual raffinato mezzo di tortura

mi vorrai riservare, ora, tiranno?

Ruota, rogo, flagello, cavalletto,

scuoiata viva, bollita nell’olio,

o immersa in piombo fuso? Qual tormento

mi dovrò aspettare, antico o nuovo,

se non riesco a profferir parola

che non meriti il tuo peggior castigo?

Questa tua tirannia

coniugata ai gelosi tuoi furori

- stupide fantasie, fin troppo scialbe

anche per ragazzetti, e sciocche e vane

perfino per bimbette di nove anni -

ah, pensa ora a quello che han causato

e poi diventa pazzo per davvero,

pazzo furioso, pazzo da legare!

Al confronto, le scorse tue follie

non sono state che piccoli assaggi...

Aver tradito Polissene, è niente:

t’ha fatto tutt’al più passar da stolto,

da banderuola, da ingrato d’inferno;

né può apparir troppo nera perfidia

l’avere tu voluto avvelenare

l’onorabilità del buon Camillo

con l’istigarlo ad uccidere un re:(84)

diventan tutte inezie trascurabili

al confronto delle mostruosità

che dovevan seguir subito dopo;

tra cui vo’ ancor contarti poco o nulla

l’aver abbandonato la tua bimba

in pasto agli sciacalli,

seppur, prima di farlo, anche un demonio

avrebbe riversato fiumi d’acqua

fuori dalle sue palpebre di fuoco.

Né a te direttamente è da imputare

la morte del tuo principe fanciullo

cui spezzò il cuore il senso dell’onore

- così alto, per uno così giovane -

al pensiero che un re pazzo e volgare

gli infamava la sua graziosa mamma.

No, tu di questa non porti la colpa;

ma l’ultima, oh!, l’ultima!... Signori,

quando ve l’avrò detta,

dovrete urlare in coro: “Che sciagura!

La regina, sì, la regina nostra,

la creatura più dolce, più amorevole

venuta sulla nostra terra, è morta!

E vendetta di ciò non è ancor scesa

dal cielo!

UN NOBILE - Oh, Dio non voglia!

PAOLINA - Morta,

ho detto, morta, morta, ve lo giuro!

E se parola ed anche giuramento

non vi bastano, andatela a vedere;

e se alcuno di voi riporterà

colorito alle labbra, luce agli occhi,

calore in ogni fibra del suo corpo,

lo servirò come servo gli dèi.

(A Leonte)

Come potrai pentirti, tu, tiranno,

di queste colpe? Son troppo pesanti

perché te le rimuovano dall’anima

tutte le tue lamentose “mea culpa”!

Non ti resta che la disperazione.

Mille ginocchia per diecimila anni

a digiunare nude, tutte insieme,

in cima a una montagna aspra e deserta,

nell’inclemenza d’un perpetuo inverno

non basterebbero ad indurre il cielo

a volger gli occhi là dove tu fossi.

LEONTE - Seguita pure, non dirai mai troppo!

Ho meritato che tutte le bocche

mi dican quel che sanno di più amaro.

UN NOBILE - (A Paolina)

No, invece, no, non ditegli più nulla:

comunque stian le cose,

fate male a parlargli così aspro.

PAOLINA - Mi dispiace; ho ecceduto, e me ne pento,

come m’accade quando me n’accorgo.

Ho dato veramente troppo sfogo

alla mia impulsività di donna:

si vede chiaramente che è toccato

nel profondo del cuore. A mal passato

senza rimedio, dolore passato.

Ed è del tutto vano disperarsi.

(A Leonte)

Non fatevi motivo d’afflizione

del mio apostrofarvi; anzi punitemi,

vi prego, per avervi rinfacciato

cose cui non dovreste più pensare.

Vogliate perdonare, mio buon Sire,

una povera sciocca come me,

ma l’amore che porto alla regina…

Ah, sventata, che ancora ve la nomino...

no, no, di lei non vi parlerò più,

e nemmeno dei vostri due figlioli...

né vi rammenterò del mio signore

anch’egli ormai perduto...(85) Siate buono,

vi prometto che non dirò più nulla.

LEONTE - Bene parlasti, invece, Paolina,

tanto più ch’era tutta verità:

e la tua verità m’è più gradita

della tua compassione.(86) Ora ti prego,

accompagnami dove sono i corpi

della regina e del mio principino:

entrambi accoglierà una stessa tomba,

e vi dovranno apparire scolpiti,

a eterna mia vergogna,

modo e cagione della loro morte.

Verrò ogni giorno alla loro cappella,

e saranno le lacrime là sparse

l’unico mio sollievo. E faccio voto

finché le forze lo consentiranno,

d’adempiere ogni giorno a questa pratica.

Andiamo, guidami a questi dolori.

(Escono)

SCENA III

Una spiaggia deserta in Boemia(87)

Entrano ANTIGONO, che reca in braccio la bimba infagottata ed un altro fagotto, ed un MARINAIO

ANTIGONO - Sei certo allora che il nostro vascello

ha toccato i deserti di Boemia?

MARINAIO - Sì, ma ho paura che siamo approdati

in un brutto momento, monsignore:

il cielo è tutto nero,

e minaccia imminenti temporali.

La coscienza mi dice che gli dèi

son crucciati per quello che facciamo,

e ci guardano con la faccia scura.

ANTIGONO - Sia fatta la lor santa volontà!

Va’, torna a bordo, e bada alla tua barca:

non ci impiegherò molto.

MARINAIO - Fate in fretta,

e non spingetevi troppo all’interno:

il cielo è gonfio di pioggia e la proda

è un rinomato covo di predoni.

ANTIGONO - Va’ pure, ti raggiungerò al più presto.

MARINAIO - Se Dio vuole: non vedo proprio l’ora

di trarmi fuori da questa avventura.

(Esce)

ANTIGONO - Andiamo, povera mia creaturina.

Ho inteso sempre che l’anime sante

posson tornare tra noi dopo morte;

non ci credo, ma se mai fosse vero,

tua madre è apparsa a me la scorsa notte;

perché se quel che ho fatto è stato un sogno,

mai sogno fu più simile alla veglia.

Mi son visto avanzar verso di me,

il capo chino or di là or di qua,

una creatura: mai avevo visto

traboccar vaso di tanto dolore;(88)

tutta biancovestita, un bianco puro

come può essere la santità,

venne presso al giaciglio ov’ero steso,

tre volte fece come per chinarsi

verso di me, e, tratto appena il fiato

come a volermi dire qualche cosa,

gli occhi le diventaron due fontane.

Placato poi quell’empito di pianto,

proruppe in questi accenti: “Buon Antigono,

poiché il fato ha voluto fossi tu,

contro la generosa tua natura,

la persona che, dietro giuramento,

gettasse la mia povera creatura

in balia di se stessa e della sorte,

luoghi remoti ce n’è assai in Boemia,

lasciala là ai suoi vagiti, e piangi.

E poiché quella mia povera bimba

è da considerare, ahimè, perduta,

imponile, ti prego, questo nome:

Perdìta: ma per tal crudele incarico

cui t’ha costretto a forza il mio signore,

tu non dovrai più riveder Paolina,

tua moglie”. E qui la vidi dileguarsi,

mescolata nell’aria, in uno strido.

Atterrito ed attonito com’ero,

mi sono riavuto a poco a poco,

convinto d’aver visto in realtà,

non già d’aver sognato.

I sogni sono, si sa, fantasie;

e tuttavia, per una volta tanto,

voglio cedere alla superstizione

e lasciarmi guidare dal quel sogno:

credo che Ermione è stata messa a morte,(89)

e che per essere questa creatura

indubbiamente il frutto di Polissene,

è volontà d’Apollo

ch’ella sia, per la vita o per la morte,

lasciata all’abbandono della sorte

qui nella terra del suo vero padre.

(Deponendola a terra)

Mio bocciolo, che tu possa fiorire!

Qui ti lascio. Qui c’è il tuo nome scritto,

(Le pone accanto un fagottello)

e qui c’è tanto, se vorrà la sorte,

da far che alcuno ti possa allevare,

piccina, e il rimanente per tua dote.

S’annuncia il temporale: meschinella,

che per causa del fallo di tua madre

ti trovi esposta così all’abbandono

e a tutto quanto ne potrà seguire!

Io non so piangere, ma il cuor mi sanguina;

e sento come una maledizione

l’aver dovuto con un giuramento,

consumare un misfatto come questo.

Addio! Il giorno si fa vieppiù scuro:

mai non ho visto un cielo così nero.

Avrai un’assai dura ninna-nanna...

(Improvvisi grugniti di belva all’interno)

Che grugnito selvaggio!...

Su, su, torniamo a bordo! Qui si caccia,(90)

e questo è l’animale loro preda...

(Spunta improvvisamente un orso)

Ah, che per me è la fine! Son perduto!

(Fugge inseguito dall’orso)

Entra un PASTORE

PASTORE - Sarebbe bene che l’età degli uomini

dai dieci ai ventitré non esistesse,

o che la gioventù se la dormisse,

perché non fanno altro, in quest’età,

che pensare ad ingravidar ragazze,

fare ogni sorta di soprusi ai vecchi,

rubare ed azzuffarsi tutto il tempo...

(Corni da caccia all’interno)

Ecco, vanno inseguendo qualche preda.

Chi altri, fuor di quelle teste calde,

andrebbe a caccia con questo tempaccio?

M’hanno fatto scappare, spaventate,

due delle meglio pecore del gregge,

e ho paura che, prima del padrone,

a rintracciarle adesso sarà il lupo;

e se mai le ritrovo in qualche parte,

sarà vicino al mare, a brucar ellere

(Scorge i due fagotti per terra)

Oh, la buona fortuna, se Dio vuole!

(Raccoglie quello con la bimba)

E questo che cos’è?... Misericordia!

Un bambinello... Sarà maschio, femmina?...

Un marmocchietto... e pure assai bellino!...

Questo è il frutto di qualche scappatella...

Io sono un ignorante, non so leggere,

ma qui ci leggo qualche cameriera

di nobildonna in qualche sottoscala...

un lavoretto su una cassapanca,

dietro la porta... Quelli che l’han fatta,

in ogni caso stavan più caldi

che questa povera cosina qui!

La prendo, mi fa troppa tenerezza.

E aspetterò che arrivi qui mio figlio:

m’ha dato giusto voce... Uh, uh, uh,!!!

Entra un CONTADINO

CONTADINO - Ullà, oh, oh!

PASTORE - Ah, stavi qui da presso?

Se vuoi buttare gli occhi su qualcosa

da raccontare pure dopo morto,

vieni qua... Ma cos’hai? Che ti succede?

CONTADINO - Succede che ce l’ho buttati anch’io

gli occhi sopra due cose, in mare e in terra,

da raccontare a pranzo ed anche a cena.

Ma manco posso dir che fosse mare,

quello, ché mare e cielo era tutt’uno,

da non poterci infilare uno spillo.

PASTORE - Ehilà, ragazzo, che mi vai dicendo?

CONTADINO - Il mare: vorrei sol che lo vedeste

com’è rabbioso, e s’ingoia la spiaggia!

Ma non è questo... Oh, a sentirle urlare

quelle povere anime, che strazio!...

Li vedevi, e poi subito sparivano...

e la nave bucar ora la luna

con l’albero maestro, ora sparire

inghiottita da un ribollir di schiuma,

come, fa’ conto, un sughero

gettato dentro un paiolo che bolle.

E poi, dall’altra parte, in terraferma,

a veder come l’orso, a quello a piedi,

gli maciullava l’osso della spalla,

e quello a urlare a me che l’aiutassi,

e che era un nobile, di nome Antigono.

E infine, a farla corta con la nave,

a veder come il mare l’ha inghiottita,

e quei meschini a urlare disperati,

e il mare li sfotteva; e quello a terra,

poveretto, che urlava, e l’orso niente:

e da una parte e l’altra un gran ruggire

che sovrastava il mare e il fortunale.

PASTORE - Misericordia, ragazzo, che dici?

E quand’è ch’è successo tutto questo?

CONTADINO - Or ora; non ho ancor battuto ciglio

da quando l’ho veduto: i passeggeri

non sono ancora freddi in fondo all’acqua,

e l’orso avrà sì e no mezzo pranzato

con quel signore: ci sta ancora addosso.

PASTORE - A trovarmi io là, quel disgraziato

l’avrei soccorso.

CONTADINO - A fianco della nave

vorrei magari vi foste trovato

per soccorrerla; solo che là

si sarebbe, la vostra carità,

trovata senza terra sotto i piedi.

PASTORE - Brutte cose, ragazzo, brutte cose!

Ma adesso guarda qui e riconsolati:

tu trovi moribondi, ed io neonati.

Ecco, ho qualcosa da farti vedere.

Toh, guarda: un abitino da battesimo

pel figlio di chi sa qual cavaliere!

Guarda là, prendilo, ragazzo, prendilo,

e aprilo, vediamo che c’è dentro...

Eh, me l’avevano pronosticato

che le fate m’avrebber fatto ricco!

Questa è qualcosa messa qui da loro.(91)

Aprilo, su, vediamo che c’è dentro.

CONTADINO - (Aprendo il fagottello)

Oh, vecchio, ti sei proprio sistemato!

Qui, se i peccati tuoi di gioventù

ti sono stati tutti perdonati

ce n’è da farti viver da signore.

Oro, tutt’oro!

PASTORE - E fatato, ragazzo!

E tale si dimostrerà per noi!

Prendilo dunque, su, e acqua in bocca!

A casa, a casa, e per la via più corta!

Ci è piovuta sul capo la fortuna,

ragazzo, e se vogliamo che ci resti

c’è solo da tenercela in segreto.

Lascia andare le pecore.

Su, su, da bravo, via, subito a casa.

CONTADINO - Andate voi, per la strada più corta,

con quella roba che avete trovato.

Io torno indietro: vo’ veder se l’orso

s’è allontanato da quel poveretto,

e quanto ne ha potuto divorare:

son bestie che non sono mai feroci

se non quando hanno fame.

Se ci son resti, li seppellirò.

PASTORE - Questa è una buona azione che tu fai;

e se dai resti riesci a capire

chi era quello, vienimelo a dire,

ed io verrò a vederlo.

CONTADINO - Certo, certo!

Così m’aiuterete a seppellirlo.

PASTORE - Questo per noi è un giorno fortunato,

ragazzo mio, e faremo assai bene

a chiuderlo con una buona azione.


ATTO QUARTO

SCENA I

Entra IL TEMPO in funzione di coro; ha in mano la sua falce.

IL TEMPO - Io, che gli uomini tutti metto a prova,

ai buoni gioia, terrore ai cattivi;

che creo l’errore e lo rendo palese,

or come Tempo uso le mie ali,

e le dispiego. Non mi fate colpa

se d’un tratto sorvolo sedici anni

e lascio qui non tratto sulla scena

quanto è successo in quest’ampio intervallo:

è mia prerogativa

sovvertire la legge di natura

ed impiantare usanze e soppiantarle

in qualunque momento ch’io lo voglia.

Immaginate dunque che trascorso

io sia tal quale sono sempre stato

dal primitivo ordine del mondo

fino a quello che impera in questa età.

Così com’io son stato testimone

di quanti eventi si son succeduti

nel mondo fino alla presente età,

tale sarò di quelli freschi d’oggi,

salvo a velar la loro lucentezza

col solo raccontarli.(92)

Perciò, vostra pazienza permettendo,

do un giro alla clessidra,

e vi racconto il seguito del dramma

come se in tutti questi sedici anni

voi non aveste fatto che dormire.

Abbandoniamo per ora Leonte,

così straziato dai tragici frutti

della sua forsennata gelosia

da ridursi in clausura, fuor del mondo,

e immaginatevi, gentile pubblico,

or nella bella terra di Boemia.

Ricorderete che v’ho già accennato

a un figlio di quel re,

che vi nomino adesso: Florizel,

mentre passo a parlarvi di Perdita,

cresciuta tanto in grazie ed in bellezza

da stupire. Ma più non vi dirò

di tutto quello che sarà di lei:

lasciamo qui la cronaca del Tempo

appalesarsi nella sua realtà.

Sarà dunque la figlia d’un pastore

e tutto quanto attiene alla sua vita

l’argomento ch’io Tempo vi propongo.

E voi, se al vostro tempo mai fu dato

di trascorrere peggio che ora qui,

concedeteci questo;

e sia lo stesso Tempo che vi parla

ad augurare cordialmente a tutti

che mai abbiate a trascorrerlo peggio.

(Esce)(93)

SCENA II

Boemia, il palazzo di Polissene.

Entrano POLISSENE e CAMILLO

POLISSENE - Ti prego, buon Camillo, non insistere.

Mi dispiace doverti dir di no,

ma consentirti questo

sarebbe veramente la mia morte.

CAMILLO - Da quindici anni non ho più rivisto

il mio paese; e se della mia vita

ho trascorso gran parte a respirare

aria straniera, il desiderio mio

fu sempre di depor là le mie ossa.

Senza dire che quel re penitente

(ed è pur sempre lui il mio padrone)

m’ha fatto richiamare; ed oso credere,

senza peccar di troppa presunzione,

di potergli essere d’alcun sollievo

nell’attuale sua grande amaritudine.

Ed anche questo mi sprona ad andare.

POLISSENE - Ah, no, Camillo, se mi sei amico,

non cancellar di colpo, abbandonandomi,

tutti i passati tuoi buoni servigi!

Sono state le tue capacità

a far sorgere questo mio bisogno

d’averti sempre a fianco;

se mi lasci, sarebbe stato meglio

per me ch’io non t’avessi mai avuto.

Tu m’hai saputo avviare faccende

che nessun altro all’infuori di te

sarebbe adesso in grado di trattare;

devi perciò restare, per concluderle,

altrimenti ti porti via con te

il beneficio di tutti i servigi

che fino ad oggi m’hai saputo rendere.

Io non li avrò tenuti in giusto conto

- come, del resto, mai riuscirei -,

ma farò del mio meglio in avvenire

nel dimostrarti la mia gratitudine.

E terrò sempre ancora a privilegio

stringer con te più intima amicizia.

Ma non venirmi più a parlar, ti prego,

della Sicilia, la terra fatale

il cui sol nome è già per me un castigo

col ricordarmi quel suo re contrito

e penitente, come tu lo chiami,

quel rappacificato mio fratello;

la cui perdita, in quelle circostanze,

della sua incantevole regina

e dei figli, mi son causa ancor oggi,

come allora, di doloroso pianto.

Dimmi piuttosto: il principe mio figlio,

Florizel, da quand’è che non lo vedi?

Quei sovrani ch’abbian toccato in sorte

dei figli scapestrati

non si possono dir men fortunati

di quelli che i lor figli abbian perduto

poi ch’abbian dato prova di virtù.

CAMILLO - Non l’ho visto, signore, da tre giorni.

A quali più gioconde occupazioni

egli sia dedito, non saprei dire;

ho notato però, ultimamente,(94)

che s’è molto appartato dalla corte

e si dimostra sempre meno assiduo

alle sue principesche occupazioni.

POLISSENE - L’avevo anch’io notato,

Camillo, e non senza qualche apprensione,

tanto da indurmi a farlo sorvegliare,

per veder chiaro in queste sue assenze;(95)

ed a quanto m’è stato riferito,

si fa vedere con molta frequenza

nei pressi della casa d’un pastore

d’umilissimo stato: una persona

che - si dice - dal nulla in cui viveva,

con grande meraviglia dei vicini,

s’è alzato ad indicibile ricchezza.

CAMILLO - Ho udito anch’io parlare di quest’uomo,

che ha una figlia di rara bellezza

di cui s’è sparsa fama più lontano

di quanto sia possibile pensare

per una nata sotto una capanna.

POLISSENE - Anche questo m’è stato riferito,

e temo che sia proprio quella l’esca

che attrae da quella parte nostro figlio.

Tu ora m’accompagnerai sul posto,

dove noi due, senza svelar chi siamo,

discorreremo un po’ con quel pastore;

penso non ci riuscirà difficile

scoprire dalla sua semplicità

che cosa attrae mio figlio in quei paraggi.

CAMILLO - Di buon grado obbedisco al vostro invito.

POLISSENE - Mio buon Camillo!... Andiamo a travestirci.

(Escono)

SCENA III

Boemia, una strada di campagna.

Entra AUTOLICO in arnese da mercante girovago e con barba finta(96)

AUTOLICO - (Cantando)

“Quando sboccia la giunchiglia,

“vien sul prato, bella figlia;

“vieni, la stagione è in fiore

“e del sangue il rosso ardore

“dell’ingrato inverno scioglie

“tutto il gelido pallore.

“La tua bianca camicetta

“sulla siepe ad asciugare

“messa, ho voglia di rubare,

“mentre il passero cinguetta;

“e di birra un buon boccale

“è una bibita reale.

“Fa l’allodola “chiè-chiè”,

“zirla il tordo con la quaglia:

“cantano alle belle e a me

“che ruzziamo tra la paglia”.

Di Florizel il principe al servizio

sono stato al mio tempo, ed ho vestito

un bel velluto di tre peli spesso,

ma ora sono a spasso.

(Cantando)

“E dovrei piangere per questo, belle?

“A notte, con la luna e con le stelle

“io vo girovagando in qua e in là:

“è la vita che più mi si confà.

“Se concesso è allo stagnino

“di campare e andar sfoggiando

“borsa in pelle di suino,

“potrò anch’io, girovagando,

“il mio conto ancor pagare(97)

“e coi ceppi ai piedi andare”.

Commerciare in lenzuola è il mio mestiere;

e al tempo che fa il nido lo sparviere,

attenzione alle robe più leggiere.

Autolico mio padre m’ha chiamato,

il quale, anch’egli nato

sotto l’influsso di Mercurio alato,

ha fatto, come me, l’arraffatore

di coserelle di poco valore.

Con dadi e gonne(98) mi son procurato

la bardatura di cui son vestito,

ed imbrogliare i gonzi è il mio partito.

Le vie maestre non son le mie zone:

troppo vi regnano forca e bastone;(99)

ed io per me son troppo spaventato

di finir impiccato o bastonato.

E in quanto all’aldilà,

ci dormo su, senza pensarci più...

Ma ecco già un polletto da spennare:

Entra il CONTADINO

CONTADINO - (tra sé, senza accorgersi di Autolico)

Dunque, vediamo: una balla di lana

ci vuol la tosa d’undici montoni...

Una balla fa una sterlina e rotti:

con millecinquecento tosature

quanta lana si fa?...

AUTOLICO - (A parte)

Se tiene il cappio,

il polletto l’ho bell’e accalappiato!

CONTADINO - (c.s.)

Senza ballotte non so far di conto(100).

Vediamo un po’... che cosa ho da comprare

per la festa di questa tosatura?

(legge una lista)

Zucchero, libre tre; zibibbo, cinque;

riso... ma che vuol farci mia sorella

con questo riso?... Il fatto è che mio padre

l’ha fatta reginetta della festa,

e lei non bada a spese, la scialona!

Ha preparato per i tosatori

ventiquattro mazzetti profumati;

e quelli sono tutti canterini,

bravissimi a cantare su tre voci,

eccetto, in mezzo a loro, un puritano

che salmeggia con voce di zampogna.(101)

Poi le devo comprar lo zafferano

per colorare la torta di pere;

e poi cannella, datteri... no, no,

questa roba non c’è qui nella lista.

Ah, ecco qua: sette noci moscate,

una coppia di radiche di zenzero

(ma questo me lo faccio regalare),

quattro libre di prugne disseccate

ed altrettante d’uva sultanina.

AUTOLICO - (Che nel frattempo si è gettato a terra, torcendosi, come disperato, gridando)

Ah, non fossi mai nato!

CONTADINO - (Sorpreso di vederlo così)

Oh, mamma mia!(102)

AUTOLICO - Ah, soccorretemi, vi prego, aiuto!

Strappatemi di dosso questi stracci,

eppoi morte, sì, morte!

CONTADINO - Oh, pover’anima!

Altro che toglierti cotesti stracci!

Tu n’hai bisogno d’altri addosso a te.

AUTOLICO - Oh, signore, la loro luridezza

mi fa più male delle bastonate

che ho preso, ed eran sode, ed a milioni.

CONTADINO - Oh, meschino! Un milione di legnate

son davvero un subisso, poveretto!

AUTOLICO - E m’han rubato tutto, signoria,

malmenato, spogliato del denaro

e dei vestiti, e poi m’han ricoperto

con queste luridezze che vedete.

CONTADINO - Era uno a cavallo, oppure a piedi?(103)

AUTPOLICO - A piedi, a piedi, signore, un pedestre!

CONTADINO - Eh, sì, doveva essere un pedestre,

visti i panni che v’ha lasciato addosso,

perché se fosse stato uno a cavallo

questo giubbetto porterebbe i segni

d’esser servito a ben più dure imprese.

Qua, porgimi la mano, che t’aiuto.

(Gli dà la mano, e Autolico si rialza, lamentandosi)

AUTOLICO - Ohi, ohi, mio buon signore, piano, piano!

CONTADINO - Oh, povero cristiano!(104)

AUTOLICO - Piano, piano,

mio buon signore... Ohi, ohi, la mia spalla!

Mi si dev’esser proprio scavicchiata!

CONTADINO - (Reggendolo, dopo averlo tirato su)

Allora, ce la fate a restar dritto?

AUTOLICO - (Appoggiandosi al contadino)

Adagio, buon signore...

(Mentre quello lo sostiene, gli fruga nelle tasche e gli ruba il borsello col denaro)

Piano, piano...

Mi siete stato assai caritatevole.

CONTADINO - Sarai rimasto pure in secco, penso...

Ti posso dar qualcosa...

AUTOLICO – No, no, grazie,

troppo gentile, no, signore, grazie.

Ho un parente a non più di mezzo miglio;

stavo appunto recandomi da lui:

là troverò denaro e tutto il resto.

Non m’offrite denaro, ve ne prego;

è qualcosa che mi fa male al cuore.

CONTADINO - Che tipo era il vostro grassatore?

AUTOLICO - Uno che avevo visto già, signore,

che andava in giro con dei biliardini:(105)

so ch’era un tempo al servizio del principe,

fu cacciato a frustate dalla corte,

questo lo so per certo;

per quale sua virtù, non saprei dire.

CONTADINO - Per quale suo vizio, mi vorrete dire,

perché non c’è virtù

che sia cacciata da corte a frustate:

lì fan di tutto per farla restare,

anche se quella mai ci resta a lungo.

AUTOLICO - Vizio volevo ben dire, signore;

perché quel tipo lo conosco bene:

dopo di allora è andato per le piazze

con un paio di scimmie ammaestrate;(106)

poi ha fatto l’usciere giudiziario;(107)

poi il burattinaio, e andava in giro

rappresentando coi suoi burattini

“Il Figliol Prodigo”; poi s’è sposato

con la moglie di un certo lattoniere

e sono venuti a stare a circa un miglio

dal luogo ov’io ci ho casa e proprietà.

E così, dopo avere sfarfallato

per molte professioni bricconesche,

s’è stabilito a fare il ladro, e basta.

Autolico, ho sentito che lo chiamano.

CONTADINO - Uh, Dio ne scampi, quello! Un lestofante!

Un furfante, un emerito imbroglione!

Bazzica per le sagre di paese,

per fiere, per combattimenti d’orsi...

AUTOLICO - Esattamente, proprio lui, signore.

Lui, signore, il ladrone,

che m’ha insaccato dentro questo addobbo.

CONTADINO - Non c’è più vile e lurida canaglia

in tutta la Boemia, in fede mia!

Ma bastava che lo guardaste brutto,

o gli sputaste addosso; e lui scappava.

AUTOLICO - Eh, signore, vi devo confessare

che non sono uomo da menar le mani;

mi manca il fegato per certe cose,

e quello, son sicuro, l’ha capito.

CONTADINO - Come va adesso? Vi sentite meglio?

AUTOLICO - Oh, sì, sì, molto meglio, signoria.

Mi reggo in piedi e posso camminare.

Vo’ dunque prendere da voi congedo

e riprender pian piano la mia strada

verso la casa di quel mio parente.

CONTADINO - V’accompagno?

AUTOLICO - No, no, troppo gentile!

CONTADINO - Allora vi saluto. State bene.

Devo andare a comprare spezierie

per il rinfresco della tosatura.

AUTOLICO - Grazie e buona fortuna, signoria!

(Esce il contadino)

La tua borsa non è più tanto gonfia

per comprar le tue spezie, pollastrello!(108)

E alla tua festa della tosatura

ci vengo pure; e se non faccio il bis

di questa birbonata, e i tosatori

non saran tutti pecore tosate,

sia cancellato per sempre il mio nome

dall’albo dei furfanti ciarlatani,

e messo nel registro degli onesti.

(Canta)

“Trotta trotta pel sentiero,

“salta allegro il fosso, olà,

“cuorcontento va leggero,

“triste cuor non ce la fa.”

(Esce cantando)

SCENA IV

Boemia, un’aia davanti alla casa del pastore

Entrano FLORIZEL in veste del villico DORICLE, e PERDITA in sfarzoso costume di festa

FLORIZEL - Questo insolito tuo abbigliamento

fa ancor più vive tutte le tue grazie.

Non una pastorella, ma una Flora(109)

allo spuntare del fiorito aprile!

E questa vostra festa della tosa

è come un circolo di semidei,

in mezzo al quale tu sei la regina.

PERDITA - Mio sovrano, grazioso mio signore,

non spetta certo a me farvi rimprovero

di certe stravaganze (e perdonatemi,

se ve ne parlo!), ma l’Altezza vostra,

graziosa mira di tutto il paese,

oscurata nei panni d’un pastore...

Ed io povera ed umile fanciulla,

parata a festa come una deità!...

Se non fosse che nelle nostre sagre

la stramberia è dentro ogni pietanza,

e chi ne mangia è avvezzo a digerirla,

arrossirei a vedervi abbigliato

in codesta maniera; e quanto a me,

verrei meno guardandomi allo specchio.

FLORIZEL - Io benedico invece quel momento

che il mio bravo falchetto volse il volo

attraverso il terreno di tuo padre.

PERDITA - Ah, possa Giove far che ciò sia vero!

A me la differenza fra noi due

fa paura. La vostra nobiltà

non conosce paura; ma io tremo

al sol pensiero che, per puro caso,

come a voi è successo, vostro padre

possa trovarsi a passare di qua.

Misericordia!(110) Che faccia farebbe

nel veder la sua opera, sì nobile,

dentro una così vil rilegatura?

Che mai direbbe? E come potrei io,

in questa mia pasticcia bardatura,

sostenere il suo sguardo di rimprovero?

FLORIZEL - Tu devi sol pensare a star serena.

Gli stessi dèi talvolta, per amore,

umiliando la lor divinità,

si tramutarono perfino in bestie:

Giove muggì, mutandosi in un toro;(111)

Nettuno, il verde, si mutò in ariete,

e si mise a belare;(112)

e il dio ignivestito, l’aureo Apollo

si tramutò in modesto pastorello,(113)

qual io appaio adesso.

Ma nessuno di lor cangiò sua forma

per più rara beltà di quella tua;

né il loro amore fu del mio più casto,

perché mai corsero i miei desideri

che onor non li frenasse;(114) né il mio sangue

arde più caldo della mia onestà.

PERDITA - Oh, signore, ma un tal vostro sentire

non potrà certo reggere,

quando sarà, come sarà di certo

ostacolato dal voler del re.

Una di queste due necessità

dovrà allora parlare:

o rinunciare voi all’amor mio,

o io alla mia vita.

FLORIZEL - Perdita mia diletta, te ne prego,

non oscurar la gioia della festa

con sì tristi pensieri. O sarò tuo,

mia cara, o non sarò più di mio padre:

perch’io più di nessuno potrò essere,

né di me stesso, né di nessun altro,

se non sarò più tuo; e in ciò son fermo,

per quanti “no” possa dire il destino.

Allegra, dunque: va, soffoca in te

questi pensieri col tuo primo incontro.(115)

Arrivan gli invitati: mostra loro

sereno il volto, come fosse questo

il giorno stesso della cerimonia

delle nozze che noi ci siam giurati.

PERDITA - Oh, siateci propizia, Dea Fortuna!

Entrano il PASTORE, il CONTADINO suo figlio, MOPSA e DORCA. Li seguono POLISSENE e CAMILLO travestiti da villici.

FLORIZEL - Ecco i tuoi ospiti che s’avvicinano:

ora disponiti ad intrattenerli,

e l’allegria ci splenda a tutti in viso.

PASTORE - (A Perdita)

Vergogna figlia! Quando era ancor viva

la mia povera vecchia, in questo giorno

faceva tutto lei: la vivandiera,

la cantiniera, la cuoca, la dama

e la serva: accoglieva tutti lei,

pronta a servire tutti, disponibile

a farsi la sua bella cantatina,

il suo giro di danza: ora di qua,

a capotavola, ora nel mezzo,

una parola all’uno, ed una all’altro,(116)

le guance in fuoco per il gran daffare;

e se beveva un goccio, a rinfrescarsi,

lo faceva brindando a questo e a quello.

Tu te ne stai laggiù, tutta appartata,

come fossi una semplice invitata,

e non già la regina della festa.

Su, ti prego, va’ a dare il benvenuto

a quei due ospiti che non conosco:(117)

è così che ci si conosce meglio

e si diventa amici... Animo figlia!

Spegni i rossori, e preséntati a tutti

quella che sei, Regina della Festa!

Avanti, porgi il nostro benvenuto

alla tua festa della tosatura,

sì che il gregge ti cresca prosperoso.

PERDITA - (A Polissene)

Benvenuto signore, il padre mio

vuole che in questo giorno spetti a me

far gli onori di casa.(118)

(A Camillo)

E benvenuto anche a voi, signore.

Dorca, portami qua codesti fiori...(119)

Riveriti signori, ecco per voi

la ruta e il rosmarino: son verzure

che si mantegon fresche ed odorose

lungo tutto l’inverno: sian per voi

segno di buona grazia e buon ricordo.

Benvenuti alla nostra tosatura.

POLISSENE - Sei gentile, pastora,

e bene hai scelto verzure d’inverno

per l’età nostra.

PERDITA - In verità, signore,

i fiori di stagione più vistosi,

coll’invecchiar dell’anno,

quando l’estate non è ancora morta,

né ancora nato il tremolante inverno,

son i garofani e le violacciocche,

che chiamano “bastardi di natura”;

però il seme di quelle varietà

non cresce al nostro rustico giardino,(120)

né m’interessa farcene trapianto.

POLISSENE - Perché non v’interessa, mia carina?

PERDITA - Perché m’han detto che la screziatura

che varia il lor colore è un artificio

che usurpa la potenza creatrice

della grande Natura.(121)

POLISSENE - E sia pur vero; però la natura

da nessun altro mezzo è migliorata

che non venga dalla natura stessa;

onde anche l’arte che, come voi dite,

aggiunge qualche cosa alla natura,

è anch’essa un’arte fatta da natura.

Vedete, per esempio, mia carina,

noi maritiamo un nobile virgulto,

per mezzo dell’innesto,

a un tronco della specie più volgare,

e da una gemma di più nobil razza

facciamo fecondare una corteccia

d’una specie più bassa: questa è un’arte

che non solo corregge la natura,

ma la cambia, ed è pur sempre natura.

PERDITA - È così, infatti.(122)

POLISSENE - E allora fate ricco

anche voi di striate violacciocche

il giardino, e non ditele bastarde.

PERDITA - Non vorrei far un buco nel terreno

per farci crescere un loro germoglio

più di quanto ambirei sentirmi dire

(Indica Florizel)

da questo giovane: “Quanto sei bella!”,

quando mi fossi impiastricciato il viso,

e mi desiderasse sol per questo.

(A Camillo)

Fiori anche per voi: lavanda fresca,

santoreggia, cedrina, maggiorana;

il fiorrancio, che va a letto col sole

e col sole si leva, lacrimando:(123)

son tutti fiori della mezza estate,

che mi sembrano meglio convenirsi

ad uomini di mezza età: e con ciò,

siate assai benvenuti a questa festa.

CAMILLO - Fossi una pecora del vostro gregge,

cesserei di brucare,

e sol mi pascerei guardando voi.

PERDITA - Oh, Dio! Diventereste sì smagrito,

che i soffi di gennaio

vi passerebbero da parte a parte.

(A Florizel)

Per voi, invece, bellissimo amico,

vorrei aver fiori di primavera

che più si addicono alla vostra età...

(Poi, volgendosi alle altre giovani)

... e alla vostra, ed a quella di voi tutte

che ancor portate sui vergini rami

le gemme in fiore della castità.

Oh, avessi qui, Proserpina, quei fiori

che lasciasti cadere, spaventata,

dal carro di Plutone:(124) gli asfodeli,

che primi adornano di sé i declivi

quando non s’è affacciata ancor la rondine,

innamorando della lor bellezza

i primi venti di marzo; le viole,

nascose ed umili ma più soavi

delle palpebre stesse di Giunone

e dell’alito di Citerèa;(125) le primule,

pallide e destinate a morir nubili

prima d’aver potuto sostenere

lo sfolgorante vigore di Febo(126)

(com’è destino di molte fanciulle);

le presuntuose bocche di leone,

e gigli d’ogni specie, e il fiordaliso

in mezzo a tutti. Tutti questi fiori

io qui vorrei, per farvene ghirlande...

(A Florizel)

... e a voi, mio dolce amante,

gettarne tanti da coprirvi tutto.

FLORIZEL - Uh, come un morto?

PERDITA - No, come un bel prato,

perché amore vi si distenda sopra,

a giocare... o come un morto, sì,

da seppellire però caldo e vivo

tra le mie braccia... Ma venite, su,

prendeteli anche voi i vostri fiori:

mi par quasi di stare a recitare

come ho veduto far nei pastorali(127)

di Pentecoste; dev’esser quest’abito

che mi fa sentir altra da me stessa.

FLORIZEL - Qualunque cosa tu faccia, mia cara,

fa sol più bello quel che fai: se parli,

vorrei che non finissi più; se canti,

vorrei vederti far tutto cantando:

comprare, vendere, far l’elemosina,

pregare, attendere alle tue faccende,

tutto sempre cantando; quando balli,

vorrei mutarti in un’onda del mare,

e che tu non avessi altro da fare

che muoverti così, sempre così.

Ciascuna tua movenza,

così perfetta in ogni suo dettaglio,

corona sì ogni cosa che tu fai,

ch’ogni tua mossa è una regina.

PERDITA - Oh, Doricle!

Le vostre sono lodi esagerate.

Se l’età vostra giovane

e la sincerità del vostro sangue

che così bellamente ne traspira

non vi dicessero un pastore onesto,(128)

avrei proprio ragione di temere,

mio Doricle, che mi corteggiate

a un fine disonesto.

FLORIZEL - Hai sì poca ragione di temerlo

quant’io non pensi dartene.

Ma su, danziamo, tocca a noi, ti prego.

La tua mano, Perdita mia diletta...

(Si prendono per le mani per danzare)

Ecco, così s’appaiano i colombi

che non si vogliono più separare.

PERDITA - Ed io questo ti giuro, in loro nome.

(S’allontanano ballando)

POLISSENE - Quella è la più vezzosa forosetta

ch’abbia calcato mai erba di prato:

non c’è atto o movenza

dai quali non traspiri un qualche cosa

di più grande di lei, di troppo nobile

per aver stanza in un simile ambiente.

CAMILLO - Il ragazzo le dice ora qualcosa

che la fa rossa in viso...

In fede mia, costei è una regina,

sia pur delle giuncate e della panna!

CONTADINO - (Venendo avanti con altri villici)

Musica, su, attacca!

DORCA - La tua dama dev’esser Mopsa, eh!

Mastica aglio, prima di baciarla!

MOPSA - Va’ in malora, linguaccia!

CONTADINO - Basta, ohé!

Vediamo di trattarci con le buone,

non siamo dei bifolchi. Avanti, musica!

(Musica di pifferi e tamburelli)

POLISSENE - (Al vecchio pastore)

Buon pastore, chi è quel bel garzone

che balla con la vostra bella figlia?

PASTORE - Ho udito che si fa chiamare Doricle,

e si vanta d’avere ricchi pascoli;

me l’ha detto lui stesso, ed io ci credo,

perché ha la faccia della verità.

Dice ch’è innamorato di mia figlia,

ed anche in questo son portato a crederlo,

perché non ho mai visto così immobile

la luna piena a specchiarsi nell’acqua

com’egli se ne sta fisso ed immobile

a specchiarsi negli occhi di mia figlia;

e penso, a dirla tutta, che dei due

a stabilir chi sia più innamorato

non ci corra nemmeno mezzo bacio.

POLISSENE - Balla con molta grazia la fanciulla.

PASTORE - Così come - ma non starebbe a me di dirlo -

ella con grazia fa tutte le cose.

E se il giovane Doricle

si dovesse decidere per lei,

gli porterà quant’ei neppur si sogna.

Entra un SERVO

SERVO - (Al pastore)

Padrone, c’è un girovago alla porta

che se voi qui sentiste come canta,

vi passerebbe il gusto di ballare

a suon di pifferi e di tamburelli...

che dico, ma nemmeno la zampogna

vi farebbe più muovere un sol passo!

Canta tante canzoni,

come se ne infilasse una sull’altra

più veloce che voi a contar soldi;

e ve le butta fuori dalla bocca,

come se avesse ingoiato ballate.

E tutti intorno a lui,

ad ascoltarlo con le orecchie aguzze.

CONTADINO - Arriva proprio a punto. Fallo entrare,

ché io ci ho un debole per le ballate,

specie quando raccontan cose tristi

in tono allegro, oppure roba allegra

cantata su melodie strappacuore.

SERVO - Ha canzoni per tutti, uomini e donne,

fatte a misura; non c’è mercivendolo

che venda guanti così ben calzanti

pei suoi clienti. Ha romanze graziose,

- e, cosa rara, senza oscenità -,

per le ragazze, con dei ritornelli

di “trulla” e “trillalà” così aggraziati,

che se qualche sfacciato sporcaccione

sta, diciamo, a vederci la malizia,

e vuol cacciarci qualche porcheria,

lui, abilmente, nella stessa strofa

gli fa rispondere dalla ragazza:

“Eh, no, brav’uomo, non mi molestare!”,

e lo allontana con un manata:

“Va’, va’, brav’uomo, non m’infastidire.”

POLISSENE - (Al servo)

Un tipo spiritoso, a quanto pare.

PASTORE - (c.s.)

Un geniaccio, da come lo descrivi.

SERVO - Ci ha nastri e gale di tutti colori

che manco quelli dell’arcobaleno;

e ricami con più punti e trapunti

che non hanno cavilli ed arzigogoli

i più dotti avvocati di Boemia,(129)

se pur venissero tutti da lui

a comprarli all’ingrosso.

Eppoi fettucce per le giarrettiere,

svolazzine, cambrì, lini di Reims,

ed a ciascuno lui ci canta sopra

come fossero tante deità,

sì che a sentirne decantare i pregi

in quel modo, tu quasi ti convinci

che una sua camiciola è un angioletto

dai polsini ai ricami del davanti.

CONTADINO - Fallo passare, e che arrivi cantando.

PERDITA - Avvertilo, però, di stare attento

a non usare termini scurrili.

(Esce il servo)

CONTADINO - (A Perdita)

Ce ne sono di questi giramondo,

sorella, che hanno in sé

più di quanto si possa immaginare.

PERDITA - Sì, buon fratello, ammesso che ci sia

chi voglia divertirsi a immaginarlo.

(Entra AUTOLICO, con una falsa barba, con un grosso pacco e cantando)

AUTOLICO - “Lini più bianchi di recente brina,

“sete più lucide d’ala corvina;

“guanti simili a rose damaschine,

“belle per nasi e facce mascherine,

“Monili di giaietto, collanine,

“donne; cuffiette e pettine dorate,

“ragazzi, per le vostre fidanzate.

“Venite, gente, venite a comprare;

“gentili garzoncelli, su, venite,

“se no, le vostre belle, impermalite,

“si sdegnano, non fatele frignare:

“Ragazzi, su, venite qui a comprare!”

CONTADINO - S’io non facessi all’amore con Mopsa,

tu, con me, non ci batteresti un chiodo;

ma allacciato con lei come mi sento,

mi converrà di far l’allacciamento

di qualche cosa, un guanto, un ornamento.

MOPSA - Me l’avevi promesso

già prima della festa; ma è lo stesso,

troppo tardi non vien nemmeno adesso.

DORCA - A dir la verità,

ben altro t’ha promesso quello là.

MOPSA - Quel che ha promesso a te ha pagato tutto,

e forse t’ha pagato anche di più,

che ti farà vergogna di ridargli.

CONTADINO - Evvia, ragazze, che modi son questi?

O volete mostrare il deretano

al posto della faccia? Non vi basta,

per sbottonarvi tutte queste storie

quando mungete, quando andate a letto,

o quando state alla bocca del forno,

che le venite a spiattellare qui,

davanti a tutti questi convitati?

Per fortuna che sono tutti intenti

a bisbigliar tra loro. Ma voi due

chiudete il becco e non una parola!

MOPSA - Io, per me, ho finito. Ma, di un po’,

ma tu, di’ un po’, non m’avevi promesso

di comperarmi uno scialle di pizzo

ed un paio di guanti colorati?

CONTADINO - E non t’avevo detto che i teppisti

m’han truffato e m’han fatto repulisti?

AUTOLICO - Eh, certo che ce n’è di truffatori

in giro; s’ha da stare molto attenti.

CONTADINO - Qui, però, amico, tu puoi star tranquillo,

non ti verrà a mancar manco uno spillo.

AUTOLICO - Così spero, signore;

ché ho con me assai pacchi di valore.

CONTADINO - E qui che ci hai? Ballate?

MOPSA - Oh, sì, ti prego, compramene una:

mi piace assai stampata, una ballata,

perché così siam certi che sia vera.

AUTOLICO - Eccone una, però da cantare

su un’aria triste: parla di una donna

moglie d’uno strozzino, che d’un colpo

partorì venti sacchi di denaro

e poi le venne voglia di mangiare

teste di vipera e rospi alla griglia.(130)

MOPSA - Credete che sia vero?

AUTOLICO - Autentico. Di appena un mese fa.

DORCA - Sposare uno strozzino! Dio mi guardi!

AUTOLICO - Vi si nomina pure la mammana,

una certa madama Linguacciuti,(131)

ed anche cinque o sei delle comari

che si trovavano presenti al fatto.

Dovrei portare in giro delle frottole?

MOPSA - (Al Contadino)

Ah, compramela questa, per favore!

CONTADINO - (Ad Autolico)

Beh, per ora mettetela da parte,

e mostrateci intanto altre ballate;

che poi vi compreremo anche dell’altro.

AUTOLICO - Eccone un’altra: si parla d’un pesce

che fu visto apparire sulla costa

il giorno ottanta, mercoledì, d’aprile,

quarantamila braccia sopra l’acqua,

e si mise a cantar questa ballata

contro le verginelle cuore duro:

già, diceva che lui era una donna

ch’era stata mutata in freddo pesce

perché non volle mischiar la sua carne

con la carne dell’uomo che l’amava.

È una ballata molto melanconica,

ma la storia che canta è tutta vera.

DORCA - Vera, anche questa, dite?

AUTOLICO - Garantito.

Ad attestarlo c’è tanto di firma

di cinque giudici di tribunale

e ci son più testimonianze scritte

di quante ne contenga questo sacco.

CONTADINO - Mettete a parte pure questa. Un’altra.

AUTOLICO - Eccola: questa è una ballata allegra,

ma davvero qualcosa di grazioso.

MOPSA - Sentiamone di veramente allegre.

AUTOLICO - Allora: questa: questa è più che allegra,

e si canta sull’aria popolare:

“Due ragazze facevano la corte

ad un sol uomo”: dalle nostre parti

non c’è ragazza che non la conosca.

È assai richiesta, ve lo garantisco.

MOPSA - La conosciamo bene pure noi:

va cantata a tre voci:

se tu vuoi far la terza, la cantiamo.

DORCA - Sì, l’abbiamo imparata un mese fa.

AUTOLICO - Io la parte del terzo la so fare,

è il mio mestiere... Allora, forza, insieme:

(Dorca e Mopsa si avvicinano ad Autolico e si accingono a cantare)

BALLATA

AUTOLICO - “Via di qua, ch’io debbo andare.

“Dove, non vi posso dire.

DORCA - “Dove, dunque?

MOPSA - Dove?

DORCA - Dove?

MOPSA - “Il segreto m’hai giurato

“che m’avresti rivelato.

DORCA - “Anche a me; vengo con te.

MOPSA - “Non mi dici dove andrai,

“se al mulino od ai granai?

DORCA - “Se in entrambi, saran guai!

AUTOLICO - “In nessun dei due io vo.

DORCA - “Come no?

AUTOLICO - “No, proprio no.

DORCA - “Infedele innamorato,

“il tuo amore m’hai giurato.

MOPSA - “Ne giurasti a me di più,

“dunque di’: dove vai tu?”

CONTADINO - Andiamola a provare insieme a parte

questa ballata; credo che mio padre

e quei due gentiluomini son lì

intenti non so a che gravi parlari,

e non è il caso che li disturbiamo.

(Ad Autolico)

Andiamo, prendi le tue robe e seguimi.

Ragazze, ve ne compro a tutte e due.

Merciaio, noi vogliamo tutta roba

di prima scelta. Ragazze, seguitemi.

(Esce con Dorca e Mopsa)

AUTOLICO - (Mentre raccoglie le sue mercanzie per seguirli)

Ti costeranno care, amico mio.

(Canticchia)

“Vuoi comprare un bel nastrino

“pel giubbetto o il cappellino,

“mio soave piccioncino?

“E di seta un bel rocchetto?

“Pei capelli un bel fiocchetto,

“il più nuovo, il più elegante?

“Vieni al banco del mercante:

“il suo banco è sottomano,

“e il denaro, se è sonante,

“fu sempre ottimo mezzano”.

(Esce)

Rientra il SERVO

SERVO - (Al Pastore)

Padrone, son di là tre barrocciai,

tre pecorai, tre bovai, tre porcai,

che si son trasformati tutti quanti

in uomini coperti di pelurie.

Dicono che si chiamano “saltieri”(132)

e ballano una danza indiavolata

che, a sentir le ragazze,

è solo un’accozzata di sgambate

(forse perché non ci son parte loro);

ma esse stesse dicon che quel ballo

se non potrà sembrare troppo rozzo

a chi sa solo il gioco delle bocce,

piacerà molto.

PASTORE - Via! Per carità!

Alla larga! Ne abbiamo già abbastanza

di queste pagliacciate campagnole!

(A Polissene)

Lo, so, signore, noi vi diamo noia.

POLISSENE - Voi date noia a questi bravi villici

che son venuti qui per divertirci;

Di grazia, fate che possiam vederli

questi quattro terzetti di mandriani.

SERVO - Uno di questi terzetti ha ballato,

essi dicon, signore, avanti al re;(133)

ed anche il meno bravo tra di loro

è capace non meno di saltare

dodici piedi e mezzo, misurati.

PASTORE - Basta le chiacchiere. Visto, ragazzo,

che questa brava gente lo gradisce,

falli venire avanti, ma alla svelta!

SERVO - Son giusto qui alla porta, signoria.

(Esce e rientra subito con dodici personaggi vestiti da satiri che eseguono, senza musica, una specie di danza moresca, e se ne vanno subito)

POLISSENE - (Al pastore)

Buon vecchio, ne saprete più tra poco.

(S’allontana con Camillo)

Non credi che le cose, tra quei due,

siano andate troppo oltre?

È ora di dividerli. Il ragazzo

è candido di cuore, e parla troppo.

(A Florizel)

Ehi là, mio bel pastore!

Il vostro cuore è pieno di qualcosa

che vi rende svagato alla festa.

Al tempo ch’ero anch’io giovane e amante

come mi par che siate adesso voi,

provavo non so dir quale trastullo

a ricoprir la mia bella di ninnoli;

per lei avrei perfino saccheggiato

il tesoro di sete del mercante

e glielo avrei rovesciato davanti

perché se ne scegliesse a suo talento;

voi l’avete lasciato allontanarsi

senza comprarle nemmeno uno spillo.

Se mai dovesse la vostra ragazza

interpretare questo come un segno

di mancanza d’amor o tirchieria,

non so che cosa potreste risponderle,

se ci tenete a vederla contenta.

FLORIZEL - Venerando signore, so che ella

non fa conto di certe cianfrusaglie;

i doni ch’ella s’attende da me

sono tutti rinchiusi nel mio cuore,

ed io glieli ho già tutti destinati,

anche se non ancora consegnati.

(A Perdita che s’avvicina confusa)

Ah, senti com’io apro la mia anima

davanti a questo attempato signore,

che, come pare, un tempo anch’egli amò.

Io ti prendo la mano, questa mano

soffice come piuma di colomba,

com’essa bianca, bianca come il dente

che s’affaccia al sorriso d’un Etiope,

o come neve due volte vagliata

dalle raffiche della tramontana...

POLISSENE - Eppoi, eppoi, che ne seguirà ora?

Con quanta grazia il giovane pastore

sembra voler detergere quella mano

di lei già tanto candida!

(A Florizel)

Oh, perdonatemi se v’ho interrotto...

Continuate pure, giovanotto,

nelle vostre profferte: voglio udirle.

FLORIZEL - Va bene, e siatene buon testimone.

POLISSENE - Anche il signore che mi sta qui accanto?

FLORIZEL - Lui, e chiunque altro, e tutti gli uomini,

la terra, il cielo, e tutto l’universo!

Quand’io pur fossi stato incoronato

il più imperiale monarca del mondo,

siccome a ciò più ritenuto degno:

quand’io pur fossi il giovane più bello

che mai avesse attratto a sé gli sguardi,

e avessi in me più forza e conoscenza

che mai altr’uomo, non saprei che fare

di tutto questo senza l’amor suo;

ché vorrei, o impiegare per lei sola

al suo servizio, tutte queste doti,

oppure mandar tutto alla malora.

POLISSENE - Come dichiarazione, non c’è male.

CAMILLO - Dimostrazione di un solido affetto.

PASTORE - E tu, figlia, che cos’hai da rispondergli?

PERDITA - Io non so parlar bene come lui,

né pensar meglio; ma posso stagliare

alla stregua dei sentimenti miei

la purezza dei suoi.

PASTORE - Bene, allora prendetevi per mano:

è cosa fatta! E voi, ignoti amici,

(A Polissene e Camillo)

siatemi testimoni: io do mia figlia

a lui in sposa, e le farò una dote

uguale a quella che porterà lui.

FLORIZEL - Oh, questa dote d’eguale valore

vostra figlia l’ha già: la sua virtù.

E quanto a me, possederò di più

di quanto voi possiate immaginare,

alla morte di alcuno che so io:

tanto di più da farvi sbalordire.

Ma ora, innanzi a questi testimoni,

vogliate fidanzarci ufficialmente.

PASTORE - La vostra mano, qua; e la tua, figliola...

(Sta per unire le due mani, quando Polissene s’intromette e lo ferma)

POLISSENE - Un momento, pastore, per favore!

(A Florizel)

Avete voi un padre, giovanotto?

FLORIZEL - Sì, e con ciò?

POLISSENE - Egli sa di tutto questo?

FLORIZEL - No, né dovrà saperlo.

POLISSENE - Penso che agli sponsali di suo figlio

il padre debba avere il primo posto

tra gli invitati. Un’altra cosa, prego:

è forse vostro padre diventato

del tutto rimbambito dall’età

e dalle alterazioni catarrali,

incapace di ragionar d’affari,

di distinguere un uomo da un altr’uomo?

È in grado di parlare, di sentire?

Di ragionar del proprio patrimonio?

Oppure se ne sta costretto a letto,

ridotto a non saper nient’altro fare

che quello che faceva da bambino?

FLORIZEL - No, buon signore, è in ottima salute

ed in assai migliori condizioni

di moltissimi della sua età.

POLISSENE - Per questa barba bianca! Se è così,

gli fate un torto alquanto snaturato:

perché ragione vuole, sì, che un figlio

debba sceglier da sé la propria moglie,

ma che il padre (la cui più grande gioia

è d’avere una bella discendenza)

abbia una certa parte in questa scelta.

FLORIZEL - Lo ammetto, ma per certe altre ragioni

che non è il caso ch’io vi stia a spiegare,

mio padre, io, non intendo informarlo.

POLISSENE - Informatelo, invece.

FLORIZEL - No.

POLISSENE - Vi prego...

FLORIZEL - Vi dico che non deve saper niente.

PASTORE - Informalo, figliolo;

non è poi detto ch’ei debba dolersi

quando avrà conosciuto la tua scelta.

FLORIZEL - Via, via, non deve. Pensiamo al contratto.

POLISSENE - (Scoprendosi)

Al tuo divorzio, pensa, signorino,

che non m’azzardo a chiamare mio figlio,

ché tu mi sei caduto troppo in basso

perch’io ti riconosca come tale:

tu, erede d’uno scettro,

sospirar pel vincastro d’un pastore!

(Al pastore)

E tu, vecchio imbroglione rinnegato,

mi dispiace soltanto che, impiccandoti,

t’accorcerò la vita

forse non più che d’una settimana!

(A Perdita)

E tu, fresco esemplare

d’eccellentissima stregoneria,

che non potevi, perciò, non conoscere

con che idiota di principe reale

t’eri messa a trescare...

PERDITA - Oh, cuore mio!...

POLISSENE - ... ti farò scorticare dalle spine

cotesta bella faccia,

da ridurla più scempia del tuo stato!

(A Florizel)

In quanto a te, scimunito bamboccio,

se saprò che avrai fatto un sol sospiro

per più non riveder questo gingillo,

(e non lo rivedrai, sta’ pur sicuro!)

ti escluderemo dalla successione

e non ti riconosceremo più

del nostro sangue, più nostro parente,

nemmeno a risalire a Deucalione.(134)

Fìccati in testa queste mie parole,

ed ora insieme a noi rientra a corte.

(Al pastore)

Tu, vecchio tanghero, per questa volta,

sebbene hai meritato il nostro sdegno,

sei affrancato dal mortal castigo

che avevamo deciso di irrogarti.

(A Perdita)

E tu, incantatrice,

degna d’un pecoraio, ed anche, sì,

(Indica Florizel)

di lui, se non toccasse il nostro onore,

di lui, che s’è abbassato a un tal livello

da dimostrarsi indegno anche di te,

se t’accada, da questo istante in poi,

di aprirgli i tuoi rurali chiavistelli

e di chiuderlo ancor nelle tua braccia,

avrai morte da me, tanto crudele

per quanto tenera tu sei per essa.

(Esce)

PERDITA - Perduta, un’altra volta!...(135)

E tuttavia non m’ha fatto paura,

anzi una volta o due ero tentata

di parlare e di dirgli senza ambasce

che quello stesso sole che risplende

sulla sua corte non ritrae il volto

dalla nostra capanna,

ma la guarda all’identica maniera.

(A Florizel)

Mio signore, perché non ve ne andate?

Io tutto questo ve l’avevo detto.

Vi scongiuro, pensate al vostro stato!

Ora che son destata dal mio sogno

non voglio recitare un solo istante

la parte di regina,

me ne ritorno a munger le mie pecore

e a piangere.(136)

CAMILLO - (Al pastore)

E tu, vecchio, che dici?

Parla, se ti rimane un po’ di fiato.

PASTORE - Io non so più parlare, né pensare,

né più osar di sapere quel che so.

(A Polissene)

Oh, mio signore, avete annichilito

un uomo vecchio d’ottantatré anni

che pensava di scender nella tomba

in santa pace e poter chiuder gli occhi

nel letto stesso in cui morì suo padre,

e riposare accanto alle sue ossa

d’uomo onesto; ed invece sarà il boia

ad avvolgermi attorno il suo lenzuolo

e a deporre il mio corpo dove prete

non verrà a spargermi un pugno di terra.

(A Perdita)

Maledetta fanciulla, tu sapevi

che costui era il principe reale,

e ti sei tuttavia avventurata

a scambiare con lui voti d’amore!

È finita per me! Io son perduto!

Potess’io aver morte adesso, subito,

sarei vissuto almeno per morire

quando avessi voluto!

(Esce)

FLORIZEL - (A Perdita)

Perché mi guardi così, mia diletta?

Sono afflitto, ma non impaurito;

ostacolato, sì, ma non mutato;

quello ch’io ero sono, e tanto più

a te proteso, quanto più impedito;

deciso a non seguire il mio guinzaglio

senza sentirne la minima voglia

CAMILLO - Mio grazioso signore, voi sapete

di che metallo è fatto vostro padre:

sul momento, non vuol sentir discorsi,

né credo abbiate volontà di fargliene.

Ho paura, che, almeno pel momento,

mal sopporti perfino di vedervi.

Sarà bene perciò, che fino a tanto

che non si sia placata la sua furia,

evitiate di comparirgli innanzi.

FLORIZEL - Non ne ho la minima intenzione, infatti.

(Riconoscendolo)

Camillo... vero?

CAMILLO - Proprio lui, signore.

PERDITA - (A Florizel)

Quante volte v’ho detto

che tutto andava a finire così!

Quante v’ho detto

che questa mia felice condizione(137)

sarebbe sol durata fino a tanto

che non fosse scoperta?

FLORIZEL - Durerà,

invece, durerà perché finire

non potrà mai, se non per violazione,

da parte mia della giurata fede;

ma se questo dovesse mai succedere,

schiacci natura l’uno contro l’altro

i fianchi della terra, e imputridisca

fino all’ultimo i germi che contiene!

Solleva a me il tuo sguardo, mia diletta!

Padre, cancella pure il nome mio

dal mio diritto alla tua successione!

CAMILLO - Oh, siate ragionevole...

FLORIZEL - Lo sono, per quel tanto che mi serve

per eseguir quel che mi detta amore.

Se la ragione mia vorrà obbedirgli,

io mi comporterò razionalmente;

se no, tutte le fibre del mio animo,

meglio piacendosi della follia,

alla follia daranno il benvenuto.

CAMILLO - Questa è disperazione, monsignore.

FLORIZEL - Chiamatela come volete voi:

essa è l’adempimento dei miei voti

e non posso vederci che onestà;(138)

perch’io, per tutto il regno di Boemia,

e la pompa che me ne verrebbe:

per tutto ciò su cui risplende il sole,

o che la terra chiude nel suo grembo,

per tutto ciò che l’oceano profondo

tien nascosto negli isolati abissi

non saprei venir meno alla promessa

giurata a questo bell’amore mio.

Perciò vi prego, voi che di mio padre

foste sempre l’amico più ascoltato,

quando mi cercherà senza trovarmi

(perché più non intendo rivederlo),

spalmate voi sul suo risentimento

il balsamo dei vostri buoni uffici:

col mio destino me la vedrò io.

Questo sappiate e questo riferite:

io sto in procinto di prendere il mare

con lei che m’è vietato di tenermi

su questa sponda; ho appunto, a tal bisogna,

una nave ormeggiata qui da presso,

se pur non preparata a questo viaggio.

Quanto alla rotta che intendo seguire,

non vi servirà a nulla di conoscerla,

come a me preme non farla sapere.

CAMILLO - Eh, signore, vorrei che aveste un animo

più ricettivo per gli altrui consigli

e più temprato per le avversità.

FLORIZEL - Perdita, ascolta...

(La prende da parte)

(A Camillo)

Scusate un momento.

Ci sentiamo tra poco.

(Si allontana con Perdita)

CAMILLO - (Tra sé)

È irremovibile.

Risoluto alla fuga...

Potessi volgere la sua partenza

al mio disegno! Salvar dal pericolo

questo ragazzo offrendogli così

una prova d’amore e di rispetto

e procurare a me stesso il piacere

di riveder la cara mia Sicilia

e quello sventurato suo sovrano

mio padrone... Ne ho tanto desiderio!

E ne sarei veramente felice!

FLORIZEL - (Riavvicinandosi)

Eccomi a voi, mio ottimo Camillo.

Son tanto preso da assillanti cose,

che debbo trascurare ogni riguardo,

CAMILLO - Signore, credo siate a conoscenza

degli umili servigi da me resi

con affetto devoto a vostro padre...

FLORIZEL - So quanto nobilmente meritato

avete nel servirlo: per mio padre

parlar di voi e delle vostre azioni

è quasi un ritornello, con lo scrupolo

ch’egli si fa che siano compensate

nella misura in cui sono apprezzate.

CAMILLO - Ebbene, mio signore, se anche a voi

piacesse darmi riconoscimento

del mio attaccamento al re, e per lui

alla persona che gli è più vicina,

cioè la vostra, accettate il mio piano,

se mai quello da voi già definito

e ponderosamente meditato

possa subire una qualche variante.

Io posso, sul mio onore, indirizzarvi

in luoghi dove avreste un’accoglienza

qual deve convenirsi al vostro rango;

dove potrete vivere in letizia

con la vostra signora, dalla quale

vedo che non si potrà più distogliervi

se non a costo (i cieli non lo vogliano!)

della vostra rovina, e là sposarla.

Io stesso, in vostra assenza,

m’adopererò con tutte le mie forze

a rabbonir l’irato vostro padre,

e convincerlo a darvi il suo consenso.

FLORIZEL - Oh, Camillo, e tu credi sia possibile?

Sarebbe quasi, se fosse, un miracolo.

Dovrei dire di te

che sei qualcosa al disopra di un uomo,

ed affidarmi a te anima e corpo.

CAMILLO - Avete già pensato dove andare?

FLORIZEL - Non ancora; ma come fu impensato

l’accidente che è stato responsabile

di questa subitanea decisione,

così, schiavi del caso come siamo,

vogliamo andare come mosche al vento.

CAMILLO - Bene, allora sentite il mio consiglio:

se non volete mutare d’avviso

e siete ben deciso a questa fuga,

dirigetevi verso la Sicilia,

e presentatevi, colà sbarcati,

voi e la vostra bella principessa

(ché tale è destinata a diventare)

al re Leonte; ed ella sia vestita

in tale abbigliamento che s’addica

a colei che divide il vostro letto.

Mi par già di vedere il buon Leonte

spalancarvi le sue braccia ospitali

e porgervi il suo benvenuto in lacrime

chiedendovi: “Perdono, figlio mio!”,

come fosse davanti a vostro padre;

ed inchinarsi a baciare le mani

alla giovane vostra principessa

con l’animo diviso a volta a volta

tra la trascorsa sua malevolenza

e la gioia della bontà presente,

l’una votando al fuoco dell’inferno

l’altra augurandosi di vedere crescere

più veloce del tempo e del pensiero.

FLORIZEL - Mio nobile Camillo! E qual motivo

potremo addurgli noi di questa visita?

CAMILLO - Che v’ha mandato vostro padre, il re,

a recargli il fraterno suo saluto

ed una sua parola di conforto.

Come poi comportarsi, cosa dirgli

(come s’altro non foste agli occhi suoi

che un messaggero del re vostro padre)

su cose note soltanto a voi tre,

ve lo dirò più chiaro per iscritto,

dove v’indicherò punto per punto,

quel che dovrete dire ad ogni incontro

così ch’egli non abbia a pensar altro

se non che voi parlate essendo addentro

alla fiducia e al cuor di vostro padre.

FLORIZEL - Non so davvero come ringraziarvi.

C’è del buon succo di ragione(139) in questo.

CAMILLO - È un corso meno aperto alle incertezze

che avventurarsi senza alcuna meta

per acque inesplorate e lidi ignoti

verso un sicuro approdo di miserie

e senz’altra speranza di soccorso

che quella di restarsene aggrappati

ad una e poi all’altra, fino all’ultima

senza averne alla fine nessun’altra

cui affidarvi fuor che le vostre ancore,(140)

che tutto quel che vi potranno fare

sarà di trattenervi in qualunque luogo

in cui vi sarà odioso rimanere.

Senza dire - e voi certo lo sapete -

che l’agiatezza cementa l’amore,

mentre il vivere gramo ogni freschezza

corrompe, sia di guancia che di cuore.

PERDITA - Questo che dite è vero solo in parte:

son convinta che il vivere in angustia

può sciupar la freschezza della guancia,

ma non quella del cuore.

CAMILLO - Ah, così dite?

Ne passerà di tempo in casa vostra,

allora, prima che vi possa nascere

un’altra come voi!

FLORIZEL - Mio buon Camillo,

ella è tanto al disopra del suo stato

per quanto a noi inferiore per natali.

CAMILLO - Certo, di lei non credo possa dirsi:

“Peccato ch’ella manchi d’istruzione!”,

perché mi pare in grado di insegnarla

a molti che la insegnano.

PERDITA - Oh, signore,

voi mi fate arrossir con queste lodi!

Vi ringrazio.(141)

FLORIZEL - Perdita mia dolcissima!...

Oh, ma noi siamo adesso sulle spine!

Camillo, salvatore di mio padre

ed ora anche di me, tu, medicina

di casa nostra, di’: come faremo?

Noi non siamo provvisti d’un vestiario

che possa dirsi adatto alla persona

del figlio del sovrano di Boemia;

e, certo, non possiamo, in questi panni

presentarci alla corte di Sicilia.

CAMILLO - Di questo non dovete preoccuparvi:

immagino che siate a conoscenza

che là son tutti ancora i miei averi.

Prenderò io pertanto su di me

a che voi siate bene equipaggiati,

come s’io stesso fossi al vostro posto.

Anzi, per farvi stare più sicuro

che là non vi verrà a mancare nulla,

sentite che vi dico...

(Li trae a parlare in disparte)(142)

Entra AUTOLICO, senza accorgersi dei tre

AUTOLICO - Ah, l’Onestà, che emerita imbecille!

E la Fiducia, sua degna sorella,

che minchiona!...(143) Si son comprato tutto!

Di tutta quella mia chincaglieria

non m’è rimasta una pietruzza falsa,

un nastro, uno specchietto, una pomata,

una spilla, un taccuino, una ballata,

un temperino, una fettuccia, un guanto,

una stringa, un bracciale, un anellino

a rompere il digiuno del mio sacco!(144)

Facevan ressa a chi comprava prima,

come se tutte quelle cianfrusaglie

fossero tanti oggetti consacrati

recanti chi sa qual benedizione

al loro compratore; e in quel trambusto

ho potuto adocchiar le loro borse

(quelle che mi parevano più in carne),

e ricordarmele al momento giusto.

Quel contadino - al quale manca poco

per farlo dire un tipo ragionevole -

s’era sì fortemente incapricciato

della canzone di quelle ragazze

che non ha mosso più da me le gambe

finché non l’ha imparata tutta quanta,

parole e musica; e così facendo,

m’ha radunato intorno tutto il gregge:

stavano tutte là, coi loro sensi

talmente concentrati negli orecchi,

che avresti ben potuto ogni momento

dar loro un pizzicotto sulle natiche,

che non avrebbero sentito niente;

si poteva castrare agevolmente

a ciascuna la borsa col denaro,

e addirittura limare le chiavi

che pendevano dalle lor catene,

perché non ascoltavano nient’altro

che la canzone di quel mio messere,

tutti in estasi a quella baggianata.

Sicché tra quel letargo generale

ho potuto tagliare e piluccare

a mio agio una buona quantità

di quelle loro borse della festa.

E se non fosse venuto quel vecchio

a provocare tutto quel trambusto

contro sua figlia ed il figlio del re,

spaventandomi i gracchi dal becchime,

di tutto quell’esercito di borse

non ne sarebbe rimasta una viva.

CAMILLO, FLORIZEL e PERDITA si fanno avanti

CAMILLO - (Come seguitando con Florizel il discorso per cui l’aveva preso in disparte)

No, no, perché, vedete, la mia lettera,

trovandosi già là quando arrivate,

sarà già valsa a chiarire quel dubbio.

FLORIZEL - E la risposta che dal re Leonte

riceverete voi?

CAMILLO - Dovrà servire

a placare a sua volta vostro padre.

PERDITA - (A Camillo)

Che Dio vi dia felicità e fortuna!

Tutto quello che dite è molto bello.

CAMILLO - (Si accorge della presenza di Autolico)

Chi abbiamo qui?... Toh, guarda, ecco qualcuno

che può servirci... Nulla trascurare

che possa riuscir di qualche aiuto.

AUTOLICO - (Tra sé)

Accidenti, se questi m’han sentito,

per me è la forca...

CAMILLO - Senti un po’, brav’uomo...

Eh, diamine, perché tremi cosi?

Su, non aver paura, giovinotto,

qui nessuno ti vuole far del male.

AUTOLICO - Sono un povero diavolo, signore.

CAMILLO - Per me, lo puoi restare: questa dote

nessuno te la vuole portar via;

ma proprio in grazia dell’aspetto esterno

della tua povertà ci vien bisogno

di far con te un baratto, in tutta urgenza:

e dunque spògliati qui, su due piedi,

(si tratta, come puoi capire, amico,

d’una necessità indilazionabile),

e scambia i panni che ti porti addosso

col vestito di questo gentiluomo.

È lui che ci rimette, ma che importa;

anzi, tieni, c’è qui anche un compenso.

(Gli dà del denaro)

AUTOLICO - Sono un povero diavolo, signore...

(Tra sé)

ma vi conosco bene, so chi siete.(145)

CAMILLO - Sì, va bene, ma spicciati a spogliarti:

il signore s’è già mezzo spogliato.

AUTOLICO - Ma parlate sul serio, monsignore?

(Tra sé)

Qui c’è sotto una qualche fregatura.

FLORIZEL - Presto, per carità!

AUTOLICO - Sì, va bene, ne ho preso già l’anticipo,

ma la coscienza mi dice di no.

CAMILLO - Andiamo, slaccia, slaccia!

(Florizel e Autolico si scambiano gli abiti)

Ora anche voi, fortunata signora

(e sia profetica questa parola)

dovete camuffarvi in qualche guisa;

prendetevi e calcatevi sugli occhi

il cappello del vostro innamorato,

in modo da nascondervi la faccia,

toglietevi di dosso quel mantello

e nascondete quanto più possibile

il vostro vero aspetto,

sì che sfuggiate agli occhi della gente

e possiate - poiché di questo temo -

salire a bordo non riconosciuta.

PERDITA - Vedo, da come si dipana il dramma,

che debbo assumere anch’io la mia parte.

CAMILLO - Non c’è altro da fare.

(A Florizel)

Siete pronti?

FLORIZEL - Se dovesse incontrarci ora mio padre,

non mi direbbe certo figlio suo.

CAMILLO - No, no, dovete andare senza cappello.

(Gli toglie di testa il cappello e lo dà a Perdita)

A voi, signora. Animo, signora.

(Ad Autolico)

Statevi bene, amico.

AUTOLICO - Adieu, signore.

FLORIZEL - Ah, Perdita, c’è ancora qualche cosa

che abbiam dimenticato... Vieni, ascolta.

(Si mettono da parte a parlare tra loro)

CAMILLO - (A parte)

Ora la prima cosa che ho da far

è d’informare il re di questa fuga

e d’indicargli dove son diretti;

la mia speranza è ch’io possa convincerlo

ad inseguirli; e per accompagnarlo

rivedrò finalmente la Sicilia,

una vista che mi sorride al cuore

come l’attesa d’una donna incinta.(146)

FLORIZEL - (Forte)

Ed ora ci accompagni la fortuna!

Camillo, noi ci affrettiamo all’imbarco.

CAMILLO - E quanto più spediti, tanto meglio!

(Escono Florizel, Perdita e Camillo)

AUTOLICO - Ho capito l’intrigo; ho udito tutto.

Orecchio fine, occhio e mano lesta,

son tutto quel che serve a un tagliaborse;

un buon naso è pur esso un requisito

per saper dove usare i propri sensi.

Vedo che questo è tempo di guadagni:

senza contar la mancia (e quale mancia!),

solo con questo scambio di vestiti

ho fatto certamente un buon affare.

Gli dèi quest’anno mi sono benigni,

e posso improvvisar qualsiasi colpo.

Il principe però sta pure lui

combinando una bella canagliata:

scappare di nascosto da suo padre

e per giunta con quella palla al piede!

Ma se pur reputassi cosa onesta

riferire questa faccenda al re,

non lo farei: tenergliela nascosta

mi par più canagliesco, e più fedele

alla morale della mia professione.

Entrano il CONTADINO e il PASTORE

AUTOLICO - (Facendosi da parte)

Oh, chi viene!... Attenzione, scantoniamo!

Qui c’è ancora dell’altro materiale

per un cervello fine... All’uomo accorto

non c’è vicolo cieco, non bottega,

non udienza, né chiesa o impiccagione

che non offrano l’occasione buona.

CONTADINO - Ecco, vedete in che pasticcio siete?

Non c’è altra via che andare a dire al re

ch’ella è una trovatella delle fate(147)

e niente affatto vostra carne e sangue.

PASTORE - Ma no, senti...

CONTADINO - Sentite me, piuttosto.

PASTORE - Va bene, parla allora, ch’io t’ascolto.

CONTADINO - Se vostra carne e sangue ella non è,

a fare offesa al re

non è stata la vostra carne e sangue;

onde per cui la vostra carne e sangue

non posson esser da lui puniti.

Gli mostrerete le segrete cose

che avete rinvenuto accanto a lei

(tranne quelle che lei si porta addosso),

dopodiché i rigori della legge

se ne possono andare a farsi friggere:

non rischierete niente. Garantito.

PASTORE - Al re, sì, dirò tutto quel che so,

parola per parola,

comprese le bravate di suo figlio

che, debbo dirlo, non s’è comportato

da galantuomo né verso suo padre

né verso me, perché è mancato poco

che mi facesse cognato del re.(148)

AUTOLICO - (A parte)

Come parlate bene, mammalucchi!

PASTORE - Bene, andiamo dal re:

ce n’è abbastanza in questo fagottino

perché si gratti ben bene la barba.(149)

AUTOLICO - (A parte)

Non so proprio di quale impedimento

potrà essere questa lor doglianza

alla fuga del mio ex padrone…

CONTADINO - Preghiamo il cielo ch’egli sia a palazzo.

AUTOLICO - (Tra sé)

Non sarò onesto per costituzione,

ma può accadermi d’esserlo per caso...

Via questo sedimento da girovago!

(Si toglie la barba finta)

Olà, rustica gente, dove andate?

PASTORE - A palazzo, signore, con licenza.

AUTOLICO - Perché, che avete a fare là? Con chi?

Che cosa avete dentro quel fardello?

Avanti: domicilio, nome, età;

condizione sociale, parentado

e quant’altro conviene declinare

per far conoscere l’identità.

CONTADINO - Siamo gente pulita,(150) signoria.

AUTOLICO - Menzogna: siete ruvidi e pelosi;

e badate a non raccontarmi frottole:

quelle son solo robe da mercanti

con cui fregano spesso noi soldati;

ma noi gliele paghiamo a suon di sghei

e non di pugnalate; onde per cui

vuol dir che a noi non ce la danno a intendere.(151)

CONTADINO - Vossignoria sembrava pronta a darcela,

se non si fosse trattenuta in tempo,

per buona educazione.(152)

PASTORE - Se vi piaccia, signore, con licenza,

siete forse qualcuno della corte?

AUTOLICO - Piaccia o non piaccia, della corte sono.

Non riconosci in questo mio vestire

l’aria di corte, il ritmo della corte

nel mio passo? Non fiuta in me il tuo naso

odor di corte? Sulla tua bassezza

non si riflette forse il mio distacco?

O pensi che io non sia uomo di corte

perché cerco di scandagliarti dentro

e farti sputar fuori i tuoi propositi?(153)

Son cortigiano dalla testa ai piedi,

uno che in alto loco può bloccare

o far marciare questa tua faccenda.

Ragion per cui farai bene - te l’ordino! -

a confidarmi subito il tuo caso.

PASTORE - Il mio caso riguarda il re, signore.

AUTOLICO - Chi hai come avvocato, avanti a lui?

PASTORE - Avvocato?... Non so cos’è, signore.

AUTOLICO - Avvocato, nel gergo cortigiano,

vuol dir fagiano.(154) Di’ che non ce l’hai.

PASTORE - Non l’ho, signore, né maschio né femmina.

AUTOLICO - (A parte)

Beati noi che non siam nati sciocchi!

A pensare però che la natura

mi poteva creare come loro,

converrà non trattarli con disprezzo.

CONTADINO - (Al padre, a parte)

Dev’essere davvero un pezzo grosso.

PASTORE - Sì, dal vestito si direbbe tale,

ma non lo porta come un gentiluomo.

CONTADINO - A me questi suoi modi stravaganti

me lo fanno apparir tanto più nobile.

Un grosso calibro sicuramente;

e poi ha in bocca lo stuzzicadenti.

AUTOLICO - E quel fagotto? Che c’è nel fagotto?

E quella scatola? A che vi serve?

PASTORE - Ci son robe segrete, monsignore,

in questo fagottello e in questa scatola,

che nessun altro, eccetto solo il re,

deve sapere; e lo saprà senz’altro,

se mi sarà concesso di parlargli.

AUTOLICO - Hai sprecato la tua fatica, vecchio.

PASTORE - Perché, signore?

AUTOLICO - Il re non è a palazzo;

è in mare a bordo d’un battello nuovo

per curarsi della malinconia

e respirar un poco d’aria fresca;

e se tu fossi in grado di capire

le cose serie, dovresti sapere

che il re è stracarico di dispiaceri.

PASTORE - Già, così dicono: per via del figlio

che si voleva prendere per moglie

la figlia d’un pastore.

AUTOLICO - E quel pastore

se non ha ancora le manette ai polsi,

farà bene a squagliarsela alla svelta,

o gli cadranno addosso tanti guai

e dovrà sopportar tali torture

da spezzare la schiena a un cristiano

o il cuore a un mostro.

CONTADINO - Davvero, signore?

AUTOLICO - E non sarà certamente lui solo

a sopportar quanto di più crudele

la mente umana e l’umana vendetta

sanno inventare, perché insieme a lui

tutti quelli della sua parentela

almeno fino al grado cinquantesimo

finiran nelle mani del carnefice;

il che, per quanta pena possa fare,

è inevitabile: un vecchio gaglioffo,

che va schifando appresso a delle pecore,

un volgare mandriano di montoni

che pretende di sistemar la figlia

nelle alte sfere della nobiltà!

C’è perfino chi vuole lapidarlo.

In realtà, per uno che ha tentato

di trascinare il trono in un ovile

quella morte sarebbe troppo dolce;

sarebbe troppo poco, dico io,

anche la più spietata delle morti.

CONTADINO - Non vi dispiaccia; signore, sentite,

sapete dirmi se quel vecchio ha un figlio?

AUTOLICO - Ha un figlio, che sarà scuoiato vivo,

e le sue carni spalmate di miele,

e posto accanto ad un nido di vespe

fintando che sia morto per tre quarti;

poi ristorato con dell’acquavite

o con qualche altro intruglio molto forte,

e quindi esposto, spellato com’è,

e nel giorno più caldo dell’estate

previsto dai lunari degli astrologi,

avanti a una parete di mattoni

al sol di mezzogiorno, e là lasciato

a sopportarne il dardeggiante sguardo

al mortal pizzicore delle mosche.

Ma che stiamo a parlar di certa gente,

di questi scellerati traditori

i cui tormenti son cose da ridere

di fronte all’entità dei lor misfatti?

Ditemi invece voi, che avete l’aria

d’esser gente semplice e onesta;

che cosa avete da dire al sovrano;

ché per quel po’ di considerazione

ch’io godo grazie alla mia nobiltà,(155)

posso condurvi a bordo, ove si trova,

e dirgli una parola in favor vostro:

perché se qui c’è uno, dopo il re,

in grado di condurre a buon effetto

le vostre cose, quell’uno son io.

CONTADINO - (Al Pastore)

Sembra proprio qualcuno molto in alto;

accordatevi,(156) offritegli dell’oro:

l’autorità è scontrosa come un orso,

ma assai spesso con l’oro è possibile

che si lasci menare per il naso:

mettete il dentro della vostra borsa

sul di fuori della sua mano(157), e basta,

senza star più a discutere...

“Dilapidato” e “scorticato vivo”

ha detto, non ce lo dimentichiamo!

PASTORE - (Ad Autolico)

Se non dispiace a vostra signoria

di occuparsi di questo nostro affare

qui c’è per voi il denaro che ho con me,

ma posso andare a prenderne altrettanto,

lasciandovi per pegno questo giovane

fino a quando non ve l’avrò portato.

AUTOLICO - Questo, cioè, dopo che avrò compiuto

quello che v’ho promesso?

PASTORE - Sì, signore.

AUTOLICO - Bene, datemi intanto la metà.

(Al contadino)

Anche voi siete parte in questo affare?

CONTADINO - In qualche sorta sì, signore, anch’io;

ma per quanto sia cosa miserevole

la mia pelle, lasciatemi sperare

di non esserne poi cavato fuori.(158)

AUTOLICO - Oh, si direbbe sia lo stesso caso

del figlio del pastore: lo impiccassero,

quello, che almeno servirà ad esempio!

CONTADINO - Bella consolazione! Proprio bella...

Dobbiamo andar dal re, assolutamente,

e mostrargli queste strologherie:

bisogna ch’ei si faccia persuaso

che quella non è affatto vostra figlia,

né mia sorella; o per noi è finita.

(Ad Autolico)

Signore vi darò da parte mia,

lo stesso che vi darà questo vecchio,

ad affare concluso; nel frattempo

resterò, come dice, in mano vostra,

fin ch’egli non ritorni col denaro.

AUTOLICO - No, di voi due mi fido. Proseguite,

andate in direzione della spiaggia,

e poi prendete a destra;

io do solo un’occhiata a questa siepe,

e vi raggiungo.(159)

CONTADINO - Una benedizione!

Quest’uomo è stato una benedizione,

sinceramente, fatemelo dire!

PASTORE - Andiamo avanti, come lui ci ha detto.

Questo ce l’ha mandato, son sicuro,

la provvidenza, per il nostro bene.

(Escono il Pastore e il Contadino)

AUTOLICO - Se pure mi passasse per la mente

di comportarmi come un uomo onesto,

la fortuna, m’accorgo, non vorrebbe,

perché mi fa cascar la manna in bocca.(160)

Eccomi offerto un duplice vantaggio:

uno, il denaro; l’altro, l’occasione

di rendere un servizio al mio padrone

il principe; e chi sa che tutto questo

non si risolva in una promozione?

Io porto a lui questo paio di talpe,

sì, dico questi ciechi, sul battello:

se penserà che la lor petizione

non lo riguarda, e li rimanda a terra,

se la prenda con me,

mi chiami pur mille volte furfante,

per l’indebita mia intraprendenza:

tanto a quel tipo di vezzeggiativi

ed all’infamia che vi si accompagna

ci ho fatto il callo. Intanto glieli porto:

ci può uscir pure qualcosa di buono.

(Esce)


ATTO QUINTO

SCENA I

Sicilia, il palazzo di Leonte

LEONTE è seduto in trono - Intorno a lui sono CLEOMENE, DIONE, PAOLINA e alcuni nobili

PAOLINA - Signore, avete già troppo sofferto

nell’espiar la pena, come un santo;

quali che fossero le vostre colpe,

voi le avete scontate, ad una ad una,

con più dura e contrita penitenza

che non fosse richiesta da ciascuna

per essere lavata. Or fate infine

come il cielo: dimenticate il male,

e come il cielo ha perdonato a voi,

perdonate a voi stesso.

LEONTE - Finché serberò vivo il suo ricordo

e quello delle sue alte virtù,

non potrò mai cacciar dalla mia mente

l’ingiuste accuse con cui l’ho infangata,

e il male che a me stesso ho procurato,

e che è stato sì grande,

da privare il mio regno d’un erede

e privar della vita una compagna

la più soave ch’abbia mai nutrito

le speranze d’un uomo.

PAOLINA - Vero, fin troppo vero, mio signore;

se mai sposaste una dopo l’altra

tutte le donne che son sulla terra,

e prendeste da ognuna tutto il meglio

per costruire una sposa perfetta,

quella che avete uccisa

resterebbe pur sempre ineguagliata.

LEONTE - Anch’io lo credo. Uccisa!... Sì, l’ho uccisa!

Sì, questo ho fatto, e tu mi frusti a sangue

a ricordarmelo: se tal ricordo

è amaro alla tua lingua,

tanto più amaro viene alla mia mente;

non lo evocar, ti prego, così spesso.

CLEOMENE - Anzi mai più, direi, buona signora.

Se volevate recargli sollievo,

gli potevate dir mille altre cose

che fossero più consone al momento

e più adeguate alla vostra bontà.

PAOLINA - Ho capito, voi siete uno di quelli

che vorrebbero che si risposasse.

CLEOMENE - Perché, voi no? Siete allora insensibile

ai mali che travagliano lo Stato

ed al bisogno d’una discendenza

per preservare il suo nome sovrano;

e v’importa ben poco dei pericoli

che posson cadere sul suo regno

se sua maestà restasse senza erede

ed i suoi sudditi senza una guida.

Che cosa ci sarebbe di più santo

che rallegrarsi dell’eterna pace

raggiunta dalla sua regina morta?

E che c’è ancora di più sacrosanto

per il sostegno della dinastia,

per la nostra felicità presente

e la nostra prosperità futura,

dell’augurio che il talamo regale

sia benedetto una seconda volta

con una nuova, amabile compagna?

PAOLINA - Non ce n’è una che sia tanto degna

in confronto a colei che non c’è più.

Non solo: ma gli dèi vorran vedere

adempiuti i segreti lor disegni;

non ha il divino Apollo proclamato

(non è questo il tenore del suo oracolo)

che il re Leonte non avrà un erede

fintanto che la sua figlia perduta

sia stata ritrovata?

Ma che ciò avvenga è tanto inconcepibile

come pensar che mio marito Antigono

infranga la sua tomba e mi ritorni;

lui che di certo è morto con la bimba.

(A Dione)

Voi consigliate dunque il vostro re

a mettersi in conflitto con gli dèi

ed opporsi alle loro volontà?

(A Leonte)

Non vi date pensiero dell’erede;

la corona ne troverà qualcuno.

Alessandro(161) indicò per quella sua

“il più degno”, sicché il suo successore

si può ben credere fosse il migliore.

LEONTE - Paolina cara, che tanto in onore

serbi, lo so, la memoria di Ermione,

ah, se avessi seguito i tuoi consigli!

Potrei trovarmi ancora a contemplare

i limpidi occhi della mia regina

e suggerne tesori dalle labbra!...

PAOLINA - ... e lasciarle più ricche

per quanti ve ne avessero concesso.

LEONTE - Hai detto il vero: spose come quella,

non ci son più, pertanto non più moglie!

Una che fosse peggiore di lei,

e che fosse da me meglio trattata,

farebbe sì che il suo beato spirito

prendesse corpo, e qui, su questa scena

dove noi peccatori lo piangiamo,(162)

ella apparisse corrucciata a chiedere:

“Perché a me questo?”

PAOLINA - E ne avrebbe ragione,

se tal potere le fosse concesso.

LEONTE - Oh, ragione ne avrebbe, certo, e quanta!

E accenderebbe in me tale rimorso,

da indurmi a uccidere la nuova moglie.(163)

PAOLINA - S’io fossi invece il suo spirito errante

vi farei osservar gli occhi dell’altra,

chiedendovi che cosa v’abbia attratto

della smorta lor qualità, per sceglierla;

alzerei quindi un tale acuto strido

da spaccarvi le orecchie nell’udirlo,

accompagnato da queste parole:

“Ricordati dei miei!”

LEONTE - Stelle! Due stelle!

E tutti gli altri son carboni spenti

al confronto! Paolina, non temere,

non avrò altre mogli!

PAOLINA - Mi giurerete di non mai sposarvi

se non col mio consenso?

LEONTE - Te lo giuro

sulla salvezza dell’anima mia.

PAOLINA - (Ai presenti)

Allora voi, miei nobili signori,

mi siete testimoni: l’ha giurato.

CLEOMENE - Voi gl’imponete un troppo grave impegno...

PAOLINA - Salvo che un’altra gli compaia innanzi,

che sia d’Ermione l’esatto ritratto.

CLEOMENE - Evvia, buona signora!...

PAOLINA - Ho terminato.

(A Leonte)

Comunque, se vorrete risposarvi,

(e se vorrete non si può impedirvelo)

impegnatevi a dare a me l’incarico

di scegliere per voi una regina:

non sarà giovane come la prima,

ma sarà tale che se ad incontrarla

venisse pur la prima come spirito,

non potrebbe sentirsi dispiaciuta

a vedervela stringer tra le braccia.

LEONTE - Mia fedele Paolina,

inteso: non ci sposeremo mai

senza che tu ce l’avrai ordinato…

PAOLINA - Che sarà il giorno in cui tornerà in vita

la vostra prima regina, signore.

Nulla fino a quel giorno.

Entra un GENTILUOMO

GENTILUOMO - Uno che dice d’essere Florizel

il principe, figliolo di Polissene,

in compagnia della sua principessa

(la più bella ch’io abbia mai veduto),

chiede d’essere subito introdotto

alla presenza di vostra maestà.

LEONTE - Che diavolo può essergli successo,

per arrivare così, all’improvviso,

al di fuori d’ogni cerimoniale,

come s’addice al rango di suo padre?

Ciò mi dice trattarsi d’una visita

non preparata nelle vie ufficiali,

ma forzata dal caso o dal bisogno.

Quanti sono con lui?

GENTILUOMO - Poche persone, e di scarso rilievo.

LEONTE - E c’è la sua principessa con lui,

avete detto?

GENTILUOMO - Sì, sire, il più bello

e impareggiabile pezzo d’argilla(164)

sul quale sia giammai rifulso il sole.

PAOLINA - O Ermione, come ogni nuovo istante

si vanta sempre d’essere migliore

del migliore che l’abbia preceduto,

così il ricordo della tua bellezza

sepolta, deve ad altra fare luogo

ch’ora è visibile...

(Al gentiluomo)

Ma voi, signore,

voi stesso avete proclamato e scritto

(anche se il vostro scritto è ormai più freddo

di colei cui l’avete dedicato),

ch’ella era stata sempre ineguagliata,

e tale sempre sarebbe rimasta:

così fluiva un tempo il vostro verso

a celebrar d’Ermione la bellezza.

Qual maligno riflusso vi fa dire

ora d’averne vista una più bella?

GENTILUOMO - È vero, perdonatemi, signora;

l’una l’ho quasi ormai dimenticata,

perdonatemi ancora; ma quest’altra

non appena vi avrà colpito l’occhio

v’avrà già conquistato anche la lingua.

È creatura d’una tal bellezza

che se volesse fondare una setta,

spegnerebbe ogni religioso zelo

nel cuore dei proseliti delle altre,

sol che li richiedesse di seguirla.

PAOLINA - Ma via! Anche le donne?

GENTILUOMO - Le donne l’amerebbero anche loro

perché è una donna e con maggiori meriti

di qualsiasi uomo, e così gli uomini,

perché è la più graziosa tra le donne.

LEONTE - Andate voi, Cleomene, ad accoglierli

insieme con i vostri degni amici,

e conduceteli al nostro abbraccio.

(Esce Cleomene con altri nobili)

Eppure è strano: giungere così,

all’improvviso, quasi di nascosto…

PAOLINA - Se fosse giunto il vostro giovin principe

- quella perla di figlio - a viver tanto

da vedere anche lui questo momento,

avrebbe fatto degnamente il paio

con questo qui: son nati l’uno e l’altro

che non correva tra di loro un mese.

LEONTE - Basta, ti prego, Paolina, basta!

Tu sai ch’ei per me muore un’altra volta

ogni volta che tu me lo ricordi!

Ora che mi vedrò davanti agli occhi

questo giovane, questi tuoi discorsi

mi porteranno certo alla memoria

cose da farmi perder la ragione.

Ma eccoli che arrivano.

Entrano, accompagnati da CLEOMENE e altri nobili, FLORIZEL e PERDITA

LEONTE - (Alzandosi e andando verso Florizel)

Tua madre, principe, non si può dire

che non sia stata donna fedelissima

al talamo nuziale,

s’ella del tuo regale genitore

ha riprodotto una copia perfetta.

Tu porti sì scolpita di tuo padre

in te l’immagine ed il portamento,

che avess’io ancora i miei ventun anni,

potrei davvero chiamarti “fratello”,

come usavo con lui,

ed invitarti a ricordare insieme

qualcuna delle nostre scappatelle.

Sii molto benvenuto alla mia corte,

(A Perdita)

ed anche voi, mia bella principessa,

piccola dea!...

(Li conduce accanto al trono e li fa sedere)

Ahimè, io ho perduto

due(165) che, fra cielo e terra,

avrebbero potuto, come voi,

suscitar meraviglia, eletti giovani.

Ed ho perduto ancora

per questo, tutto per la mia follia,

la compagnia e la buona amicizia

del tuo degno e valente genitore,

la mia brama di rivedere il quale

almeno un’altra volta nella vita,

pur in questo mio stato miserando,

mi fa desiderare ancor di vivere.

FLORIZEL - Per suo ordine sono qui approdato,

e da parte di lui vi reco, sire,

tutti i cari saluti che un re amico

può mandare ad un suo quasi-fratello:

e se non fosse che l’infermità

che s’accompagna al logorio degli anni

gli avesse in qualche modo menomato

la facoltà di muoversi a suo agio,

lui stesso avrebbe molto di buon grado

misurato la terraferma e il mare

che s’interpongono tra i vostri troni

per venire da voi, che tien più caro

(così m’ha detto ch’io vi riferissi)

di quanti scettri sono sulla terra

e di tutti i viventi che li portano.

LEONTE - Fratello caro! Nobile signore!

Sento affiorare in me tutto il rimorso

dei miei torti! E codeste tue profferte

così piene di rara gentilezza,

sono esse stesse interpreti eloquenti

della colpevole mia negligenza.

Sii dunque benvenuto alla mia corte,

come la primavera sulla terra!

(Indicando Perdita)

E questo impareggiabile gioiello

è stato lui a voler fosse esposto

al terribile o quanto meno rude

trattamento dell’orrido Nettuno,

per venire a portare il suo saluto

a un uomo indegno di tanto disturbo

e meno ancora dei molti pericoli

affrontati da lei per questo scopo?

FLORIZEL - Mio buon signore, essa vien dalla Libia.

LEONTE - La terra dove il bellicoso Smalo,

quell’onorato e nobile signore

è temuto ed amato?

FLORIZEL - Di là, Sire.

Da lui ci siamo appunto separati,

e le sue lacrime, a quel distacco,

ben proclamavano costei sua figlia;

e di là, col favor d’un vento amico

di mezzogiorno noi siamo salpati

al fine di portare a compimento

l’incarico da mio padre affidatomi

di render visita all’altezza vostra.

Ho congedato il meglio del mio seguito

da queste vostre coste di Sicilia;

han fatto rotta di nuovo in Boemia

a recare l’annuncio del buon esito

del nostro viaggio in Libia, e dell’arrivo,

Sire, di me e mia moglie in questa terra.

LEONTE - Possan gli dèi beati conservare

purgata l’aria nostra dai miasmi,

per tutto il tempo che starete qui!

Principe, hai un padre venerabile,

un gentiluomo pieno di virtù;

ed io contro la sua sacra persona

tanto ho peccato, che i cieli, sdegnati,

m’hanno lasciato senza discendenza;

tuo padre invece è stato benedetto

(come ha ben meritato) avendo te,

che sei ben degno della sua bontà.

Ah, che cosa non sarei stato anch’io

se avessi avuto un figlio ed una figlia

da contemplare, belli come voi!

Entra un NOBILE

NOBILE - Nobilissimo Sire,

ciò che sono in procinto di annunciarvi

sarebbe cosa invero non credibile,

se la prova non fosse accanto a voi.

Vi piaccia apprendere, grande sovrano,

che il Boemia vi manda pel suo mezzo

il suo saluto e insieme la richiesta

di arrestare suo figlio,

che, calpestando dignità e dovere

di figliolanza, ha abbandonato il padre

e le regali sue aspettative,

fuggendo con la figlia d’un pastore.

LEONTE - Dov’è il Boemia? Parla.

NOBILE - Qui in città.

(Sottovoce avvicinandosi)

L’ho lasciato da poco... Parlo basso,

perdonatemi, un po’ per lo stupore

un po’ per la natura dell’annuncio.

Mentre si dirigeva di buon passo

verso la vostra corte, sulle tracce,

c’è da pensar, di questa bella coppia,

s’è imbattuto nel padre e nel fratello

di questa sedicente gentildonna,

partiti entrambi dal loro paese

al seguito di questo giovin principe.

FLORIZEL - M’ha tradito Camillo!... Proprio lui,

di cui finora onore ed onestà

avevano sfidato ogni tempesta!

NOBILE - Gridateglielo pure sulla faccia:

è qui con vostro padre.

LEONTE - Chi, Camillo?

NOBILE - Sì, Sire, gli ho parlato poco fa.

È lì che interroga adesso quei due:

non vidi mai due poveri cristiani

tremar così, si buttano in ginocchio,

baciano in terra, giurano e spergiurano

quasi ad ogni parola. Innanzi a loro

il Boemia, turandosi gli orecchi,

a minacciarli di farli morire

di mille morti tutte in una volta.

PERDITA - Povero padre mio! Ahimè, gli dèi

ci hanno fatto spiare, essi non vogliono

che si celebri il nostro matrimonio.

LEONTE - Perché, non siete voi marito e moglie?

FLORIZEL - No, signore, né lo saremo, pare!

Arriveranno, credo, prima gli astri

a baciare le valli della terra.

Siamo tutti zimbelli della sorte,

grandi e piccoli.

LEONTE - Ma, signore mio,

non è costei figlia di re?

FLORIZEL - Lo è,

il giorno ch’ella diverrà mia moglie.

LEONTE - Quel giorno, a quanto posso giudicare

dalla fretta del tuo buon genitore,

sarà piuttosto lento ad arrivare.

Mi duole, in verità, mi duole assai

che tu ti sia staccato dal suo affetto

cui ti legava il dovere di figlio;

e mi duole altresì che la tua scelta

non sia altrettanto ricca in nobiltà

come lo è certamente in bellezza,

perché tu possa godertela appieno.

FLORIZEL - (A Perdita)

Cara, solleva il viso; se la sorte,

così visibilmente a noi nemica,

ci perseguita insieme con mio padre,

essa non può alterare d’uno jota

il nostro amore.

(A Leonte)

Sire, vi scongiuro,

tornate col ricordo all’età vostra

quando non eravate debitore

al tempo più che non sia ora,

e, ripensando agli affetti d’allora,

fatevi mio avvocato con mio padre:

ché, se sarete voi a domandare,

mio padre facilmente accorderà,

come niente, le cose più preziose.

LEONTE - (Ridendo)

Se così fosse, chiederei per me

questa preziosa tua innamorata,

ch’egli considera davvero un niente.(166)

PAOLINA - Mio signore e sovrano, il vostro sguardo

conserva ancora troppa gioventù:

quanto più degna degli accesi sguardi

che andate rivolgendo su costei

era la vostra povera regina

ancora un mese prima che morisse!

LEONTE - Ed io pensavo appunto a lei, Paolina,

nel posare il mio sguardo su quest’altra.

(A Florizel)

Ma m’accorgo di non aver risposto

al tuo sollecito. Andrò da tuo padre:

se in te l’onore non fu sopraffatto

dai desideri, ad essi io son amico

come lo son di te: col qual messaggio

vado a incontrarlo. Tu vienimi dietro,

e osserva il modo che terrò con lui.

Vieni, mio buon signore.

(Escono)

SCENA II

Sicilia, davanti al palazzo di Leonte

Entrano AUTOLICO e un GENTILUOMO

AUTOLICO - Sicché, signore, eravate presente

a quel racconto?

PRIMO GENTILUOMO - Mi trovavo là

sul punto che il fardello è stato aperto,

ed il vecchio pastore cominciava

a raccontare come l’ha trovato;

ma poi, dopo un momento di stupore,

ci fu ordinato a tutti d’andar via,

e sol m’è parso udire dal pastore

che diceva che accanto a quel fardello

egli aveva trovato la bambina.

AUTOLICO - Ah, son proprio curioso di sapere

com’è andata a finire questa storia.

PRIMO GENTILUOMO - Non posso dirvelo se non in parte;

ma vi posso ben dir d’aver notato

sui loro volti, del re e di Camillo,

turbamenti ch’eran sicur segno

di grande sbigottita meraviglia:

gli occhi attoniti e fissi,

gli uni in quelli dell’altro, spalancati,

quasi a voler infrangere il lor coppo;

c’era tutto un discorso in quel silenzio,

tutto un parlare in ogni muto gesto;

pareva come se avessero appreso

ch’era stato salvato un mondo intero,

o che un mondo era andato in distruzione;

apparivano entrambi strabiliati,

in preda ad un frenetico stupore:

fosse gioia e dolore, o l’uno e l’altro,

nemmeno il più seguace osservatore

che non avesse saputo di più

oltre quel che vedeva in quel momento,

avrebbe mai potuto decifrare;

ma in loro l’uno e l’altro di quei sensi

doveva certamente essere al culmine.

Entra un SECONDO GENTILUOMO

Ma ecco un gentiluomo

che dovrebbe saperne più di me.

Che notizie, Ruggero?(167)

SECONDO GENTILUOMO - Nessun’altra,

se non falò di gioia dappertutto.

S’è avverato l’oracolo.

S’è ritrovata la figlia del re.(168)

E son successe tante meraviglie

in un’ora, che manco i cantastorie

ce la faranno a metterle in ballata.

Entra un TERZO GENTILUOMO

Ma ecco il maggiordomo di Paolina;

lui potrà forse ragguagliarci meglio.

Come vanno le cose, monsignore?

Questa notizia, che si dà per vera

somiglia tanto ad una vecchia fiaba

da suscitar fortissimi sospetti

sulla sua verità. Davvero il re

avrebbe ritrovato la sua erede?

TERZO GENTILUOMO - Verissimo, se mai fu verità

che sia stata dai fatti confermata.

Potete ben giurar d’averlo visto

con gli occhi vostri quello che si dice,

tanto combaciano tutte le prove:

il mantello della regina Ermione,

il suo monile al collo della bimba,

la lettera di Antigono, trovata

accanto a lei, riconosciuta autentica,

siccome scritta di sua propria mano;

l’impronta di maestà della ragazza

che la fa così simile a sua madre,

l’aura di nobiltà che pur traspare

dalla sua attuale condizione,

e tutta un’altra quantità di prove

che la proclamano figlia del re

senza alcun dubbio. Eravate presente

all’incontro dei due sovrani?

SECONDO GENTILUOMO - Io no.

TERZO GENTILUOMO - Ah, vi siete perduto uno spettacolo

che non si può descrivere a parole:

bisognava vederlo. Avreste visto

due gioie coronarsi una con l’altra

ed in tal modo ed in tal misura

da far sembrare che fosse il dolore

a pianger di doversi congedare

da tutti e due, tanto la lor gioia

s’annegava in un empito di pianto:

occhi levati al cielo, braccia tese,

gesti sì traboccanti di emozione,

che se non fosse stato per le vesti,

nessuno avrebbe detto dai loro visi,

che quelli fossero due re: il nostro,

quasi fuor di sé dall’esultanza

d’aver trovata sua figlia, d’un tratto,

come se d’improvviso quella gioia

si fosse tramutata in una perdita,

“Ah, tua madre, tua madre!” - grida e piange,

ed al Boemia domanda perdono;

poi si rivolge al genero e l’abbraccia,

indi soffoca quasi ancor sua figlia

a forza di abbracciarla forte forte,

mentre ringrazia l’anziano pastore

che se ne sta lì immobile, impalato,

simile a un mascherone di fontana

corroso dal passar delle stagioni

per non so quante dinastie di re.

Ah, veramente, d’un incontro simile

io non avevo mai sentito prima;

ogni racconto che se ne facesse

non può che uscirne zoppo,

e disfarsi nell’atto che lo fai.

SECONDO GENTILUOMO - E, di grazia, di Antigono che è stato?

Fu lui che se n’andò con la bimbina.

TERZO GENTILUOMO - Come una vecchia favola anche questo,

di quelle ch’hanno sempre altra materia

da dipanare, pur se non c’è mente

che ci creda né orecchio che l’ascolti.

L’ha dilaniato un orso: così almeno

ha raccontato il figlio del pastore,

che a prova della sua veracità

ha non solo l’ingenua sua natura,

che mi pare, del resto, già abbastanza,

ma un anellino ed anche un fazzoletto

che la Paolina ha ben riconosciuto.

PRIMO GENTILUOMO - E del suo barco e del suo equipaggio

che n’è stato?

TERZO GENTILUOMO - Son tutti naufragati

col loro legno, mentre il lor padrone

moriva, e sotto gli occhi del pastore;

talché quando la bimba fu raccolta

tutti quelli che avevano concorso

a disfarsi di lei erano morti.

Ah, immagino qual nobile conflitto

fra la gioia e il dolore

si dev’essere svolto in Paolina!

L’aveste vista! Un occhio volto a terra,

per la perdita del marito Antigono,

un altro volto al cielo,

perché l’oracolo s’era inverato.

Si stringeva la principessa al seno

come volesse attaccarsela al cuore

per paura di perderla di nuovo.

PRIMO GENTILUOMO - Ah, davvero una scena meritevole,

per la nobiltà, d’una platea

di re e di principi com’era tutti,

nella realtà i suoi protagonisti.

TERZO GENTILUOMO - Un momento fra tutti il più toccante

e che è stato per me come una lenza

gettata dentro al lago dei miei occhi

(e pescò solo lacrime, non pesci),

fu quando, a udir la morte della madre,

la regina, ed il modo in cui vi giunse

nel racconto che coraggiosamente

il re contrito e confesso faceva,

la figlia, dopo aver attentamente

ascoltato con l’animo straziato,

al fine cumulando duol con duolo,

con un “Ahimè!” proruppe, vorrei dire,

a lacrimare lacrime di sangue,

com’eran quelle che, sono sicuro,

piangeva anche il mio cuore nel vederla.

E di quanti eran lì,

anche chi più di pietra aveva il cuore,

si scolorì; qualcuno ancora svenne.

Eran tutti commossi e impietositi:

se si fosse trovato spettatore

di quella scena il mondo tutt’intero

sarebbe stato un pianto universale.

PRIMO GENTILUOMO - E son tornati tutti a corte?

TERZO GENTILUOMO - No.

La principessa, dopo aver appreso

che Paolina custodisce in casa

una statua della madre Ermione,

- opera stata testé completata

dopo anni di lavoro

da quell’illustre maestro italiano

Giulio Romano,(169) che se avesse il dono

dell’immortalità e potesse infondere

un alito di vita alle sue opere,

ruberebbe il mestiere alla natura,(170)

tanto la sa imitare a perfezione;

ed ha scolpito Ermione così vera,

che a quel marmo si può quasi parlare

e attenderne risposta, a sentir dire -,

ha voluto vederla; e là con lei

son tutti andati, affamati d’affetto,

ed intendono là restare a cena.

SECONDO GENTILUOMO - Che Paolina tenesse custodita

in casa sua qualcosa d’importante,

l’avevo immaginato: perché sempre

da quando è morta la regina Ermione,

andava, sola, due-tre volte al giorno

in quel suo padiglione fuori mano.

Non vogliamo recarci là anche noi,

per prender parte alla loro lietezza?

PRIMO GENTILUOMO - E chi vorrebbe trattenersi indietro,

avendo il privilegio dell’accesso?

Ogni momento là può venir fuori

una qualche piacevole sorpresa,

e a restarcene assenti

ci priveremmo di quel godimento.

Andiamo pure, andiamo!

(Escono i gentiluomini)

AUTOLICO - Adesso, s’io non mi portassi addosso

la macchia della mia vita passata,

chi può dire la pioggia di favori

che potrebbe cadermi sulla testa?

Io sono stato a condurre dal principe,

a bordo, il vecchio pastore e suo figlio,

e a dirgli che li avevo prima uditi

che parlavan tra loro d’un fagotto

e di non so cos’altro. In quel momento,

quello però era tutto occupato

sovra colei che riteneva ancora

la figlia del pastore, e la ragazza

cominciava a soffrire il mal di mare,

e lui stesso non stava molto meglio,

con la burrasca che non si calmava,

e il mistero restò per un mistero.

Ma questo non mi toglie e non m’accresce:

perché se pure fossi stato io stesso

lo scopritore di questo segreto,

non ne avrei conseguito nessun credito

in mezzo a tutti gli altri miei discrediti.

Eccoli, i due inconsapevolmente

da me beneficiati, e già saliti

al culmine della lor buona sorte.

Entrano il PASTORE e il CONTADINO

PASTORE - Beh, ragazzo, io non son più in età

d’avere figli; però quelli tuoi,

maschi e femmine, nasceranno tutti,

gentiluomini e dame.

CONTADINO - (Riconoscendo Autolico)

Oh, signore,

voi mi cascate davvero a proposito.

L’altro giorno vi siete rifiutato

di battervi con me con il pretesto

che io non ero un gentiluomo nato.

Ecco, vedete adesso i miei vestiti?

Dite di no, seguitate a pensare

che io non sono un gentiluomo nato;

anzi, negate che questi vestiti

siano quelli d’un gentiluomo nato:

avanti, datemi, su, la smentita

e poi fatevi avanti a sostenere

ch’io non son ora un gentiluomo nato!(171)

AUTOLICO - Mi è ben noto, signore,

che adesso siete un gentiluomo nato.

CONTADINO - Né ho cessato un solo istante d’esserlo

da ben quattr’ore.

PASTORE - E così io, figliolo.

CONTADINO - Voi pure, sì; ma gentiluomo nato

io sono stato prima di mio padre;

perché il figlio del re

prese la mano per il primo a me

chiamandomi “fratello”, e solo dopo

chiamarono mio padre lor fratello;

e solo dopo mio fratello, il principe,

e la sua principessa, mia sorella,

han chiamato mio padre “padre mio”.

E noi a piangere; e quelle lacrime

sono state le prime mai versate

da mio padre e da me da gentiluomini.

PASTORE - E chi sa quante ancora,

figlio, ne verseremo nella vita!

CONTADINO - Oh, sì, certamente, padre mio!

Se no, sarebbe proprio una disdetta,

nella preposterosa(172) situazione

in cui ci siamo venuti a trovare.

AUTOLICO - Umilmente vi supplico, signore,

di perdonarmi di tutte le offese

che posso aver recato a Vostra grazia,

e di degnarvi dire a mio favore

una buona parola al mio signore,

il principe.

PASTORE - Ti prego, figlio, fallo;

perché dobbiamo mostrarci gentili;

se no, che gentiluomini saremmo?

CONTADINO - (Ad Autolico)

Tu però, ti correggerai la vita?

AUTOLICO - Sì, certo, a vostra signoria piacendo.

CONTADINO - Qua la mano: vorrò giurare al principe

che tu sei la persona più leale

e più onesta di tutta la Boemia.

PASTORE - Glielo puoi dire, ma senza giurarlo.

CONTADINO - Non giurarlo, or che son gentiluomo?

Si lasci che i buzzurri ed i fittavoli

dicano solo: un gentiluomo giura!

PASTORE - E se poi, figlio, si rivela falso?

CONTADINO - Falso che sia, un vero gentiluomo

giura sempre nel nome dell’amico;

ed io m’impegno di giurare al principe

che sei un abile lavoratore

e non sei solito ad ubriacarti;

anche se so che abile non sei,(173)

e t’ubriachi; ma lo giurerò.

Sarà per me l’augurio

che tu lo possa almeno diventare.

AUTOLICO - Mi sforzerò di dimostrarmi tale,

per quanto m’è possibile, signore.

CONTADINO - Eh, sì, devi mostrar con ogni mezzo

d’essere un abile lavoratore:

e se vedrai che io non mi stupisca

di come tu t’azzardi a ubriacarti

senza essere un abile artigiano,

non ti fidare più di me. Ma ascolta!

(Voci di dentro)

Sono i nostri parenti, i re ed i principi,

che si recano insieme ad ammirare

la statua della regina. Vieni,

vieni anche tu con noi; saremo là

i tuoi buoni padroni e protettori.

(Escono)

SCENA III

Sicilia, una cappella nella casa di Paolina

Entrano LEONTE, POLISSENE, FLORIZEL, PERDITA, PAOLINA, NOBILI e gente del seguito

LEONTE - Oh, mia saggia, mia buona Paolina,

qual conforto sei stata tu per me!

PAOLINA - Se qualcosa non avrò fatto bene

qualche volta, sovrano mio signore,

l’intenzione fu sempre per il bene.

E voi avete più che ripagato

i miei servigi; ma che ancor oggi

vi degnaste di usarmi il privilegio

insieme con l’augusto fratel vostro

e questi fidanzati vostri eredi

d’entrambi i regni, di venire qui

a visitare l’umil mia dimora,

è tale un sovrappiù di vostre grazie

ch’io credo di non vivere abbastanza

per poter ricambiare.

LEONTE - Un privilegio

che non è senza darti qualche scomodo;

però siamo venuti qui da te

per ammirare tutti il simulacro

della nostra regina; ma finora,

abbiam, sia pur con molto gradimento,

attraverso la tua galleria,

ammirato molte opere preziose,

senza peraltro aver ancora visto

quella per cui mia figlia è qui venuta:

la statua di sua madre.

PAOLINA - Com’ella in vita non ebbe l’eguale,

così l’immagine di lei, da morta,

sovrasta in perfezione ogni altra cosa

che abbiate contemplato fino ad oggi,

o che da mano d’uomo sia eseguita;

perciò l’ho custodita sola, a parte.

Ma essa è qui. Preparatevi tutti

a vedere la vita riprodotta

con una tal fedele perfezione,

quale mai fece il sonno con la morte.

Guardate, e dite se non è così.

(Tira una cortina e scopre Ermione ritta in piedi e immobile come una statua)

Questo vostro silenzio

prova di più la vostra meraviglia.

Ne son contenta. Tuttavia parlate.

(A Leonte)

Voi per primo, signore. È somigliante?

LEONTE - Il suo atteggiamento naturale!

Sgridami cara pietra,

ch’io possa dir che sei davvero Ermione;

o forse no, tu sei davvero lei

proprio perché di muovermi rimprovero

non sei capace: ché tu eri dolce

come l’infanzia e la grazia innocente.

Però non era Ermione sì rugosa

né sì avanti cogli anni, Paolina,

come qui appare.

POLISSENE - No, sicuramente!


PAOLINA - Tanto maggiore è dunque la maestria

dell’artista, nell’essere riuscito

a mostrare che più di sedici anni

son trascorsi e a ritrarla qual sarebbe

oggi, se fosse viva.

LEONTE - Oh, fosse viva!

Mi sarebbe di tanto più conforto

per quanto adesso mi trafigge l’anima!

Oh, sì, così ella stava, nella stessa posa

che traspar da questo freddo marmo,

quand’io la corteggiai la prima volta.

E ne provo vergogna!

Non mi rinfaccia forse questa pietra

d’esser stato più pietra di lei?

Opera eccelsa! Nella tua maestà

c’è una magia che mi risveglia dentro

il ricordo di quanto male ho fatto;

e che sospende ogni alito di vita

in questa tua stupefatta figliola,

rendendola di pietra, come te.

PERDITA - E lasciate ch’io m’inginocchi a lei,

senza accusarmi di superstizione!(174)

Signora, mia regina,

che ti spegnesti dandomi alla luce,(175)

ch’io ti baci la mano...

PAOLINA - (Fermandola)

Oh, no, aspettate!

La statua è da poco terminata,

e il colore non è ancor bene asciutto.

CAMILLO - Troppo profondo, sire, questo duolo

si dev’essere radicato in voi,

se non sono bastati, a dissiparlo,

sedici lunghi inverni,

ed altrettante estati a prosciugarlo;

giammai dolore fu a svanir sì tardo,

come mai gioia persisté sì a lungo.

POLISSENE - (A Leonte)

E a chi di quel dolore fu la causa,

fratello mio, concedi di strappare

da te una parte per giungerla al suo.

PAOLINA - Se avessi immaginato, mio signore,

che mirar questa mia povera immagine

- poiché la statua è mia -

vi provocasse un tale turbamento,

mi sarei ben guardata dal mostrarvela…

(Fa per far tirare la cortina che copre la statua)

LEONTE - No, te ne prego, non me la nascondere.

PAOLINA - E voi cessate allora di fissarla

in quel modo, perché la vostra mente

non abbia a illudersi ch’ella si muova.

LEONTE - Ecco, ecco!... Ch’io cada qui stecchito,

se non mi sembra... Oh, ma che cos’era

colui che l’ha scolpita?... Ecco, guardate:

non sembra pure a voi ch’ella respiri?

E che sia vero sangue in quelle vene?

POLISSENE - Un’opera davvero magistrale!

Su quel suo labbro sembra palpitare

calda, la stessa vita...

LEONTE - E nel suo occhio,

pur nella fissità, c’è movimento!

Come l’arte ci può ingannare i sensi!

PAOLINA - Sarà meglio ch’io tiri la cortina.

Il mio signore è talmente rapito,

che per poco non pensi che sia viva.

LEONTE - Ah, fammelo pensare, Paolina,

ancora per vent’anni tutti in fila!

Non c’è beatitudine di sensi

che eguaglia il godimento di quest’estasi.

Lasciala star così.

PAOLINA - Mi spiace, sire,

d’avervi dato un tale turbamento,

ma potrei darvene ancora di più.

LEONTE - Fallo, Paolina! Questa commozione

ha più dolce sapore pel mio cuore

di qualsiasi conforto... Eppure, eppure...

ho sempre l’impressione che da lei

spiri davvero un alito di vita...

Quale scalpello, per quanto eccellente,

ha mai scolpito un alito di vita?...

Nessun si burli di me: io la bacio.

PAOLINA - No, no, fermatevi, mio buon signore!

il rosso delle labbra è ancora fresco:

se lo baciate, lo rovinerete;

eppoi vi sporcherete anche le vostre

con l’olio di pittura.

Posso allora tirare la cortina?

LEONTE - No, per altri vent’anni!

PERDITA - Ed altrettanti

anch’io vorrei restare ad ammirarla.

PAOLINA - Ed ora, o desistete dal guardare,

e uscite subito dalla cappella,

o preparatevi a stupir di più.

Se vi sentite di reggere a tanto,

io farò sì che la statua si muova

davvero e scenda, e vi prenda per mano;

tanto da farvi credere

(cosa però che fin d’ora vi nego)

ch’io sia assistita da poteri occulti.

LEONTE - Qualunque cosa le facciate fare,

son disposto a vederlo; ad ascoltare

tutto ciò che potrete farle dire;

perché farla parlare

sarà facile come farla muovere.

PAOLINA - Quello ch’è necessario, in questo istante,

è che teniate accesa in voi la fede.

E adesso tutti fermi: e se qualcuno

pensa che sia una pratica illecita

ciò che m’appresto a fare, se ne vada.

LEONTE - Non se ne andrà nessuno. Via, procedi!

PAOLINA - Musica, svegliala! Avanti, suona!

(Musica all’interno)

(A Ermione)

È l’ora, scendi, non esser più marmo!

Avvicìnati, invadi di stupore

tutti costoro che son qui a guardarti!

Vieni, colmerò io della tua tomba(176)

il vuoto. Muoviti, su, vieni avanti!

Lascia la tua rigidità alla morte,

perché da lei ti scioglie e ti redime

la dolce vita... Ecco, ella si muove.

(ERMIONE scende lentamente dal piedistallo e avanza verso Leonte)

Non trasalite: tutto quel che fa

è sacrosanto, così come è lecito

l’esorcismo che avete da me udito.(177)

(A Leonte)

Ora non vi staccate più da lei,

se prima non l’avrete vista morta

un’altra volta. Datele la mano,

avanti, su! Eravate ben voi

a corteggiarla quand’ella era giovane;

ed ora ch’è in età,

volete che sia lei a cominciare?

LEONTE - (Prendendo la mano di Ermione)

Oh, oh, ma è calda!... Se questa è magia,

diventi la magia pratica lecita

per gli uomini, come il mangiare e il bere.

POLISSENE - Ecco, lo abbraccia...

CAMILLO - Gli si stringe al collo...

(A Paolina)

Se ha vita, fa’ che parli.

POLISSENE - E ci dica ove visse fino ad oggi,

e come è stata ritolta alla morte.

PAOLINA - Se mai fosse da voi venuto alcuno

a raccontarvi che Ermione era viva,

voi l’avreste a gran voce canzonato(178)

come uno che volesse darvi a bere

come nuova una favola bacucca:

ma ella è viva, viva veramente,

anche se ancor non profferisce verbo.

Aspettate un momento e state attenti.

(A Perdita)

Venite avanti voi, bella signora,

prosternatevi avanti a vostra madre

e implorate la sua benedizione.

(A Ermione)

E voi, buona signora,

drizzate l’occhio a lei: essa è Perdita.

Perdita nostra è stata ritrovata!

ERMIONE - O dèi, volgete a noi il vostro sguardo

e versate dai vostri sacri vasi

grazie sul capo di questa mia figlia!

Carne della mia carne,

raccontami: come ti sei salvata?

Dove sei tu vissuta? Come hai fatto

a ritrovar la corte di tuo padre?

Io, dopo aver appreso da Paolina

come l’oracolo desse a sperare

che tu potessi ancor trovarti in vita,

mi son voluta mantenere viva

proprio nell’ansia di veder quest’esito.

PAOLINA - Per questo tuttavia ci sarà tempo...

altrimenti con un racconto simile

ho paura che vengano a turbare

proprio in questo momento il vostro gaudio.

Andatevene, invece, tutti insieme,

trionfatori illustri della sorte,

tutti partecipi di questa gioia.

Io, vecchia colomba, volerò

a piangere su qualche ramo secco

il mio compagno, per sempre perduto,

fino a che non sarò perduta anch’io.

LEONTE - Zitta, Paolina, non parlar così!

Tu dovresti ricevere da me

uno sposo, com’io da te una sposa.

È questo un patto fatto e suggellato

tra noi con giuramento; tu l’hai ora

osservato, trovando a me la mia,

e come hai fatto è tutto da spiegare,

perch’io la vidi e la credetti morta,

e recitato ho ancor sulla sua tomba

inutili preghiere. Quanto a me,

per trovarti uno sposo

che sia degno di una come te,

non dovrò andar però molto lontano,

ché già in parte conosco quali sono

i sentimenti suoi verso di te.

Vieni, Camillo, e prendila per mano,

tu che sei uomo d’onestà specchiata

e di nobile e degna rinomanza

di cui son testimoni qui due re.

Muoviamoci di qui. E tu, Ermione,

volgi gli occhi su questo mio fratello

(Indica Polissene)

e perdonatemi, sia tu che lui,

se mai insinuai tra i vostri sguardi

innocenti il mio perfido sospetto.

(Indica Florizel)

Ecco il tuo genero, figlio di re,

promesso sposo, per voler del cielo,

di nostra figlia. Paolina cara,

guidalo tu da qui verso altro luogo

dove ognuno di noi, a suo talento,

potrà scambiarsi domande e risposte

su tutto quel che a ciascuno è successo

da quando fummo separati. Andiamo.

FINE


(1) I sovrani sono indicati spesso in Shakespeare - com’era uso nella poetica del tempo - col nome del paese in cui regnano.

(2) “... which cannot chose but branch now”: “... che ora non può che ramificare”; prosegue il traslato della pianta - fratellanza introdotto dal participio “rooted”, “radicatasi (fra i due)”.

(3) “... from the end of opposed winds”: cioè da est a ovest e da nord a sud, in tutte le direzioni della rosa dei venti.

(4) Cioè che eran vecchi, vicini a morire.

(5) “Nine changes of the watery star...”: “watery star” è un appellativo poetico della luna, con riferimento all’influsso che essa ha sul mare (le maree); nove cicli lunari sono nove mesi, il tempo di una gravidanza. È il primo velato accenno al fatto su cui ruoterà tutta la vicenda del dramma: Ermione sta per sgravarsi di un altro figlio.

(6) “... without a burden”: cioè “senza il peso della nostra persona”, “vuoto”, “inoccupato”.

(7) “... like a cipher/ Yet standing in rich place...”: lo zero posto alla fine di un numero o una serie di numeri (“in rich place”) fa da moltiplicatore.

(8) “... we ‘ll thwack him hence with distaffs”: “with distaffs”, “a colpi di conocchia”. La conocchia è arnese squisitamente femminile; Ermione, chiamandola in causa, sembra voler affermare il potere della sua femminilità.

(9) Si deve intendere da queste parole di Ermione che ella non seguirà il marito nella visita in Boemia di cui ha prima parlato Camillo. La frase è piuttosto involuta: “... Yet, good deed, Leontes,/ I love thee not a jar of the clock behind/ hat lady she her lord”, “... E tuttavia, se Dio vuole, Leonte, io ti amo non un sol battito d’orologio di quanto debba al suo signore una moglie devota”.

(10) Allusione alla legge di guerra secondo cui la nazione che restituisse i prigionieri al nemico aveva diritto di reclamare da questo la spesa sostenuta per il loro sostentamento.

(11) “... the imposition cleared hereditary ours”: “... cancellata essendo la nostra tara originale”; cioè come se fossimo entrambi di una purezza assoluta, immune perfino del peccato originale.

(12) “Yet go on”: non è: “Tuttavia continuate”, come intendono molti, perché il discorso di Polissene è finito, ma “Lasciamo andare”, “Sorvoliamo”.

(13) Questa domanda di Leonte lascia intendere che egli, durante il breve dialogo tra sua moglie e Polissene, si sia distratto a parlare con altri, e che solo ora si ravvicini ai due.

(14) “... and make us fat as tame things”: “tame things” sono in generale tutti gli animali domestici (“Tamed”, “addomesticati”); l’oca è tra i più proverbialmente messi all’ingrasso.

(15) “... a thousand waiting upon that”: “... un migliaio che erano in attesa” (di nascere, s’intende, non - come intende qualcuno - in attesa della lode).

(16) Latino per “tremito cardiaco”: è il primo moto di gelosia di Leonte, preludio al monologo che segue in cui il personaggio, in una specie di autointrospezione, si mette ad analizzare la natura di questa sua reazione, quasi a convincere se stesso che quanto egli vede accadergli, e cioè la presunta infedeltà della moglie, è ineluttabile, siccome connaturato alla fragilità della natura umana. È il contrario di Otello, per il quale il tradimento - la lascivia che ne è l’origine - non obbedisce ad alcuna legge di natura, ma è il caos primordiale. Leonte, al contrario di Otello, non ucciderà la moglie creduta adultera, né si dispererà fino a cercare egli stesso la morte; gli basterà di sopprimere il frutto dell’amore adulterino.

(17) “... and then to sigh as ‘t were the mort of the deer”: il cervo, morendo, emette gemiti quasi umani. Una patetica descrizione della sua morte è fatta da Shakespeare in “Come vi piaccia” (“As You Like It”), II, 1, 30 e segg.Alcuni curatori hanno inteso qui “mort”, nel senso, che pure ha lessicalmente, di “suono del corno che nella caccia annuncia l’uccisione del cervo”; ma il suono emesso da questo corno è particolarmente lugubre e mal s’adatta ad esser paragonato ai sospiri di due amanti.

(18) “O, that entertainement/ My bosom likes not, nor my brows”: c’è chi ha creduto di vedere in questa frase di Leonte un sottinteso bisticcio di parole: “brows” sono “le ciglia”, ossia - parte per il tutto - gli occhi; ma anche “corna”, talché, secondo costoro, Leonte direbbe a se stesso (e al pubblico) che il vedere “quel genere di confidenze” non piace né al suo cuore né alle sue corna”: non sembra che Shakespeare gli abbia voluto far dire questo.

(19) “... we must be neat... non neat but clearly”: qui il bisticcio c’è, ma è intraducibile. “Neat” vale “lindo”, “pulito”, aggettivo, ma anche, sostantivo, “animale di razza bovina”. Leonte s’accorge del doppio senso (come se avesse detto “dobbiamo esser cornuti”) e si corregge “non cornuti, ma puliti” (“Not neat but clearly”).

(20) “... still virginalling upon his palm...”: “virginalling” è participio presente di un verbo “to virginal” verosimilmente inventato da Shakespeare dall’idea dello strumento musicale “virginal” simile al clavicembalo, sui cui tasti le dita “arpeggiano” come quelle di Ermione nel palmo della mano di Polissene.

(21) L’elemento acqua come modello di falsità e incostanza è concetto biblico: “Tutto ciò è scolato via come l’acqua... perciocché tu salisti nel letto di mio padre, quando contaminasti il mio letto... tutto ciò sparì...”(Genesi, XLIX, 4). V. anche in “Otello”, V, 2, 133: “She was false as water”.

(22) “Communicat’st with dreams”: “partecipi (tu, lascivia) della natura dei sogni”.

(23) Sono i segni interiori ed esteriori della tempesta che sta per scoppiare nell’animo di Leonte; è l’inizio della tragedia della gelosia, una gelosia tanto più irrazionale rispetto a quella di Otello in quanto nasce da sé, senza intervento di Jago dall’esterno: sarà questa sua natura a concluderla con un lieto fine.

(24) “How sometimes nature will betray its folly”: “betray” è qui “tradire” nel senso di “rivelare inconsapevolmente”; “folly” è nel senso di “lewdness”, “wantonness”, “leggerezza”, in senso spregiativo (detto di “donna leggera”, come in “Otello”, V, 2, 141: “She turned to folly”).

(25) “... will you take eggs for money?”: “to take eggs for money” è locuzione colloquiale per “prendere lucciole per lanterne”, “farsi ingannare”; deriva dall’uso di compensare i bambini, per piccoli servizi resi ai grandi, regalando loro una o più uova invece che denaro. Nella domanda di Leonte c’è già sorda ironia amara dell’inganno da parte della moglie. “Quando sarai grande” non è nel testo, ma è parso implicito nell’interrogativo rivolto a un bambino.

(26) “I’ll fight”: per l’uso poetico di “rissarmi” cfr. in Dante, “Inferno”, XXX, 133: “... ch’io per poco è che teco non mi risso”.

(27) “... and leave you to your grave steps”: altra velata allusione di Leonte all’inganno di cui crede essere vittima; “grave” è “grave”, “lento”, ma ha anche il senso di “heinous”, “vicious”, allusione che si fa ancor più palese nel seguente “what is dear in Sicily”: ciò che per lui, Leonte, v’è di più prezioso in Sicilia è Ermione.

(28) “Inch-thick, knee-deep, o’er head and ears...”: Leonte inveisce contro se stesso affibbiandosi gli epiteti che già immaginava venirgli rivolti d’altrui.

(29) “... now, when I speak this”: come spesso in Shakespeare, il personaggio, nei suoi monologhi, si rivolge al pubblico; qui Leonte, nel partecipare al pubblico queste sue considerazioni sui mariti cornuti indica addirittura in mezzo ad esso qualche coppia che si tenga sottobraccio.

(30) Leonte prosegue nel suo traslato del “pesciolino” che scivola fuori dalla grata del vivaio.

(31) Il testo ha semplicemente: “How now, boy?”, che è l’esclamazione di chi si riscuote improvvisamente dall’interno meditare e s’accorge d’aver accanto qualcuno.

(32) “Go to play, Mamilian, thou’rt an honest man”. Alcuni intendono “... tu sei un uomo onesto (pulito)”; ma è improbabile che Leonte parli così al suo ragazzo, in presenza di Camillo.

(33) “Was this taken by any understanding pate but thine?”: “È stato ciò avvertito da qualche altra zucca (“pate”) pensante diversa dalla tua?”

(34) “... then my wife’s a hobby-horse”: “hobby-horse” era chiamata la sagoma, di legno o di vimini, fatta a forma di cavallo, che si legavano intorno alla vita i danzatori della “moresca”, una danza indiavolata ballata nelle piazze solitamente alla festa del Calendimaggio. Il termine divenne poi sinonimo di “donna di malaffare”, “bagascia”, qualcosa buona per tutti.

(35) “... any flax-wenche”: “filatrice” sta qui per comune operaia; “wench” è dispregiativo.

(36) “... wishing clocks more swifts? Hours, minutes?:”: “... desiderando che gli orologi camminino più svelti? Che le ore siano minuti?”. Gli amanti, in verità, desiderano il contrario (si ricordi: “O temps, suspends ton cours!” nel “Le lac” di Lamartine).

(37) “Were my wife’s liver infected as her life”: “life” sta qui per contrasto con “liver”, l’anima (“wit”, “spark of life”) e il corpo (la parte fisica, il “fegato”).

(38) “They would that/ Which should undo more doing”: un tocco di manierismo secentesco.

(39) “Which draught to me more cordial...”: “la quale pozione sia per me un cordiale”: s’è cercato, con “sorso di salute”, di conservare l’immagine del bere.

(40) È una delle frasi su cui i curatori sono più discordi. Il testo ha: “I have loved thee...”, “Io t’ho amato...”; ma è sembrata a molti - il Dover Wilson in testa - una svista dello stampatore, per “To have loved...”, come abbiamo creduto di renderlo. Il repentino passaggio dal “you” al “thee”, anche se frequentissimo in Shakespeare, qui apparirebbe strano che Camillo, improvvisamente si rivolga al sovrano con un “paternalistico “tu”, quasi da superiore ad inferiore, e per dirgli un “io t’ho amato”, che non ha senso nel contesto.

(41) Il mostro favoloso, dagli occhi di fiamma, di cui era credenza che uccidesse chiunque guardasse.

(42) “In ignorant concealement”: “In ignaro nascondimento”; o anche semplicemente “nascondendomela”: ma per chiedergli semplicemente questo non occorreva forse fare appello a tante nobili cose.

(43) “Be yoked with his that did betray the Best”: “the Best”, il migliore fra gli uomini, Gesù Cristo: “l’uomo che nacque e visse senza pecca” (Dante, Inferno, XXXIV, 115). È questa l’unica volta che compare in Shakespeare questo appellativo di Gesù.

(44) “... part of his theme but nothing/ Of his ill-taken suspicion”: “parte del suo farneticare, ma niente del suo malsano sospetto”. La contrapposizione tra “parte” e “niente” che è nell’inglese non s’è saputa rendere.

(45) “... to take the urgent hour”, letteralm.: “... di cogliere la breve ora che stringe”.

(46) “... and then you’d wanton with us/ If we would have you”: “... e allora vi potrete trastullare con noi, se noi lo vorremo”.

(47) “A sad tale’s best for winter”: secondo alcuni curatori (Praz), da questa frase di Mamilio Shakespeare ha tratto il titolo della commedia; che è appunto una favola, a lieto fine bensì, ma tutto il resto è una storia di morti e di disavventure dolorose, come dev’essere una favola da raccontare d’inverno davanti al focolare.

(48) Era credenza popolare che un ragno velenoso nel cibo o nelle bevande potesse avvelenare chi lo ingerisse, solo se questi si fosse accorto d’averlo ingerito.

(49) “His Pandar”: Pandaro è il nome dello zio di Cressida, che fa da manutengolo alla ragazza nel rapporto amoroso di questa con Troilo, figlio di Priamo di Troia, in “Troilo e Cressida” dello stesso Shakespeare. Il termine “pandar” come sinonimo di “ruffiano” era già in uso in Inghilterra prima di Shakespeare.

(50) “A bed-awerver”: era uno degli appellativi più spregevoli che si davano alle prostitute: assai più che “concubina”.

(51) “No: if I mistake”/ “In those foundations which I build upon,/ “The centre is not big enough to bear...”. È una delle letture più controverse di Shakespeare, per il diverso significato che si dà a“centre”: per alcuni è “architrave”, “impalcatura edilizia” (“A framework upon which an arch or dome is supported while building” è una delle definizioni che ne dà il Dizionario “Oxford Universal”); essi intendono: “... allora l’architrave su cui costruisco non è grande abbastanza...”. Ma questa lettura dà alla frase un improbabile valore dubitativo, come se Leonte metta lui stesso in forse qualcosa di cui dice di esser certo. Altri, più correttamente, non ritenendo casuale il paragone con la trottola, oggetto rotante, intendono “centre” per “centro di gravità” della terra, il perno intorno a cui essa gira, il punto “al qual si traggon tutti gli altri pesi” come dice Dante (Inf., XXXIV, 111); e traducono, come noi, come se Leonte dica: “Se è vero che sbaglio, allora non è più vera una verità assiomatica come il moto terrestre”. Altri, infine, leggono “centre” semplicemente per “terra” (centro dell’universo), e traducono: “... allora la terra non è abbastanza grande per sostenere ecc...”; la quale lettura, se pur la meno poetica, ha tuttavia il pregio di non attribuire, col solito anacronismo Shakespeariano, la conoscenza della teoria copernicana del moto degli astri all’epoca di Leonte.

(52) “As I come out”: “quando uscirò (non dal carcere, ma dal luogo dove mi trovo, come adesso) per avviarmici”: Ermione sta appunto avviandosi alla prigione.

(53) “This action I now go on”: “action” è qui da intendere in tutti i suoi vari significati di “arresto” (“imprisonment”), “processo” (“trial”), “battaglia”, “scontro”, (“contest”, “struggle”): prova in generale.

(54) “Is for my better grace”: “avviene (quasi per volere del fato, “is”) perch’io ne esca più onorata di prima”.

(55) “I had rather glib myself”: “Preferisco castrare me stesso”: rendere sterile le figlie equivale a isterilire la propria discendenza, quindi se stesso.

(56) Dicendo così, Leonte fa verosimilmente il gesto di toccare Antigono.

(57) “... and see withal the instruments that feel”: cioè gli organi dei sensi, coi quali si consuma l’adulterio.

(58) Antigono comincia a credere al sospetto di Leonte; resterà e morirà nel dubbio.

(59) “Be (I) be blamed for’t how you might”: “per quanto possa io per questo essere da voi biasimato”.

(60) “... as gross as ever touch’d conjecture”: “... così grossolanamente evidente quanto nessun altro che avesse potuto destar sospetto”.

(61) “They will bring all”: il “tutto” (“All”) che intende Leonte è il senso completo del responso dell’oracolo; esso doveva essere opportunamente interpretato da uomini “di stagionata competenza” (“of stuffed sufficiency”) quali erano i due, Cleomene e Dione, da lui inviati a Delfo.

(62) Si adotta la didascalia “Leontes discovered” che figura nell’“Arden Shakespeare” invece di quella di molti altri testi - compreso l’Alexander - che fanno entrare in scena con Leonte anche Antigono e altri. Queste prime parole di Leonte, come anche quelle in presenza del servo e dopo, hanno spiccato carattere di soliloquio. Antigono entrerà in scena dopo, con la moglie Paolina.

(63) Qui, come nel soliloquio all’inizio della scena, in assenza di qualsiasi “stage instruction” nel copione, è da immaginare che Leonte, ignorando la presenza del servo, parli ancora una volta al pubblico.

(64) Cioè a Polissene.

(65) “Unless he... commit me for committing honour”: si è cercato di mantenere il gioco di assonanze “commit”/ “committing” con “imprigionarmi”/ “sprigiono”.

(66) “Thou... woman-tired, unroosted/ By the dame parlet here”: “partlet” (derivato dal francese “Pertelote”, il nome della gallina in un racconto di Chaucer) preceduto da “Dame” (“Dame Partlet”) è usato - come spesso anche “hen”, “gallina” - per qualunque donna; l’immagine è quella del pollaio, dove il gallo, che dovrebbe esserne il re, si lascia buttar giù dall’appollatoio dalla gallina.

(67) “Who late has beat her husband/ And now baits me”: “hath beat” ha qui il senso di “hath driven off by blows”, come sopra I, 2, 33: “he beat from his best ward”. Assonanza col successivo “baits”.

(68) “Amongst all colours/ No yellow in it”: “colour” qui inteso come “complessione”, “specie animale” (cfr., nello stesso senso, in “Come vi piaccia”, III, 2, 435 “Boys and women are for the most part, cattle of this colour”). Il giallo, nella simbologia popolare, è il colore della gelosia; che Jago, peraltro, nell’“Otello” chiama “mostro dagli occhi verdi”. Ma tutto il discorso di Paolina è infarcito di luoghi comuni di sapore popolaresco.

(69) Prima l’ha chiamata “strega”: nel medioevo le streghe erano mandate al rogo, come eretiche.

(70) “Jove send her a better guiding spirit”: il riferimento a Giove e ad altre deità del mondo pagano (l’oracolo di Delfo) lascerebbero intendere che l’ambientazione di questa favola è nel mondo pagano, la cui dottrina metafisica ammetteva già in ciascun uomo la presenza di una forza soprannaturale che ne guidi i passi nella vita materiale, come sarà quella dell’angelo custode della dottrina cristiana; ma è una favola, e una favola non ha epoca. Se no, come spiegare il riferimento a Giulio Romano (sec. XV) alla fine del V atto?

(71) “... with Lady Margery your midwife there”: “Lady Margery” era un altro appellativo dialettale della gallina.

(72) La barba, s’intende, di Antigono, che Leonte, nel dir così, fa il gesto di tirare: uno dei gesti di massimo sfregio nella società inglese, che si ritrova più volte in Shakespeare.

(73) Si giurava sulla spada, dal tempo dei guerrieri cristiani, perché la loro spada aveva l’elsa fatta a croce, e si giurava così non sulla spada ma sulla croce.

(74) “... fight on thy side”: è l’immagine dell’angelo custode della concezione cristiana.

(75) In verità, Delfo, dov’era il famoso tempio di Apollo, si trovava nella Focide, ai piedi del monte Parnaso, quindi non su un’isola, ma in terraferma. L’isola di cui parlano qui i due è, verosimilmente, Delo, chiamata anche Ortigia, anch’essa sacra ad Apollo, che vi era nato. Shakespeare non fa che copiare qui l’errore che si ritrova nella fonte da cui egli ha tratto la trama della commedia, il “Pandosto” di Robert Greene.

(76) “These proclamations... I little like”: “Questi proclami... mi piacciono poco”.

(77) “More than mistress of which comes to me in name of fault...”: “Più che naturalmente in possesso di qualcosa che qui mi viene imputata come colpa..”; “mistress” è qui nel senso di “donna che possiede” (“woman having in her possession something of which…”), nel senso, cioè, di qualcosa di spontaneo, insito nella natura della persona ma nient’affatto peccaminoso.

(78) “... and first fruits of my body”: cioè Mamilio: il figlio come “frutto del corpo” è reminiscenza biblica (“Blessed shall be the fruits of my body”, DEUTERONOMIO, XXVIII, 4); qui al plurale “fruits” come in “Amleto”, II, 2, 145: “She took the fruits of my advice”.

(79) “... all proofs sleeping/ But what your jealousies awake”: “... tutte le prove dormendo, salvo quelle svegliate dalla vostra gelosia”. La frase gioca sul doppio significato di “to sleep”, che vale “dormire” e “essere inattivo, inefficiente”.

(80) “The flatness of my misery”: “flatness” è “planitudine”, “vastità in senso piano”: quasi che Ermione voglia paragonare l’ampiezza della sua angoscia ai grandi spazi sui quali imperava suo padre.

(81) “Leontes a jealous tyrant”: “tyrant” non aveva nell’antica Grecia lo stesso significato che ha il termine “tiranno” da noi: era il signore della polis, dispotico, forse, ma non necessariamente tiranno. Al principio della scena, Leonte ha tenuto a scagionarsi dall’eventuale accusa di “tiranno”.

(82) “... look down/ And see what death is doing”: “volgete gli occhi in giù e guardate che cosa sta facendo (in lei) la morte.

(83) I legacci del busto, che le donne portavano allacciato davanti, sul petto.

(84) Come faccia Paolina a sapere che Leonte ha tentato d’istigare Camillo ad avvelenare Polissene, non si capisce: non c’è traccia di tale indicazione nel corso dell’azione scenica fin qui. Si tratta qui, probabilmente, di una di quelle trasposizioni, frequenti nel teatro elisabettiano, dell’azione stessa dal palcoscenico al pubblico, il quale sa che cosa è successo; l’attore no, ma si comporta come se lo sapesse.

(85) Antigono, il marito di Paolina, come s’è visto, è stato mandato da Leonte ad esporre “la bastarda” “in qualche sito remoto e deserto, ben lontano dai nostri territori”. Antigono, su indicazione di Ermione, che gli apparirà in sogno, si dirigerà in Boemia, “la terra del padre della bimba”, come egli crede, dove morirà sbranato da un orso. Ma perché sua moglie lo consideri fin da ora “perduto” (“Who il lost too”) non si sa.

(86) “Thou didst speak but well/ When most the truth, which I receive much better/ Than to be pitied by thee”: “Hai parlato bene, quando soprattutto (hai detto) la verità: che io accolgo assai meglio che non essere da te commiserato”.

(87) Queste coste desertiche della Boemia in Shakespeare hanno affaticato non poco la critica: la Boemia geografica non ha coste. L’ignoranza geografica di Shakespeare è quasi proverbiale; quindi l’accenno ad una Boemia con il mare non doveva sembrare una stranezza al pubblico elisabettiano, anche perché a quel tempo la corona di Boemia (re “assai potente”, dice Leonte di Polissene) era riunita a quella d’Ungheria, la quale comprendeva anche la parte dell’Illiria non soggetta a Venezia: un tratto di costa dalmata notoriamente infestato dai pirati (i famigerati Uscocchi).

(88) “I never saw a vessel of like sorrow...”: “vessel”, “vaso” è termine di risonanza biblica: “vaso” è il corpo umano, contenitore dell’anima [cfr. in “Romeo e Giulietta” (I, 1, 14): “... women, being the weaker vessels”]; ma solo quello della donna.

(89) Antigono ignora, naturalmente, tutto quanto è successo dopo la sua partenza con la bimbina: per lui Ermione è viva, ed egli la vede morta; e crede anche che la neonata sia il frutto della tresca tra la regina e Polissene, denunciata da Leonte (Più sotto dirà alla bimba: “... per la colpa di tua madre...”).

(90) “This is the chase”: “Questa è la caccia”. Altri intende: “Questo è l’animale in cerca di preda”: che è traduzione letteralmente altrettanto valida, perché “chase” sostantivo indica “chi caccia” (“those who hunt”) e “chi è cacciato” (“that which is hunted”); ma nel testo dell’Alexander - che questo traduttore segue - c’è una “stage direction” (“Horns”=“Corni di caccia”) che indica la presenza di cacciatori, e impone quindi la prima lettura; giustificata, del resto, da quel che dice il pastore sull’arrivo di giovani cacciatori “teste calde” che gli hanno spaventato le pecore.

(91) “This is some changeling”: “changeling” è il bambino nella culla surrettiziamente scambiato con un altro. Era credenza popolare che ciò avvenisse ad opera di esseri extraterrestri (fate, folletti) o di zingare, che sostituivano nella culla i bimbi belli con esserini o folletti deformi. Ma qui il termine si riferisce non alla bimba, che il pastore tiene già in braccio, bensì al fagottello che sta ancora in terra, e che il contadino suo figlio si accinge ad aprire; il termine è usato qui da Shakespeare nello stesso senso che in “Amleto”, laddove (V, 2, 53) Amleto dice ad Orazio: “The changeling never known”, e dove “changeling” è l’azione di sostituzione di un documento con un altro, che Amleto ha compiuto di nascosto. Un uso ancora diverso dello stesso termine fa Shakespeare nel “Sogno d’una notte di mezza estate” dove “a little changeling boy” (II, 1, 120) è detto il bimbo che Tatiana, non che aver trafugato nella culla, ha ricevuto dalla madre morta nel partorirlo.

Uso più proprio dello stesso termine si ritrova invece nei “Due cugini” (“The Two Noble kinsmen”), laddove Emilia mette a confronto il ritratto di Arcite con quello di Palamone, e dice al primo “Lie there, Arcite,/ Thou are a changeling to him, a mere gipsy...”: “Arcite, resta là; rispetto a lui,/ tu sei uno scambiato nella culla,/ solo uno zingaro...”

(92) Senso: “Io Tempo, eterno testimone della realtà, che si presenta assai più viva e luminosa nel momento in cui accade - com’essa è quando i suoi fatti son rappresentati sulla scena - ve la dovrò qui presentare offuscata, perché mi dovrò limitare a raccontarvela a parole”.

(93) Questa del Tempo e quella della Chiacchiera nell’“Enrico IV - Seconda parte” - sono le sole personificazioni allegoriche in funzione di prologo portate da Shakespeare sulla scena.

(94) “I have missingly noted”: “missingly” usato assolutamente in funzione di avverbio, come qui, o di aggettivo, ha valore di “negativamente attendendo” (cfr. l’espressione “a missingly ship”, “una nave che è in ritardo da troppo lungo tempo, da far temere una disgrazia”).

(95) “... so far that have eyes under my service which look upon his removedness”: “... al punto da aver messo occhi al mio servizio che sorveglino il suo appartarsi”.

(96) Con l’entrata in scena di questo personaggio il dramma subisce un’improvvisa svolta. L’atmosfera tragica della prima parte, dominata dalla forsennata gelosia di Leonte e dai suoi micidiali effetti - la pietosa morte del figlioletto Mamilio e quella presunta della moglie, dopo un penoso processo - si volge in bucolica, in dramma pastorale, con la nota comica della presenza e delle birbonate di questo ciarlatano, uno dei tipi più divertenti di tutto il teatro shakespeariano. Il cambiamento è annunciato subito, in apertura di scena, da questa canzone di Autolico, in cui si fondono ingredienti bucolici (fiori, prati, atmosfera villereccia) con immagini lascive (ruzzar di forosette in amore tra i pagliai, bevute di birra), il tutto concluso con un romantico dialogo fra i due innamorati, Florizel e Perdita, e con la graziosa offerta, da parte di costei, dei fiori ai due ospiti.

È il magistrale miscuglio della ricetta con cui Shakespeare sembra aver voluto ammannire al pubblico la sua “favola d’inverno”: una fantasia, che ha il solo scopo di stupire divertendo, senza esser creduta vera e senza nessuna morale da insegnare, il teatro per il teatro. Gli stessi personaggi, con la loro improbabilità, cui si appaia in ultimo quella del “miracolo” della statua di Ermione che prende vita, sono altrettante variazioni del registro di base di questa generale intonazione. Il tutto andrà avanti fino al ritorno della scena in Sicilia.

(97) “Then my account I well may give”:il “conto” con la giustizia, si capisce.

(98) “With die and drab”: doppio senso: “drab” è “tessuto”, “roba di lino o di lana”, ma anche “femmina di malaffare”: Autolico commercia con entrambi.

(99) “Gallows and knock are too powerful on the higway”: Autolico vuol dire che, per sbarcare il lunario, non bazzica le strade maestre, non è un “higwayman” (in francese “latron de grande route”), ma si contenta delle strade di campagna e di piccoli imbrogli ai danni dei villici: come vedremo che farà.

(100) “I cannot do’t without counters”: s’è tradotto “counters” con “ballotte” dall’inglese “ballots”, come chiamavano i veneziani le palline nell’urna per l’elezione del doge.

(101) “... and he sings psalms to hornpipes”: il suono nasale della zampogna (o cornamusa) doveva essere poco gradito alle orecchie degli inglesi, come anche quello del piffero, che gli rassomiglia (cfr. nel “Mercante di Venezia”, II, 5, 29:”The vile squealing of the wryneck’d fife”, “... il volgare stridio che fa quel piffero col collo torto”). Si diceva che i puritani cantassero i loro salmi con voce nasale, del tutto simile a quello della cornamusa. Era uno dei tanti modi per irriderli; e Shakespeare non perde occasione per farlo, anche perché essi erano contrari al teatro, alla musica, alle danze. Sbagliano coloro che intendono qui: “e canta sulla (che sarebbe “facendosi accompagnare dalla”) cornamusa”: il contadino sta parlando soli di voci, e il puritano “sings”, “canta” in coro cogli altri; se no, il testo avrebbe detto: “and he sings psalms on hornpipes”. È curioso che, a dispetto di questa antipatia per lo strumento, la cornamusa sia diventata lo strumento nazionale degli scozzesi.

(102) “In the name of me!”: esclamazione di meraviglia mista a paura.

(103) La domanda non è oziosa, come lo stesso contadino spiegherà dopo: un ladrone di strada che andasse a cavallo è da presumere vestito meglio di uno che va a piedi: la sua giubba - dalla quale Autolico dice di essere stato “ricoperto”- sarebbe stata nel primo caso di miglior qualità, malgrado recasse i segni di maggior usura.

(104) V. la nota (70).

(105) “... to go about with troll-my-dames”: “troll-my-dames” (al singolare, detto anche “bagatelle”) era un gioco consistente in una tavola rettangolare con uno dei lati più corti arrotondato a forma semicircolare, con nove buche numerate e delle minuscole biglie, che il giocatore, con una stecca, doveva cercare di mandare nelle buche. Era gioco frequente nelle fiere di paese.

(106) “Hat been an ape-bearer”: “ape-bearer” era il girovago che andava per le piazze a divertire il pubblico con una o più scimmie ammaestrate.

(107) “Then a process-server (a bailiff)”: “process-server” era l’uomo incaricato dallo sceriffo della notifica degli atti giudiziari e dell’esecuzione, insieme con i gendarmi, dei fermi, arresti, ecc. Era anche detto “baglivo” (Bailiff).

(108) “Your purse is not hot enought to purchase your spice”: “to be hot”, in opposto a “to be cold”, si diceva, nella fisiologia medioevale, per esprimere una delle fondamentali qualità, quella della piena efficienza, degli uomini e delle cose in generale (“hot homour”).

(109) Era la divinità romana dei fiori e della primavera, sposa di Zefiro; in suo onore si celebravano a Roma, a fine aprile le “Floralia”.

(110) Il testo ha “O the fates!”, “Oh, i fati!” che in italiano dice ben poco del meravigliato timore di Perdita. Il Lodovici, uomo di teatro, traduce bene: “Misericordia!”.

(111) Giove, tra i molti amori, ebbe quello per la giovenca Europa, che rapì trasformandosi in toro.

(112) Della trasformazione di Nettuno in ariete, e per amore di chi, non s’è trovata traccia nei testi di mitologia classica.

(113) Apollo si fece pastore, non per sua volontà, però, e nemmeno per amore: fu Giove che lo scacciò dal cielo, esiliandolo in Tessaglia, con l’obbligo di custodire il gregge di Adleto, re di Fede.

(114) “... since my desires/ Run not before mine honour”: si noti la somiglianza con l’immagine dantesca (“Inferno”, XXVI, 21-22): “e più l’ingegno affreno ch’io non soglio/ perché non corra che virtù no’l guidi”.

(115) “... with anything that you behold the while”: “... col primo oggetto che ti capita sottocchio”, cioè “col primo invitato che incontrerai”.

(116) “On his shoulder, and his”: “sulla spalla di questo e di quest’altro”: è l’atto di chi s’inchina su chi sta seduto a tavola per sussurrargli una parolina all’orecchio.

(117) Cioè Polissene e Camillo.

(118) “It is my father’s will I should take on me/ The hostess-ship of the day”: “È volontà di mio padre ch’io prenda su di me la ospitalità in questo giorno”.

(119) È da immaginare che Dorca le porga un cesto.

(120) “... of that kind/ Our rustic garden’ barren”: “di quella specie il nostro rustico giardino è sterile”; il discorso di Perdita sulla bastardia delle verzure è tutto un sottile ammiccante traslato della sua posizione, quasiché, come si è già notato, ella sappia con chi parla.

(121) Garofani e violacciocche (“carnations and gillyvors”) sono le piante erbacee con le più varie qualità di colori e screziature, quasi per un loro capriccio a voler gareggiare con la natura.

(122) Questo dialogo fra Polissene e Perdita sull’arte che imita la natura, e sulla natura che non si lascia trasformare da artifici che non siano prodotto della sua stessa arte (e che ha inspiegabilmente entusiasmato certa critica), non è altro, per dirla con il Vittorini (“Il Racconto d’inverno”, Garzanti, 1991), che “una infilata di luoghi comuni rinascimentali”, già superati anche nella società elisabettiana. Quel che è più interessante, e più sottilmente poetico, è il sotto-dialogo condotto dai due in chiave ironica: Perdita (che forse s’è già accorta con chi parla) difende il suo onore e la sua castità (non vuole “bastardi” nel suo giardino); Polissene, che sa dell’interesse del figlio per la bella pastorella, la incoraggia, invece, a produrre “bastardi”, con la scusa che anche la natura ne fa (“il nobile virgulto sposato a un rozzo tronco”) normalmente.

(123) “Weeping”: cioè rorido di lacrime di rugiada mattutina.

(124) Allusione alla leggenda greca di Ades (il Plutone dei Romani) che chiese a Zeus, suo fratello, di concedergli in moglie Persefone (la Proserpina dei Romani), figlia dello stesso Zeus e di Demetra: Zeus gli rispose che Demetra non avrebbe mai acconsentito a che sua figlia andasse a vivere nel regno di Ades, il tenebroso Tartaro; e gli consigliò di rapire la fanciulla mentre questa stesse cogliendo i fiori sul monte Etna, in Sicilia: Ades vi si recò col suo carro e rapì la giovane, la quale, spaventata, lasciò cadere tutti fiori che aveva raccolto, e che Perdita qui enumera e descrive.

(125) Appellativo di Afrodite/Venere, in quanto particolarmente venerata nell’isola greca di Citera (oggi Cerigo).

(126) Appellativo del sole.

(127) “... as I have seen them do/ In Whitsun pastorals”: “pastorals” (o “pastoral games”) erano i giochi (canti, dizioni di poesie, rappresentazioni) che avevano luogo nelle sagre di paese, tutti intonati alla vita agreste.

(128) “But that your youth/ And the true blood.../ Do plainly give you an unstained shepherd...”: “... se la vostra gioventù e il sangue sincero... non vi proclamassero un pastore senza macchia...”. Perdita sa che quello che si fa chiamare Doricle non è un pastore, ma davanti agli altri mantiene il gioco.

(129) “... points, more than all the lawyers in Bohemia can learnedly hanle”: gioco di parole su “points”, che vale “punti”(di cucito o ricamo) e “punti” o “argomenti” (di diritto). Nel primo senso cfr. nell’“Enrico IV - Seconda parte”, V, 2, 207, Falstaff che dice degli immaginari ladroni da lui messi in fuga: “... their points being broken”, dove però il bisticcio è tra “punti di cucito” (delle braghe) e “punte delle spade”.

(130) Col descrivere il contenuto grottesco e stravagante di queste ballate, Shakespeare si diverte a fare il verso agli usi e ai gusti dell’ambiente popolaresco del tempo, che andava in visibilio per cantastorie e ciarlatani.

(131) Il nome di questo personaggio è, come spesso in Shakespeare, un aggettivo riferito alla qualità dello stesso: qui è “Mistress Teleporter”, che si dice di uno che è uso spettegolare sui fatti altrui per fini maligni.

(132) “Saliers” nel testo, che, in verità, non vuol dir niente: probabilmente una deformazione, da parte del servo, di “Satyrs” satiri (i dodici sono mascherati da satiri), per associazione col loro saltare.

(133) Allusione, secondo alcuni, alla danza di satiri che sta nel “The Masque of Oberon” di Ben Jonson, e che Shakespeare doveva aver visto rappresentata a corte il capodanno del 1611; in tale anno si colloca, infatti, la fattura del “Racconto d’inverno”. L’astrologo Simon Foreman dice di aver visto rappresentato al “Globe” questo dramma il 15 Maggio 1611. Ma questa danza di pastori vestiti da satiri può essere stata aggiunta dopo. È un episodio a sé, come l’analoga “Danza moresca” nella scena Quinta del III atto dei “Due nobili cugini”. Era consuetudine introdurre queste danze nelle rappresentazioni a corte oppure in quelle teatrali, soprattutto dopo il successo del balletto, dedicato a Giacomo I da Francis Beaumont “Masque of the Inner Temple and Gree’s Inn” nel 1613.

(134) Deucalione - il Noè della mitologia classica - quando Zeus per punire gli uomini scatenò sulla terra il diluvio, si costruì un’arca insieme con la moglie Pirra, nella quale i due si ripararono. Cessato il diluvio, uscirono e, per ricreare il genere umano, procederono insieme gettandosi dietro le spalle dei sassi: i sassi diventarono, quelli gettati da Deucalione, uomini, quelli gettati da Pirra, donne.

(135) “Even here undone”: letteralm.: “Anche qui rovinata”. Così traduce Montale: Ma che significa? Perdita, ormai fatta donna, sa di essere una trovatella, anche se non sa di chi è figlia, come non lo sa il pastore che glielo deve aver rivelato. A parere di questo traduttore, Shakespeare ha voluto farle dire, con quell’“even”, che ella pensa alla prima volta in cui è stata “undone”, che qui ha dunque il senso di “perduta”, questa volta per il suo sogno d’amore.

(136) È da immaginare che, nel dir queste parole, Perdita le accompagni col gesto di togliersi dal capo la ghirlanda di fiori che la proclamava regina delle festa.

(137) “How often said, my dignity would last/ but till were known!”: “dignity” non può esser qui - come intendono alcuni - “la mia dignità di futura regina”, perché Perdita, quando parlava così, non sapeva che Florizel/Doricle fosse un principe reale; è piuttosto da intendere “dignity” come “quality of being worthy” quindi, semplicemente, “la mia felicità”.

(138) Senso: se è la disperazione che mi consente di restar fedele ai miei giuramenti, io scelgo la disperazione, come il solo modo di essere onesto con me stesso.

(139) “There is some sap in this”: per l’uso figurato di “sap” nel senso di “succo di raziocinio”, cfr. “Enrico VIII”, I, 1, 148: “If the sap of your reason you would quench/ Or but allay the fire of passion”: “... sol che vogliate/ con il succo del vostro raziocinio/ Spegnere in voi, o almeno temperare/ Il fuoco della passionalità...”.

(140) “Nothing so certain as your anchors”: cioè alla vostra nave (alle vostre ancore: la parte per il tutto), alla ventura.

(141) “Your pardon, Sir, for this/ I’ll blush your thanks”: “Vi chiedo scusa, signore, se arrossisco nel ringraziarvi”.

(142) Che cosa si dicano i tre appartandosi si capirà subito dopo: Camillo dirà a Florizel che scriverà subito a Leonte annunciandogli l’arrivo in Sicilia di lui e di Perdita; nella lettera gli dirà anche di scrivere lui, Leonte, al suo amico Polissene per intercedere in favore del figlio. Ma l’interruzione è un espediente di tecnica teatrale per introdurre più efficacemente l’entrata di Autolico e il suo esilarante monologo.

(143) L’Onestà e la Fiducia, così come tante altre qualità e vizi degli uomini, erano altrettanti personaggi dei “Mistery Plays” e sono pertanto personificate.

(144) “... to keep my pack from fasting”: traslato: il sacco delle cianfrusaglie è paragonato a uno stomaco che, svuotato, è rimasto a digiuno.

(145) Autolico ha detto prima, nel presentarsi (IV, 3), che era stato al servizio del principe Florizel. Più sotto lo chiamerà “my master”, “mio padrone”.

(146) “For whose sight I have woman longing”: “Per la cui vista ho lo struggimento dell’attesa che ha una donna che deve partorire”.

(147) V. la nota (91).

(148) “King’s brother-in-law”: in verità sarebbe diventato non cognato ma consuocero del re.

(149) Il grattarsi la barba è il gesto dello sconcerto.

(150) Il testo gioca sulla parola “plain”: “We are but plain fellows, Sir”, dice il contadino, intendendo “plain” per “simple”; ma la parola significa anche “lisci” (“horizontal”, “flat”), e per tale l’intende Autolico nella sua risposta.

(151) Passo oscuro: “But we pay them for it with stamper coin, not stabbing steel”, “ma noi gliele paghiamo in denaro sonante”(“it” si riferisce al precedente “give us the lie”, e “sghei” è dialettale per “moneta buona”); la frase non sembra però aver nesso consequenziale con la seguente: “therefore they do not give us the lie”, dove “to give lie” vale “to accuse (someone) to his face of lying”. Il lettore la intenda come vuole.

(152) “Your worship had like to have given us one, if you had not taken yourself with that manner”: altra battuta oscura. A che cosa si riferisca quell’“one” non è chiaro; alcuni intendono al colpo di pugnale (“per poco non ci facevate secchi”), immaginando che Autolico abbia minacciato i due con la spada in pugno; ma i mercanti girovaghi non andavano armati di spada, o pugnale, né quella o questo gli può aver lasciato Florizel coi vestiti, che erano quelli di Doricle, un villico.

(153) “Or toaze form thee thy buisness”: “to toaze” per “to draw” è verbo creato da Shakespeare; s’incontra solo qui.

(154) Il fagiano e il cappone erano i regali coi quali i contadini si presentavano - come Renzo nei “Promessi Sposi” - agli avvocati per chiederne il patrocinio. Per Autolico fagiano è addirittura sinonimo di avvocato.

(155) “... being something gently considered...”: alcuni intendono “per un po’ di gentile considerazione da parte vostra”, “se mi usate un po' di riguardo”; ma a questo traduttore quel “being” è sembrato aver valore causale (“per il fatto che io son considerato...”) che è anche più logico, Autolico non avendo bisogno di chiedere “qualche riguardo” a gente cui si è presentato con tanta prosopopea.

(156) “Close with him”: “stringete con lui”.

(157) Cioè: “mettete il denaro che avete nella borsa nella palma della sua mano”.

(158) “... but though my case be a pitful one, I hope I shall not be flayed out of it”: gioco di doppi sensi sulla parola “case”, che vale “caso” (“sebbene il mio caso sia pietoso” - dice il contadino), ma anche “scatola”, “contenitore”, “involucro”, e quindi “pelle” (contenitore del corpo); sicché il contadino, prendendo il suo “case” prima in un senso e poi nell’altro, può dire: “Spero di non esserne cavato fuori”, cioè scorticato. La traduzione non ha potuto giocare che sul secondo.

(159) Autolico finge evidentemente di aver bisogno di urinare, per dar tempo ai due di uscire di scena.

(160) “She drops booties in my mouth”: letteralm.: “Essa (la fortuna) mi fa cadere il bottino in bocca”; l’immagine della manna è tratta dalla traduzione di Eugenio Montale.

(161) “Great Alexander”, “Alessandro il Grande” nel testo; ma l’Alessandro per antonomasia è lui.

(162) Si accetta la lezione “Where we offenders mourn” dell’“Oxford Shakespeare” in luogo di quella “Where we offend her now” (“dove noi ora la offendiamo”); e di quella, ancor più improbabile, che figura come inciso tra parentesi nell’“Arden Shakespeare”: “Were we offenders now” (“se questo torto noi facessimo”).

(163) C’è chi ha visto in questo strano pensiero di Leonte il riflesso di un tema che si ritrova in qualche ballata popolare: quello del fantasma della prima moglie che induce il marito ad uccidere colei che ha preso il suo posto. Il tema della vendetta del coniuge morto (in questo caso il marito contro l’usurpatore del letto e del trono) è anche in “Amleto”; anche il fantasma del re ucciso appare al figlio con un “Remember me!”.

(164) L’immagine dell’uomo come ammasso d’argilla, che è reminiscenza biblica, è frequente in Shakespeare.

(165) Si capisce che allude al figlio Mamilio e alla figlia (Perdita), non già al figlio e alla moglie. Più sotto specificherà infatti: “Se avessi avuto un figlio ed una figlia”.

(166) La sottile venatura erotica sottesa su questo insistere di Leonte sulla bellezza di Perdita sembra il riecheggiare, nell’animo di Shakespeare che scrive, del personaggio e della vicenda da cui egli ha tratto la trama di questo lavoro, il “Pandosto” di Robert Greene. Egli chiama la fanciulla, rivolgendosi a Florizel, “your precius mistress”, e “mistress” è il titolo che si da alla donna che detiene - spesso illecitamente - il possesso del cuore dell’amante; più sotto, al rimprovero di Paolina di guardare la fanciulla con occhio cupido - come avrebbe invece dovuto guardare la sua regina - risponde: “La guardo così perché mi ricorda Ermione”: forse inconsciamente è presago che quella è sua figlia, ed egli se n’è innamorato. Nel “Pandosto” di Greene il re, Pandosto appunto, concepisce una passione per la pastorella Faunia, prima di scoprire che essa è sua figlia. Si ucciderà quando verrà a conoscere la verità. Shakespeare, avviato ormai verso una soluzione felice della sua vicenda, sembra voler qui insinuare appena al sentimento incestuoso di Leonte, e, col suo grande mestiere, lasciando tutto alla fantasia dello spettatore, risolve tutto in queste due battute, e chiude il discorso.

(167) In un semplice nome, un tocco di sicilianità, che si direbbe ricercata: un personaggio della corte del re di Sicilia non può chiamarsi che Ruggero.

(168) Si noti qui la maestria della tecnica teatrale di Shakespeare, che ha raggiunto in questa commedia uno dei suoi vertici; egli fa sapere allo spettatore del clamoroso ritrovamento di Perdita attraverso la bocca di uno dei personaggi minori, un espediente per evitare una scena patetica di abbracci, lacrime e partecipazione di molti protagonisti (scena sempre difficile da pilotare come da recitare). Il racconto del secondo gentiluomo non fa che continuare quello iniziato dal primo, nel quale lo scoppio dei sentimenti è stato già descritto con poetica chiarezza.

(169) È l’unico accenno ad un artista italiano nelle opere di Shakespeare; egli deve averlo conosciuto dalle illustrazioni fatte da quell’allievo di Raffaello per il libro dei “Sonetti lussuriosi” di Pietro Aretino, che circolava abbondantemente in tutte le corti d’Europa. Naturalmente, la cosa è inventata, perché non si conosce di Giulio Romano alcuna opera del genere. Quanto agli “anni di lavoro”, giovi ricordare che tra il terzo e il quarto atto del dramma c’è un salto di 17 anni, l’età di Perdita.

(170) “... could put breath into his work... would beguile Nature...”: i verbi al presente lascerebbero intendere, come del resto tutto il racconto del gentiluomo, che questi parli di un artista vivente: il che non si concilia con la data di stesura del dramma, anche a voler riportare la vicenda all’epoca di Shakespeare. Tale data, secondo il canone più accreditato, è il l6ll; Giulio Romano è vissuto dal 1492 al 1546.

(171) “Give me the lie; do, and try whether I am not now a gentleman born: “Give me the lie” era una espressione del linguaggio duellistico: lo sfidante chiedeva all’avversario la smentita (the lie), e se quello non gliela dava lo invitava a provare con le armi (“to try”) la verità della sua affermazione. Qui mancano le “stage directions”, ma si deve immaginare che i due, pastore e contadino, appaiano sulla scena vestiti da gentiluomini, quindi con lo spadino al fianco. Sono passate quattro ore dal loro incontro con Leonte (come dirà il contadino nella battuta seguente), e in questo tempo i due, padre e figlio, hanno ricevuto a corte tutte le possibili attenzioni. Con che arma, però, il contadino si sarebbe battuto “l’altro giorno” (“This other day”) con Autolico, non si capisce: probabilmente a pugni, perché nessuno dei due, in quel momento, poteva portare un’arma.

(172) Il contadino vuol dire, evidentemente, “prosperous”; è uno dei soliti strafalcioni che Shakespeare si diverte a mettere in bocca ai personaggi minori. Ma tutto questo dialogo, dall’entrata in scena dei due personaggi, è una satira del nuovo-nobile, il “parvenu” ignorante e cafone. Shakespeare si diverte a fargli il verso, come col personaggio di Osric nell’“Amleto”.

(173) “… a tall fellow of thy hands”: “to be a stall fellow of (his) hand(s)”, è frase idiomatica che può significare 1)“essere abile con le mani”, “attivo a lavorare”, e 2) “di gran fegato a menar le mani”, “formidabile ad usar le armi” (“Oxford Universal Dict.”). S’è ritenuto il primo.

(174) Per i protestanti dell’Inghilterra di Shakespeare la venerazione delle immagini, in uso presso i cattolici, era considerata superstizione e condannata dalla legge. Inginocchiarsi davanti ad una statua ritenuta di divinità era reato.

(175) “That endet when I but began”, “ che finisti quand’io appena cominciavo”.

(176) “I’ll fill your grave up”: è come se Paolina, pensando di essere stata lei a scavare la fossa di Ermione (avendola fatta credere morta e tenuta celata presso di sé per sedici anni) si senta ora immaginariamente obbligata a farla sparire, riempiendola.

(177) “My spell”: “la formula del mio esorcismo”; “lecito” (“Lawfull”, “conforme a legge”) perché scevro da incantesimi e stregonerie, che sono pratiche illegali.

(178) Queste parole Paolina rivolge verosimilmente al pubblico, come a mettere la mani avanti quanto alla accoglienza ch’esso potrà dare allo spettacolo: una favola antica, che uno venisse a dare per nuova, meriterebbe d’essere fischiata; ma la sua, questa, della quale ella si sente come la regista, è diversa, sì che, alla conclusione, ella spera negli applausi.