Il raggiratore

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Carlo Goldoni

Il raggiratore


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il raggiratore

AUTORE: Goldoni, Carlo

TRADUTTORE:

CURATORE: Ortolani, Giuseppe

NOTE:

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza

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TRATTO

DA: "Tutte le opere" di Carlo Goldoni; a cura di Giuseppe Ortolani; volume 6, seconda edizione; collezione: I classici Mondadori; A. Mondadori editore; Milano, 1955

CODICE ISBN: informazione non disponibile

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 28 agosto 2004

INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO: Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

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Vittorio Bertolini, vittoriobertolini@inwind.it

PUBBLICATO DA:

Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

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IL RAGGIRATORE

di Carlo Goldoni

La presente Commedia, di tre atti in prosa, dir rappresentata in Venezia

nel Carnovale dell’anno 1756.

A SUA ECCELLENZA

IL SIGNOR

DANIEL RENIER

NOBILE VENETO

SENATORE AMPLISSIMO E PER LA SERENISSIMA

REPUBBLICA DI VENEZIA PROVVEDITORE ESTRAORDINARIO ALLE BOCCHE DI CATTARO

Non vi sembrerà cosa strana, Eccellentissimo Signore, che io con un riverente mio foglio venga a raggiungervi in cotesta Provincia, poiché prima della Vostra partenza, spiegatovi il desiderio mio di visitarvi con qualche mia lettera, Voi non solo benignamente me l’accordaste, ma mi voleste obbligato a farlo.

Vi recherà bensì maraviglia, che la prima volta che ho l’onore di scrivere all’E. V., in vece del calamaio servito siami del torchio; ma dovendo in questa mia lettera darvi un testimonio verace del mio rispetto, non contento di affidare i miei sentimenti ad una semplice carta, ho voluto in tante pagine replicarli, quante saranno le stampe di questo Tomo.

Sono parecchi anni che l’E. V. mi onora della sua protezione, e questo è un beneficio acquistatomi dalle mie Commedie, delle quali sin da principio il genio Vostro si è dichiarato parziale. Niuno meglio di Voi poteva in que’ primi giorni difficilissimi cooperar all’avanzamento della mia impresa, dietro di sé traendosi l’approvazione Vostra un vasto numero di persone, le quali conoscendo ed ammirando il Vostro talento, si determinarono a credere cosa buona quella di cui mostraste di compiacervi. Non contento di esaltare nei circoli e nelle conversazioni le mie Commedie, voleste consolar me medesimo, ed animarmi colla Vostra voce al proseguimento, dandomi a conoscere in Voi un Protettore magnanimo, benefico e liberale. Furono un primo effetto della protezione vostra le lettere amorosissime con cui mi accompagnaste a Torino, e le grazie colà ricevute, e l’ottimo accoglimento che ivi mi venne fatto, derivò dal merito Vostro conosciuto per ogni parte, non meno che nella Patria Vostra, che vi ama, vi onora, e di Voi giustamente si gloria.

Ebbi poscia maggior agio di profittare della Vostra amabilissima conversazione, mercé la nostra brillante, vezzosa Aurisbe, la quale, superando ogni altro femminile talento, merita l’amicizia di un Cavaliere di spirito, quale Voi siete. Ella coi dolcissimi carmi suoi si è compiaciuta invitarmi al canto, in occasione che la Nobilissima Figliuola Vostra Angela Maria vestì l’abito monacale, ed incontrai con giubbilo la fortunata occasione di adoperare la Musa pel Vostro nome, Padre degnissimo dell’Eroina Fanciulla. Piacquemi tanto il bel ritratto, che ne’ suoi versi la Nobile Pastorella ha formato, che ora dovendo in questi fogli ragionare di Voi, parmi non potervi meglio dipingere alla pubblica vista, che col ripetere le dolci stanze nella nostra Veneziana favella tessute.

La xe sta Santa Zovene Fia de DANIELRENIER. Ah? doveressi intenderme,

Sè omo del mistier. Savè chi el xe in Repubblica,

Savè quel che l’ha fatto.

Se no l’avessi in pratica,

Ve fazzo el so ritratto. El gh’ha una mente lucida,

Un intelletto pronto,

Che tutto rende facile,

Che presto arriva al ponto. El sa le cosse serie

Trattar con precision;

E po grazioso e lepido

El xe in conversazion. Amigo sincerissimo,

De cuor e de bon fondo,

Che cerca, che desidera

Far ben a tutto el Mondo. Temperamento fervido,

Che parla e che par bon,

Che va talvolta in collera,

Ma mai senza rason. A comandar giustissimo,

Prontissimo al dover,

In casa soa filosofo,

E sempre cavalier. Fatto el ritratto in piccolo,

Più a sguazzo che a pastela,

A vu ve lasso el merito

De insoazar la tela.

Dando a me Aurisbe il carico d’insoazar la tela, che vale a dire in buon Italiano formare la cornice al quadro, rispondendo io nel metro e nel vernacolo stesso, formai le stanze che seguono.

M’ha consolà moltissimo,

Vero cussì, e ben fatto,

D’un Cavalier che venero

El nobile ritratto. Ma se m’avè dà el carico

D’averlo a insoazar,

So le mie forze, e dubito

L’immagine guastar. Pur della tela al margine

Farò un breve contorno,

Una soaza semplice

Mettendoghe d’intorno. El Cavalier magnanimo

Protegge i Letterati,

Col spirito, coll’animo,

Col cuor dei Mecenati. Né amante delle lettere

L’è sol per complimento,

Ma el stima le bell’opere

Per genio e per talento. Delle virtù dell’anima

Conoscitor perfetto,

Co la costanza el supera

Ogni più vivo affetto. Onde del cuor medesimo

Staccandose una parte,

A Dio, che la desidera,

La dona e la comparte.

Ecco dunque dai carmi della Pastorella, e dai miei, detta una parte dei pregi Vostri; ecco sommariamente accennata la nobiltà. antichissima de’ Vostri natali, le eccelse cariche da Voi sostenute, e gli onori dalla Repubblica Serenissima riportati. Eccovi sinceramente dipinto quale Voi siete, di mente lucida, di pronto intelletto, saggio e prudente nelle seriose occasioni, grazioso e lepido nelle piacevoli congiunture; vero amico de’ Vostri amici, instancabile nel procacciare a tutti del bene; giustissimo nei Governi, buon Filosofo e buon Cavaliere, che vale a dire un Uomo che sa conoscere e dominar le passioni, e sa preferire ad ogni altra cosa l’onore. Io non ho fatto allora, che aggiungere encomi all’amore che per le Lettere dimostrate, alla protezione che avete pe’ Letterati, considerando in Voi una simile inclinazione non per mostrar di sapere, ma perché realmente sapete. So bene, Eccellentissimo Signore, che quanto sin qui si è detto, è una scarsissima parte dei pregi Vostri, ed io, se sapessi farlo, avrei aperto il campo per tessere infinite lodi alla Vostra virtù, non meno che alla Vostra grandezza; ma Voi siete nemico di tali encomi; mi avete comandato di scrivervi in confidenza, e non voglio perdere il merito di avervi obbedito, annoiandovi, mentre desidero di piacervi.

Questa mia Lettera non ha che due semplici obbietti: il primo è quello di manifestarvi l’ossequio mio, e di ciò mi lusingo ne sia l’E. V. ben persuasa; il secondo si è di accompagnarvi una mia Commedia, per divertirvi un’ora fra le gravi cure del Vostro importantissimo Governo in compagnia della Nobilissima Dama Vostra, che con eroico virtuoso amore ha preferito la compagnia del Consorte a quella dolcissima de’ suoi Figliuoli. Ad Essa, ed a Voi non meno, una simile lontananza non può essere che penosa. Non ho veduta in veruna parte, per quanto abbia io praticato, e con attenzione osservato, una Famiglia della Vostra più docile, più concorde, più deliziosa. Tre sorte di Figliuoli forniscono la Vostra Casa. Figliuoli Vostri del primo letto, altri dei primi voti della Dama Vostra, e quelli da Voi e da Essa prodotti. Chi mai crederebbe, che tanto amore e tanta concordia potesse in fra di loro regnare ? Eppure si amano, si rispettano tutti: sono amici e fratelli; sono tutti egualmente al Padre ed alla Madre rassegnati, obbedienti. Non vi è Matrigna, noti vi è Patrigno: sono tutti di un sangue, perché animati da uno stesso genio e da un’istessa virtù, Voi mi onoraste ammettermi alla Vostra mensa, e ne partii veramente contento per tal motivo, e maravigliato; sicuro che l’armonia della Vostra tavola non era accidentale in quel giorno, ma giornaliera e costante nella Vostra esemplare Famiglia, frutto del bell’esempio e dell’ottima educazione de’ Genitori. Unisco i voti miei a quelli de’ Vostri cari Figliuoli nell’augurarvi dal Cielo prospero fortunato soggiorno là dove il Principe Serenissimo vi ha collocato, e a sollecitare coll’animo le ore sospirate del Vostro ritorno, per consolazione di tutti, e di me specialmente, che sono con tenerissimo affetto e con profondissimo ossequio

Di V. E.

Umiliss. Divotiss. ed Obbligatiss. Serv. Carlo Goldoni

L’AUTORE A CHI LEGGE

Questa è una di quelle Commedie sfortunate in Venezia, che succedendo all’altre che avevano grandemente incontrato, ebbero la disgrazia di decadere. Erasi, innanzi di essa, rappresentata l’Ircana in Zulfa, commedia in seguito della Sposa Persiana, e che si vedrà nel quinto Tomo stampata; e come quella aveva riscosso abbondantissime lodi, così il Raggiratore, che le successe, fu male dal Pubblico ricevuto. Lo stesso accadde al Vecchio bizzarro, nel precedente Tomo stampato, rappresentatosi sulle Scene dopo la felicissima Sposa Persiana suddetta; e similmente in quest’anno 1757, in cui scrivo la Prefazione presente, successe una cosa simile nella Rappresentazione della Donna sola, la quale precipitò, dopo lo strepitoso incontro della terza Commedia Persiana, Ircana in Ispahan intitolata, che si leggerà solamente nel Tomo settimo. Queste tre Commedie, queste tre Sorelle Asiatiche, le quali tanto felicemente hanno recato utile ai Comici, diletto al Pubblico, e decoro al Poeta, hanno potuto discreditare qualunque cosa che a loro immediatamente successe. Vedesi da ciò chiaramente, che il più delle volte l’esito delle Commedie dipende dalla prevenzione del Popolo, dal confronto di un’opera con un’altra opera, anche dell’Autore medesimo, dal desiderio di vedere dopo una cosa creduta buona, un’altra che comparisca migliore, e talvolta da sazietà di lodare, prendendo il biasimo per un bellissimo chiaroscuro della pubblica compiacenza.

Io non dirò, ad onta di quelli che l’hanno slodata, che la presente Commedia sia cosa buona. So che altrove non ebbe la mala sorte medesima, e in Mantova, ed in Milano, mi ricordo averla veduta ricevere con soddisfazione, e replicar con fortuna, e so che in Roma ebbe un incontro grandissimo, e fece la buona sorte di uno di quei Teatri.

Non mi affaticherò a far l’analisi, e molto meno l’apologia di quest’opera, ma avendola io inviata, così manoscritta, molte centinaia di miglia di qua lontano, ad un Cavaliere intendentissimo di tutto quello che può avere di buono e di cattivo il Teatro, mi onorò del suo sincero giudizio con lettera de’ 7 Giugno 1756, di cui vogl’io regalare il Pubblico, per soddisfazione di quelli che hanno il Raggiratore goduto, e per mia giustificazione verso di quelli che lo hanno severamente trattato. Ecco le precise parole dell’eruditissimo Cavaliere:

«A dispetto delle cattive relazioni avute della Commedia del Raggiratore, io confessar devo avermi apportato un gran piacere nel leggerla, e non so comprendere come ella sia caduta a terra, quando sembrami dovesse essere universalmente applaudita. Che cosa mai di male vi si può notare, onde essere disapprovata? Io trovo la Commedia ottimamente condotta con caratteri diversi, e tutti comici, abbenché non tutti nuovi, e questi ben sostenuti sino all’ultimo, senza uscir mai dal proprio confine. Il Povero Superbo, una Moglie Civetta, una Figliuola Innamorata, un Villano che si fa creder Nobile co’ suoi raggiri e colle sue imposture, ed una povera Contadina vestita da Dama, e imbarazzata per il nuovo supposto grado, sono i caratteri della Commedia medesima. Ora non saprei quale opposizione le potesse esser fatta. Forse che si confonda l’azione fra i due principali, il Povero Superbo e il Raggiratore? ma non è vero. Il solo Raggiratore è il Protagonista; questi con le sue imposture si fa credere quel che non è, vive alle altrui spese, e co’ suoi raggiri portasi in vicinanza a prendere Moglie nobile, con buona dote, e gli sarebbe riuscito il disegno, se non lo avesse sconcertato l’arrivo improvviso del di lui Padre, quale fa nascere la peripezia sul principale soggetto, caduto dall’alto di sue speranze mal concepite all’estremo della confusione e della vergogna; e come che mal si adatterebbe ad essa Commedia il titolo del Presontuoso, nel di cui carattere niente succede di nuovo, rimanendo egli nel fine della Commedia lo stesso che è nel principio, così benissimo le conviene quello del Raggiratore, sul quale si ravvolge tutta l’azione, e la catastrofe si conclude. Il suo discoprimento è bellissimo, ma permettetemi ch’io vi dica, che in esso Voi non avete altro merito, se non se quello di averlo saputo bene adattare ad una vostra Commedia, tolto avendolo intieramente dal Glorioso di Monsieur Destouches, e chi volesse criticarlo, converrebbe se la prendesse coll’Autore Francese.

«Per altro io dubito che quante Commedie sarete Voi per iscrivere in prosa, tutte riporteranno un eguale destino; il verso solletica le orecchie in guisa che ha resa languida la prosa, ed intollerabile. Questo è un male, che fatto ve lo avete da Voi medesimo. Ora conviene seguitar la corrente. Può darsi che anche del verso l’universale si stanchi, e Voi ritornerete alla Prosa, in cui non avete alcuno che vi pareggi».

Il Cavaliere che si compiace difendere la mia Commedia non mi risparmia il rimprovero d’aver tolto da altri lo scioglimento; piacemi infinitamente la sincerità, ed io ne sono sì innamorato, che da me medesimo so svelare i miei difetti, e i letterari miei furti. In fatti, nella Commedia che ha per titolo La Donna stravagante, succeduta in scena al Raggiratore, e che sarà stampata nel Tomo sesto, facendo una specie d’apologia al Raggiratore medesimo, dissi in pubblico fin d’allora, che se del fine erano malcontenti, si lamentassero col signore Destouches, da cui mi ero divertito di prenderlo. Quando mi arrogo le cose altrui, lo dico liberamente, ma grazie al Cielo, poche volte mi è accaduto di farlo, e plagiario non sono stato, e non sarò mai. Altro è il rubare, altro è l’imitare.

Una mutazione ho fatta dalla recita alla edizione. In quella il ridicolo era senza la maschera, in questa ho creduto bene adattarlo al personaggio dell’Arlecchino.

Personaggi

Don ERACLIO povero e superbo.

Donna CLAUDIA sua moglie.

Donna METILDE loro figliuola.

JACOPINA cameriera.

Il CONTE NESTORE che poi si scuopre Pasquale.

CARLOTTA di lui sorella.

ARLECCHINO uomo di piazza, goffo e scaltro.

Il DOTTORE MELANZANA procuratore.

CAPPALUNGA trafficante impostore.

Messer NIBIO padre del finto Conte.

SPASIMO servitore.

Un compagno di Cappalunga, che non parla.

La Scena si rappresenta in Cremona.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera in casa del conte Nestore.

Il conte, il dottore, Cappalunga ed Arlecchino.

CON. In due parole vi spiccio tutti.

DOTT. La prego io, signor Conte, che ho degli affari alla Curia.

CON. Che mi comanda il signor Dottor Melanzana?

DOTT. Voleva renderle conto di quel che ieri s’è fatto per la causa di don Eraclio.

CON. Avete parlato con esso lui?

DOTT. Non signore. Poiché, per dirle la verità, con don Eraclio, quantunque sia il principale di questa causa, io parlo mal volentieri. È uno che non sa niente né di pratica, né di legge, e presume assai di saperne.

CON. È vero; don Eraclio presume di saper tutto, e il pover’uomo non ne sa niente. Se non foss’io che lo dirigessi!

DOTT. È verissimo; se non fosse vossignoria! (Ma però si fa pagar bene, per dirigerlo verso la strada della malora). (da sé)

CON. Due parole ancora col signor Dottore, e subito sono da voi. (a Cappalunga)

CAPP. Ma io non ho tempo da perdere, signore. Mi lasciano quelle due copie di Raffaello per due zecchini; se vuole che vada a prendere i quadri...

CON. Sì, subito. (Buon acquisto, li posso vendere per sei almeno). (da sé, e cava la borsa di tasca)

ARL. E mi, che gh’ho un negozio più grando de tutti i altri negozi?

CON. In che consiste un sì gran negozio?

ARL. Me sbrigo in quattro parole. La sappia, sior... Ma bisogna per l’ordene del discorso tornar a dir tutto quello che la m’ha dito in tre mesi che se cognossemo.

DOTT. Non la finirà mai questo sciocco.

CON. Aspettate un poco, Arlecchino, che mi parlerete con comodo. Ditemi voi, signor Dottore... Tenete, eccovi tre zecchini. Andate a prendere i quadri. Portateli da qui a due ore da don Eraclio, che vi sarò io pure. (a Cappalunga, dandogli li denari)

CAPP. E per me niente?

CON. Ci sarà qualche cosa per voi, a misura del buon negozio che mi riuscirà di fare. Siate lesto nel procurarmi vantaggio. Una man lava l’altra; e l’uomo vive dell’uomo. Chi non s’aiuta, s’affoga. Portatevi bene meco, ch’io sarò generoso con voi.

CAPP. Vado subito. (Questi è un bravo raggiratore). (parte)

SCENA SECONDA

Il conte, il dottore ed Arlecchino.

CON. Eccomi, signor Dottore, da voi. Che c’è di nuovo intorno agl’interessi di don Eraclio?

DOTT. Le nuove sono cattive. Perderà il palazzo, io dubito.

CON. Se perde il palazzo, non gli resta altro da perdere.

DOTT. Suo danno; merita peggio la sua condotta. Pare a lui di essere il primo cavaliere d’Europa; crede che la sua testa sia la più brava testa del mondo.

CON. È vero, ma non lo vorrei vedere rovinato sì presto.

DOTT. Vossignoria ha della carità per lui.

CON. Sì, e non poca.

DOTT. Per lui, o per la figliuola?

CON. Ah Dottor malizioso! Ne sapete più d’amor che di legge, per quel ch’io sento.

ARL. Sior Dottor, no ve stè a intrigar in tel me mestier, che mi no m’intrigo in tel vostro.

CON. Taci, Arlecchino, che non si stimano quegli uomini che non sanno fare di tutto.

DOTT. Signore, mi maraviglio di voi... (al Conte)

CON. Caro il mio Dottore, non andate in collera.

DOTT. Io sono un uomo di onore.

CON. Tenete una presa di tabacco.

DOTT. E se vossignoria mi perderà il rispetto, in casa sua non ci verrò più.

CON. Eccovi un zecchino per i vostri passi di ieri.

DOTT. Ora, tornando sul nostro proposito...

ARL. E a mi no se me bada. No voio esser strapazzà in sta maniera.

CON. Anche voi siete in collera?

ARL. Dei passi ghe n’ho fatto anca mi, dei passi.

CON. Passi, parole, buoni uffizi, sì, caro Arlecchino.

ARL. E in sta casa no ghe vegnirò più.

CON. Ho capito. Eccovi mezzo scudo.

ARL. La se comoda col sior Dottor.

CON. Dunque va male la causa di don Eraclio? (al Dottore)

DOTT. I creditori vogliono in pagamento il palazzo.

CON. E don Eraclio dove anderà ad alloggiare?

DOTT. Per la figliuola non mancherà una camera in casa del signor Conte.

ARL. In cas de bisogno, a quella putta ghe posso esebir anca mi un tocco della me camera.

CON. Volete ch’io ve la dica? Senza oltraggiar nessuno, salve le debite proporzioni, siete due capi d’opera.

DOTT. Mi vorreste mettere con colui?

ARL. No ghe vol miga tropp, sala? Con un per de persutti me dottoro anca mi.

DOTT. Orsù, io non ho volontà questa mattina di precipitare.

CON. Bravo, signor Dottore, andate da don Eraclio; dategli la nuova dell’imminente perdita del suo palazzo e fategli la cosa ancora più disperata che non credete.

DOTT. Perché non volete almeno ch’io lo consoli?

CON. Perché verrò io a consolarlo.

DOTT. Vossignoria si farà merito presso di lui, e io non potrò sperar niente.

CON. Se avete da me, che volete sperare da lui?

ARL. El gh’ha un stomego forte el sior Dottor, capace de degerir tutto, se el magnasse anca da quattro.

DOTT. (È meglio ch’io me ne vada). Signor Conte, la riverisco.

CON. A rivederci da don Eraclio.

DOTT. La prego di venir presto. Non mi lasci combattere con quel capaccio.

CON. Cercate anzi di persuaderlo.

DOTT. Se non vi è pericolo che si persuada! Ha una testa di marmo, e vuol quel che vuole, e crede di saper solo più di quello potrebbono saper dieci. Più tosto che aver che fare con lui, vorrei, cospetto di bacco! aver che fare colla più ostinata donna di questo mondo.

CON. Oh diavolo, che dite mai? Non lo sapete che bestia è la donna ostinata?

DOTT. Lo so, ma vi è il suo rimedio ancora.

CON. Insegnatemelo, caro Dottore.

DOTT. Volentieri. In lege: Si mulier, Codice de obstinationibus, s’insegna così: Si mulier ostinata loquitur, verbera, ac verbera, iterumque verbera. (parte)

SCENA TERZA

Il conte e Arlecchino.

CON. Questo è il codice dei villani. Le donne vanno trattate con gentilezza. Quello che non si ottiene colla buona grazia, difficilmente si può sperar col rigore; che dici tu, Arlecchino adorabile?

ARL. Mi digo cussì, che per vencer l’ostinazion de Giacomina, ghe vorave el verbera verbera de sior Dottor.

CON. Jacopina non ti vuol bene dunque?

ARL No digo per lodarme, ma credo che no la me possa veder.

CON. Questo è poco male. Che ti ha detto di me donna Claudia?

ARL. Donna Claudia m’ha dito... Ma no vorave fallar el nome. Donna Claudia xela la mugier o la fiola de sior don Eraclito?

CON. Non lo sai ancora? Ma sei bene sciocco! Donna Claudia è la moglie. La figliuola è donna Metilde.

ARL. M’ha dito donca donna Metilde...

CON. Io non ti domando di lei, ma di donna Claudia.

ARL. No di lei, ma di lei. Se poderave recever una grazia da vussustrissima?

CON. Che cosa vuoi?

ARL. Che almanco per una volta sola, dopo tre mesi che ho l’onor de conoscerla, la me fasse la grazia de dirme la verità.

CON. La verità non la dico sempre?

ARL. Sior sì, el dise sempre la verità come un lunario.

CON. (È un gran briccone costui; mi conosce più di quello ch’io mi credeva). Bene, qual verità vorresti tu sa pere da me?

ARL. Vorave saver, se in casa de don Eretico ve preme più la fiola, o la madre.

CON. Questa non è cosa che a te debba premere.

ARL. Ma la xe una cossa che la me confonde. Ora me mandè a parlar alla mader, ora me mandè a parlar alla fiola. Ora quella me dis: dirai al Conte, che si scordi di me. Ora me dis quell’altra: ricorda al Conte, che non mi privi della grazia sua. Stamattina, tra de ele do, ho credesto che le se volesse cavar i occhi. Tutte do in t’una volta le me voleva dir, che mi ve disesse; e le m’ha tanto dito, che no me recordo più gnente affatto quel che le m’abbia dito.

CON. Sei sempre stato un balordo, e lo sarai finché vivi.

ARL. Aspettè che ghe pensa un poco meio, che pol esser che me recorda qualcossa.

CON. Converrà che io mi serva di qualcun altro.

ARL. Zitto, zitto...

CON. Ti ricordi di qualche cosa?

ARL. Sior sì, m’arecordo che Giacomina m’ha dito che son un aseno.

CON. Ha detto bene, che non poteva dir meglio.

ARL. Obbligatissimo alle so grazie.

CON. E donna Claudia?

ARL. L’ha dito cussì de vussioria...

CON. Come! ha sparlato di me?

ARL. Ma lassème fenir de dir. Ha dito cussì donna Claudia... Ma in te l’istesso tempo xe saltada suso donna Metilde.

CON. E che ti ha detto donna Metilde?

ARL. Adesso me vien in mente. La m’ha dito, che a vussioria disesse da parte soa...

CON. Che cosa?

ARL. La madre la gh’ha rotto el filo, e no l’ha podesto fenir.

CON. Che cosa ha detto la madre?

ARL. La dise: quando viene da noi il signore... Ma in quel punto xe arrivà quella diavola de Giacomina, e mi, confesso la verità, me son voltà da quella banda e delle do patrone no me son recordà più gnente affatto.

CON. Bella premura che hai di me, che ti mantengo, si può dire, di tutto il tuo bisognevole!

ARL. Ma vu no me podè far quel ben che me pol far Giacomina.

CON. Va dunque, e più non mi venire d’intorno.

ARL. Ma la Giacomina la pol far del ben anca a vussioria.

CON. Come?

ARL. Oh bella! parlando alle so patrone per vu.

CON. Non dici male. Conviene coltivarla la cameriera. Procura ch’ella parli per me.

ARL. Ma la verità vorave saver. Alla madre, o alla fiola?

CON. A tutte due, per ora.

ARL. Dise el proverbio: chi vol ben alla fiola, fa carezze alla mamma. No la xe miga boccon cattivo donna Metilde.

CON. Sì, è una ragazza di garbo.

ARL. Ho inteso, sior Conte el vorave matrimoniar.

CON. Prendi quest’astuccio. Portalo in nome mio...

ARL. A donna Metilde?

CON. No, a donna Claudia.

ARL. No capisso gnente.

CON. Non è necessario che tu capisca.

ARL. Ma mi bisognerave che savesse tutto, per no fallar.

CON. Fa quel che ti dico.

ARL. Vorave sta volta che fessi a mio modo.

CON. Che cosa vorresti tu ch’io facessi?

ARL. Qualcossetta anca per la ragazza.

CON. Bene. Recale questa piccola tabacchiera. Ma bada bene che la madre non sappia della figliuola, e la figliuola non ha da saper della madre.

ARL. Sior sì, lassè far a mi... Ma un’altra cossa ghe vol.

CON. Che cosa?

ARL. Un regaletto alla cameriera.

CON. Che vuoi che le dia? Non ho niente in pronto.

ARL. Senza sto complimento, se scorre pericolo de no far gnente che staga ben.

CON. Eccoti uno scudo.

ARL. Sto scudo mo veramente lo tegnirave volentiera per mi.

CON. Fa come vuoi.

ARL. E per la cameriera?

CON. Sei un birbante, Arlecchino carissimo.

ARL. Sarà come che la dise ela.

CON. Ma per ora non ci è di più.

ARL. Son galantomo: me contento de quel che se pol aver. Vago a far el mio debito. La scatola alla madre, el stucchio alla fiola...

CON. No, l’astuccio alla madre...

ARL. Mi dirave el stucchio alla fiola.

CON. Perché?

ARL. Perché l’è una galantaria più da putta, che da maridada.

CON. Fa quello che ti ho ordinato di fare, e ricordati di regalare la cameriera.

ARL. E se la me dà dell’aseno?

CON. Non importa.

ARL. Sì, l’è la verità: se la me dise aseno, è segno che la me vol ben, che la desidera che gh’abbia del ben, perché i aseni al dì d’ancuo i xe quelli che gh’ha fortuna. (parte)

SCENA QUARTA

Il conte, poi Spasimo.

CON. Bellissima è la storiella di queste due graziose femmine, madre e figlia, che mi amano. La figlia aspira all’onore delle mie nozze. La madre all’onore della mia servitù. Coltivo l’una e l’altra per il mio fine, e intanto, se dono sei, son sicuro di pigliar venti. Per la stessa ragione soffro le insulsaggini di don Eraclio e di qualche altro suo pari. A spese loro mantengomi in questa nobiltà ideale. La mia contea è fondata sull’aria, e le mie rendite le ho stabilite sul raggiro della testa. Se mi conoscessero, non mi direbbono il signor Conte. Il conte Nestore sono io, il conte Nestore. Pasquale di messer Nibio diventato è il conte Nestore.

SPAS. Signore, favorisca venire all’uscio di strada, che vi è una femmina pazza, che non si può discacciare né colle buone, né colle cattive.

CON. Una pazza? Quali pazzie ha ella fatte?

SPAS. Senta se questa è una delle leggiere. All’abito, alla figura, al modo suo di parlare, si vede una donna ordinaria; indovini chi si figura di essere?

CON. Chi mai? qualche dama?

SPAS. Sì, signore, una dama, ma qualche cosa di più.

CON. Via, spicciati.

SPAS. Dice di essere sorella di vossignoria illustrissima.

CON. Mia sorella? Come si chiama costei?

SPAS. Disse ella chiamarsi Carlotta.

CON. (Povero me! sarà pur troppo colei). (da sé)

SPAS. Comandi, che cosa vuol che si faccia?

CON. Aspetta. (È una bestiaccia mia sorella. È venuta a precipitarmi). (da sé)

SPAS. Ci vuol poco a cacciarla via costei. Sono venuto a dirglielo, perché se mai sentisse a gridare...

CON. Aspetta, ti dico. (Come diavolo ha saputo ch’io mi ritrovo in Cremona?) (da sé)

SPAS. (Ci vedo dell’imbroglio nel mio padrone. La sarebbe bella, se fosse sua sorella davvero!) (da sé)

CON. (Qui ci vuole un ripiego). Dimmi, vieni qui. Colei che dice essere mia sorella, è stata veduta da altri alla porta?

SPAS. Non c’era nessuno, per buona fortuna.

CON. Presto dunque, fa che passi, e conducila qui da me.

SPAS. Ma come mai, signore...

CON. Senti; ti voglio ammettere ad una confidenza che è importantissima.

SPAS. Si fidi della pontualità mia.

CON. E bada bene che, se tu parli, la tua vita è in pericolo.

SPAS. (Costei è venuta a scoprire la contea del fratello). (da sé)

CON. (Il ripiego non è fuor di proposito). Sappi che costei è una giovane di bassa estrazione, che ho amata per qualche tempo. L’ho dovuta lasciare per altri impegni. Ella per amore mi cerca, e per comparire con titolo onesto, ardisce di fingersi mia sorella.

SPAS. Il solito è, in questi casi, fingersi moglie e non sorella, mi pare.

CON. Poteva ella temere di ritrovarmi in casa una moglie vera; e già impegnato mi trova colla figliuola di don Eraclio.

SPAS. Mandiamola via dunque.

CON. No, non voglio inasprirla. La farò partire da qui a qualche giorno.

SPAS. E intanto passerà per sorella.

CON. Questo può essere il minor male.

SPAS. In quegli abiti farà poco onore al fratello.

CON. A ciò si può rimediare. Introducila presto, prima che mi faccia scorgere dal vicinato.

SPAS. Vado subito.

CON. E bada bene.

SPAS. Non c’è pericolo. (parte)

SCENA QUINTA

Il conte solo; poi Carlotta e Spasimo.

CON. Mancavami ora codesto imbroglio. Si può far peggio per me? Son curiosissimo di sapere come e perché sia costei venuta. Minor male sarà, se non è venuto seco mio padre. Con costei, che è donna alfine, posso compromettermi di farla essere quel che vogl’io; ma se venisse mio padre, che è uomo all’antica, vero contadino di que’ rustici satraponi... eccola. Bella figura da farmi onore!

CARL. L’ho poi ritrovato questo baronaccio di mio fratello.

CON. Cara sorella, son contentissimo di vedervi.

SPAS. (Ha principiato con un bel complimento). (da sé)

CARL. Bell’azione da somaraccio! piantarci tutti così, senza carità, senza discrezione.

SPAS. (Non faccia che parli così, signore). (piano al Conte)

CON. (Amore la fa parlare; si lamenta, perché l’ho abbandonata). (piano a Spasimo) Vattene, ti chiamerò se averò bisogno. (a Spasimo)

SPAS. Sì signore. (in atto di partire)

CARL. E vostro padre ancora mi ha detto...

CON. Riposatevi; parleremo dappoi.

SPAS. (Ha padre vivo il padrone). (da sé)

CARL. Eh, caro signor Pasquale...

CON. Vuoi andartene? (a Spasimo)

SPAS. Vado subito. A chi dice Pasquale?

CON. A te l’averà detto.

SPAS. Fatemi grazia, signore, di dirle il mio nome, che se mi dice un’altra volta Pasquale, non mi terrò di dirle...

CON. Vattene, e avverti di non parlare.

SPAS. (Oh, temo voglia esser difficile che io non dica niente). (da sé, e parte)

SCENA SESTA

Il Conte e Carlotta.

CARL. Voi siete qui dorato, inargentato, e a casa vostra si muor dalla fame.

CON. Zitto. Il diavolo vi ha qui portata per rovinarmi. Dite piano, che nessuno vi senta.

CARL. Dirò piano quanto volete; ma ora sono con voi, e da voi non mi parto più, e voi ci dovete pensare.

CON. Se saprete condurvi, se averete giudizio, io potrò fare la vostra fortuna.

CARL. Son venuta qui per disperazione. È stato detto in villa da noi, che voi eravate in Cremona. Son due giorni che giro per ritrovarvi, e nessuno mi sa dar conto di voi. Passando di qui, vi ho veduto a caso in finestra...

CON. Avete domandato di me?

CARL. A più di trenta persone.

CON. Sapete chi sono io?

CARL. Che domanda graziosa! non conoscerò mio fratello?

CON. Ma in Cremona lo sapete chi sono?

CARL. Chi siete in Cremona?

CON. Il conte Nestore di Colle Ombroso.

CARL. Serva umilissima del signor Conte.

CON. Servitore umilissimo della signora Contessa.

CARL. Per me non voglio titoli. Ho bisogno di pane, e son venuta per questo.

CON. Ma se volete star meco, avete a sostenere il mio grado.

CARL. Con questi bei vestimenti?

CON. Circa agli abiti, si fa presto. Un rigattiere vi veste in meno di un’ora.

CARL. Fate voi, fratello, io sono nelle vostre mani: ma badate bene, che ci faremo burlare.

CON. So che avete dello spirito. Quando voi sappiate adattarvi, la vostra compagnia mi sarà utile, mi sarà cara. Non ho nessuno che tenga conto del mio.

CARL. Avete roba? Avete quattrini?

CON. Ho di tutto, sorella mia, non starete male.

CARL. E la vostra povera moglie?

CON. Un giorno penserò anche per lei.

CARL. Voleva io ch’ella venisse con me.

CON. No, per ora. Sarei rovinato.

CARL. E vostro padre?

CON Mio padre ha da vivere. Pensate a voi, non pensate a loro. Chi sa che non mi riesca di maritarvi col titolo di Contessa?

CARL. Per il titolo stimo il meno. La difficoltà consiste in saper fare.

CON. Imparerete col tempo. Vi darò io delle buone lezioni. V’introdurrò a poco per volta nelle conversazioni civili. Non dubitate: io sono in credito, e colla scorta mia farete voi pure la vostra bella figura. Venite meco, che voglio farvi vedere i frutti dell’ingegno mio. Vedrete ori, argenti, biancherie.

CARL. Ma ditemi, in grazia, che mestiere fate?

CON. Mi maraviglio di voi. Son chi sono. Il conte Nestore non fa mestieri. (parte)

CARL. Fortuna, ti ringrazio. Se il conte Nestore non fa mestiero, avrà finito d’arar la terra anche la contessa Carlotta. (parte)

SCENA SETTIMA

Camera in casa di don Eraclio.

Don Eraclio e il dottore.

DOTT. Si persuada, signor don Eraclio, che la cosa è così.

ERAC. Voi non mi venderete lucciole per lanterne. Di legge ne so ancor io quanto basta.

DOTT. Ella, per quel ch’io sento, mi crede ignorantissimo.

ERAC. Io non dico questo.

DOTT. O un ignorante, o un furbo.

ERAC. Né l’uno, né l’altro.

DOTT. Dunque sarà vero, che la di lei causa è in pericolo.

ERAC. Vi dico che la mia causa non la posso perdere.

DOTT. Favorisca. (Vorrei pur veder di convincerlo, se fosse possibile). (da sé)

ERAC. Ho esaminato bene l’articolo, e so che la causa non la posso perdere.

DOTT. Favorisca. Sa ella di essere debitore di Anselmo Taccagni di duemila scudi di capitale?

ERAC. È verissimo.

DOTT. E di sette anni di frutti al cinque per cento?

ERAC. Non lo nego.

DOTT. Dunque bisognerà soddisfarlo.

ERAC. Ma la causa non la posso perdere.

DOTT. Cospetto del diavolo! vossignoria debitore è certo.

ERAC. Va bene.

DOTT. Ha ella altro modo da pagare un tal debito, oltre la cessione del palazzo di cui si tratta?

ERAC. Lo sapete; io non so dove rivolgermi per pagarlo.

DOTT. Dunque la causa non si potrà sostenere.

ERAC. Ma questa causa non la posso perdere.

DOTT. Se avessi due teste, me ne vorrei tagliar una.

ERAC. Tagliatevi quel che volete; la causa non la posso perdere.

DOTT. Ma mi dica almen la ragione.

ERAC. Siete un bel Dottore, se avete bisogno ch’io vi suggerisca il come, il modo, il perché.

DOTT. Sarò un ignorante. Favorisca d’illuminarmi.

ERAC. In questa sorte di liti non procede il giudice more legalis.

DOTT. More legali, vorrete dire.

ERAC. Ecco qui, voi altri Dottori non sapete altro che stare attaccati alle lettere dell’alfabeto. Un esse di più, un esse meno, vi fa specie; ma non sapete il fondo della ragione.

DOTT. La sentirò volentieri da lei.

ERAC. Da me sentirete di quelle cose che vi faranno stordire. Troverete pochi cavalieri della mia nascita, del mio rango, della mia antichità, che sappiano, come me, di tutto quello che si può sapere.

DOTT. Mi premerebbe saper per ora la di lei virtù nel proposito di questa causa.

ERAC. In materia di cause ne ho difeso più di voi, forse, per carità, per amicizia, per protezione. Il mio nome alla Curia è rispettato e temuto.

DOTT. S’adoperi dunque per sé, come si è adoperato per gli altri.

ERAC. A un cavalier mio pari non è lecito agire per me medesimo, come far saprei per un altro.

DOTT. Illumini me almeno, che sono il di lei procuratore. So il mio mestiere, per grazia del cielo; ma pure imparerò volentieri qualche cosa di più da un cavaliere del di lei talento.

ERAC. Noi abbiamo una causa... Come chiamate voi la causa che abbiamo?

DOTT. Questo è un giudizio di Salviano, intentato da un legittimo creditore ipotecario per intenutare l’effetto obnoxio.

ERAC. Questo obnoxio è un termine da Dottore; non lo capisco.

DOTT. Vuol dire obbligato.

ERAC. Bene dunque; noi abbiamo una causa di Salviano obnoxio.

DOTT. Non confondiamo i termini.

ERAC. Ed io vi dico, che la causa non si può perdere. (alterato)

DOTT. Se non mi dice la ragione, non ne sarò persuaso.

ERAC. La ragione è questa. Salviano non può portar via il palazzo obnoxio di un cavaliere ipotecario, che non ha altro che questo per il decoro della nobile sua famiglia. Né vi può essere, né vi sarà giudice sì indiscreto, che dopo venti secoli di nobiltà voglia precipitare una famiglia come la mia, che discende da Eraclio, imperatore di Roma.

DOTT. Eraclio è stato imperatore di Costantinopoli.

ERAC. Questo non serve; ma la causa non si può perdere.

DOTT. Ora che ho inteso la ragione, me ne consolo con lei: vada dal giudice, mostri la discendenza di Eraclio...

ERAC. E gli farò vedere, che i miei antenati erano padroni del Po, dalla fontana Aretusa dov’egli nasce, sino all’Adriatico dove s’inselva.

DOTT. Il Po s’inselva nel mare?

ERAC. Voi non sapete altro che di Salviano.

DOTT. Tutti non possono avere una mente così felice.

ERAC. Dottore, parliamo di cose allegre. Già la causa non si può perdere. Oggi resterete a desinare con noi.

DOTT. Riceverò le sue grazie. (Convien pigliare quel che si può). (da sé)

ERAC. Abbiamo due capponi di Venezia, un allesso e un arrosto, e un pezzo di vitella mongana, e un piatto di ostriche, e due bottiglie esquisite, oltre il solito desinare che avrà ordinato la dama.

DOTT. La signora donna Claudia è ella, per quel che si dice, che bada all’economia della casa.

ERAC. Non si dice, che bada all’economia; queste sono ispezioni di gente bassa. Donna Claudia mia moglie bada allo splendor della casa, non all’economia.

DOTT. E vossignoria illustrissima non s’intrica nelle cose domestiche.

ERAC. I pari miei non hanno l’uso, non hanno il tempo. Altre cose maggiori occupano il mio talento.

DOTT. Per esempio le liti.

ERAC. Sì, anche le liti; ma non questa che abbiamo presentemente. Questa è una lite che non si può perdere.

SCENA OTTAVA

Cappalunga e detti.

CAPP. Con permissione di vossignoria illustrissima.

ERAC. Che? non c’è nessuno de’ miei servitori?

CAPP. Perdoni; non ho trovato nessuno. Mi sono preso l’ardire.

ERAC. Quelle due corniole che l’altro giorno mi avete venduto, non le stimano niente. Dicono che ho gettato via il mio danaro.

CAPP. Non se n’intendono questi signori. Se vossignoria illustrissima  non le avesse conosciute per antiche e buone, non le avrebbe comprate. Io non ne ho cognizione, ma ella che sa, le ha conosciute subito; non vi è nessuno in questa città, che abbia l’intelligenza delle cose antiche, come ha il signor don Eraclio. (al Dottore)

DOTT. Sì, certo. Egli è intelligente di tutto, specialmente poi delle liti.

ERAC. Sì, delle liti, delle antichità, delle cose rare, me ne intendo più di nessuno. E son sicuro che le corniole sono bellissime; e se le mando a Roma, me le pagano a peso d’oro.

DOTT. Se sono corniole antiche, vagliono altro che a peso d’oro!

ERAC. Tacete col vostro Salviano.

CAPP. Signor don Eraclio, ho una bella cosa da fargli vedere.

ERAC. Che cosa avete da farmi vedere?

CAPP. Due quadri di Raffaello.

ERAC. Di quel bravo, di quel celebre Veronese?

CAPP. Non signore, non sono di Paolo Veronese, ma di Raffaello d’Urbino.

ERAC. Voleva dire di quello. Lasciatemeli vedere.

CAPP. Ora subito. (s’accosta alla scena, e chiama un uomo che viene con due quadri)

ERAC. Li conoscerò io, se sono di Raffaello d’Urbino. (al Dottore)

DOTT. Badi bene, che non sieno copie.

ERAC. Volete insegnare a me a conoscere le copie dagli originali?

DOTT. Se mi permette, vado via. Ritornerò a desinare.

ERAC. Trattenetevi un poco; veggiamo questi due quadri.

CAPP. Eccoli, signore: questi sono due gioje.

ERAC. (Li va osservando con attenzione)

DOTT. (Povero sciocco: non sa niente). (da sé)

CAPP. Ha mai veduto i più belli? (a don Eraclio)

ERAC. Aspettate. (cava l’occhiale per vederli meglio)

DOTT. (Più che guarda, meno ne sa). (da sé)

ERAC. È vero, sono di Raffaello da Pesaro.

CAPP. D’Urbino, vuol dire.

ERAC. Da Pesaro a Urbino non ci sono che poche miglia.

DOTT. (Parmi che stia mal di memoria ancora). (da sé)

ERAC. Quanto vagliono questi due quadri di Raffaello?

CAPP. Non dica quanto vagliono, che non hanno prezzo. Sono di una vedova, che non sa più che tanto.

ERAC. Si possono aver per poco, dunque?

CAPP. Ma è stata un po’ maliziata, perché dietro alla tela vi ha ritrovato scritto il nome dell’autore, e si è informata, e ha inteso dire che le pitture di Raffaello sono rarissime.

ERAC. Sono rarissime, lo so ancor io. Lasciate vedere. (osserva per di dietro ai quadri) Ecco il nome dell’autore. Non si può negare che non sieno di Raffaello d’Urbino. (al Dottore)

DOTT. Chi se ne intende, non ha da cercare la sicurezza dietro del quadro.

ERAC. Qui non si tratta di Salviano, signor Dottore. Quanto vuole la vedova di questi due quadri di Raffaello d’Urbino? (a Cappalunga)

CAPP. Ella mi ha domandato dieci zecchini l’uno: ma se si potessero aver per otto...

ERAC. Per otto zecchini l’uno, sono assai piccoli, ne ho comprato uno l’altro ieri, grande sei volte tanto, per tre zecchini.

CAPP. Di Raffaello d’Urbino?

ERAC. Non so di che mano sia. Ma non è cattivo.

CAPP. Perdoni. I quadri non si apprezzano dalla grandezza...

ERAC. Lo so ancor io: dalla mano.

SCENA NONA

Il conte Nestore e detti.

CON. Servitore di don Eraclio.

ERAC. Amico, siete venuto in buona occasione. Osservate questi due pezzi di quadro.

CON. Oh belli!

ERAC. Indovinate di che autor sono. (Non gli lasciate veder la tela per di dietro). (a Cappalunga)

CON. Per me li giudico di Raffaele d’Urbino.

ERAC. Originali, o copie?

CON. Originali bellissimi.

ERAC. Così diceva ancor io. Indovinate quanto ne vogliono.

CON. Se si dovessero valutare per quel che vagliono.

CAPP. Per otto zecchini l’uno si possono prendere?

CON. Li prenderei ancor io per questo prezzo. (Bravo Cappalunga, si è portato bene). (da sé)

DOTT. (Ci gioco io, che sono d’accordo fra questi due). (da sé)

ERAC. Facciamo così, Conte, prendiamone uno per uno.

CON. Sarebbe peccato lo scompagnarli.

ERAC. Se volete ch’io ve li ceda...

CON. Vi ringrazio. Se fossi al mio feudo, li comprarei; ma qui non ho casa mia, e poi ora ho da spendere in altro. È capitata stamane la Contessa mia sorella.

ERAC. Davvero? me ne consolo. Verrò a fare i miei complimenti colla dama.

CON. Mi farete onore, ma spicciatevi da quest’uomo, e non vi lasciate scappare una sì bella occasione.

ERAC. Portateli nel mio gabinetto, e aspettatemi, che ora vengo. (a Cappalunga)

CAPP. Sì signore. (Mi sono portato bene?) (al Conte)

CON. (Bravissimo. Aspettatemi dallo speziale).

CAPP. (Sì signore). (parte)

SCENA DECIMA

Don Eraclio, il conte, il dottore.

CON. Come va la causa, signor Dottore?

DOTT. Peggio che mai, signore.

ERAC. Eccolo qui; è ostinato a credere che voglia terminar male. E io giudico, e sostengo, e provo, che la causa non si può perdere.

CON. Così diceva ancor io; mi pare che don Eraclio non la possa perdere.

DOTT. Ma la ragione su cui si fonda, è ridicola.

CON. Su qual principio fondate voi, don Eraclio, la ragione vostra?

ERAC. Sovra un principio certo, infallibile.

DOTT. Perché un cavaliere non ha da restare senza il palazzo...

ERAC. Tacete. Non è questo solo il motivo.

CON. No, non è questo il solo motivo. Conviene esaminare la natura del debito.

ERAC. Questo conviene esaminare.

CON. E se l’ipoteca è generale, o speciale.

ERAC. E se è generale, non si può dire speciale.

CON. E se al contratto mancano le debite solennità, non tiene.

ERAC. Non tiene un contratto, che è fatto senza solennità. Il Conte sa quel che dice. Dottore, vi aspetto a mangiare i capponi meco, e la causa non si può perdere. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Il CONTEed il DOTTORE.

CON. Questi è l’uomo più felice del mondo.

DOTT. Ma la sua felicità vuol durare per poco.

CON. Intanto godrete oggi anche voi del buon gusto della sua tavola.

DOTT. Mi ha nominato i capponi di Venezia. Chi non verrebbe a mangiarne? In tutto il mondo non si trovano i più preziosi.

CON. E dove trattasi di pelare, il signor Dottore non manca.

DOTT. E il signor Conte non monda nespole.

CON. Don Eraclio è il miglior cappone del mondo.

DOTT. Ed ora Raffaello d’Urbino ha terminato di capponarlo. (parte)

SCENA DODICESIMA

Il CONTE, poi donna METILDE..

CON. Costui mi conosce un poco meglio degli altri; ma son certo però, che trovandoci il suo interesse a tenersi meco, non mi recherà pregiudizio. Non so, se colui d’Arlecchino avrà portato alle dame i miei regalucci. Ecco donna Metilde: veramente è una damina gentile, peccato che non abbia ventimila scudi di dote! Non vorrei che amore mi corbellasse. Starò in guardia più che potrò.

MET. Serva, signor Conte.

CON. Riverisco la signora donna Metilde.

MET. Giacché non c’è nessuno, vorrei prendermi una libertà.

CON. Potete esser sicura di tutto il mio rispetto, e dirò anche della mia tenerezza.

MET. Tenete questa carta; riponetela presto, presto.

CON. Che vi è qui dentro, signora?

MET. Lo vedrete poi. Compatite.

CON. Permettetemi che possa almeno vedere...

MET. No, vi dico, non voglio. L’aprirete quando sarete da voi.

CON. Non so che dire. Voi sempre mi caricate di grazie.

MET. Sono piccioli segni dell’affetto mio.

CON. Veggo a mia confusione con quanta bontà mi trattate.

MET. Se potessi, farei di più.

CON. Arlecchino è ritornato qui questa mane?

MET. Lo vidi, che appena mi era alzata dal letto, non gli ho potuto dire quel ch’io voleva. Mia madre è una tiranna con me.

CON. Dopo non è tornato?

MET. No certo.

CON. Potrebbe essere ritornato, che voi non lo sapeste. Vi è dubbio che possa averlo veduto donna Claudia senza di voi?

MET. Non può essere, perché ella è stata sinora alla tavoletta. Tre ore ci sta ogni mattina allo specchio, e se io sto mezz’ora, mi grida.

CON. Spiacemi che non abbiate veduto colui.

MET. Perché? aveva qualche cosa da dirmi?

CON. Aveva una cosuccia da darvi.

MET. Che mai?

CON. Una picciola tabacchiera d’avorio, con una miniatura eccellente. Quando verrà, vi supplico d’aggradirla.

MET. Tutto è prezioso quel che viene dalle mani del signor Conte.

CON. Posso vedere quel che rinchiude la carta?

MET. Per ora no, vi dico. Mi basta che l’aggradite, e che, per segno d’aggradimento, vi degnate di farne uso.

CON. Qualunque sia la finezza che voi mi fate, non lo trascurerà il mio rispetto.

SCENA TREDICESIMA

Claudia.

CLA. Che fate qui, scioccarella?

MET. Niente, signora.

CON. Appunto m’informava da lei, dove poteasi riverir donna Claudia.

CLA. La mia camera sapete dov’è, né vi è bisogno che prendiate lingua da lei.

CON. Signora, credo vi sia nota l’onestà mia, onde non possiate temere...

CLA. Non vi offendete, Conte, che non lo dico per voi.

MET. Lo dice per me la signora madre. Gli dispiace ch’io sia qui, perché vi è il signor Conte. Anderò via, se comanda.

CLA. (Arditella!) Restate, io non ho soggezione di voi; anzi deggio parlare al conte Nestore per conto vostro, ed ho piacere che ci siate. (Vorrei disfarmene di costei). (da sé)

MET. (Se almeno mi proponesse a lui per isposa; ma sarà difficile). (da sé)

CLA. Accomodatevi. (siede)

CON. Per obbedirvi. (siede)

CLA. Sedete, sedete voi pure. (a donna Metilde)

MET. Sì signora. (siede vicino al Conte)

CLA. Chi vi ha insegnata la civiltà? Non si dà incomodo alle persone, sedendo da vicino.

MET. La sedia era qui... (scostandosi)

CON. Resti pure. Anzi, nella stagione in cui siamo, si sta meglio vicini.

MET. Mi accosterò dunque. (alzandosi un poco)

CLA. Sfacciatella. A chi dico io?

MET. Compatisca. (rimane al suo posto)

CON. (Sono in un pochino d’imbroglio; ma saprò condurmi). (da sé)

CLA. È qualche tempo che ho desiderio di sfogarmi un poco colla mia signora figliuola. Da sola a sola non ho voluto farlo, temendo che l’ardir suo e la mia intolleranza mi conducessero a qualche eccesso. Mio marito è come se non ci fosse; non pensa che a rovinare la casa, ed a me lascia il peso della famiglia. Tutto anderebbe bene, mercé la mia direzione, se non avessi una figlia, che mi dà occasione di essere malcontenta.

MET. Che cosa le faccio io, che non mi può vedere?

CLA. Che cosa andate dicendo voi, ch’io attraverso le vostre fortune, che non cerco di collocarvi, che sono una madre tiranna?

MET. Sempre, chi riporta, vi aggiunge qualche cosa del suo.

CLA. Possono avere aggiunto: ma qualche cosa averete detto.

MET. Ho detto certo, ho detto.

CON. Signore mie, non fate che la soverchia delicatezza vi faccia prendere le pagliucce per travi.

CLA. No, Conte, giacché ci siamo in questo discorso, contentatevi che si proseguisca.

CON. Cara donna Claudia, vi supplico non inoltrarvi in un discorso che ora sembrami inopportuno. Fatelo in grazia mia, s’egli è vero che abbiate della bontà per me. (sottovoce a donna Claudia)

CLA. Voi avete l’arbitrio di comandarmi. Sospenderò per ora.

CON. Permettetemi ch’io vi dica una cosa, ch’ella non senta. (come sopra)

CLA. Parlate pure con libertà. (s’accosta colla sedia)

CON. (Doveva venire poco fa Arlecchino, a recarvi in mio nome un piccolo segno della mia rispettosa memoria; sarebbe egli venuto?) (piano a donna Claudia, e donna Metilde freme)

CLA. (Non l’ho riveduto dopo la prima volta. Spiacemi v’incomodiate...)

CON. (Vi supplico di scusarmi).

CLA. (Se è lecito, di che cosa mi avete voi onorata?)

CON. (Un picciolo astuccio d’Inghilterra con un picciolo finimento d’oro). (È princisbech, ma non importa). (da sé)

CLA. (Sono tenuta alla vostra cortese attenzione...)

MET. Signora madre.

CLA. Che cosa volete?

MET. Perdoni; non incomodi tanto il signor Conte.

CLA. Fraschetta. (si ritira un poco)

CON. Abbiamo ragionato di voi, signorina.

MET. Me l’immagino. La signora madre parla volentieri di me.

CLA. Sentite? Sempre sospetta di me, e sempre con un simile fondamento. Orsù, alle corte, quello che voleva dire è questo...

CON. Ma signora...

CLA. Non è cosa che possa produr mal effetto. Metilde è in età da marito; voglio collocarla quanto più presto si può. E voi che siete un cavaliere entrante, che ha delle aderenze lontane, vi prego stare in traccia, se si trovasse un partito buono.

MET. (Mi vorrebbe maritare lontana, per non avermi dinanzi agli occhi). (da sé)

CON. Non mancherò, signora, di usare ogni possibile diligenza per rinvenire partito degno di lei.

CLA. Direte ora, ch’io non cerco di collocarvi?

MET. Ma mi vorrebbe mandar lontano.

CLA. Qui non mi si offre un genero, che degno sia della nostra casa.

MET. Il signor conte Nestore non è di sangue nobile quanto noi?

CON. Donna Claudia non ha ancora certa contezza della mia nobiltà.

CLA. Vi credo nobilissimo, Conte mio; ma son certa che avreste difficoltà a pigliarla, sentendola a ragionare così.

MET. È egli vero, signor Conte, che ci avreste della difficoltà?

CON. Signore mie, prima che c’impegniamo in un discorso che non può essere tanto breve, permettetemi che io vi dica una cosa che mi era dimenticata. Due ore sono, è capitata qui mia sorella

CLA. La Contessa vostra sorella?

MET. Come si chiama?

CON. Carlotta.

CLA. Voglio aver l’onor di conoscerla.

MET. Anch’io, se mi sarà permesso.

CLA. Voi la vedrete quando verrà a favorirci. Intanto anderò oggi a farle una visita, se il conte Nestore me lo permette.

CON. (Diavolo! troppo presto). (da sé) È un poco stanca dal viaggio, signora.

CLA. M’informerò quando averà riposato.

CON. Non mancherà tempo...

CLA. No certo. Oggi vo’ vederla; vo’ conoscerla ed abbracciarla.

CON. (Vuol essere bene imbrogliata). (da sé)

MET. Ora, signor Conte, finite di dire quello che avete tralasciato di dire.

CON. Nella situazione in cui sono, colla sorella che mi vuol dar da pensare, non ho il capo a segno per parlare con fondamento.

CLA. No, Conte, se avete qualche inclinazione per la figliuola, ditelo liberamente.

MET. Parlate pure, se avete niente in contrario.

CON. Parmi di sentir gente. Ecco qui Arlecchino.

SCENA QUATTORDICESIMA

Arlecchino e detti.

ARL. Servitor umilissimo. Fazzo riverenza; patroni.

CON. (È venuto a tempo costui). (da sé) (Tanto vi siete fatto aspettare?) (s’accosta ad Arlecchino)

ARL. L’è stà per causa de Giacomina.

CON. (Secondatemi). (piano ad Arlecchino) Vado subito Signore, con permissione. La Contessa mia sorella ha bisogno di me.

CLA. Ci volete lasciare?

MET. Senza terminare il discorso?

CON. Resterei; ma... non ha detto ch’io vada subito mia sorella? (ad Arlecchino)

ARL. Sorella?

CON. La Contessa non ha detto ch’io vada subito?

ARL. Sior sì... subito.

CLA. Fatele i miei umilissimi complimenti.

MET. Anche per parte mia, signore.

CON. Sarà favorita delle grazie vostre. Con permissione (Prima di dar loro quel che vi ho consegnato, badate bene che siano sole, che una non se ne avveda dell’altra). (piano ad Arlecchino) All’onore di riverirvi. (alle due dame, e parte)

CLA. Serva.

MET. Serva divota.

SCENA QUINDICESIMA

Donna Claudia, donna Metilde, Arlecchino.

ARL. (Me despiase che le sia qua tutte do. Ma son capace anca de darghe ogni cossa, senza che una se ne incorza dell’altra). (da sé)

CLA. Vi ha mandato qui dunque la sorella del Conte?

ARL. (Questo mo l’è un altro imbroio). Siora sì, son vegnù, per dirla... per causa de un servitor che vorave andar a servir, e i m’ha dito che vussioria ghe n’aveva bisogno.

CLA. Sì, è vero. Dov’è costui?

ARL. El sarà là de fora; l’è vegnù qua con mi. (finge guardar tra le scene)

CLA. (si volta verso la scena)

ARL. La tegna un regaletto de sior Conte. (piano a donna Metilde, e le dà l’astuccio)

MET. (Un astuccio? Mi aveva detto una tabacchiera). (da sé)

CLA. Dov’è costui? Non lo vedo.

ARL. Che el sia andà via? Menego, dov’estu? (s’accosta a donna Claudia)

MET. (Osserva l’astuccio) (Non vorrei che lo vedesse mia madre). (da sé)

ARL. (La tegna un regaletto de sior Conte). (piano a donna Claudia, e le dà la tabacchiera)

CLA. (Mi disse il Conte, che mi regalava un astuccio). (piano ad Arlecchino)

ARL. (Oh diavolo, ho fallà). (da sé) (La tegna per adesso questa). (a donna Claudia)

CLA. Ringraziatelo.

ARL. Siora sì, la sarà servida. Bisogna che Menego sia andà via, el tornerà.

CLA. Ditemi, è bella la Contessa?

ARL. Chi Contessa?

CLA. La sorella del conte Nestore.

ARL. Ah sì, no la xe brutta. (Mi no so gnanca che la sia a sto mondo). (da sé)

MET. È giovane?

ARL. Cussì e cussì.

CLA. È una bella figura?

ARL. Piuttosto.

MET. Parla bene?

ARL. Per quel che ho sentìo mi, no me descontento.

CLA. Somiglia al fratello suo?

ARL. Qualcossa.

MET. È bianca in viso?

ARL. Ghe vedo poco, no l’ho vista ben.

CLA. Com’è venuta?

ARL. La sarà vegnuda, come che la sarà vegnuda.

MET. Quando è arrivata?

ARL. Gier sera.

CLA. Come ieri sera, se ha detto il Conte che è arrivata questa mattina?

ARL. Siora sì, stamattina. (Adessadesso le me chiappa in rede). (da sé)

CLA. Chi l’ha accompagnata?

ARL. Sior, vegno subito. (verso la scena)

CLA. A Chi dite?

ARL. El sior Conte me chiama; con so bona grazia.

CLA. Riveritelo.

ARL. La sarà servida.

MET. (Ringraziatelo). (piano ad Arlecchino)

ARL. Padrona sì.

CLA. Se vedete la signora Contessa...

ARL. Ho capio. Se vederò siora Contessa, la saluderò da parte soa. (Mai più son stà in t’un imbrodo più grando de questo. E per cavarse a tempo, no ghe voleva altro che una testa de bronzo co fa la mia). (da sé, e parte)

MET. (Ho curiosità di veder bene l’astuccio) (da sé)

CLA. (Non so come l’astuccio guernito d’oro siasi convertito in una tabacchiera di poco prezzo). (da sé)

MET. Con sua licenza, signora.

CLA. Andate, andate, che parleremo dappoi. (incamminandosi)

MET. Sì, signora, quando comanda. (incamminandosi)

CLA. Un poco più di rispetto alla madre. (incamminandosi)

MET. Un poco più di carità alla figliuola. (incamminandosi)

CLA. Le fanciulle non si prendono tal libertà cogli uomini.

MET. Io non credeva che ciò convenisse alle maritate.

CLA. Fraschetta!

MET. Ho detto male?

CLA. Levamiti dinanzi. (parte)

MET. Farò tanto, che mi mariterà per disperazione. (parte)

ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Segue la stessa camera.

Jacopina e Arlecchino.

ARL. Mo via, no siè cussì ingrata con chi ve vol ben.

JAC. Voi siete qui colle solite seccature.

ARL. Aveu paura che le mie seccature le ve fazza calar la carne?

JAC. Ho paura, se mi scappa la pazienza di dosso, avervi da dare qualche cosa nel grugno.

ARL. El grugno el gh’ha i porchi, patrona; no mi, che per soranome i me dise Arlecchin Visobello.

JAC. Chi diavolo è stato colui che vi ha posto il nome di Visobello?

ARL. Me xe stà dà sto bel titolo da una congregazion de femene, che cognosse el mio merito.

JAC. L’avranno detto per burlarvi, come si dice, per esempio, bravo ad un asino.

ARL. L’aseno el gh’avè sempre in bocca.

JAC. Non me lo ricordo mai, se non quando vi vedo.

ARL. Acciò che el podè véder meggio, un’altra volta voio vegnir con un specchio.

JAC. Bricconaccio! credete che non vi capisca? Specchiatevi in una galera, che vedrete il vostro ritratto.

ARL. Giacomina, non andar in collera.

JAC. Se verrete più voi in questa casa, me n’anderò io.

ARL. Via, femo pase.

JAC. Con voi non voglio aver che fare.

ARL. Anca sì, che femo pase?

JAC. Oh, non vi è pericolo.

ARL. Ghe scometto un scudo, che femo pase.

JAC. Mi vien da ridere, quando dite di giuocare uno scudo. Se non avete un quattrino!

ARL. Mi no gh’ho bezzi? Come se chiamelo questo? (mostra lo scudo)

JAC. Si chiama scudo. Dove l’avete avuto?

ARL. Oe, digo, ve piaselo adesso sto grugno? (s’attacca lo scudo alla fronte)

JAC. Ora mi piace; ora vi si può dir veramente Arlecchino Visobello.

ARL. Ghe zogo sto scudo, che tra vu e mi femo pase.

JAC. Come intendete voi di giuocare lo scudo? Se si fa la pace, ho da dare uno scudo a voi?

ARL. La scomessa la doverave esser cussì.

JAC. Non la facciamo in eterno.

ARL. Femo donca in sì altra maniera. Scometto sto scudo che tra vu e mi no se fa più pase.

JAC. Io posso giuocare che si farà.

ARL. Va un scudo.

JAC. Depositatelo nelle mie mani.

ARL. E vu cossa metteu su per scomessa?

JAC. La mia parola non vale?

ARL. Via, voggio crederve per el vostro scudo, ma no vorave rischiar el mio malamente.

JAC. Come sarebbe a dire?

ARL. No ve fidè de mi?

JAC. Non signore.

ARL. Femo cussì. Tegnimolo in deposito tutti do. Mezzo per omo.

JAC. Bene, date qui.

ARL. Eccolo. Tegnimolo in do. Va sto scudo, che no se fa la pase. (tengono lo scudo in due)

JAC. Va lo scudo, che si fa la pace.

ARL. Vu sè una femena ingrata.

JAC. Non parliamo più del passato.

ARL. M’avè strapazzà, m’avè dito aseno.

JAC. L’ho detto per ischerzo. Siete un uomo di garbo.

ARL. Sto muso xelo un grugno de porco?

JAC. No; anzi avete un visino bello, bellissimo.

ARL. Se no me podè véder.

JAC. Se siete anzi il mio caro.

ARL. El vostro caro?

JAC. È fatta la pace?

ARL. Oibò. Voggio vendicarme delle insolenze che ho ricevesto.

JAC. In questa maniera la pace non si farà mai.

ARL. E el scudo el resterà per mi.

JAC. (Lo vorrei per me, se potessi). (da sé)

ARL. (Se l’ho da spender, no lo vol buttar via). (da sé)

JAC. Via, caro Arlecchino, amor mio, vita mia.

ARL. Ste parolette dolce no le basta, patrona, per obbligarme; ghe vol qualcossa de meio.

JAC. Poverino! povero Arlecchino! (accarezzandolo modestamente)

ARL. Me principia a passar la collera.

JAC. Datemi la vostra manina, caro.

ARL. Baroncella!

JAC. Siete grazioso, amabile, mi fate proprio ardere per vostro amore.

ARL. Vago in acqua de viole.

JAC. È fatta la pace?

ARL. Sì, la xe fatta.

JAC. Lo scudo è mio

ARL. El scudo xe vostro.

JAC. Ora che ho guadagnato lo scudo, andatevi a far squartare.

ARL. Come! sto tradimento? El mio scudo.

JAC. La scommessa è stata per far la pace; la pace è fatta, lo scudo è mio. Non ho promesso che la pace duri. E se volete che il vostro viso mi piaccia, copritelo tutto di questa roba, altrimenti, signor Arlecchino, non sperate mai e poi mai che il vostro grugno mi piaccia. (parte)

SCENA SECONDA

Arlecchino, poi donna Metilde.

ARL. Credeva de saverghene assae, ma custìa la ghe ne sa più de mi. La m’ha cuccà el scudo, e de più la m’ha strapazzà. No ho gnanca avù tempo de dirghe gnente per el sior Conte a proposito del scudo, per rason delle do patrone... Qua ghe ne vien giusto una. Adesso, se la me interroga de siora Contessa, posso darghe soddisfazion. L’ho vista, e per dir la verità, ghe vol un gran cuor a creder che la sia Contessa.

MET. Ehi, galantuomo.

ARL. Obbligatissimo. Questo xe el mio titolo che me vien; mi no gh’è nissun che mel voggia dar.

MET. Ditemi un poco: il signor Conte vi ha detto di dare a me quell’astuccio?

ARL. Siora sì, el stucchio me l’ha dà sior Conte.

MET. Per dare a me?

ARL. Se no avesse fallà; ma no crederia.

MET. Non vi disse di darmi una scatoluccia d’avorio?

ARL. Per dir la verità, gh’aveva da dar anca la scatola.

MET. Una scatola quadrata.

ARL. Quadrata.

MET. Bassina.

ARL. Bassina.

MET. Con il coperchio miniato.

ARL. Miniato.

MET. Questa l’ha nelle mani mia madre.

ARL. Oh cospetto del diavolo! la gh’ha so siora madre?

MET. Senz’altro. L’ho veduta poco fa nelle di lei mani: e quando se n’è accorta ch’io la vedeva, l’ha rimpiattata.

ARL. Vardè, quando che i dise dei accidenti del mondo!

MET. Ma come può essere questo sbaglio accaduto?

ARL. Siora, bisogna che ghe confessa la verità.

MET. C’è qualche inganno qui sotto.

ARL. No ghe xe gnente d’inganno. La xe stada una mia locaggine. La scatola... La me compatissa, per amor del cielo.

MET. Via non mi fate penare.

ARL. (Intanto penso quel che ho da dir). (da sé) La scatola l’ho persa, e bisogna che l’abbia persa in sta casa, e che so siora madre l’abbia trovada.

MET. Può essere ch’ella sia così. Per altro l’astuccio mi è caro più della scatola. Viene a me, non è vero?

ARL. Seguro.

MET. Mandava a me l’uno e l’altro.

ARL. Tutto a ela.

MET. Questo cerchio che lo contorna, crediamo noi che sia d’oro? (va mostrando l’astuccio ad Arlecchino)

ARL. D’oro, d’orissimo.

SCENA TERZA

Donna Claudia e detti.

MET. E lo stuzzicadenti che vi è dentro, sarà d’oro esso pure? (aprendo l’astuccio)

CLA. (Osserva in disparte)

ARL. Oro fin, oro antigo. De quello che se usava al tempo de Otton imperator.

MET. È una bella galanteria.

ARL. Bella!... (Oe, vardè che xe qua vostra siora madre). (piano a donna Metilde)

MET. (Povera me! che non me lo veda). (vuol rimpiattarlo)

CLA. Che ha di bello la signora figliuola?

MET. Niente, signora.

CLA. Niente eh? Favorisca lasciarmi vedere.

MET. Che cosa?

CLA. Quel bell’astuccio che ha rimpiattato.

MET. È una cosa ch’io...

ARL. (Adesso la va ben). (da sé)

CLA. Presto, vi dico.

MET. Eccolo.

CLA. Bellino!

MET. (Mi mangerei dalla rabbia). (da sé)

CLA. Donde l’ha avuto, signora?

MET. Posso averlo avuto ancor io, com’ella ha avuto la tabacchiera d’avorio.

ARL. (Pezo). (da sé)

CLA. Quello che ha mandato a me questa scatola, ha mandato a voi questo astuccio?

MET. Non l’ha ritrovata per terra la scatola?

CLA. Non signora, non l’ho ritrovata per terra. (bruscamente)

ARL. L’ha ben trovà ela el stucchio per terra. (a donna Claudia)

MET. (Costui mi mette delle pulci in capo). (da sé)

CLA. Andate nella vostra camera. (a donna Metilde)

ARL. (Xe meggio che me la batta). (da sé) Patrone, con so bona grazia. (in atto di partire)

CLA. Trattetenevi, che vi ho da parlare.

MET. Signora...

CLA. Che cosa vorreste?

MET. L’astuccio.

CLA. Sta bene nelle mie mani.

MET. E io niente?

CLA. Qualche cosa avrete anche voi.

MET. La scatola forse?

CLA. Una mano nel viso.

MET. Di queste finezze me ne ha fatte abbastanza la signora madre.

CLA. Posso farvene delle altre ancora. (con finta placidezza)

MET. Sono un poco grandetta, ora. (scherzosamente)

CLA. A misura dell’età, può crescere il peso degli schiaffi. (come sopra)

MET. Mi consolo di una cosa.

CLA. Di che?

MET. Che gli anni crescono per tutti, che gli schiaffi della signora madre non dovrebbono più avere tanta forza.

CLA. Sfacciata, insolente! Credi tu, perché ti vedi crescere come fa la mal’erba, ch’io abbia perduto la forza, lo spirito e la gioventù? La tua temerità ti può far credere di trent’anni, ma non ne hai che sedici; ed io di quattordici ho preso marito. E una donna di trent’anni vale qualche cosa di più di una fraschetta di sedici; e queste mani ti possono far provare, se per l’età ho perduto la forza... (s’avanza minacciandola)

MET. La non s’incomodi, che ne son persuasa. (fugge via)

SCENA QUARTA

Donna Claudia ed Arlecchino.

ARL. (Sta scena me l’ho godesta da galantomo. Adesso ghe ne aspetto un’altra). (da sé)

CLA. Che cosa fate qui voi? (ad Arlecchino)

ARL. Bisognava che ghe vegnisse.

CLA. Ma perché ci siete venuto?

ARL. Questo xe el ponto della causa. Ghe son vegnù, perché bisognava che ghe vegnisse.

CLA. La ragione di questa necessità?

ARL. La rason la ghe la domanda a quel stucchio.

CLA. Per regalarlo forse a Metilde?

ARL. Mi l’aveva da dar a vussioria.

CLA. E come l’ha avuto Metilde?

ARL. La l’ha avudo perché... Mi lo portava a vussoria.. e cussì... ho domandà de ela... ma xe vegnù la signora, come se chiamela... certo la me l’ha visto, e la me l’ha tolto de man. (Alla fin l’ho trovada). (da sé)

CLA. E lo voleva per lei?

ARL. Mi po no so altro. Quel che ho dito ho dito, e servitor umilissimo. (in atto di partire)

CLA. Aspettate. Il Conte manda a me quest’astuccio?

ARL. Siora sì.

CLA. E la scatola?

ARL. Anca quella, mi credo.

CLA. Perché dite credo? Chi ve l’ha data la tabacchiera?

ARL. Me l’ha dada sior Conte, certo, certissimo, e qua no gh’è gnente da batter; perché, se nol me l’avesse dada, mi no l’averave avuda.

CLA. Va bene; ma a chi vi ha detto di darla?

ARL. El m’ha dito: prendi, e porta alla signora donna Claudia.

CLA. L’astuccio?

ARL. El stucchio.

CLA. E la scatola?

ARL. E la scatola.

CLA. Tutto dunque?

ARL. Tutto.

CLA. E perché mi hai dato solamente la scatola?

ARL. (Adesso vegnimo all’articolo della difficoltà). (da sé)

CLA. Perché non darmi l’astuccio?

ARL. Perché, signora, la memoria dei omeni la xe tanto debole, quanto la fedeltà delle donne.

CLA. A proposito, chi si è scordato, tu o il Conte?

ARL. O mi, o el Conte.

SCENA QUINTA

Don Eraclio e detti.

ERAC. Vi cerco e non vi ritrovo.

CLA. Chi cerca, trova. Eccomi, se mi volete.

ERAC. Che cosa vuole costui?

CLA. È venuto a dirmi per parte del Conte che la Contessa... sta bene, ed ha riposato, ed è in grado di ricevere, non è vero? (ad Arlecchino)

ARL. Siora sì, xe verissimo.

CLA. E io voglio andare ora a farle una visita.

ERAC. Piano con questa visita. Non so se si convenga di farla.

CLA. Una dama venuta ora per la prima volta in città, non dovrà essere visitata? Andate a dirle che sarò a riverirla... (ad Arlecchino)

ARL. Vago subito.

ERAC. Aspettate. (ad Arlecchino)

ARL. Aspetto.

ERAC. Tutte le regole patiscono la loro eccezione. Non so se ad una moglie di don Eraclio convenga visitar per la prima una Contessa, che è qualche cosa di meno.

CLA. Il Conte è nobile quanto noi. Andate. (ad Arlecchino)

ARL. Gnora sì.

ERAC. Fermatevi. (ad Arlecchino)

ARL. No me movo.

ERAC. Piano con questo nobile quanto noi, ché la nobiltà di don Eraclio non si può impattare con nessuno e voglio che si sostenga la riputazione degli Eraclidi.

CLA. Ma il Conte è pur vostro amico.

ERAC. Amico usque ad baram, che vuol dire sino alla morte; ma l’amicizia non ha da oltraggiare la delicatezza di un sangue che è più puro, e più netto, e più purgato, e più nobile di quello che ho creduto fosse finora.

CLA. Sarà vero tutto quello che dite: ma l’umiltà per altro è sempre apprezzabile. (Mi preme di vedere il Conte). (da sé) Andate alla casa del conte Nestore. (ad Arlecchino)

ERAC. Andate, e ditegli che se verrà la Contessa a favorire la moglie di don Eraclio... (ad Arlecchino)

CLA. Ditegli che la moglie di don Eraclio sa il suo dovere. (ad Arlecchino)

ERAC. Fermatevi. (ad Arlecchino) E voi, prima di discendere ad un atto di viltà, sappiate meglio chi siete.

CLA. Lo so benissimo...

ERAC. No, non lo sapete ancora. Credei finora che il sangue mio derivasse dagl’imperatori romani. Mi disse certo dottore, che Eraclio fu imperatore di Costantinopoli. Andai a leggere la storia in un dizionario, e trovai che gli Eraclidi sono discendenti da Ercole.

CLA. Questa per altro è una notizia che mi sorprende.

ARL. Se sarà vero che sior don Eraclito sarà discendente da Ercole, lo vederemo.

ERAC. Come si vedrà?

ARL. Ho sentìo dir da mia nonna, che Ercole avanti de morir xe deventà matto.

ERAC. Vattene via di qua, temerario. Non insultar la memoria di quell’eroe.

ARL. E che el filava colla rocca e col fuso.

ERAC. Parti, ti dico.

ARL. E che l’ha fatto i pugni con una bestia.

ERAC. Vattene, o ti rompo il capo.

ARL. L’è discendente da Ercole; el deventà matto. (dicendo forte, e timoroso parte)

SCENA SESTA

Donna Claudia e don Eraclio.

ERAC. Da qui innanzi voglio farmi portare maggior rispetto.

CLA. È poi vera questa cosa?

ERAC. Verissima.

CLA. Si può dire liberamente nelle conversazioni?

ERAC. Si può dire, e si può dire di più. Ho trovato nell’autore istorico trentasette città col nome di Eraclia; e siccome si vedono tanti che fra i loro titoli e giurisdizioni incastrano il nome di più paesi, voglio in avvenire chiamarmi don Eraclio degli Eraclidi, signore delle trentasette città.

CLA. E chi è quest’autore istorico da cui avete ricavate queste belle notizie?

ERAC. Il dizionario. (con serietà)

CLA. È autor greco o latino?

ERAC. È francese, signora. Io l’intendo bene il francese.

CLA. Ho piacere che mi abbiate partecipato questo novello fregio della vostra casa.

ERAC. Voi avete un marito che ha nelle vene il sangue di un re di Tebe.

CLA. Era re di Tebe Ercole?

ERAC. Certo.

CLA. Me ne consolo infinitamente. Anch’io per altro sono di casa illustre.

ERAC. Sì certo; vostro padre, don Anselmo Vesuvi, credo sia stato ne’ primi secoli signor del Vesuvio.

CLA. In fatti noi veniam da Pozzuolo.

ERAC. È così senz’altro. Conviene riformare le nostre armi; nella mia voglio aggiunger la clava, e nella vostra le fiamme.

CLA. Convien crescere il trattamento ancora.

ERAC. Sì certo; almeno il numero della servitù.

CLA. E le gioje mie non corrispondono ad un tal grado.

ERAC. Ancora quelle si aumenteranno.

CLA. Principiamo almeno a riscuotere quelle che sono al Monte.

ERAC. Sì, dite bene.

CLA. E non ho altro che questo vestito solo per comparire.

ERAC. Io pure sono nello stesso caso; ma si farà quel che occorre.

CLA. Denari ne avete?

ERAC. Ora non ne ho, per dirla.

CLA. L’entrate di quest’anno mi pare si sieno già consumate.

ERAC. Sì, e anche quelle dell’anno venturo.

CLA. E la causa del palazzo come va?

ERAC. Non si può perdere. Tanto più ora che il nuovo grado scoperto della mia antichità porrà in soggezione i creditori ed il giudice.

CLA. Ma, caro don Eraclio, dove troveremo denari da far le belle cose che avete detto di fare?

ERAC. Non si potrebbe trovare un migliaio di scudi in prestito?

CLA. Da chi mai?

ERAC. Ho il mio gabinetto che mi costa tanto; ma il decoro vuole che non si tocchi.

CLA. E poi sono cose che non si trovano da vendere sì facilmente.

ERAC. Ci sarebbe il Conte che potrebbe aiutarmi.

CLA. Certamente il Conte non è di cattivo cuore. Potete dirglielo...

ERAC. Sarebbe meglio che glielo diceste voi.

CLA. Perché io, e non voi?

ERAC. A un cavalier del mio sangue non è lecito l’abbassarsi.

CLA. A vostra moglie nemmeno.

ERAC. Come donna perché no?

CLA. A che titolo glieli averei da chiedere?

ERAC. Per imprestito.

CLA. Con qual sicurezza?

ERAC. Con quella della parola nostra.

CLA. E se si manca?

ERAC. Non si mancherà mai per mala volontà di pagare.

CLA. Si può mancare per difetto del modo di soddisfare.

ERAC. Con quella cortesia con cui ci farà l’imprestito averà la bontà di aspettare ancora.

CLA. Attenderò dunque ch’egli venga da noi.

ERAC. Non sarebbe mal fatto che faceste una visita a sua sorella.

CLA. Ma il decoro della nobiltà nostra?

ERAC. Ho pensato a quel che diceste poc’anzi. La modestia è sempre lodabile.

CLA. Anderò dunque.

ERAC. Sì, andate; e procurate, chiedendogli i mille scudi di salvare il decoro, senza mostrare di averne certo bisogno.

CLA. Senza bisogno non si domanda.

ERAC. Dite per fare una spesa capricciosa per voi, che non volete ch’io la sappia; che pagherete del vostro colle mesate che vi si danno per le spille.

CLA. Colle rendite del Vesuvio.

ERAC. Eh, non è tempo di barzellette.

CLA. Potreste voi assicurarli sulle trentasette città.

ERAC. Andate, se volete; se non volete, lasciate.

CLA. Vado, vado. (Mi preme di parlare al Conte sul proposito dell’astuccio). (da sé)

ERAC. Vi raccomando a far presto.

CLA. Converrà poi trattarla la sorella del Conte, invitarla a pranzo da noi.

ERAC. Sì, certo; quando ci averà prestati egli li mille scudi.

CLA. Buono, gli daremo da desinare coi denari suoi.

ERAC. Non perdiamo il tempo. Ciascheduno cooperi al lustro della famiglia.

CLA. Vado a procurare li mille scudi.

ERAC. Vado a far inquartare le armi. (partono)

SCENA SETTIMA

Camera in casa del Conte.

Il conte Nestore, Carlotta vestita nobilmente, poi Spasimo servitore.

CARL. Fratello mio, voi mi volete veder crepare.

CON. Anzi desidero che stiate bene; e ho in traccia a quest’ora delle cose buone per voi.

CARL. Non ci durerò a far questa vita.

CON. Pare a voi di aver fatto una gran fatica a lasciarvi vestire con un poco di proprietà?

CARL. Due ore d’orologio mi ha tenuta sotto quel maledetto boia che m’ha rovinato la testa. Ho pianto come una bambina a vedermi a tagliare i miei capelli, che erano così belli, che tutta la villa soleva dirmi la Carlotta dai bei capelli.

CON. Guardatevi nello specchio, e vedrete quanto meglio ora state.

CARL. Sto meglio, eh? con questa farina sul capo, che pare sia stata ora al mulino? Mi ricordo, quando faceva il pane, mi copriva con un cencio i capelli per non imbrattarli, e ora qui mi convien soffrire di essere infarinata.

CON. Vi avvezzerete col tempo, e non ne saprete star senza.

CARL. Oh, non mi avvezzerò mai a sentirmi torcere i capelli nelle cartuccie, e poi con un ferro rovente sentirmi aggrinzar la pelle. Che facciano queste cose per comparire le vecchie, le brutte; non una giovane come me, che non faccio per dire, ma tutti mi correvano dietro.

CON. Colà, dov’eravate, vi correvano dietro i villani; qui dovete comparire tra i cavalieri, e conviene uniformarsi al costume.

CARL. Bel costume! Coprir il capello nero colla polvere bianca, sporcare il viso bianco colla terra rossa; stringer la vita che non si può respirare; tenere le gambe al fresco; stroppiarsi i piedi. Volete che ve la dica? Voglio il mio busto largo, le mie scarpe comode, e un secchio d’acqua da levarmi questi maledetti empiastri dal viso.

CON. Sì, tutto quel che volete, e un calesse di ritorno per la campagna, e una falce in mano per tagliar il fieno, e un villanaccio che vi sposi e vi faccia faticar come meritate.

CARL. Ma io non voglio partire da voi.

CON. Ma qui non si sta meco senza adattarsi alla civiltà, al piacer mio, alla situazione in cui mi ritrovo.

CARL. E ho da stroppiarmi?

CON. Vi avvezzerete.

CARL. E le mie povere carni hanno da essere tormentate così?

CON. Ci troverete gusto col tempo.

CARL. Può essere, ma non lo credo.

CON. Animo, coraggio. Su quella vita. Dritta, disinvolta, gaiosa. Quella testa snodata un poco più, ma con buona grazia. Che gli occhi girino. Ricordatevi quel che vi ho detto. Un poco di gravità, mista a tempo colla galanteria. Colle dame qualche riverenza gentile, qualche complimento conciso, per non imbrogliarvi. Coi cavalieri qualche sorriso vezzoso, qualche guardatina furbetta. Cogli inferiori serietà, gravità, disprezzo. Tutti vi crederanno sorella del conte Nestore; e voi medesima non passano due mesi che vi scordate la campagna, l’aratro, i bovi, e direte, e sosterrete, e giurerete di esser nata una dama.

CARL. Non saprei. Tutte le cose a principio paiono difficili. Mi proverò per riuscire.

CON. Soprattutto non vi lasciaste mai escir di bocca parole basse.

CARL. Sempre parole alte ho da dire?

CON. Oh alte! non facciamo delle arlecchinate. M’intendo parole proprie, non vili.

CARL. Io dirò quello che mi verrà alla bocca di dire.

CON. Basta, vi starò da vicino.

SPAS. Signore, manda a vedere la signora donna Claudia, se c’è la signora contessa Carlotta.

CARL. Che non ci sono io? non mi vedi?

CON. Piano, signora Contessa, potrebbe darsi che non ci voleste essere.

CARL. Per dir la verità, non ci vorrei essere.

CON. Senti? Ella non ci vuol essere. (a Spasimo)

CARL. Ma però ci sono.

SPAS. Ho da dir che ci è, dunque?

CARL. Che bestia! se ci sono.

CON. Via, la signora Contessa ci vuol essere. (a Spasimo)

SPAS. Le dirò che è padrona, dunque.

CARL. Sono padrona certo. Son sorella di mio fratello.

CON. Dice, che dirà a donna Claudia, che è padrona.

CARL. Padrona di che?

CON. Padrona di venire. (a Carlotta, mezzo arrabbiato) Dille che, se comanda, è padrona. (a Spasimo) (Conviene rompere questo ghiaccio). (da sé)

SPAS. (Mi pare quella commedia che dicono: l’Ortolana finta Contessa). (da sé, e parte)

CON. Imparerete un po’ per volta il costume.

CARL. Mi pare non ci voglia molto per dire ci sono, quando ci sono.

CON. Ma quando non si ha comodo, o non si ha volontà di ricevere, si fa dir: non ci sono.

CARL. In villa da noi questa si direbbe una mala creanza.

CON. Ma scordatevi della villa.

CARL. Se volete che me la scordi, insegnatemi qui delle cose buone e non a dire delle bugie.

CON. Con questa dama contenetevi con prudenza. Ella merita la mia stima, e poi ha una figliuola che merita ancora più della madre.

CARL. A voi chi preme più?

CON. Tutte due, per ora.

CARL. Tutte due. Bravo. In villa poi...

CON. Con questa villa mi volete far dar al diavolo. Ecco la dama.

CARL. (Il cielo me la mandi buona. Anderò regolandomi con mio fratello per non isbagliare. (da sé)

SCENA OTTAVA

Donna Claudia e detti.

CLA. Serva divota di lor signori.

CON. M’inchino a donna Claudia.

CARL. M’inchino a donna Claudia.

CLA. Mi rallegro del felice arrivo della signora Contessa.

CON. Questo è un effetto della vostra bontà.

CARL. È un effetto della vostra bontà.

CON. (Diavolo! non sapete dir altro che quello che dico io?) (piano a Carlotta)

CARL. (Credeva di far bene).

CLA. Avete fatto buon viaggio, signora?

CARL. Oh, cattivo assai.

CON. Le strade sono un poco disastrose.

CARL. Mi sono rovinata, con riverenza, i piedi.

CON. (Maledetta!) (da sé)

CARL. Ed ora con queste scarpe...

CON. Guardate a che condizione siamo noi, venendo dal nostro feudo. La strada è rovinosa a segno, che convien camminare più di due miglia. (a donna Claudia)

CARL. Ho ben camminato più di sedici.

CON. E di più si è rotto il calesse alla povera mia sorella in luogo che non si potea rassettare; non dico sedici miglia, ma quattro e più ne averà fatte a piedi. A chi non è avvezzo, pare la strada lunga. (Ma giudizio, se ce n’è). (piano a Carlotta)

CARL. (Sta fresco mio fratello). (da sé)

CLA. Non è più stata in città la signora Contessa?

CARL. Ci sono stata, o non ci sono stata? (al Conte)

CON. (Spropositi). (piano a Carlotta) Da bambina c’è stata; ma non se ne ricorda.

CARL. (Che so io quando s’abbia da dir la verità?) (da sé)

CLA. Dove è stata sinora la signora Contessa?

CARL. In villa, signora.

CON. In villa, cioè in un ritiro, sotto l’educazione di una sua zia. (a donna Claudia)

CARL. (Ecco, ora non si ha da dire la verità). (da sé)

CON. Accomodatevi, donna Claudia. Tocca a voi, sorella, a far il vostro dovere.

CARL. Se tocca a me, sederò dunque. (siede)

CON. Alzatevi. Tocca a voi a far sedere la dama. (a Carlotta) Compatitela; nel ritiro non ha imparato a vivere, la povera figliuola; l’ho levata di là per questo, e spero che donna Claudia si prenderà ella la pena amorosa di renderla un poco meno selvaggia.

CLA. S’ella si contenterà della mia compagnia...

CON. Favorite d’accomodarvi. (a donna Claudia)

CLA. (Siede)

CON. Avete voluto sollecitare con eccesso di gentilezza le vostre grazie. (a donna Claudia)

CLA. Ho fatto il mio dovere in questo. E poi ho necessità di parlarvi.

CON. E voi non sedete? (a Carlotta che si era alzata)

CARL. Che so io quando mi tocca a sedere?

CON. (Povero me!) Sedete.

CARL. (Mi paiono burattinate queste). (da sé)

CON. Vedete come allevano, colà dov’era, le povere ragazze?

CLA. E non è più bambina la signora Contessa.

CARL. Quanti anni crede vossignoria ch’io abbia?

CLA. Non saprei. Non vorrei dire uno sproposito. Fra i ventitre e i ventiquattro.

CARL. Non ne ho che diciannove, signora. Vedete? se ve lo dico io. Questa conciatura, quest’abito, mi fa parere più vecchia. (al Conte)

CON. Conviene adattarsi all’uso comune. Ora non siete più nel ritiro.

CARL. Non sono mai stata ritirata quanto ora. Oh benedetta la campagna aperta!

CON. Campagna aperta chiamate un orto, in cui vi conducevano a passeggiare? Qui degli orti non ne mancano, e di più belli, e di più grandi ancora. (Giudizio). (piano a Carlotta)

CLA. Nel nostro palazzo ne abbiamo uno degli orti, che veramente è magnifico. La signora Contessa potrà venirvi a piacer suo, quando vuole.

CON. Via, ringraziatela delle sue esibizioni. Datele un segno di aggradimento almeno. (a Carlotta)

CARL. Sì signora, vi ringrazio; verrò a ricevere le sue grazie, e per segno di aggradimento, farò qualche cosa nell’orto. Vedrà che so piantare l’insalata, i ravanelli...

CON. Solito divertimento delle ragazze in ritiro. Sorella, è necessario che andiate a terminare di consegnare alle cameriere il vostro bagaglio.

CARL. Non ho bagaglio io.

CON. La roba dei bavuli. Andate, con licenza di donna Claudia. (Carlotta s’alza)

CLA. Volete privarmi della sua compagnia? (Ho piacere per altro di restar sola). (da sé)

CON. Tornerà poi a far il suo debito.

CARL. (Ho da tornare, o non ho da tornare?) (al Conte)

CON. (Vi chiamerò: Andate). (a Carlotta) (Se va bene, è un prodigio). (da sé)

CARL. Serva sua. (a donna Claudia)

CLA. Ho piacere di aver avuto la fortuna di conoscere una dama sì gentile.

CON. Generose espressioni d’una padrona nostra.

CLA. Dove vale la mia insufficienza, vi prego di non risparmiarmi.

CON. Si farà capitale di tanta bontà... Non rispondete niente, voi? (a Carlotta)

CARL. Sì signora. All’onore di riverirla. (parte correndo)

SCENA NONA

Donna Claudia ed il conte.

CON. (Sono in un brutto impegno con costei. Temo che la mia disinvoltura non basti). (da sé)

CLA. (È stata molto male allevata questa signora Contessa) (da sé)

CON. Ho fatto bene, cred’io, a levar di dov’era la povera mia sorella.

CLA. Per dir il vero, così non vi consiglio produrla, se non acquista prima un poco di mondo.

CON. Ha dello spirito. Mi lusingo non sarà difficile il rimediarvi, e poi colla scorta di una dama così gentile...

CLA. Per voi farò quanto mi sarà permesso di fare. Ma giacché l’accidente ci fa restar soli, varie cose ho da dirvi, Conte mio.

CON. Son qui per ascoltarvi, signora.

CLA. Voglio prima ringraziarvi delle vostre finezze...

CON. Risparmiatemi i complimenti. Avete ricevuto l’astuccio?

CLA. Sì, ma per accidente

CON. Come per accidente?

CLA. Lo trovai di Metilde in mano.

CON. (Quel briccone di Arlecchino!) (da sé)

CLA. E vorrei sentire dalla vostra sincerità il principio di questa cosa che non intendo.

CON. (Conviene indovinare, per accomodarla se fia possibile). (da sé) Io so certo, che mi son preso l’ardire di inviarvi per Arlecchino un astuccio.

CLA. E non altro?

CON. E una scatola ancora.

CLA. La scatola me l’ha recata.

CON. (Questa l’ho indovinata). (da sé)

CLA. Ma l’astuccio in mano della figliuola?

CON. Chi sa che diamine possa aver fatto colui? È uno sciocco da non valersene. Pure me ne vaglio, perché ha l’accesso libero in casa vostra; ed è poi anche fedele, ma delle castronerie me ne ha fatte ancora. L’ho veduto ritornare da me pallido e confuso. Dubitai quasi, che qualche cosa avesse perduta.

CLA. Dissemi appunto, che l’avea perduto l’astuccio.

CON. Ecco, la cosa è così. Egli l’averà perduto, e la figliuola l’averà ritrovato.

CLA. Questo ancora può darsi.

CON. Ora l’avete voi l’astuccio?

CLA. L’ho io.

CON. La scatola ancora?

CLA. Ancora

CON. Ho piacere. (Come l’aggiusterò con donna Metilde?) (da sé)

CLA. Vi ringrazio dunque...

CON. Non parliamo altro. Vi supplico d’aggradire.

CLA. Tant’è vero ch’io l’aggradisco, che della vostra scatola ne faccio uso. Eccola qui con del rapè, che non è cattivo. (tira fuori la scatola)

CON. Sentiamolo, se vi contentate.

CLA. Mi fate onore. (apre la scatola, il Conte prende tabacco. Donna Claudia osserva i manichetti del Conte)

CLA. (Questo manichetto mi par di conoscerlo). (da sé)

CON. Il tabacco è prezioso. Merita una tabacchiera migliore.

CLA. Conte, favoritemi lasciarmi vedere quel bel ricamo. (accenna il manichetto)

CON. (Diavolo! è il regalo della figliuola: non vorrei che lo conoscesse). (finge di seguitare a prender tabacco)

CLA. Si può vedere?

CON. Ora, subito. (Me li ho fatti attaccare alla camicia per mostrar d’aggradirli, ma dubito aver fatto male. Vi vuol giudizio). (da sé fingendo gustare il tabacco)

CLA. (Questa renitenza m’insospettisce). (da sé)

CON. Compatite, ho voluto gustare sino all’ultima polvere il vostro tabacco. Eccomi da voi. Vi piace questo ricamo?

CLA. Non mi dispiace. Anzi, se devo dirvi il vero, somiglia tanto a certi manichetti che ho comperati per don Eraclio, che paiono quelli stessi.

CON. Possono essere fatti dalla stessa mano.

CLA. Favorite. (li osserva bene)

CON. Accomodatevi pure. (In ogni modo si ha da salvar la ragazza). (da sé)

CLA. Questo segno non falla. Un taglio accomodato mi assicura che sono quelli: per ragione di un tal difetto, li ho avuti per meno di quello valerebbono, se non ci fosse.

CON. Quanto li avete pagati, signora?

CLA. Ventisei paoli.

CON. Ed io li ho avuti per dodici. In fatti un tal prezzo mi ha fatto dubitare che sieno stati rubati, ed ora mi confermo nell’opinione.

CLA. Li averanno rubati a me dunque.

CON. Potrebbe darsi; e se vostri sono, ve li manderò sino a casa.

CLA. No, no, teneteli pure. Ho piacere che voi li abbiate ma vo’ ben sapere da chi mi sieno stati involati. Nella mia camera altri non viene, per ordinario, che la figliuola e la cameriera.

CON. Il sospetto non può cadere che sopra la cameriera.

CLA. Disgraziata! mi sentirà or ora.

CON. Non fate strepito per così poco, signora.

CLA. Non è il valore, ma l’azione, l’infedeltà, il pericolo, che mi fa riscaldare.

CON. Si licenzia la cameriera, e non vi è necessità di scaldarsi.

CLA. La licenzierò come merita.

CON. (Povera diavola! me ne dispiace; ma non so che farle). (da sé)

CLA. Sa il cielo, che cosa mi può avere rubato.

CON. Non v’inquietate ora fuor di proposito.

CLA. Le mie gioje, povera me!

CON. (Non vi è pericolo. Sono al Monte, ma non crede ch’io lo sappia). (da sé)

CLA. E se mio marito giungesse a sapere che mi mancassero gioje o altro, farebbe il diavolo contro me.

CON. (Don Eraclio ha mangiato la parte sua). (da sé)

CLA. (Può essere questo un pretesto buono per chiedergli i mille scudi in imprestito, per ricuperare le gioje. Convien differire per ora). (da sé)

CON. (Converrà ch’io veda d’informare donna Metilde). (da sé)

CLA. Conte, se mai quella ladraccia della Jacopina mi avesse rubato le gioje, per amor del cielo, che non lo sappia don Eraclio: aiutatemi voi a ricuperarle.

CON. Non pensate ora a simili malinconie.

CLA. Ma dato il caso fossi presaga del vero, mi aiuterete voi, Conte?

CON. Se la Jacopina vi averà rubato le gioje, m’impegno da cavaliere di ricuperarle io.

CLA. Calmo le mie agitazioni sulla vostra parola. Permettetemi che vada ad assicurarmene.

CON. Vi servirò, signora. (Mi preme farlo sapere alla figlia). (da sé)

CLA. Ecco mio marito. Non diamo ombra a lui dei nostri sospetti.

CON. No, niente. Sforzatevi a dissimulare la tema. (Capisco che mi vorrebbe frezzare, ma non fa niente). (da sé)

SCENA DECIMA

Don Eraclio e detti.

ERAC. Conte, sono venuto ad invitarvi a desinare con noi.

CON. Sarò a ricevere le grazie vostre.

ERAC. Condurrete la Contessina ancora, che Metilde desidera di vederla.

CON. Verremo entrambi a recarvi incomodo.

ERAC. (Li ha dati?) (piano a donna Claudia)

CLA. (Non ancora). (piano a don Eraclio)

ERAC. (Sollecitate). (come sopra)

CLA. (A casa, con più comodo). (come sopra)

ERAC. (Vuol essere bella, se non le dà i mille scudi, ora che ho impegnato l’orologio per pagare i

capponi e le ostriche di Venezia). (da sé)

CON. Prima del desinare, sarebbe necessario che spicciassi un affar di premura. Ho da riscuotere mille zecchini.

ERAC. Andate subito, non perdete tempo.

CON. Possiamo andare. Vi servirò alla carrozza.

ERAC. Ho mandato a prendere col servitore due amici miei, che bevono bene, perché ci facciano stare allegri.

CLA. Dal mio servitore? senza dirmi niente?

ERAC. Possono tardar poco. Tratteniamoci qui un momento, se si contenta l’amico.

CON. Siete padrone d’accomodarvi.

ERAC. Ehi! avete detto al Conte la scoperta mia degli Eraclidi? (a donna Claudia)

CLA. Non ancora.

ERAC. Sentirete. (al Conte)

CON. Qualche novità della causa?

ERAC. Sì! altro che causa! Io discendo dal sangue d’Ercole... Ma andate a riscuotere i mille zecchini; parleremo con comodo.

CON. Sì, a desinare. Con permissione. (Vo anticipare, per avvisare donna Metilde. Povera figliuola, non vorrei vederla in angustie per mia cagione). (da sé, e parte)

SCENA UNDICESIMA

Donna Claudia, don Eraclio; poi Carlotta.

ERAC. Non avete avuto tempo di dirglielo?

CLA. Non ho trovato la via d’introdurmi. Ma a casa spero d’avermi aperto l’adito per poterlo fare.

ERAC. Fatelo presto. Ma avvertite, salvo sempre il decoro.

CLA. Questo mi sta a cuore quanto a voi, e forse più ancora.

ERAC. Non degeneriamo dal nostro sangue. Avete veduto ancora la sorella del Conte?

CLA. L’ho veduta, e mi ha sorpreso trovarla così male istrutta nella vita civile... Eccola, osservatela, se pare mai una dama.

CARL. Non è più qui mio fratello?

CLA. Non signora; è partito per un affare.

ERAC. Ho il piacere anch’io di riverire e conoscere la signora Contessa, sorella del conte Nestore mio buon amico.

CARL. Serva sua. (Ora sono imbrogliata, che non c’è mio fratello). (da sé)

CLA. Questi è mio marito. (a Carlotta)

CARL. Sì? come si chiama?

ERAC. Sì! mi chiamo don Eraclio degli Eraclidi, signore delle trentasette città.

CARL. Me ne consolo.

ERAC. Oggi verrete a desinare con noi.

CARL. Non so niente io.

CLA. Il Conte vostro fratello ha detto che seco lui ci favorirete.

CARL. Appunto cercava di mio fratello, per domandargli che minestra voleva questa mattina.

ERAC. Questo non tocca a voi, tocca alla servitù. La damina nostra figliuola, dacché è nata al mondo, non ha veduto le soglie della cucina.

CARL. Oh, io poi ho sempre fatto di tutto in casa mia.

CLA. In casa vostra? Non siete stata voi in ritiro?

CARL. È vero; ma... (Mi confondo). (da sé)

SCENA DODICESIMA

Il Conte e detti.

CON. (L’ho detto, che l’ho fatto lo sproposito. Non me la ricordavo costei). (da sé, in disparte)

CARL. Eccolo mio fratello.

CON. Signora, è ritornato il servitore vostro. Possiamo andare, se comandate.

ERAC. Avete riscossi li mille zecchini?

CON. Ho ritrovato nell’escir della porta chi mi ha avvisato, che sarà qui da me dopo desinare.

ERAC. Fatelo venire da noi.

CON. Vedremo.

ERAC. No, no, con libertà, vi dico; fatelo venir da noi.

CON. Vi supplico sollecitare.

ERAC. Subito. Andiamo.

CON. (Non vo’ lasciare Carlotta senza di me. Coglierò un momento per avvisare donna Metilde). (da sé) Permettetemi ch’io vi serva. (a donna Claudia)

CLA. Ricevo le vostre grazie. (gli dà la mano)

ERAC. Io servirò questa giovanotta.

CARL. Grazie. (gli dà la mano)

CON. Sorella, ricordatevi quel che vi ho detto. (parte con donna Claudia)

CARL. Sì, sì. (Un’occhiata vezzosa). (guarda con caricatura don Eraclio)

ERAC. Mi guardate in un modo... Siete losca?

CARL. Mi maraviglio di voi. (si stacca da don Eraclio)

ERAC. Favorite. (le offre nuovamente la mano)

CARL. Signor no; non sono né losca, né zoppa.

ERAC. È una bella caricatura! (parte)

CARL. Oh benedetti i miei contadini! (parte)

ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera in casa di don Eraclio.

Carlotta ed il conte Nestore.

CARL. Che cosa volete da me, che mi parlate sì bruscamente? Se fallo, bisogna compatirmi.

CON. Vi compatisco, ma non vorrei che mi faceste scorgere qui dove siamo, da don Eraclio.

CARL. Dovevate lasciarmi in casa, che me ne sarei stata volentierissima colla serva.

CON. Appunto anche per questo vi ho condotto qui meco, acciò colla serva non usciste con cose tali, che vi facessero conoscere per quella che siete.

CARL. Ci potevate restar voi pure.

CON. Ma io qui ci doveva venire per qualche cosa di maggior premura; e ho voluto condur voi pure, acciò principiate un poco a vedere, a distinguere, ad imparare. Ma voi non volete scordarvi della vostra villa; in ogni discorso vostro c’entra la campagna, i ravanelli, l’aratro. Ora con un pretesto vi ho condotto qui in queste camere, dove vi contenterete di stare sino che si va a desinare.

CARL. E a che ora si desina in questa città?

CON. Per solito tardi assai.

CARL. A quest’ora in villa da noi...

CON. Ma lasciate una volta questa parola indegnissima.

CARL. Non la dirò più.

CON. E regolatevi con prudenza, quando siete con persone di soggezione.

CARL. In quanto a questo poi, credetemi, fratello, io non ho soggezion di nessuno.

CON. Male, malissimo. Voi non vi prendete soggezion di nessuno, perché non distinguete le convenienze.

CARL. E che cosa sono le convenienze?

CON. Ora non ho tempo di farvi altre lezioni.

CARL. Per esempio, con quella ragazza io ci stava volentierissima.

CON. Con quale ragazza?

CARL. Colla figliuola di quella donna che è padrona di questa casa.

CON. E a una dama dicesi quella donna?

CARL. Che non è donna come le altre?

CON. Convien distinguere il grado.

CARL. Basta, vi dico che colla figliuola sua io ci stava volentierissima. Somiglia in tutto alla Menichina, che veniva con me in villa a lavorare nell’orto.

CON. Sì, questa bellissima cosa ho inteso, che l’avete detta a lei pure, e per questo vi ho levata di là, perché non diceste di peggio.

CARL. Che? è forse male il lavorare nell’orto? Mi ha detto ella pure, che vuole che io le insegni piantare.

CON. Chi vi ha detto questo?

CARL. Metilde.

CON. Metilde? Donna Metilde si dice.

CARL. Perché donna? se non ha marito.

CON. Donna è titolo di onore.

CARL. Non lo sapeva che fosse cosa onorata l’esser donna senza avere marito.

CON. Voi non saprete nemmeno di essere quella ignorante che siete.

SCENA SECONDA

Spasimo e detti.

SPAS. Ecco, signore, la camicia che mi ha ordinato portare.

CON. Bene, andiamo in quest’altra camera, che vo’ mutarmi. Venite meco, sorella.

CARL. Quante volte il giorno vi volete mutare?

CON. Venite, non pensate altro.

CARL. In villa da noi...

CON. In villa da voi, e in città da noi... Contessa, andiamo. (parte)

CARL. Ha detto a me? (a Spasimo)

SPAS. A lei.

CARL. Sì, sì, non me ne ricordava. Lo sapete voi ch’io sono la signora Contessa? (a Spasimo)

SPAS. Lo so, per quel che dicono.

CON. Si viene, o non si viene? (dalla scena, spogliato)

SPAS. Eccomi. (entra dal Conte)

CON. Animo. Venite voi pure. (a Carlotta, ed entra)

CARL. Vengo. Che voglia ch’io pure mi muti di camiscia? Non crederei, perché non ho altro che questa. Oh quant’imbrogli! Benedetta la mia campagna! (parte)

SCENA TERZA

Arlecchino solo, poi Spasimo.

ARL. Me sta sul cor el mio scudo. No gnanca per la perdita del scudo, che a vadagnarlo non ho fatto tanta fadiga, ma me despiase la burla che m’ha dà Giacomina. Se savesse come far a tornarlo a recuperar! Ma sarà difficile.

SPAS. Buon giorno, amico. ARL. Te saludo, busiaro.

SPAS. Perché mi dici bugiardo?

ARL. Perché m’astu dito amigo?

SPAS. Vi sono nemico forse?

ARL. Vualtri servitori sè sempre nemici de quella zente che gh’ha la confidenza dei vostri padroni.

SPAS. Io sono un servitore onorato.

ARL. Ti fa ben a dirlo; perché, se no tel disi ti, no gh’è pericolo che nissun lo diga.

SPAS. Non diranno di me che sono un furbo, come di te si dice.

ARL. Ti gh’ha rason; non ho mai sentìo che se diga furbo a un mamalucco co fa ti.

SPAS. Se non fossimo dove siamo, ti vorrei insegnare a parlare.

ARL. Inségneme a robar, che la xe la to profession.

SPAS. Senti, Arlecchino, giuro, e possa esser impiccato se non mantengo il giuramento, giuro di farti il viso brutto, ancora più brutto di quel che l’hai.

ARL. Ti, ti me voressi maccar el viso, e mi gh’ho più carità, me contento de romperte i brazzi con un tocco de legno.

SPAS. Provati.

ARL. Adesso no gh’ho comodo de provar.

SPAS. Averò comodo io di darti una manata per ora. (fa l’atto di dargli)

ARL. Corpo del diavolo, se ti me darà una manata, mi te darò una gambata.

SPAS. Hai ragione che sento venire il padrone.

ARL. El vien a tempo, te farò véder chi son.

SPAS. Sta in cervello, non mi precipitare, che a chi mi levasse il pane, saprei levare la vita.

ARL. (No son Arlecchin, se no ghe la fazzo pagar). (da sé)

SCENA QUARTA

Il CONTE e detti.

CON. Oh Arlecchino, di te appunto cercava. Ho bisogno di te.

ARL. E mi gh’ho bisogno de vussioria.

CON. Sentimi. (lo tira in disparte)

ARL. Sior sì, che colù no senta i nostri secreti. (in modo che Spasimo lo senta)

SPAS. Ma! ecco chi ha fortuna. I bricconi. (forte)

CON. Con chi l’hai tu? (a Spasimo)

ARL. (Ve dirò mi con chi el la gh’ha). (piano al Conte)

SPAS. (Meschino di lui, se mi fa torcere un pelo). (da sé)

CON. (Tu sai dei manichetti regalatimi da donna Metilde.) (piano al Arlecchino)

ARL. (Per grazia vostra me l’avè dito). (piano al Conte)

CON. (La madre sua li ha veduti).

ARL. (E la li ha conossudi?)

CON. (Sì certo. Io, per salvar la fanciulla, ho detto averli comprati).

ARL. (La crederà che i ghe sia stadi rubadi).

CON. (Bravissimo, e il sospetto suo cade sulla Jacopina).

ARL. (Gh’ho gusto da galantomo).

CON. (Ma io non vorrei che la povera disgraziata avesse a patire per cagione mia: tanto più, ch’ella mi ha fatto e mi può fare de’ buoni uffizi colla padrona sua).

ARL. (Se poderave donca...)

CON. (Ascoltami).

ARL. (La diga pur). El magna l’aggio colù. (verso Spasimo)

SPAS. (Non crederei che gli parlasse di me ora). (da sé)

CON. (Trova la Jacopina. Dalle questo foglio, in cui vi sono i manichetti che ho staccati ora dalla camiscia; dille che li rimetta in tempo, se può, nel luogo dov’erano, d’accordo colla ragazza).

ARL. (Ho inteso).

CON. (E se mai non fosse a tempo, e la padrona volesse...)

ARL. (Lassè far a mi. Ho inteso tutto).

CON. (Portati bene dunque).

ARL. (Me porterò da par mio. Ma bisogna che anca ela, sior Conte, la me fazza un servizio).

CON. (Chiedi: che cosa vuoi?)

ARL. (E no bisogna dirme de no).

CON. (Ti abbisogna denaro?)

ARL. (Sior no; quel che me preme xe questo, che vussioria manda via subito dal so servizio quel baron de Spasemo).

CON. (Perché? che cosa ti ha egli fatto?)

ARL. (L’ha dito cussì che mi son el mezzan del so patron; e l’ha dito de pezo, che el so patron el vien qua a far l’amor colla fia e colla madre).

CON. (Ha detto?)

ARL. (Sior sì, e po l’ha dito, che per rabbia, che per invidia, el vol dir a tutti, che mi ve fazzo el mezzan con tutte do).

CON. (Indegno!) Vieni qui. (a Spasimo)

SPAS. Signore.

CON. In questo punto vattene dal mio servizio.

SPAS. Io? che cosa ho fatto, signore?

CON. Tant’è. Vattene immediatamente, e avverti a non far parola di me, altrimenti ti farò romper le braccia.

ARL. (Ride)

SPAS. Lo so perché mi fa questo tratto.

CON. Non replicare.

SPAS. Pazienza. Mi favorisca almeno un mese di salario che avanzo.

CON. Bene. (mette le mani in tasca)

ARL. (Vustu che la comoda mi sta fazzenda?) (piano a Spasimo)

SPAS. (Dove ho d’andare ora, povero disgraziato?) (da sé)

ARL. (Se ti vol, m’impegno de farte restar in casa). (come sopra)

SPAS. (Fallo dunque, per coscienza almeno). (piano ad Arlecchino). (Quando bisogna, convien dissimulare). (da sé)

ARL. (La senta...) (al Conte, piano)

CON. (Tieni; dagli questo zecchino). (a Arlecchino)

ARL. (Sior sì, subito). (al Conte) (Vustu spender sto zecchin per restar in casa?) (piano a Spasimo)

SPAS. (Sì, te lo dono, se mi ritorni in grazia). (a Arlecchino)

ARL. (Sior Conte, cossa vorla far? el xe pentio quel pover’omo. Se la lo manda via, la desperazion lo farà parlar. Per mi ghe perdono; la ghe perdona anca vussioria per sta volta). (piano al Conte)

CON. (Ma se si abusa della mia bontà...) (a Arlecchino)

ARL. (Fazzo mi la sigurtà per elo. Povero diavolo, el me fa peccà). (piano al Conte)

CON. (Basta, è un servitor che mi comoda; digli che abbia giudizio per l’avvenire). (a Arlecchino)

ARL. (Starò in guardia, e se me n’incorzerò gnente gnente...) (piano al conte) Senti, a istanza mia, el padron te perdona. Abbi giudizio per l’avegnir. (a Spasimo, forte)

SPAS. Io non so di aver mancato...

ARL. E circa al salario, ora siete del pari...

CON. Ho pagato il mese al briccone.

ARL. Sior sì, nol pretende altro.

SPAS. Per altro, signor padrone...

ARL. Va via, che avemo da descorrer tra lu e mi.

SPAS. Vorrei almeno...

CON. Basta così, vattene. (a Spasimo)

SPAS. (Mi mangia un zecchino con questa bella disinvoltura). (da sé)

ARL. (Va via, caro ti, làsseme col patron; e no t’indubitar, che son qua per ti. Te sarò bon amigo, vustu altro? Se el te volesse licenziar, vien da mi, che te farò un’altra volta la carità senza interesse, de bon cuor). (a Spasimo)

SPAS. (Birbonaccio. Può essere che quello zecchino ti costi caro un giorno. Faremo a farsela: una volta per uno). (da sé, e parte)

CON. Che volevi tu dirmi? (ad Arlecchino)

ARL. Gnente altro, se no che vussioria dorma i so sonni sora de mi. Che con Giacomina so come che me ho da regolar, che tutto anderà ben; che i maneghetti i tornerà al so posto, dove che i giera. Che Arlecchin sarà sempre el gran Arlecchin, che vago subito per servirla. (Che ho vadagnà un zecchinetto, e gh’ho speranza de recuperar el mio scudo). (da sé, e parte)

SCENA QUINTA

Il CONTE, poi il DOTTORE.

CON. È un buon capitale avere costui alla mano. Ora vo’ avvisare, se posso, donna Metilde... Ma veggo il procuratore di don Eraclio. Ho curiosità di sapere, come vada la causa del suo palazzo.

DOTT. Servo del signor Conte.

CON. Amico, venite voi con qualche novità favorevole per don Eraclio?

DOTT. Io vengo con una novità favorevole per me soltanto.

CON. Che vale a dire?

DOTT. Vengo a mangiarmi un pezzo di cappone, delle ostriche, e della buona vitella.

CON. Che credete voi voglia essere di don Eraclio?

DOTT. Io dico che sarà miserabile, senza beni, senza casa, e senza riputazione.

CON. E la figliuola sua resterà nuda per cagione del padre?

DOTT. Dubito che sarà così.

CON. Ed io dubito ne sappiate poco, signor Dottore.

DOTT. La ragione de’ creditori prevale a tutto.

CON. Questa ragione, che prevale nel foro, non mi convince che non vi sia rimedio da salvar la dote della fanciulla.

DOTT. Come mai, se i beni sono liberi in don Eraclio? La moglie sua non ha portato in casa il valore di trenta paoli, e i debiti sono liquidi, e certi, ed indubitati.

CON. Quanto tempo è che don Eraclio ha ipotecato il palazzo?

DOTT. Sarà un anno incirca.

CON. E la campagna ultimamente venduta non son sei mesi che l’ha alienata.

DOTT. È vero.

CON. S’egli con un contratto di nozze anteriore a queste due alienazioni avesse obbligato il palazzo e la villa per dote della figliuola, si potrebbe difendere il palazzo dalle pretese dei creditori, si  potrebbono ricuperare i beni dalle mani del compratore?

DOTT. Si potrebbe in tal caso; ma non l’ha fatto.

CON. E se non l’ha fatto, non si può dar ad intendere che fatto sia?

DOTT. Come?

CON. Voi mi chiedete il come fingendo meco di non saperlo; ma lo saprete meglio di me. Un contratto di nozze, figurato prima dei debiti, esclude ogni creditor posteriore; e voi di tali contratti ne averete fatti.

DOTT. Mi maraviglio, sono un galantuomo, signore.

CON. Siete un galantuomo, lo so benissimo, ma la carità verso una povera figlia...

DOTT. Oh, questo poi...

CON. E cento zecchini di regalo vi faranno studiar il modo di mettere al coperto con un contratto fittizio le ragioni di una fanciulla innocente.

DOTT. Veramente fa compassione quella ragazza.

CON. Resterebbe miserabile per cagione del padre.

DOTT. Non è dovere, che le di lui pazzie la riducano a tali estremi.

CON. Un contratto fatto colle buone regole due anni prima, vi pare che sia sufficiente rimedio?

DOTT. Sì, certo, e per maggiormente qualificarlo basterebbe figurarne un altro anteriore più ancora.

CON. Bravo, signor Dottore, fate che la carità v’instruisca.

DOTT. Potrebbesi figurare che donna Claudia avesse portato in dote a don Eraclio una somma considerabile, e questa poi venisse assegnata in dote alla figlia.

CON. Così, con due ragioni alla mano, avrebbesi più agevole la difesa.

DOTT. Certamente virtus unita fortior.

CON. Questi due contratti si potrebbono far nascere prima di domani.

DOTT. Con chi avrebbesi a fare il contratto di nozze della ragazza?

CON. Con chi? Ardo anch’io di carità come voi: si può fare con me.

DOTT. E vossignoria si piglierà volentieri quel buon bocconcino di donna Metilde.

CON. Certo, per assicurarle il possedimento del palazzo e della campagna.

DOTT. E la campagna e il palazzo sarà poi del signor conte Nestore, uxorio nomine.

CON. Così è, il mio caro Dottore.

DOTT. E don Eraclio resterà senza niente.

CON. Ma la figliuola almeno sarà provveduta.

DOTT. Per effetto dell’amore del signor conte Nestore.

CON. E della carità del Dottore.

DOTT. Ma facciasi presto quello che s’ha da fare: periculum est in mora.

CON. I cento zecchini saranno pronti.

DOTT. Ed io son lesto, quando si tratta di far del bene.

CON. Andiamo dunque.

DOTT. Lo faremo dopo i capponi.

CON. Sì, caro, come volete.

DOTT. (Gran buona creatura che è questo Conte!) (da sé, e parte)

CON. (È pur caritatevole questo Dottore!) (da sé, e parte)

SCENA SESTA

Camera di donna Claudia.

Donna Claudia e la Jacopina.

CLA. Tant’è, vattene immediatamente di questa casa.

JAC. Perché, signora, mi discaccia così?

CLA. La roba mia non ha da essere sicura in casa?

JAC. In quattro anni che sono al di lei servizio, ha mai mancato niente, signora?

CLA. I quattro anni passati non servono a giustificare la mancanza dei manichetti.

JAC. Ma io lo giuro che non ne so niente.

CLA. Ed io so che mi mancano, e tu o li hai rubati, o li hai lasciati rubare per trascuratezza, e sia o in un modo, o nell’altro, ho giusta ragione di licenziarti.

JAC. Ha ella guardato ben bene per tutto?

CLA. Ho guardato dov’erano. E poi, che serve? So che sono stati venduti.

JAC. Si saprà dunque chi li ha venduti, e se vi sono dei ladri in casa, si vedrà ch’io non ne ho colpa.

CLA. Prima che altro si sappia, tu devi andartene di casa mia. (Mi preme ch’ella sen vada, per poter sostenere col Conte la mancanza delle gioje mie). (da sé)

JAC. Ma questa, la mi perdoni, è una crudeltà, un’ingiustizia. Farmi perdere la riputazione così per niente.

CLA. (Ha ragione, per dirla, ma la riprenderò poi meco, e sarà risarcita). (da sé)

JAC. Abbia carità, signora, d’una povera donna, che non ha altro al mondo che un poco di buon concetto. Se perdo questo, ho perduto ogni cosa.

CLA. Per ora vattene; dappoi la discorreremo.

JAC. Ma se vado via con questa maschera in viso...

CLA. Non mi stare a far venire la bile. Ti licenzio con placidezza; ma se non parti subito, saprò farti andare in un modo che ti sarà di eterna vergogna. Vattene, insolente; e fa che questa sera qui non ti vegga, altrimenti sarà peggio per te, te lo giuro sull’onor mio. (parte)

SCENA SETTIMA

La Jacopina, poi Arlecchino.

JAC. Meschina di me! Ecco il bel guadagno che ho fatto in quattr’anni per poco salario, e a soffrire le stravaganze di una famiglia di gente pazza. Pazienza! L’andarmene sarebbe il meno; spiacemi la riputazione che posso perdere; e senza colpa, povera me, senza colpa.

ARL. Quella zovene, ve saludo.

JAC. (Ci mancava costui ora). (da sé)

ARL. Cossa gh’aveu, che me parè stralunada?

JAC. Ho quel che ho; e voi lasciatemi stare.

ARL. Cossa ghe vorria per rallegrarve? un altro scudo?

JAC. Nemmeno cento basterebbono a consolarmi.

ARL. Tornéme a dar el mio scudo, che mi ve consolo subito subito.

JAC. Invece di consolarmi, voi mi recate più noia.

ARL. No me lo volè dar el mio scudo?

JAC. No; andate al diavolo.

ARL. Eppur vorave far un’altra scomessa con vu.

JAC. Di che?

ARL. Che me tornerè a dar el mio scudo.

JAC. Non vi renderò niente. Andate via e lasciatemi stare. Ho altro in capo che le vostre buffonerie.

ARL. Mi el so quel che ve fa sbacchettar la luna.

JAC. (Che lo avesse già detto la padrona, non crederei). (da sé)

ARL. Anca sì, che i ve manda via de sta casa?

JAC. Perché?

ARL. Per un per de maneghetti. Ah? l’oggio indovinada?

JAC. (Povera me! la riputazione è perduta). (da sé)

ARL. Ma mi so dove i xe quei maneghetti.

JAC. Caro Arlecchino, aiutatemi.

ARL. Ah, ah! caro Arlecchino adesso?

JAC. Per carità, ditemi dove sono.

ARL. Tolè, veli qua. (li fa vedere)

JAC. Sono quelli poi?

ARL. I conosseu?

JAC. Li conosco.

ARL. Vardèli ben. (li mostra spiegati)

JAC. Sì, sono quelli. Ora vado a dirlo alla padrona mia.

ARL. Cossa ghe voleu dir? Che vu li avè tolti per donarmeli a mi?

JAC. Sono pazza io da dir questo?

ARL. Se no la dirè vu la cossa, la dirò mi.

JAC. Mi volete dunque precipitare.

ARL. Anzi voggio farve del ben.

JAC. Ma come?

ARL. Se mi ve dago sti manichetti, se vu disè d’averli trovadi in qualche altro logo, la padrona i gh’ha avanti sera, la lo crede, la se comoda, e per vu no ghe xe gnente de mal.

JAC. Datemeli dunque.

ARL. Oh, questo xe el ponto dove che ve voleva.

JAC. Sta in vostra mano il rendermi la riputazione.

ARL. Recipe un scudo.

JAC. Il vostro scudo vorreste?

ARL. Se volè i maneghetti.

JAC. (Converrà poi darglielo). (da sé)

ARL. E cussì, cossa resolvemio?

JAC. Lo scudo me lo avete donato.

ARL. Donà, o barà; se volè i maneghetti, fora el scudo.

JAC. Eccolo.

ARL. Dèmelo qua.

JAC. Tenete. (glielo dà)

ARL. Caro el mio caro scudo, te baso, te torno a basar. Poveretto! t’aveva speso pur mal! Ma se la mia bontà t’aveva perso, la mia bona testa t’ha savesto recuperar.

JAC. Via, datemi i manichetti. Non mi fareste già la mal’azione di negarmeli ora.

ARL. Meriteressi adesso che no ve i dasse, per refarme della minchionada che m’avè dà. Ma son galantomo, tolè i maneghetti, tegnili; sappiè per mia gloria, e per vostra mortificazion, che sti maneghetti i xe stadi tolti da donna Metilde; che ela li ha donadi al sior Conte; che sior Conte m’ha ordenà de darveli a vu, perché vu i mettè dove i giera; e mi, servindome de sta bona occasion, v’ho restituido la burla, ho recuperà el mio scudo, e ve son profondissimo servitor. (parte)

JAC. Ah galeottaccio! me l’ha fatta... Pazienza! Sento gente. Vado a riporli. Ma no! dirò d’averli trovati. Brava la signorina! li ha presi per regalare l’amante, ed io poveraccia... quante volte così succede! Viene rubato in casa da chi meno si crede, e poi s’incolpa la povera servitù. (parte)

SCENA OTTAVA

Altra camera.

Donna Claudia e il conte Nestore.

CLA. Credetemi, son disperata.

CON. Eppure il cuore mi dice, che le gioje vostre non sieno state rubate.

CLA. Ma nel mio burrò non ci sono.

CON. Credo benissimo che non ci sieno.

CLA. Dunque mi sono state rubate.

CON. Non potrebbono essere, per esempio, in un altro luogo sicuro?

CLA. Dove mai?

CON. Se fossero per accidente sul Monte pubblico, non sarebbono in salvo?

CLA. Lo sapete anche voi dunque, che sono al Monte?

CON. Parmi averlo sentito dire.

CLA. Ma mio marito non ne sa niente.

CON. Può essere. (Se l’ha egli stesso impegnate!) (da sé)

CLA. Ecco, mi sono state rubate ed impegnate sul Monte.

CON. Chi mai può aver commesso un tal furto?

CLA. La Jacopina.

CON. Dov’è la Jacopina? Interroghiamola un poco.

CLA. Non c’è quella indegna; l’ho discacciata di casa.

CON. Male; prima di assicurarsi del suo delitto?

CLA. Ne sono certa. L’ho licenziata; ma le farò tener dietro, perché non fugga.

CON. Qual fondamento avete, signora, per giudicarla rea di tal furto?

CLA. Quello de’ manichetti.

CON. Siete poi certa che questi sieno dei vostri? (le fa vedere i suoi manichetti)

CLA. Questi? non mi pare. Non sono quelli che avevate quand’io era da voi.

CON. Perdonatemi; volete voi che a quest’ora mi sia levata la camiscia di dosso per iscambiarla? Sono gli stessi. (Si assomigliano almeno). (da sé)

CLA. Saranno dessi adunque, e mi pare sieno de’ miei; e lo saranno, poiché nel solito cassettino non li ho trovati.

CON. E ve li ha rubati la Jacopina?

CLA. Senz’altro, e chi mi ha rubato i manichetti, mi avrà rubato le gioje; e sono al Monte, e a me preme ricuperarle senza un rimprovero di mio marito, e altri che voi, Conte, mi può far la finezza di darmi il modo di poterle ricuperare.

CON. (Già lo sapeva, che qui doveva finire; ma non fa niente). (da sé)

CLA. Voglio credere che non diffiderete della pontualità mia.

CON. Oh pensate! ma prima sarebbe cosa ben fatta assicurarsi del furto, e della mano che lo ha commesso. Fatemi un piacere, signora, riguardate un po’ meglio nel cassettino, e altrove, se si trovassero i manichetti.

CLA. Ci ho guardato, vi dico; e poi, che ho da guardare? Se sono quelli che avete voi alle mani!

CON. Ecco la Jacopina. Sentiamo un poco da lei...

CLA. Ancora qui la sfacciata?

SCENA NONA

La Jacopina e detti.

JAC. Signora, i suoi manichetti...

CLA. Eccoli lì dove sono. (accenna quelli del Conte) E tu li averai rubati e venduti.

JAC. Io non sono capace, e però le dico...

CLA. E chi averà rubato i manichetti, averà rubato le gioje.

JAC. Sì, signora, chi averà rubato i manichetti, averà rubato le gioje. I manichetti eccoli qui. Le gioje, vada al Monte, che le ritroverà quando vuole.

CLA. Quai manichetti sono questi?

JAC. Quelli che erano nel cassettino.

CLA. Non è vero, ne avrai ritrovato un paio di simili per accomodarla meco; nel cassettino non c’erano. E tu vattene tosto di questa casa.

SCENA DECIMA

Donna Metilde e detti.

MET. Signora, non istia a gridare alla Jacopina per i manichetti, poiché io li ho levati dal cassettino, e posti nel mio armadio.

CLA. Per qual ragione far questo?

MET. Per attaccarli ad una camiscia del signor padre.

CLA. Spetta a voi di farlo? (adirata)

MET. Compatisca. (Se l’è creduta). (da sé)

CLA. Riponeteli. (alla Jacopina)

JAC. Sì, signora. (Se l’è bevuta...) (da sé)

CLA. Nascono di quei casi... (al Conte)

CON. Sono accidenti. (L’è andata bene). (da sé)

CLA. Tocca a voi custodire la biancheria. Andate. (alla Jacopina)

JAC. Dove, signora?

CLA. A far quel che occorre nella mia camera.

JAC. (Via via, lo scudo l’ho speso bene). (da sé, e parte)

SCENA UNDICESIMA

Donna Claudia, il conte, donna Metilde.

CLA. (Non so come azzardarmi ora a sostenere la favola delle gioje). (da sé)

CON. Ho piacere che siate certificata dell’onoratezza della cameriera. (a donna Claudia)

CLA. Sì, per ora... (Sono mortificata). (da sé)

CON. (Vi ringrazio de’ manichetti). (piano a donna Metilde)

MET. (Accettate il buon animo). (piano al Conte)

CLA. Conte, sentite. (Delle gioje, che vogliamo dire sia stato?) (piano al Conte)

CON. (Ritorneranno per quella strada medesima, per cui sono andate). (piano a donna Claudia)

CLA. (Dubito ch’egli lo sappia quanto lo so io, che don Eraclio me l’ha impegnate). (da sé)

CON. (Se vi si propone di maritarvi, dite di sì...) (piano a donna Metilde)

MET. (Se fosse con voi). (piano al Conte)

CON. (Può essere che sia con me...) (piano a donna Metilde)

CLA. Parlate con me, Conte, non date pascolo alle scioccherie di Metilde.

CON. Sono ai vostri comandi. (a donna Claudia)

MET. (Ne imparo tante da lei delle sciocchezze). (da sé)

SCENA DODICESIMA

Don Eraclio e detti.

ERAC. Conte, ho ordinato in tavola.

CON. Son qui a ricevere le grazie vostre.

ERAC. Dov’è la Contessina vostra, che non la veggo?

CON. Si è ritirata un poco, perché ancora è stanca dal viaggio. Andrò a chiamarla quando sia in tavola.

ERAC. Ho una bottiglia di Canarie vecchio di dodici anni. L’ho sempre serbata per un’occasione d’impegno; oggi in occasione della scoperta fatta de’ nuovi fregi della mia casa, si ha da bevere alla salute di Ercole.

CON. Prima che vadasi alla sboccatura della bottiglia, frattanto che si allestisce la tavola, vorrei, don Eraclio, che si tenesse fra noi un breve ragionamento.

ERAC. In giorno di tanta festa non mi parlate d’affari. (I mille scudi li ha dati?) (piano a donna Claudia)

CLA. (Non ancora). (piano a don Eraclio)

ERAC. È venuto l’amico vostro dei mille zecchini? (al Conte)

CON. Non si è veduto.

ERAC. (Vuol andar male, io dubito). (da sé) Che volevate voi dirmi? (al Conte)

CON. Spiacemi che le dame stieno in disagio.

CLA. Partirò, se il volete.

CON. Non signora, desidero che restiate, ma accomodata.

CLA. Sediam dunque; Metilde, andate.

MET. (Già me l’aspettava). (da sé)

CON. Permettetele in grazia mia, ch’ella resti.

CLA. Resti per compiacervi. Sediamo.

ERAC. Passate di qua, Conte, che starete meglio. (Ci ho da star io nel mezzo). (da sé)

CON. (Conosco il superbo). (da sé) Eccomi dove comandate. (siede all’ultimo luogo, e tutti siedono)

MET. (Son curiosa di sentire, se mi propongono quel che mi ha detto). (da sé)

CON. Don Eraclio, non fate che quello che ora vi dico, vi turbi l’animo, poiché alla fine resterete più consolato.

ERAC. Dite pure. (Se venissero i mille scudi!) (da sé)

CON. La causa del palazzo è perduta.

ERAC. Se non la posso perdere!

CON. Non la dovreste perdere; ma in oggi non si fa caso della nobiltà e del merito. Ve lo dico con dispiacere: questo palazzo non è più vostro.

ERAC. E dove anderà ad abitare un uomo del mio carattere?

CON. In una delle trentasette città.

ERAC. Ma perché darmi una sì trista nuova a quest’ora? Perché non lasciarmi almeno desinare con gusto?

CON. Voglio anzi che mangiate con maggior quiete, con maggior piacere.

ERAC. Consolatemi, amico. Fate che non mi paiano amari quei due capponi.

CLA. Già lo prevedeva io il precipizio nostro.

CON. Il precipizio è grande, ma vi può essere il suo rimedio.

ERAC. Voi ci potete aiutare. (al Conte)

CLA. Voi, Conte, colla vostra mente, coll’assistenza vostra.

CON. Sapete chi può essere il vostro risorgimento? Quella fanciulla, quella damina, quell’unica vostra figliuola!

ERAC. Come?

CLA. In qual modo?

MET. (Se fosse vero, non mi sgriderebbe più la signora madre). (da sé)

CON. Maritandola;  assegnandole in dote il palazzo e la campagna ultimamente venduta: con un contratto anteriore ai debiti ed alla vendita respettiva. (piano, guardando che alcuno non senta) Tutto si salva, si dà stato alla figlia, e si patteggia col genero l’utile, il decoro, e la convenienza.

MET. Il consiglio non può essere più bello.

CLA. Tacete voi. (a donna Metilde)

ERAC. Non mi dispiace il progetto; ma dove ritrovare un partito, che degno sia del mio sangue?

CON. Se l’affare non si conclude dentro di oggi, domani non siamo in tempo, per il palazzo almeno.

ERAC. Non vorrei che mi si facesse un affronto.

CON. L’amicizia mia vi esibisce quanto vi può esibire. Il Dottore stenderà il contratto qui sul momento, ed io vi offerisco di essere, per assicurare il vostro interesse, il fortunato sposo di vostra figlia.

CLA. (Ah, questa sua esibizione mi desta un’orribile gelosia). (da sé)

MET. Il signor Conte mi prenderebbe soltanto per far piacere a mio padre?

CON. Anzi la mia inclinazione...

CLA. Acchetatevi, sfacciatella! Voi non meritate che il Conte s’induca a desiderarvi che in grazia nostra, e son sicura che il suo talento ritroverà qualche via migliore per preservare i beni di questa casa, senza il sagrificio del cuore.

CON. Non vi è strada migliore di questa, signora.

ERAC. Ah Conte, sapete voi chi sono?

CON. Lo so benissimo; ed io, malgrado lo stato vostro infelice...

ERAC. Sapete voi che ho il sangue degli Eraclidi nelle mie vene?

CON. Che vorreste dire perciò?

ERAC. Siete Conte, siete nobile, e voglio credere lo siate ancora più di quello che siete; ma la vostra nobiltà non averà poi l’origine sì lontana da paragonarsi alla nostra.

CON. Non ho trentasette città ne’ miei titoli; ma posso avere trentasette migliaia di scudi, che mi rendono in istato di migliorare le cose vostre.

MET. È un bel feudo trentasette migliaia di scudi.

CLA. (Morirei dall’invidia, se ciò accadesse). (da sé)

ERAC. Caro amico, non vi è altro rampollo del sangue d’Ercole, che quest’unica figlia. (accennando donna Metilde) Sperava io collocarla con qualche illustre prosapia dei primi secoli. Non intendo oltraggiarvi se dubito darla a voi, quando anche foste discendente da Carlo Magno.

CON. Vi compatisco; la mia nobiltà non eccede tre secoli. Ma qual vergogna per voi sarebbe veder un giorno il sangue d’Ercole nell’estrema miseria? Vedere una figlia degli Eraclidi, obbligata dalla necessità, sposare un cittadino, un mercante, e forse un bottegaio ancora?

ERAC. Morirei disperato.

CON. Risolvetevi dunque di abbassarvi tre gradi meco, per non precipitare più al fondo.

ERAC. Nobilissima dama, che dite voi? (a donna Claudia)

CLA. Dico io, che piuttosto... (Ah, non so che mi dire). (da sé)

CON. (Signora, non perdete di vista le gioje vostre). (a donna Claudia)

CLA. (Come si potrebbono ricuperare?) (al Conte)

CON. (Coll’accasamento di vostra figlia, avendo luogo il divisato contratto).

CLA. Cavaliere, che risolvete? (a don Eraclio)

ERAC. Non saprei... Son confuso.

CON. Ricordatevi che le trentasette città che vi onorano, non vi daranno un tetto per ricoverarvi, né un pane per satollarvi. (a don Eraclio)

ERAC. Ah, la nobiltà è un gran bene! ma una buona tavola è la mia passione.

CLA. Costei non merita che a lei si pensi; ma lo stato nostro è infelice.

ERAC. Orsù, facciasi un’eroica risoluzione. (s’alza) Conte, il merito vostro è sì grande, che vi rende degno del sangue nostro. Soffri, Ercole, in pace la lieve macchia del grado illustre de’ tuoi figliuoli. Sì, Conte, si stipuli il gran contratto. Si salvi più che si può l’onore della famiglia: Metilde è vostra, e andiamo a solennizzare le nozze in un festoso convito. (parte)

CON. Potrò chiamarmi ben fortunato...

CLA. Non mi credeva mai, conte Nestore, che le attenzioni vostre usate alla madre, tendessero al possedimento della figliuola.

CON. Donna Claudia, se la presente disgrazia vostra non mi obbligasse...

CLA. Sì, c’intendiamo. Andate innanzi voi. (a donna Metilde)

MET. Signora, se deve essere mio sposo...

CLA. Ei non lo è per anche.

MET. Ma lo sarà. (parte)

CLA. Se ciò ha da essere, non vi lasciate mai più vedere dagli occhi miei. (al Conte)

CON. Mi credete indegno d’imparentarmi con voi?

CLA. Finora vi ho creduto degno della mia stima; ora sarete degno dell’odio mio.

CON. Signora, confidatemi l’arcano delle gioje vostre.

CLA. Ah! non so che dire, Conte, compatitemi. Alfin son donna, e non vi dico di più. (parte)

CON. Ora vedesi chiaramente, che la miseria avvilisce gli alteri, che l’ambizione può più dell’amore, e che una testa come la mia sa fabbricar da se stessa la sua fortuna. (parte)

SCENA TREDICESIMA

La Jacopina e Arlecchino.

JAC. Che mi andate voi dicendo di questo vecchio?

ARL. Ve digo che la xe la più bella cossa del mondo. L’è arrivà in Cremona el padre del conte Nestore.

JAC. Che importa a me del padre del conte Nestore?

ARL. V’importerà co lo vederè, perché l’ha da esser una bella scena.

JAC. È un cavaliere di garbo?

ARL. E come!

JAC. Si vede che sia veramente di quella nobiltà che conta il di lui figliuolo?

ARL. Anzi, a vardarlo, se ghe cognosse in lu una nobiltà strepitosa.

JAC. Ricco?

ARL. Ricchissimo.

JAC. Vestito bene?

ARL. Magnificamente.

JAC. E dove si trova?

ARL. L’è qua, che el vorave véder i so do fioli.

JAC. Lo sanno eglino ch’ei sia arrivato?

ARL. No i lo sa gnancora. El ghe vol comparir all’improvviso. Per far che la burla sia più bella, lo podè condur co i xe a tola.

JAC. Fatelo venire innanzi, che ho curiosità di vederlo.

ARL. Vederè el fior della nobiltà.

JAC. Mi metterà in soggezione.

ARL. Gnente, el xe un agneletto. La favorissa, patron, la vegna avanti.

SCENA QUATTORDICESIMA

Messer Nibio e detti.

NIB. Dove sono questi figliuoli?

JAC. Chi è costui? (ad Arlecchino)

ARL. El padre del conte Minestra.

JAC. Voi mi burlate. (ad Arlecchino)

ARL. Domandèghelo a elo.

JAC. Voi siete il padre del conte Nestore? (a Nibio)

NIB. Sì, io sono il padre di quello che si fa creder Conte. La mia sincerità non soffre di secondare la sua impostura; e stimo più l’onore di essere un galantuomo, quantunque povero, di quello sia i titoli, le ricchezze, e la vanità.

JAC. Oh bella, oh bella davvero!

ARL. No ve l’oggio dito? (alla Jacopina)

JAC. Come si chiama vostro figliuolo? (a Nibio)

NIB. Pasquale.

JAC. E la figlia?

NIB. Carlotta.

JAC. La contessa Carlotta?

NIB. Ella è da me fuggita per rintracciare il fratello. L’ho seguitata sulle traccie avute della sua fuga. Li ho ritrovati ambedue, grazie al cielo, per via di quest’uomo dabbene... (accenna Arlecchino)

ARL. Ma gh’ha volesto del bello e del bon de capir chi el domandava. Se no el nominava el nome de Carlotta, giera impossibile che mi me insuniasse, che el conte Manestra fusse missier Pasqual.

NIB. Dove son eglino questi pazzi de’ miei figliuoli?

JAC. Saranno a tavola coi miei padroni.

NIB. Dite loro che è qui suo padre.

JAC. Venite con me, galantuomo. Come vi chiamate?

ARL. El m’ha dito che el gh’ha nome Nibio.

JAC. Andiamo. (Diceste bene che la scena voleva esser graziosa). (ad Arlecchino)

ARL. (A vu mo tocca a farla ancora più bella). (a Jacopina)

JAC. (Lasciate fare a me, che la vo’ condire). (ad Arlecchino) (Mi vo’ godere le mie padrone, che si credevano essere servite dall’illustrissimo signor Conte). (da sé, e parte)

NIB. Non vo’ che i miei figliuoli si arricchiscano colla bugia: sono un uomo d’onore, e tal sarò fin che io viva. (parte)

ARL. Voggio andarmelo a gòder anca mi sior Conte. Oh, quanti de sti Conti incogniti, se se podesse véder de chi i xe fioli, i deventerave tanti Pasquali. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Sala con tavola apparecchiata.

Don Eraclio, il dottore, poi donna Claudia e donna Metilde.

ERAC. Già il Conte mi ha detto ogni cosa. Si parlerà dopo desinare.

DOTT. Dopo desinare? Si potrebbe dir dopo cena. Poco manca alla sera, ed io, per dirla, ho lo stomaco rovinato.

ERAC. Avrete modo di confortarlo. Voi altri siete avvezzi a mangiare per tempo. So che gli antichi cenavano solamente, ed io mangio sempre coi lumi.

CLA. Ecco a che siamo ridotti, per cagione delle vostre pazzie.

ERAC. Non mi guastate ora il piacer della tavola.

MET. Finalmente il signor Conte non è un villano.

ERAC. Mi farò dir meglio le cose della casa sua, e chi sa, se noi discendiamo da Ercole, ch’ei non discenda da Deianira?

SCENA SEDICESIMA

Il conte, Carlotta e detti.

CON. Eccoci qui a godere delle vostre finezze.

CARL. A quest’ora si desina? A quest’ora, in villa da noi...

CON. In campagna si fan le cose diversamente. (Finitela con questa villa). (piano a Carlotta)

ERAC. Venite qui, Contessina, sedete presso di me.

CON. Non vi prendete incomodo. (a don Eraclio)

ERAC. La voglio qui, vi dico.

CARL. Mettetemi dove volete; ma datemi da mangiare, che non posso più. (siedono don Eraclio e Carlotta vicino)

CLA. (Andiamo a mangiare tanto veleno). (da sé, e siede presso don Eraclio)

MET. (Non ci vorrei stare vicino alla signora madre). (da sé)

CLA. Venite qui, voi. (a donna Metilde)

MET. Starò qui, signora (un poco lontana)

CLA. Venga qui il Conte dunque.

MET. Ci verrò io, dunque. (Non lo voglio vicino a lei) (da sé, e siede)

ERAC. Conte, vicino alla sposa.

CON. Starò qui presso mia sorella. (Non vorrei che mi facesse delle male grazie). (da sé)

MET. Pazienza! Vedo il bell’amore che ha per me il signor Conte.

CON. (Ha ragione). (da sé) Son qui, signora; perdonate se non ardiva... (siede vicino a donna Metilde)

DOTT. Ed io qui, dunque. (siede vicino a Carlotta)

CARL. Chi siete voi signore?

DOTT. Sono il Dottore Melanzana per obbedirla.

CARL. Ho piacere di stare vicina al Dottore: ce n’era uno che mi voleva bene, in villa da noi.

CON. Via, Contessina. Non parlate ora del Dottor della villa.

ERAC. In principio di tavola non si parla. Tenete di questa zuppa. (dà un tondino di zuppa a Carlotta)

CARL. Così poca me ne date? (a don Eraclio)

CON. (Oh povero me!) (da sé)

CLA. Ne volete dell’altra? (a Carlotta)

CARL. Sono avvezza a mangiarmene sei volte tanta.

CON. Contessina! (ironico)

ERAC. Eccovi dell’altra zuppa.

CARL. Questa pappa si dà ai bambini, in villa da noi... (mangia velocemente)

ERAC. Qual è la minestra che più vi piace?

CARL. Maccheroni, fagiuoli, cose di più sostanza.

CON. (Mi vuol far disperare costei). (da sé)

CLA. È molto delicata di gusto. (ironica)

CARL. Quando ho mangiata una buona minestra, non ci penso di altro.

CON. Le avvezzano così nel ritiro.

CARL. Datemi da bevere.

DOTT. Così presto?

CARL. Si beve quando si ha sete in villa da noi.

CON. (Non ce la conduco più per un pezzo). (da sé)

(Servitore porta i capponi)

ERAC. Ecco i capponi; Conte, ecco i capponi. Eccoli, signor Dottore.

CARL. Anche da noi se ne mangiano di questi.

ERAC. Sapete trinciare voi? (al Conte)

CON. Non ho grande abilità, per dirla.

ERAC. Voi, Dottore, sapete trinciare?

DOTT. Non signore, dispensatemi.

CARL. Che vuol dir trinciare?

ERAC. Tagliare, far le parti, spezzare.

CARL. Nessuno sa far le parti, nessuno sa spezzare di voi? Siete bene ignoranti, taglierò io.

CON. Eh via, non fate di queste scene...

CARL. Sentite che caro signor fratello! Pare ch’io non sappia far niente. Ci vuol tanto a spezzare un cappone? Si fa così da noi. (prende il cappone per romperlo colle mani)

CON. Fermatevi, dico.

ERAC. Non me lo rovinate. (leva il piatto)

CLA. Che sorta di educazione ha avuto vostra sorella?

CON. La Contessa sua madre ha creduto far bene a porla sotto la direzione di alcune vecchie sue zie; ecco il profitto che ne ha ricavato.

CLA. Par impossibile ch’ella sia nata con civiltà.

MET. Quando sarà mia cognata, le insegnerò io il costume civile.

CARL. Ho da essere vostra cognata?

CON. Sì, certo. Non ve l’ho detto ch’io averò la fortuna di dar la mano a donna Metilde?

CLA. Don Eraclio, pensateci bene prima di farlo.

ERAC. Lasciatemi mangiare per ora.

CON. Signora, porreste in dubbio la nobiltà della mia famiglia? (a donna Claudia)

DOTT. Il contratto è steso, e dopo avere mangiato, noi lo stipuleremo.

MET. Spicciamoci presto, dunque.

SCENA DICIASSETTESIMA

La Jacopina e detti; poi messer Nibio.

JAC. C’è uno che domanda del signor Conte.

CON. E chi è che mi vuole?

ERAC. Sarà quello dei mille zecchini. Fatelo venire innanzi.

CON. Si può sapere chi sia?

JAC. Non lo conosco. (Non gli vo’ dire chi sia, per godere la bella scena). (da sé)

ERAC. Vediamolo chi è, fatelo venire.

JAC. Subito. (Oh come vuol restar brutto il signor Conte! Ma se lo merita, che voleva ingannare la povera padroncina). (da sé, e parte)

ERAC. Se fosse quello che vi porta il denaro, non abbiate soggezione di noi; dopo che averemo mangiato, potrà contarlo qui sulla tavola.

CON. (Ohimè! chi vedo mai?) (da sé)

NIB. Con licenza di lor signori.

CARL. Mio padre.

ERAC. Un villano? che vuoi tu qui? (adirato)

NIB. Vengo in traccia de’ miei figliuoli.

ERAC. E dove sono i figliuoli tuoi?

NIB. Eccoli qui: Pasquale e Carlotta.

ERAC. Come! (tutti s’alzano)

CLA. Che dice?

CON. (Son perduto). (da sé) Sarà un pazzo costui, non gli badate, signori.

NIB. Hai tanto ardir, temerario, di dir pazzo a tuo padre?

CARL. Mi maraviglio di voi, fratello, che strapazzate così nostro padre. Sì signore, egli è messer Nibio, io sono Carlotta sua figlia, e il conte Nestore è Pasquale suo figlio.

ERAC. Ercole, Ercole, dove sei?

CON. (Ah, che ad un colpo simile non so resistere. La natura tradisce la consueta mia intrepidezza; sento avvilirmi. Arrossisco in faccia di chi mi vede). (da sé) Signori... io sono... Mi maraviglio di chi non crede... Ora ora... vi farò conoscere chi sono. (parte)

ERAC. Sangue degli Eraclidi assassinato!

NIB. E tu, tristarella che sei, abbandonasti questo povero vecchio padre, per seguire il pazzo di tuo fratello? Torna meco; deponi quegli abiti che ti stanno d’intorno; e vieni a riprendere la tua rocca, il tuo aratro, e la servitù di tuo padre.

CARL. Signori, la contessa Carlotta vi fa umilissima riverenza, e in ricompensa del desinare che le avete dato, v’invita in campagna a mangiare un piatto di ravanelli. (parte)

 ERAC. Ercole, Ercole, dove sei?

SCENA ULTIMA

Arlecchino e detti.

ARL. Ercole fa umilissima riverenza a lor signori, e el ghe fa saver, che sior Conte bona testa in sto ponto l’ha trovà el cavallo del conte Nibio so padre, el gh’ha montà suso; l’è andà fora della porta della città, el va via de galoppo per paura de esser fermà.

NIB. Povero me! il temerario mi fugge; ma lo raggiungerò da per tutto, e almeno avrò ricuperato la figlia. Signori, compatite un pazzo; ma da quello che intesi dire di voi, prima d’entrar qui dentro, credo che siate pazzi voi pure, niente meno di lui.

ARL. L’ha dito una sentenza da Ciceron.

CLA. (Resto attonita, non so parlare). (da sé)

ARL. Lustrissima, me esebisso mi de esser el so cavalier. (a donna Claudia)

MET. Povera me! sono rovinata. Se non posso averlo come il conte Nestore, mi contenterei di averlo anche come Pasquale.

ARL. Co l’è cussì, la fazza capital de Arlecchin. (a donna Metilde)

CLA. Ecco il frutto della vostra condotta. (a don Eraclio)

ERAC. A me rimproveri? Chi faceva le grazie al Conte, io, o voi?

CLA. Avete ragione; non so che dire. Fra le vostre e le mie pazzie ci siamo entrambi precipitati.

ERAC. Signor Dottore, che sarà di me povero cavaliere?

DOTT. Male assai, il palazzo è perduto.

ERAC. Dove anderò a ricovrarmi?

ARL. V’insegnerò mi un logo seguro, un logo comodo.

ERAC. Dove mai?

ARL. All’ospeal dei matti.

ERAC. Ah sì, mi rimprovera ognun con ragione. L’ospedale de’ pazzi è luogo degno di me; luogo degno di un povero prosontuoso, che cercando nobilitarsi colla vanità del passato, si è rovinato in presente, e lo sarà peggio ancora nell’avvenire. Prendano esempio da me i pazzi gloriosi, che chi si crede di essere più di quello ch’egli è, si riduce alla fine nella disperazione in cui sono, ridicolo, miserabile, maltrattato e schernito.

Fine della Commedia