Il regalo rotto

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IL REGALO ROTTO

di

Angelo Callipo

diritti s.i.a.e. riservati

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Questo monologo è vero.

Veri i nomi, con buona pace di Gardenia, vere le circostanze, i sentimenti, le smanie, le stanchezze, gli incubi.

Soprattutto gli incubi.

Veri anche i luoghi che nel testo non sono specificati, ma che nella realtà dei fatti hanno una loro collocazione e cioè la terra che bagna Napoli. Per questo motivo il linguaggio utilizzato zoppica su cadenze partenopee e nel personaggio del parcheggiatore si traveste addirittura da cliché.

Il testo contiene un solo riferimento musicale, necessario a contestualizzare la radiocronaca dell’arrivo in ospedale.

Molti altri riferimenti musicali sono stati immaginati.

Ma solo immaginati.


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La scena è debolmente illuminata.

A sinistra del pubblico una luce più intensa arriva dall’esterno.

Un mobile da cucina, una credenza, troneggia al centro. E’ un totem disarticolato, quel mobile, uno scheletro. Le ante sono aperte, la parete di fondo mancante, lo sguardo, dunque, lo attraversa da parte a parte. Sui ripiani è sistemato tutto quanto possa essere utile, ma c’è anche di più. Molto di più. E’ un deposito dell’esistenza quel mobile.

Per il resto lo spazio è occupato da tutto ciò che può rendere tale una cucina: qualche pensile, lavandino e fuochi, frigorifero e cassetti. Davanti alla credenza c’è un tavolo con le sedie. Sul tavolo sono sistemate bottigline e scatole di medicinali.

L’uomo indossa giacca e pantaloni di un pigiama chiaro a righe, ai piedi pantofole. Entra da sinistra, stando attento a non fare rumore. Si volta, ha un moto di disappunto per la luce che ha lasciato alle sue spalle e torna indietro. Sentiamo il rumore di una porta che si chiude e la luce che viene da sinistra diminuisce. L’uomo rientra e va al tavolo, guarda i medicinali. Suona l’orologio del campanile vicino. Le tre del mattino. L’uomo si allontana dal tavolo, prende dalla credenza la caffettiera, il barattolo del caffè e quello dello zucchero.

La preparazione del caffè, tra alterne vicende, durerà fino all’alba.

La notte è la sua traccia. Lo accompagna. E’nello spazio di una notte che dirà tutto quello che sta per dire.

Si guarda intorno, controlla di essere solo, tende l’orecchio per percepire rumori. La solitudine e il silenzio lo tranquillizzano.

Mi stai per caso dicendo che ti senti minacciato da me? Tu? Ma com’è possibile? Tu sei Dio, il supremo, l’onnipotente, l’amministratore delegato dei cieli e della terra, a te innalziamo preghiere, sai?, accendiamo candele, siamo noi gli imperfetti, quelli che scompigliano il tuo ordine maniacale… guarda, sarai anche sublime ed ineffabile, ma manchi totalmente di elasticità, non riesci a vedere le cose da un altro punto di vista, non hai il minimo senso pratico, sei troppo pieno di te, troppo… troppo… troppo Dio, ecco! Immobile, imperturbabile, con uno schiocco tiri su l’universo dal caos e pretendi che rimanga uguale a se stesso per sempre! Troppo comodo. Tu sei abituato a misurarti con l’eternità, qui invece facciamo i conti con gli anni che passano, con i giorni, con le ore, finanche con gli attimi. Ho visto uomini e donne perdersi in un attimo e l’attimo dopo ritrovarsi, e l’attimo dopo ancora perdersi un’altra volta e poi… e poi basta. Nessun attimo che arriva può garantire l’attimo che verrà dopo. Ma tu sei l’Eterno e hai un concetto tutto tuo del tempo, tu sei quello dei secoli nei secoli e dunque perché mai dovresti rinunciare alla stabilità rassicurante del tuo ordine? (in confidenza) Il fatto è che il tuo ordine, visto da qui, non è sempre facile da comprendere. Non sto dicendo che hai difficoltà di comunicazione, quello che voglio dire è che magari potresti provare a rendere tutto più semplice… ma scusa, Dio, perché mai uno


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dovrebbe capirti vedendo un rovo che brucia? E' che Mosè doveva essere un tipo particolarmente intelligente, sveglio insomma, ma non è così che funziona. E poi c’è la faccenda dei santi, quelli che parlano per tuo conto. Tu credi che ci si possa davvero fidare di uno che passa il suo tempo a parlare con gli uccelli e poi si mete nudo sulla piazza del paese? Andiamo, hai capito benissimo di chi sto parlando, quello lì, il figlio di Bernardone. E le parabole? Il regno dei cieli è simile ad un uomo che aveva seminato buon seme nel suo campo, il regno dei cieli è simile ad un re che volle fare i conti con i suoi servi, il regno dei cieli è simile a dieci vergini o simile ad un padrone di casa… tu lo capisci, vero, che noi abbiamo bisogno di certezze? Noi dobbiamo sapere che cosa ci aspetta. Sai Dio, trovare nel regno dei cieli un padrone di casa non è proprio il massimo! E’ una vita che vivo in affitto, capisci? Mi sentirei molto più tranquillo se potessi contare sulle dieci vergini. Il fatto è che di fronte a questa poca chiarezza c’è sempre qualcuno pronto a riconoscere la tua volontà comunque e dovunque. Un terremoto, una terribile malattia, perfino un aereo che precipita sarebbero la tua volontà. E’ come la faccenda del rovo, insomma. Ma davvero migliaia di innocenti sotto le macerie sono la tua volontà? La leucemia, il potere dispotico e assassino, la falsa testimonianza, i sentimenti ipocriti, le bombe di Capaci e via D’Amelio, la solitudine, l’assedio di Sarajevo… ma cosa significano? Chiara… che cosa significa lei? Perché mi hai fatto un regalo rotto?

L’uomo fruga nel mobile, ne tira fuori un camice bianco che indossa, al collo ha uno stetoscopio e in mano una cartellina, di quelle che contengono analisi cliniche.

Dunque signor... (sbircia velocemente nella cartellina) Tarallo? Sì, giusto, signor Tarallo (lasciandosi scappare una risatina) scusi sa, ma il suo nome è piuttosto buffo, se ne rende conto anche lei, no? (ricomponendosi e ritrovando un'aria professionale) Dunque, direi che con oggi abbiamo finito,nono mese signor... (sbircia di nuovo nella cartellina) Tarallo, ecografie non ne se ne faranno più...

d'altronde tutto va secondo parametri che definirei nella norma, il bambino, no, scusi, la bambina… (colto da un improvviso pensiero) io ho un bambino, veramente ne ho tre, tre maschi, sa?, e Stefano stamattina aveva la febbre, anzi (tira fuori il cellulare) permette? (compone il numero e attende risposta) Paola, sono io… Stefano? A scuola? E la febbre? Come quale febbre? Lafebbre di Stefano! Ah, Stefano stamattina non aveva la febbre, ma sì, che ce l’aveva la febbre, sono un medico saprò capire se qualcuno ha la febbre… ah, ce l’aveva la settimana scorsa… bene, sono contento per lui… (chiude velocemente il cellulare), a volte faccio un po’ di confusione… e poi che significa? Un padre non smette mai di preoccuparsi per suo figlio, giusto? Febbre o non febbre! Torniamo alla nostra ecografia, (riapre la cartellina) tutti i valori, come dicevo, sono nella norma, la signora ha già avuto un taglio cesareo cinque anni fa e dunque sarà necessario fare lo stesso anche questa volta, non possiamo rischiare con un parto naturale, la signora è d’accordo e appena si sarà rivestita verrà lei stessa a confermarglielo. Lei è d’accordo? (senza aspettare una possibile risposta), benissimo, allora deve solo mettermi una bella firma… (sfoglia nella cartellina) ah, no, non ce n’è bisogno, ha già firmato sua moglie… d’altronde è la mamma che decide in questi casi, lei deciderà su altre cose, forse… io non riesco a decidere neanche se Stefano ha la febbre, forse avrei dovuto impormi, eh? Dico, potrò avere voce in capitolo sulla salute di mio figlio? Lasciamo perdere, signor Tarallo adesso però dobbiamo programmarlo questo taglio cesareo, siamo a fine novembre, non vogliamo mica farla nascere il 25 dicembre questa bambina? No, dico, ma lei si rende conto che cos’è il 25 dicembre in questo ospedale? Il deserto, il vuoto pneumatico, l’inferno senza dannati,


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spariscono tutti, anche i pastori dal presepe del secondo piano. Vabbè, quelli se li ruba Magliocca, il radiologo, li fa emigrare nel presepe di casa sua, lasciamo perdere... Ma questo non cambia i fatti, non possiamo partorire il giorno di Natale! E neanche il 24… la vigilia si sta a casa, in famiglia, si aprono i regali, il 23 c’è il poker con quelli del circolo… no, no… il 22… no, dico, almeno una giornata sulla neve, una che sia una… dobbiamo andare indietro, che so… il 19 e il 20 sono a Stoccolma con mia moglie, l’anniversario sa?, il 18 sicuramente ci sono gli ultimi acquisti prima della partenza, il 17… no, cade di venerdì, lei è superstizioso signor Tarallo? io no, guardi, per niente, ma l’anestesista sì e dice che la superstizione, da contratto, può essere motivo di obiezione di coscienza… veda un po’ lei come siamo messi… dunque arriviamo al 16… che ne dice? (si ferma di colpo) Come per lei non è possibile? Signor Tarallo la nascita di un figlio è una cosa importante,lei ha una vaga idea di cosa significhi mettere al mondo un bambino oggi? L’inquinamento, le discariche a cielo aperto, fumi tossici che causano malformazioni e sa Dio quante altre cose terribili, sapesse quello che vedo io tutti i giorni, partorire oggi è come fare uno slalom, schivare ogni sorta di pericoli e giungere sani e salvi alla meta. Non è certo il suo caso, ma proprio per questo una nascita senza problemi deve avere la precedenza su tutto, su tutto, capisce cosa voglio dire? E poi signor Tarallo cosa avrà da fare di tanto importante il 16 dicembre! (aspetta la risposta, poi come se non avesse capito bene) mi scusi, non ho capito… babbo che? Lei il 16 dicembre faBabbo Natale?

E mica solo il 16! Io sono Babbo Natale in servizio permanente per tutto il mese di dicembre e se dovesse essere necessario salgo pure sopra una scopa e faccio la Befana. Questo però al dottore non gliel'ho detto. Non gliel’ho detto che di mestiere faccio l’attore. (imitando la voce di chi gli fa una domanda) Quelli che si mettono la parrucca gialla, le scarpe grosse e fanno ridere i bambini?(rispondendo alla domanda con una certa rassegnazione) Veramente quelli sono i clown. Comunque, io i bambini li faccio ridere lo stesso. Racconto le storie, faccio la voce di pulcinella, le capriole e le imitazioni, il mio pezzo forte sono i tre porcellini. Ma a dicembre non si scappa. A dicembre sono Babbo Natale. (toglie il camice, stetoscopio e cartellina) Insomma io al dottore questo non gliel’ho detto. Per non impressionarlo e perché, in fondo, cos’altro avrei potuto aggiungere alla mia felicità? Ma sì, quel giorno, quello dell'ultima ecografia, quando ormai, parole del dottore, la bambina è in dirittura d'arrivo, quel giorno avrei potuto essere qualsiasi cosa, Babbo Natale, la Befana, i Re Magi, Benino addormentato davanti alla grotta, pure la stella cometa...

pensa un po'... mia figlia a cavalcioni sulla mia bellissima coda luminosa... (comincia a raccontare la sua personale fiaba) sì, perché le code delle stelle comete sono dense, a noi sembrano fluttuantisolo perché le guardiamo da lontano, invece hanno una loro consistenza. Certo, sono anche soffici, di quel soffice in cui puoi sprofondare, ma senza volare giù... quello che voglio dire è che quando vedi una stella cometa devi fare molta attenzione alla sua coda, è lì che si nasconde il segreto di una stella cometa. Su quella coda densa e soffice al tempo stesso, puoi vederci seduti tutti i bambini del mondo... sono tanti, sì, lo so, ma chi crede che la coda di una stella cometa non li possa contenere tutti si sbaglia, si sbaglia di grosso... arrivano, arrivano di continuo e oplà si siedono sulla coda luminosa, scivolano dai pancioni delle loro mamme, centinaia di pancioni disegnati come sagome nel cielo, arrivano da lì tutti i bambini del mondo, poi però rischiano di


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capitombolare sulla terra, ma un vento, un vento che soffia chissà da dove, dalla bocca di un vecchio barbuto che vive tra le nuvole, un vento li raccoglie e li porta su, su fino alla coda luminosa... no, da lontano li distingui appena, ma io, io che sono, io stesso, una stella cometa, li ho sentiti appoggiarsi su di me, ho dovuto solo rallentare un po', perché non sono esperti, sanno appena piangere, come vuoi che sappiano salire in fretta e furia sulla mia coda? Ma poi quando tutti hanno preso il loro posto, eh sì, allora sono andato molto, molto più veloce e sai perché? Perché volevo sparire e lasciare solo la scia luminosa dietro di me, come un cavallo al galoppo con i suoi mille fantini sul dorso... e tra quei mille coraggiosi fantini ci sei stata un tempo anche tu, lo sai vero? io sì, io lo sapevo, lo sapevo, l'ho sempre saputo che la mia piccola Chiara era un fantino coraggioso... (come se d'improvviso si risvegliasse) basta! Dove mai si è visto un Babbo Natale che sogna di essere una stella cometa! Soprattutto, basta sognare! Non è il momento. Chiara sta per arrivare e tutto dev'essere pronto, vorrei solo avere più tempo per Marina, lei ha cinque anni, suo padre è Babbo Natale e sua madre ha un enorme pancione che guarda con sospetto... vedi, Marina, anche tu sei nata da lì, certo, proprio da quel pancione... abbiamo una sola mamma e mamma ha una sola pancia, dunque bisogna che tu la divida con la tua sorellina... è come avere la stessa stanzetta, in fondo, cosa cambia? Solo che la pancia di mamma l'avete usata una volta per uno, quando nascerà avrà bisogno di tutto il nostro affetto, magari all'inizio a te sembrerà di essere messa un po' da parte, che insomma noi ci occupiamo più di lei... non è così, adesso ti dico come stanno davvero le cose... lei è il nuovo angioletto che aspettiamo, mamma è la fata che conosce gli incantesimi giusti per farlo arrivare, la nostra casa il castello più fatato dell’intero quartiere e tu... tu sei la nostra bellissima principessa... parola di Babbo Natale!

Ritorna al mobile, prende un radiolone e lo sistema sul tavolo. Sceglie un cd tra quelli impilati su un ripiano e lo fa partire. Si diffonde nell’aria la musica di A Taste of Honey di Herb Alpert and the Tijuana Brass, mitica sigla di Domenica Sprint. Poi si siede, inforca un paio di cuffie e comincia la sua radiocronaca.

Di nuovo un buongiorno a tutti i nostri radioascoltatori, ancora in diretta con voi e per voi dalla postazione mobile di pronto soccorso, ma riassumiamo i fatti per chi si fosse messo solo ora all’ascolto. Poco prima delle tre, Marina, febbricitante, chiede di dormire con mamma e papà, la madre, svegliata di soprassalto, avverte piccole fitte, ma del tutto simili a quelle dei giorni precedenti, passata un’ora, sono dunque le quattro circa, i dolori aumentano, le fitte si fanno più intense, colpo di telefono all’amica di famiglia e nel giro di un quarto d’ora Marina non è più sola nel lettone, comincia la corsa in ospedale rallentata solo dall’asfalto insidioso per la pioggia. Ormai dovrebbero esserci, anzi li vediamo proprio in questo momento. La macchina inchioda, lui scende e apre lo sportello dalla parte del passeggero, un infermiere si avvicina con molta calma, sembra addirittura immobile, conduce una sedia a rotelle, vecchia, sgangherata, probabilmente un reperto archeologico, un altro infermiere, di poco più solerte, ferma l’ascensore e carica tutti, direzione ginecologia, in ascensore la madre vomita, il padre osserva il liquido giallastro e ne tenta


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velocemente un’analisi senza però giungere a sicure conclusioni, i dolori sono sempre più forti, il pancione adesso è duro come il marmo, medico di turno e infermiera si consultano, il padre continua a pensare al vomito, qualcosa sicuramente gli sfugge, sono le scarpe di lei cadute dal mucchio degli altri vestiti che ha tra le braccia, lui si china a raccoglierle, lei intanto è stata caricata in un'altra ascensore, terzo piano, sala operatoria, anestesia, lui è rimasto da solo, si guarda intorno, non vede più nessuno, ascensore, terzo piano, sale operatorie, l’infermiera agita le braccia per indicare la direzione delle scale, l’ascensore è solo per il personale e gli ammalati, eccolo sulle rampe, deve assolutamente migliorare l’intermedio al passaggio del secondo piano, all’uscita della chicane del terzo si ritrova in un atrio del tutto simile a quello precedente, anche qui non c’ènessuno, solo l’odore, fortissimo, dell’ammoniaca da pavimenti... il tempo passa inesorabile, al decimo ha già fumato la terza sigaretta, al diciottesimo ha già fatto la terza telefonata, al ventiquattresimo ha già importunato la terza infermiera di passaggio... ma ecco finalmente l’atteso capovolgimento, in fondo al corridoio c’è agitazione, avanza la prima linea, dottore, infermiera, infermiera in seconda, anestesista, avanzano compatti e impenetrabili, eccoli, sono a meno di un metro da lui, alle spalle del gruppo si stacca un infermiere grosso e barbuto, spinge un piccolo cubo di plastica con fili e rotelle... l’incubatrice... sono passati trenta minuti, signore e signori, e non c’è più tempo per il recupero...

La musica si interrompe d’improvviso, il cd si dev’essere inceppato. L’uomo si alza e armeggia intorno al radiolone, ma non riesce a farlo ripartire. Ha ancora le cuffie in testa.

Come dice? (toglie le cuffie per sentire meglio) Distacco della placenta? Ma è andato tutto bene, no? Quella lì dentro è mia figlia... è Chiara... è il suo nome, ci abbiamo pensato a lungo, sa?, ci siamo anche fatti un sacco di scrupoli, sa come vanno queste cose qui da noi, io mi chiamo Michele perché mio nonno si chiamava così... c’è stato qualche problema?... no, le dicevo del nome, non volevamo scontentare nessuno, per carità, ai nonni bisognerebbe fargli una statua d’oro, però Chiara è un nome dolce, no? Ci è sempre piaciuto, Chiara era innamorata di Francesco... Francesco d’Assisi intendo, quello lì, il figlio di Bernardone... certo, certo che l’ascolto, che crede?, sono qui per questo... volevo solo che lei sapesse, Chiara di Assisi era mite, docile, aveva dentro di sé tutta la pace del mondo... distacco della placenta, la bambina è rimasta in asfissia per molto tempo, per troppo tempo... va bene, ma adesso respira... no? Ah, sussulta, sussulta perché respiraartificialmente, il suo cuore batte quasi al minimo... ma certo, è un cuoricino, no?, piccolo piccolo, lo vede da lei, dottore, Chiara è tutta lì, il suo cuore, che sarà mai? Come.. come un chicco di pasta... per un cuore del genere già battere al minimo dev’essere un grande sforzo... in casi come questi cerchiamo di salvare almeno una vita, stavolta pare che abbiamo fatto il miracolo, madre e figlia sono vive... bene, allora ce ne andiamo tutti a casa, devo firmare qualcosa? Che so, unaliberatoria, un consenso, mi presti la sua penna, fuori ormai sarà giorno, questa notte è finita e... lo sa che prima un’infermiera, giù, eravamo ancora al pronto soccorso, mi ha preso per un venditore ambulante? E certo, ho pensato io, ho in mano i vestiti di mia moglie e mi ha scambiato per uno di quelli. Sa però cosa mi ha veramente sorpreso? Il fatto che lei fosse, come dire, abituata a vederne qui dentro, no, scusi, sa, forse non è il momento, ma mi è venuto da pensare, ma come? In ospedale ci entrano pure i vu cumprà? La bambina non può tornare a casa e non può restare qui,


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incubatrici per casi come questi ce ne sono solo a cento chilometri… cento chilometri da qui? Sì, un ospedale che sta messo meglio di noi, buona fortuna... grazie... ah... la sua penna...

Di nuovo al mobile, si veste di un’enorme tuta asettica, compresa di calosce e cuffia. Le luci intanto sono diventate blu, luci notturne da ospedale.

La terapia intensiva neonatale dell’ospedale è un luogo in bilico su se stesso, oscilla di continuo tra la calma surreale di monotone procedure e l’improvvisa frenesia di un fuggi fuggi generale, di un parapiglia disordinato che scoppia quando meno te lo aspetti. Tutto ritmato e scandito dai beep. Dal mio angolino della sala di attesa osservo e ascolto. E’ il suono dei beep a regolare i movimenti di medici e infermieri. Hanno l’orecchio allenato, si vede, parlano tra loro, prendono il caffè al distributore, si scambiano cartelle cliniche, come se quei beep di sottofondo non li riguardassero, ma poi una lieve, impercettibile variazione del suono li allarma e si precipitano. Altre volte, invece, un beep sobbalza, impazzisce, si fa stridulo fino quasi a strozzarsi, tu correresti a vedere, sudando per la preoccupazione, e invece loro no, si voltano solo un attimo in direzione di quel beep, ma si tratta solo di un attimo, niente di più. E’ un linguaggio in codice, questo dei beep, è come un alfabeto morse, non è l’intensità dei beep ad avere un significato, no, è il ritmo, che però è molto, molto più difficile da decifrare. E poi di ritmi ce ne sono tanti, non basta capire che è cambiato, è necessario riconoscere il ritmo nuovo. E’ questa la parte più difficile. Ogni beep è un neonato, è la sua voce, sono le prove generali per quando parlerà davvero, adesso è solo un beep, poi sarà mamma, papà, fame, cacca. Il fatto è che io non li so distinguere questi beep, mi dispiacerebbe molto se Chiara beeppasse e io non mi accorgessi che era lei. A Chiara è stata applicata l’ipotermia,

ècome se fosse stato ibernato l’intero organismo per evitare che il cervello continui a lavorare, perché è lì il problema, Chiara è rimasta troppo tempo in asfissia. Tre giorni in ipotermia e poi vedremo, ha detto il dottore. Vedremo se ce la farà o no. Io avrei voluto dire tante cose e dentro di me le ho pure dette, ma a lui ho detto solo... fatela vivere, come sarà sarà, ma fatela vivere...

Si toglie tuta, calosce e cuffia. Vanno via le luci blu. Ritorna ai medicinali che sono sul tavolo.

Scusate ma l’avete portata a Roma? Questo lo dice sempre Gardenia, quella dell’ultimo piano, lachiamano così perché ha il pollice verde e si prende cura delle due piante che stanno nell’androne del palazzo, le innaffia, cambia la terra, toglie le foglie vecchie e piange quando ogni tanto sembra che stanno per morire. Da quando è arrivata Chiara, però, si occupa anche di lei, strano, dicono gli altri, quella ha sempre pensato solo alle piante, per questo non si è mai sposata. In verità, con noi è stata onesta, un pomeriggio è venuta per il caffè e ci ha detto... io a Chiara le voglio bene come a una petunia... poi ha guardato tutti i medicinali in fila sulla tavola e ha aggiunto... ma voi dove le prendete tutte queste specie di concime? Per questo motivo evitiamo di lasciarla sola con labambina. Dunque, Gardenia è convinta che dobbiamo portare Chiara a Roma, perché là ci sono i migliori specialisti, mentre qua, dalle parti nostre, sono tutti una manica di ladri, si fottono i soldi e non risolvono niente, a Roma, invece, lo sapete perché ci stanno i migliori specialisti? Perché ci sta il Papa... uh, Gardè, e che c’entra il Papa? C’entra, c’entra. Il Papa, quando non si sente bene, mica si può mettere a fare il giro dell’Italia per trovare un medico buono. La signora Audino, dal suobalcone sul marciapiede di fronte, fa invece il tifo per Milano, perché quando i problemi sono seri


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solo a Milano si possono risolvere, per esempio le tonsille di mio figlio… le cheee? Le-ton-sil-le! Signora mia se si trattasse pure per Chiara di tonsille, comunque terremo presente il consiglio, appena le vediamo poco poco gonfie, le tonsille dico, facciamo subito il biglietto. Poi ci sono i cosiddetti transoceanici... scusate ma l’avete fatta vedere in America? Che detta così sembra che la dobbiamo portare in processione per le strade di New York. Questa tendenza, chissà perché, si concentra soprattutto nella famiglia. Zie, cugini, parenti periferici a vario titolo, tutti con il sogno americano... l’America è piena di studiosi che inventano le cure miracolose, e che ci vuole? basta bussare alla porta di uno di questi laboratori... toc, toc... scusate il disturbo signor scienziato, miafiglia ha la sindrome di West che ora, in verità, è diventata sindrome di Lennox-gastault, una forma estrema di epilessia che... uh, perdonatemi, lo vengo a spiegare proprio a voi che siete scienziato americano originale... e lo scienziato in questione si gratta un poco la barbetta da scienziato, si pulisce gli occhiali, dentro i laboratori americani il fumo appanna i vetri, si gira e senza neanche dire una parola ti mette in mano la pozione giusta, quella con l’etichetta sopra che dice… contro la sindrome di West, che diventa poi sindrome di Lennox-gastault, forma estrema di epilessia che...

eccetera, eccetera, eccetera... veramente sulla pozione sta scritto in americano, direbbe zia Saveria, ma il concetto, guagliò, è lo stesso. In queste riunioni di famiglia dopo l’America c’è Israele, ma qui le percentuali cominciano a scendere… uè so’ sempre ebrei, quelli hanno messo a Gesù Cristo sulla croce, dice uno, vabbè però qualcosa di buono pure loro l’hanno fatto, dice un altro. Poche voci isolate stanno con il Giappone e infine c’è Domenico, prozio o qualcosa che ci assomiglia, che si spende per l’Australia, perché mica so' tutta canguri quella gente là! Insomma, se escludiamo l’Africa Nera, l’Iran, l’Iraq e la Palestina, per carità là ci sta sempre la guerra, Andorra, Capo Verde e Liechtenstein perché nessuno sa dove si trovano precisamente, le cure di Chiara dovrebbero consistere in un lungo, lunghissimo giro del mondo. E io che credevo fosse già abbastanza faticoso arrivare fino a Pisa. Sì, sì a Pisa, ma perché non lo sapevate che noi andiamo a Pisa almeno una volta al mese? Nooo? A Pisa c’è l’America, proprio così, l’America, un’America tutta nostra, personale, a misura di Chiara. Si arriva con l’autostrada e non c’è bisogno dell’aereo, parliamo la stessa lingua e ci capiamo, i dottori ti guardano negli occhi e non hanno le lenti appannate, le infermiere sono dolci e ci sanno fare, con i bambini e anche con le mamme, perché la sindrome è una ma le sofferenze sono tante. La prima cosa che mi ha colpito del centro di cura di Pisa è il nome... Stella Maris... mi ricordava qualcosa, ma non riuscivo a mettere a fuoco... (va all’armadio, ne tira fuori un volante) la prima volta che siamo andati a Pisa (facendo cenno al volante) avevo ancora la citroen (torna sedersi, è in macchina e sta guidando, si rivolge a chi gli sta affianco) senti Monica, ma questo nome, Stella Maris, a te non ti fa venire in mente niente? Nooo?sai invece a che mi fa pensare? Le colonie, sì quelle di quando eravamo piccoli, adesso mi sembra che non esistono neanche più, le colonie al mare, quelle delle suore... non te le ricordi? Ce ne stavano tante, io non ci sono mai andato, ma mi ricordo un sacco di compagni miei delle elementari che ci andavano, un mese, quindici giorni, non si divertivano molto, perché c’erano le suore e poi, a quell’età, tu vuoi stare ancora con i tuoi genitori. Erano posti tristi. Tu pensi che questo sarà un posto triste? Eh, lo so che non è una colonia, ma il nome, mi stavo riferendo solo al nome. Che sta facendo Chiara? Dorme? Già, se non stesse dormendo si sarebbe fatta sentire, invece se dorme, non piange, e abbiamo la speranza di arrivare senza un principio di esaurimento nervoso. Però, siamo diventati bravi con il Rivotril, eh? E’ una questione di tempi, con l’ultimo


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boccone mi sembra perfetto. Prima no, glielo davamo troppo presto, si addormentava che ancora stava masticando, il fatto è che non sapevamo quanto ci avrebbe messo a fare effetto su di lei. L’ultimo boccone è giusto, il tempo di ingoiare e dorme. E’ così per tutte le cose, non credi? la perfezione non è mai veramente assoluta, no, è sempre il risultato di una serie di tentativi. Anzi, è solo l’ultimo tentativo quello che ti dà l’idea della perfezione, quando in pratica hai deciso che di tentativi non ne farai più. Che c’entra tutto questo con il Rivotril? Non lo so, forse niente, o forse perché anche noi, a forza di tentativi, siamo arrivati ad una perfezione, quella del Rivotril nell’ultimo boccone. Sì, il Rivotril nell’ultimo boccone di Chiara è la nostra perfezione, la nostra perfezione quotidiana, capisci? Trovare la propria perfezione in un piccolo, banale, atto quotidiano

èsicuramente uno scherzo della felicità. Che dici? ci fermiamo al prossimo autogrill? Se si sveglia e si mette a piangere un caffè non ce lo prendiamo più.

Posa il volante che aveva tra le mani

Sì, è vero, tutti i bambini piangono e tutti i bambini, quando piangono, ti fanno perdere la testa. C’è il pianto a sirena, quello a singulto, quello a strascico, quello disperato, quello provocatorio e sghignazzante, quello esplosivo, quello sommesso ma lunghissimo, quello con il regolatore di volume incorporato, il pianto del sonno, della fame, della cacca, della pipì, della pipì e la cacca insieme, del giocattolo che non funziona più, del ciucciotto sparito, del fratello assassino, del televisore troppo alto, de lo voglio anch’io quello lì che ha in mano la mamma, ma tesoro è un coltello, non importa il pericolo è il mio mestiere! Sì, è vero, tutti i bambini piangono e ogni pianto si può ridurre a due categorie di pensiero: voglio qualcosa o non voglio qualcosa. Per noi è diverso. Chiara riesce a riprodurre contemporaneamente ogni tipologia di pianto. Chiara su… (schioccando in continuazione le dita), guarda, guarda papà che fa? E’ bella Chiara, è bella… no, no, no e chesono tutte queste lacrime a papà? Mamma mia quando piangi e come diventi brutta, brutta diventi e invece tu sei bella, è vero? È vero che sei bella? E fammi vedere quanto sei bella? E fallo vedere a papà? E lo sai quand’è che diventi bella? Quando ridi, ridi a papà, ridi e soprattutto non piangere, perché quando piangi diventi brutta… e questo già l’ho detto… (tira fuori uno di quei sonaglini che servono a far giocare i bambini) senti, senti a papà, senti… senti che fa papà con questo… (fa suonare il sonaglino, fischiettando un motivetto e scimmiottando goffi passi di danza; aumenta sempre più la velocità in modo parossistico, fino a fermarsi stremato e respirando affannosamente; il respiro affannoso gli fa venire un’idea: modula il respiro stesso per renderlo più profondo e prolungato, poi comincia ad assumere l’atteggiamento e la postura di uno scimpanzé, stando attento ad essere più ridicolo e buffo che pauroso; atteggia anche la voce come si conviene) io sonoil goooriiillaaa e lo sai come faccio io? Io faccio così… (imita il verso del gorilla e di tutti gli animali che verranno), ma posso essere anche… una gallina…e ora chi arriva? (procede sempre più spedito e sicuro di sé, imitando il verso degli animali) Il cane, il gatto, il leone, la tigre, l’asinello e il cavallo,la mucca, il gufo, il ragno (si ferma di colpo, non ha la minima idea di come imitare il verso del ragno e affannosamente cerca nuovi animali, finendo per elencare tutti quelli dal verso improbabile) la… la… la… zanzara! No, no… volevo dire… lo stambecco, no, no… la talpa, no… lafarfalla (sempre più disperato), il ghiro, la zebra, il fagiano, il cammello, il salmone, la sogliola, lo spa-spa-rviero, lo spà-spà-ntero… lo spàntero! (a questo punto intuisce che è meglio inventarne di animali, per poterne anche inventare liberamente il verso, sembra aver ritrovato la sua sicurezza) lo


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spàntero fa… (verso dello spàntero), poi ecco arrivare il… fibonio che… vola… sì, sì, vola il fibonio (verso del fibonio) e infine la regina di tutti gli animali, ecco la ca… ca… carbonara! (finisce qui, di colpo, il gioco degli animali, per la stanchezza e per averla detta grossa: la carbonara, ne è consapevole, non potrà mai essere un animale) Niente, il pianto di Chiara non teme abitatori disavane e foreste tropicali. Noi non sappiamo perché pianga, lei non riesce a dirlo, non può mandarci nessun segnale e noi siamo così, così impotenti. Il suo pianto è come una mano invisibile che spegne l’interruttore della luce in tutte le nostre stanze, ovunque ci troviamo, qualunque cosa stiamo facendo, veniamo risucchiati, una telefonata, una corsa in bagno, la sigaretta sul balcone di casa, la giustifica di Marina per la scuola, la lampadina fulminata, la lavatrice, lo zucchero caduto in cucina, perfino avvitare il tappo di una bottiglia, in quel momento, diventa una montagna, un’enorme montagna da scalare. Di notte, poi, la montagna cresce, Chiara piange d’improvviso, lacera il buio e il silenzio, come una scarica da milioni di volt brucia i nostri residui di sonno, noi sappiamo perfettamente cosa fare, siamo una squadra piccola ma ben organizzata. Ci trasferiamo qui, in cucina, le palpebre appiccicate come gommalacca, Chiara sgambetta oppure al contrario è rigida, ferma come una lastra di marmo, una lastra di marmo sonora, però, mentre la cucina diventa la nostra corsia di terapia intensiva notturna. Di giorno questa è una cucina come le altre, ci mangiamo, ci guardiamo la televisione e qualche volta ci litighiamo anche, come tutti, ma di notte è in cucina che sperimentiamo soluzioni e misuriamo la nostra resistenza. Da bravi specialisti, cominciamo ad analizzare le possibili cause del pianto, poi, proprio come fanno i bravi specialisti, tiriamo a indovinare, ci inventiamo soluzioni, di solito alla terza o alla quarta facciamo centro. Chiara sbadiglia, è questo il segnale atteso, la lancetta grande dell’orologio ha fatto almeno due volte il giro dell’intero quadrante, dopo lo sbadiglio arriva il colpo di testa all’indietro e il totale, completo, irrigidimento. E’ fatta! Anche per stanotte è andata. Il nostro codice rosso è rientrato, tra poco sarà l’alba. (guarda la caffettiera ormai pronta) Ma si potrà fare il caffè in una terapia intensiva? Forse no. Meno che mai fumare una sigaretta. Apro la finestra del balcone e metto un piede fuori, conto i rintocchi del campanile, quasi le cinque, mi giro verso i fornelli, ma sì, è ora che questa torni ad essere una cucina e mentre metto su la caffettiera (dà un’ultima stretta alla moka e la sistema sui fuochi, poi accende, intanto nelle tazzine mette lo zucchero) con la sigaretta prontanella mano destra, alle cinque e tre quarti del mattino, mi chiedo… esisterà mai la città dei disabili?

Infila un giubbotto multitasche, simile a quello dei pescatori, da cui pendono fischietti, penne e blocchetti con i biglietti per la riffa e in testa si cala un berretto dalla visiera rigida. Si sistema seduto al centro della cucina.

Buongiorno signò, mi lasciate le chiavi? Come chi so’? Parcheggiatore abusivo regolare. Abusivo perché non dovrei esserci e regolare perché invece ci sto, regolarmente, mi trovate qua tutti i giorni, festivi compresi. Allora me le lasciate queste chiavi? Ah, non siete sicura di parcheggiare. Ma dove dovete andare? Via Luminalette? E’ semplicissimo, vi spiego in due minuti. Allora, proseguite diritto per di qua, proprio qua davanti a voi. Signò ma voi fusseve nu poco cecata? Non

èche per caso dovete andare a piazza Cataratta o a vicolo della Retina? Sicura? Guardate che Luminalette serve per stare tranquilli, per non avere le convulsioni. Vabbè, vabbè, se siete sicura voi. E’ la prima volta che venite qua? Eh, si capisce, non avete le idee chiare. Confusione mentale?

Improvvisa assenza di orientamento? Deficit della memoria prolungato? No, no, signò, non vi


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alterate, uno le domande le fa per sapere, mica per innervosire! Comunque una visita ai Magazzini Tavor la consiglierei… vabbè, vabbè, ho capito, come non detto… via Luminalette… allora proprio di fronte a voi ci sta viale Depakin, quello lo dovete fare tutto fino alla fine, però… però dalla settimana passata ci stanno Crisi in corso, stanno facendo un attacco tonico-clonico-mioclonico alla rete epilettica. Allora, fate così, appena imboccato viale Depakin fate subito una deviazione a destra in via Zarontin, attenzione che quello è sciroppo, si slitta come niente, ce l’avete le catene anticonvulsive? Vabbè, procedete piano e con attenzione, eventualmente in caso di deficit di attenzione all’angolo vedete un distributore di Ritalin e Rubifen, se è necessario fate rifornimento.Uscita da via Zarontin percorrete la parallela di viale Depakin, a un certo punto vi rimettete proprio su viale Depakin e subito a sinistra su via Topamax… signò Topamax sono compresse, e pure grandi, allora bisogna salire e scendere, salire e scendere con la macchina… brava, brava, assomigliano un poco alle montagne russe, solo che qua si chiamano Cunette di West... la sindrome, signò, la sindrome di West, che avete capito?, sceriffi e indiani non c’entrano proprio niente… Per carità, io mica me la sto prendendo con voi, io me la prendo con tutte le persone normali in genere. Sapete da quanti anni sto seduto su questa sedia? Da sempre. Sono nato così e sempre qua sono stato, devono tutti passare davanti a me. E i normali subito li riconosco, spavaldi e sicuri di sé… e poi si schiattano una ruota sulle Cunette di West, perché, mia cara signora, il problema è proprio questo, di limiti ce ne sono per tutti, dico bene? Torniamo a noi. Dopo cinquecento metri vi trovate un semaforo, aspettate il codice verde per passare e svoltate a destra. Quella si chiama via Rivotril. Mi raccomando piano, a passo d’uomo e senza farvi sentire con il clacson, là dormono tutti, è una strada soporifera, però se vi accostate un attimo una capatina alla Maison du Rivotril ve la consiglio, comprate un distillato, pure uno piccolo, di base diciamo, vi portate un souvenir e ve lo trovate a casa. Signò, sentite a me, è meglio di una Filtrofiore Bonomelli. Proprio in fondo a via Rivotril sbucate su piazza Rufinamide, la riconoscete subito perché tutto intorno ci stanno i canali di sodio, è una piazza nuova, quella però per voi è zona a traffico limitato… vabbuò vuje smerzate nu poco a capa e ogni tanto faciteve venì na mossa, accussì ve pigliano pure a vuje pe n’handiccapato… (ride) uh, scusate, signò, vi siete offesa? E non dovete… qua handicappato è la stessa cosa che dire cittadino, perché da voi no? Comunque, su piazza Rufinamide dovete chiedere, via Luminalette è una stradina piccola piccola e stretta stretta, perché la usano solo bambini piccolissimi. No, no, con la macchina non ci riuscite a entrare. Sentite a me, parcheggiate qua e facitavelle a pere che arrivate primma. Se mi lasciate le chiavi, la macchina ve la faccio spostare da mio figlio. Si chiama Enrico, tiene la sindrome di down ma nunn ‘a maje schiattate ‘na rota!

Dunque, torniamo a noi. (si libera di giubbotto e berretto) Non hai risposto alla mia domanda. Va bene, mi hai regalato un giocattolo, rotto per giunta, ma hai dimenticato di lasciarmi le istruzioni. Tipico di certi padri, d’altronde. Mettono un regalo davanti al figlio, poi aprono la porta di casa ed escono, lavoro, impegni, relazioni sociali, traiettorie lontanissime e intanto il bambino, seduto sul tappeto al centro della stanza, con il suo giocattolo tra le mani che non sa come funziona. A tarda sera il padre ritorna, stanco, molto stanco, accarezza il suo bambino e chiede se gli sia piaciuto il giocattolo nuovo, il bambino non sa rispondere, forse se fosse riuscito a farlo funzionare avrebbe una risposta, se fosse riuscito a farlo funzionare ci avrebbe giocato e allora sì che saprebbe dire se


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gli è piaciuto oppure no. Ma come?, lo rimprovera il padre, io ti ho voluto mettere alla prova, toccava a te farlo funzionare, era nel potere del tuo libero arbitrio. Il bambino non conosce questa parola, sa solo che si ritrova tra le mani un giocattolo che non funziona, è stufo e va a letto, ma il giorno dopo ricomincia ad armeggiare e prima poi compirà il miracolo di farlo funzionare, quel suo giocattolo. Già, il miracolo. Pur riconoscendo la tua onnipotenza, devo avvertirti che il miracolo lo fa il bambino e non il padre, cioè noi e non tu. Vedi, per noi il miracolo è che Chiara sia viva e questo primo miracolo ne ha fatti nascere altri, abbiamo visto le nostre vite per quelle che sono, difetti, aspettative, fallimenti, amore, odio, già… noi siamo uomini, che credi?, soffriamo per amore e non sempre sappiamo rinunciare all’odio, è la nostra umanità, un altro dei tuoi regali, se vuoi. Chiara ci mette a nudo e lo fa senza parlare e senza muoversi, non è un miracolo questo? No, non è una domanda che faccio a te, la faccio a me stesso, la faccio a quelli che mi stanno intorno, che ogni giorno mi propongono una ricetta risolutiva, né io né loro possiamo rispondere e in questo un po’ ti assomigliamo, no? Il fatto è che da quando è nata io cerco il silenzio. Nel cuore della notte, una notte come questa, quando lei finalmente dorme tranquilla, nel silenzio sono io a piangere, da solo, con la testa nascosta nel cuscino, strano no? In notti come questa sono io a piangere. E a chiedere a te, sì, proprio a te, mica agli amici, mica alla nonna, mica alla dottoressa di turno, a te, proprio a te, a chiedere aiuto. Dio, Dio mio aiutami, io non ce la faccio più. Ma poi il mattino dopo sono di nuovo lì, ad armeggiare con il mio giocattolo rotto e il miracolo ricomincia a compiersi, torno a vedere che siamo niente su questa terra e allora… allora, mi dico, tanto vale sorridere e fare il bene che possiamo fare. Ah, un’ultima cosa, non ti chiedo di mettere a posto tutto, di aggiustare tu il mio giocattolo rotto, ma solo di darmi la forza, quella che serve per andare avanti, per non lasciarsi sviare da ciò che è futile e banale. Solo questo. Nient’altro. Tu sei Dio e questo lo puoi fare, no?

(suona il campanile) Le cinque e tre quarti. E’ quasi ora dell’alzabandiera. In questa casa l’alzabandiera è un rito. Consiste in questo, scegliere la bandiera del colore giusto (prende dal mobile tre pezzi di stoffa, uno giallo, uno arancione e uno rosso) e annodarlaall’asta(tira fuori una mazza di scopa). Poi sistemare il tutto nel portaombrelli, quello che sta di fianco alla portad’ingresso e la bandiera resta là per tutta la giornata. (esegue, annodando i tre pezzi di stoffa alla mazza di scopa e infilando quest’ultima in un portaombrelli, tirato fuori anche questo dalla credenza) Ogni bandiera un colore. Ogni colore è il codice di difficoltà che prevediamo nel corsodella giornata. Giallo (indica la bandierina di quel colore), il codice giallo è la scala più bassa, Chiara non piange, più che altro emette versi dolci e prolungati, ci sta chiamando e vuole alzarsi. Eh sì, la giornata si annuncia leggera, nessuna particolare difficoltà all’orizzonte, possiamo programmare le prossime ore senza alcun affanno, intorno al tavolo della cucina l’atmosfera è distesa e ogni cosa appare al suo posto, io e Monica ci scambiamo un fuggevole sguardo d’intesa, il latte sembra più latte, il caffè più caffè, i biscotti hanno ancora il profumo del forno, per tutti questi motivi il codice giallo è detto anche codice Mulino Bianco. Arancione (indica la bandierina di quel colore), Chiara emette versi misti a pianto, forse vuole giocare, forse ha fame, forse… il dubbio ci dice che qualcosa non andrà per il verso giusto, i nostri programmi possono essere in parte compromessi, il codice arancione, perciò, è chiamato anche… vedimme nu poco… si tratta di aspettare, intanto facciamo colazione, parliamo a bassa voce, Marina sorride appena, io e Monica ci lanciamo sguardi


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preoccupati. Questo è il secondo livello della scala. Rosso (indica la bandierina di quel colore) terzo livello… ‘o terremoto… Chiara apre gli occhi e piange nervosamente, annulliamo tutti gli appuntamenti, spediamo Marina a scuola con tre quarti d’ora di anticipo, io e Monica non ci guardiamo neanche di striscio, sappiamo perfettamente che tutto il giorno sarà così, un unico pianto lamentoso che niente potrà interrompere, nessuna carezza, nessuna nuova posizione, nessun abbraccio, niente di niente. Non sappiamo che fare, non riusciamo a valutare, schizziamo da una parte all’altra della casa come se fossimo indaffaratissimi, come se avessimo la soluzione nascosta in qualche angolo, dietro una porta, sotto un tavolo, tra le maglie in un cassetto, come se l’avessimo lì a portata di mano e dovessimo solo cercarla, trovare il posto giusto dove si è andata a ficcare. Ma non è così, non è assolutamente così, ci muoviamo frenetici, urtandoci a volte e senza dire una parola, Chiara continua il suo pianto, noi facciamo le azioni di sempre, spazzolino e dentifricio, letto rifatto, pigiama a posto. Nessuno parla, il respiro è ridotto al minimo, io vorrei solo tapparmi le orecchie, come quando all’improvviso un antifurto parte dalla casa di fronte o da una macchina parcheggiata di sotto. Vorresti scendere in strada e prendere a calci la macchina, sfondare la porta di quell’appartamento e staccare ogni filo elettrico che ti capiti tra le mani. Vorresti, ma non puoi. Puoi solo tapparti le orecchie per non sentire. E se anche Chiara fosse un antifurto? Cercherei sul manuale delle istruzioni come si fa a spegnerlo… niente... allora esasperato lo prendo a martellate, lo sradico dal muro, lo butto a terra, ci salto sopra con i miei scarponi da trekking… io non ho mai avuto scarponi da trekking, ma non importa… ci salto sopra con i miei scarponi da trekking, una volta, due, tre volte… non smette, non smette… afferro una tanica di benzina, gliela svuoto completamente sopra… un accendino, mi serve un accendino (si fruga nelle tasche del pigiama e ne estrae un accendino, si guarda intorno con apprensione, come se qualcuno potesse vederlo, poi lo accende)… perché piangi? Dimmi perché piangi? Dimmi solo questo. Io nonti ho mai chiesto niente. Io lo so che mi ascolti, ascolti tutto quello che dico, riconosci il tono della mia voce, le mie mani, i miei baci, anche i battiti del mio cuore riconosci quando ti appoggio sul mio petto, riconosci i miei passi quando arrivo e quando me ne vado. Quando me ne vado, perché non ne posso più. Perché noi stiamo in piedi e tu no? Perché noi cambiamo mille volte posizione e tu non riesci a tenere il collo diritto? Perché noi abbiamo un espressione del volto per ogni cosa che ci piace o ci fa schifo e tu no? Perché ti contorci come uno zombie e non muovi le braccia come tutti gli altri? Perché vuoi essere speciale? (si ferma d’improvviso, impaurito dello stesso tono che hanno assunto le sue parole, si guarda di nuovo intorno, ripone in fretta l’accendino in tasca; si avvicina alla scopa, slaccia le bandiere gialla e arancione, lascia solo la rossa) Se il codice è rosso ilsegnale deve rimanere bene in vista, come succede sulle spiagge a fine stagione, quando il tempo

èormai guasto, il bagnino alza bandiera rossa e chi entra in mare lo fa a proprio rischio e pericolo.

Da piccolo, se c’era vento o minaccia di pioggia, mia madre non mi lasciava entrare in acqua e io non capivo. Non capivo perché doveva essere sempre così gli ultimi giorni di vacanza, alzavo gli occhi al cielo per prendermela con lui ed eccola lì, proprio davanti a me, la bandiera rossa, mi voltavo verso mia madre e lei mi faceva un cenno con la testa. Sì, è proprio così, mi diceva con la testa, è per via di quella bandiera rossa che non ti lascio fare il bagno. Ogni volta che nel nostro portaombrelli compare il codice rosso mi sento come allora, la stessa sensazione di impotenza.

L’estate è finita, gli ombrelloni quasi tutti chiusi, il vento mi fa venire la pelle d’oca e io… io vorrei solo fare il mio ultimo bagno, ma c’è quella maledetta bandiera rossa…


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Ritorna al tavolo.

Il caffè. Dovrebbe essere pronto...

Apre il coperchio della macchinetta per controllare, versa il caffè nelle tazzine e gira. Poi si avvia verso la quinta alla sinistra del pubblico. Sentiamo, come all’inizio, il rumore di una porta che stavolta si apre e vediamo la luce dalla quinta aumentare di intensità. L’uomo dirà la sua ultima battuta investito da questa luce, vedremo solo la sua ombra proiettata in scena e sentiremo la sua voce.

Monica ce lo beviamo il caffè? Se si sveglia Chiara e comincia a piangere, va a finire che non ce lo prendiamo più...

Buio


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