Il saltuzza

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IL SALTUZZA

Tragedia in un atto

di ANDREA CALMO

PERSONAGGI

MESSER MELINDO, avvocato innamorato di Panfila, sorella di Polidario

MADONNA CLINIA, sua moglie

CARINA, nutrice

ROSINA, fantesca zoppa

POLIDARIO, innamorato di Clinia

SALTUZZA, villano, suo famiglio

LECCARDO, il parassita

RAGAZZO con ferale

IL PROLOGO

 (La scena rappresenta un campiello veneziano. A destra la casa di Messer Melindo, con alta­na; a sinistra quel­la di Polidario).

Il « Prologo »                  - (vestito d'armi bian­che) Volevano che entrassi batten­do due tamburi per incitar gli animi: io mi ei ho opposto. E' vero che l'autor ha bisogno di aiuto perchè è poco pratico di compor commedie; ma per una riunione di amoroso passatempo come questa, egli ve ne fa un presente. Basta a lui di­mostrare a' suoi amici quella cortesia che tiene nel petto. Ha voluto uscire dall'ordine antico, perchè, come sapete, si governa alla moderna. La commedia è piena di natu­ralità e gli scrupolosi non avranno niente da condan­nare perchè è cosa purissima e non darà noia a nes­suno. Degli recitanti non parlo, perchè appo voi saranno escusati. Non sono avvezzi in simili trame, ma vi dico che tutti, benignamente, hanno prenduto tal carico per vostro spasso. Mi resta a pregarvi che non facciate ru­more, altrimenti io vi prometto che di commedia la faremo tragedia. Basta a dirsi che partendomi vi lascio il terror di questa spada e il rimbombo di questa destra; e lo vedrete infatti, caso che voi manchiate di prudenzia. (Rivolto all'interno) Or, uscite fuori. (Il « Prologo » esce; entra Leccardo).

Leccardo                         - Io non mi trovo un quattrino e non so come farò. La casa di messer Melindo non mi manca, ma è così vecchio e debole che non tiene vini in gamba. Ho tardato un poco. Il padrone è andato a palazzo: entro, racconto delle istorie a madonna Clinia, la gio­vane si ride, ed io travaglio di mascelle al dispetto della fantesca che di continuo mugola come i gatti in gennaro. (Batte da Melindo).

Rosina                             - (dalla finestra) Oh! che ti siano «pezzate le braccia.

Leccardo                         - E tu la schiena. Apri, Rosina.

Rosina                             - Che vuoi, asino da bastone.

Leccardo                         - Non mi dir villania e apri.

Rosina                             - Il padrone non è in casa.

Leccardo                         - E dov'è andato?

Rosina                             - Che so io!

Leccardo                         - Parla piano bocca bella.

Rosina                             - Va al palazzo che lo troverai.

Leccardo                         - Voleva aiutarti un poco e tu mi discacci.

 

Rosina                             - Il padrone ha ordinato che, venendo, lo vadi a trovare a palazzo.

Leccardo                         - Io ci andrò, ma prima vorrei...

Rosina                             - Ah! tristo! Vorresti rimpinzarti il ventre. Entra con il tuo malanno.

Leccardo                         - Taci, dolce Rosina; lo sai pur ch'io t'amo. Dimmi, mia bella, galante Rosina non vuoi che facciamo colazione insieme?

Rosina                             - Io non ci ho appetito, ma entra ch'io ti voglio trattare benissimo.

Leccardo                         - (piano) S'io non avessi lingua guai a me. Non vi par che sia raddolcita la pantera? (Entra nella casa di Melindo; appare in scena Polidario).

Polidario                          - Vieni fuori Saltuzza e vieni meco. Saltuzza (entra da sinistra) A son chive, paron, che voliu?

Polidario                          - Tu sai ch'io t'amo.

Saltuzza                           - Cancaro s'al so.

Polidario                          - E conoscendoti fedele voglio adoperarti in questo mio importante caso.

Saltuzza                           - A no so favelar tante novele mi; disi pure: fa cussi, e lasse po' che mene la polenta a me modo.

Polidario                          - Ti conosco Saltuzza e per questo ti ho fatto venire a me. Tu sai chi è il vecchio Melindo, l'av­vocato nostro vicino.

Saltuzza                           - Sior sì ch'ai cognosso.

Polidario                          - Egli ha, come tu sai, una bellissima mo­glie e giovine.

Saltuzza                           - Potta s'al so! E che toco de femena, paron.

Polidario                          - Tu devi sapere che da sei mesi le faccio l'amore, e tanto l'amo ch'io dubito di me stesso, se di brieve da lei non sarò corrisposto.

Saltuzza                           - Ben paron, e eia ve fala niente de ri­sposta?

Polidario                          - Sì, ma per farti intendere il tutto, ascolta. Non so se conosci la sua fantesca zoppa, la qual tiene le chiavi dei suoi segreti.

Saltuzza                           - Sì, ma tasi e lasse el saco in spala a mi solo; se non ve meto su la bona strada, non mi tegnì par prode. Mo\ a mi, la me fa bona cera la zotta.

Polidario                          - Dici il vero, di grazia?

Saltuzza                           - Si, a fé' de compare de san Zuane.

Polidario                          - Orsù adunque, andrò fino alla piazza; tu fa sì che la cosa riesca e vedrai che da me avrai buon merito.

Saltuzza                           - Ande pure.

Polidario                          - Addio ch'io vado, il mio Saltuzza. (Via),

Saltuzza                           - (solo) Cancaro el me paron, a no elo innamora in così bela femeneta, e in sì bel voltazzo che pare una luna tutto tondo. So mario, un scargaioso sbolso, el pare un corbato strupià. Nessun altro che mi poi cavar de fastidio el me paron. Lo voglio servire da valente, e me penso de combinar la pi alta noela del roerso mondo. Basta che sipia d'accordo con la massera; a voio co ghe parlo a smolesarla, e farghe carezze e lodarla e tegnir dalla sua. Ma ecco messier Melindo; a ghe voio andar incontro e salutarlo; ma el vien par­lando da so posta. Voio un po' ascoltare drio de sta androna. (Si nasconde).

Melindo                           - (entrando) A zurerae mille volte al sacra­mento mio e per le sante die vangele, che no ghé pi gran dolor, affanno, desperazion tormento travaglio fastidio passion e angoscia quanto l'esser innamorilo. Lezi, studia, varda autorità de dottori, anche Verzilio: « De Consolatio-ne pastoribus », per uscir de materia. O bella arguzia, bel aiuto, bel remedio! Chi me dise che me devo distogliere, perchè ormai il sole va a monte e che me manca la virtù direttiva, primitiva, sustentativa. Buffali, intri­ganti, invidiosi, maligni e gaioffi! Che sa lori de ciò che navega in tei mio corpo?

Saltuzza                           - (scoprendosi; piano, tra se) A me voglio discovrire. (Forte a Melindo) Die v'hai, messier Melindo.

Melindo                           - Frar bondi, o Saltuzza, fio mio. Onde se va?

Saltuzza                           - A vago co fa quei che no ga gniente da fare; e vu dove andeu?

Melindo                           - Mo, che soio mi. A son vegnuo da palazzo e intra una cosa e l'altra a son tanto storno, che no posso tegnir la testa in so.

Saltuzza                           - Mo, a vel credo mi...

Melindo                           - Che distu, diascacce? A digo dei diversi negozii che accade. Ben, frar, come se sta a casa?

Saltuzza                           - Mo, se sta ben.

Melindo                           - Missier Polidario, elo gaiardo?

Saltuzza                           - Po, come un lievrato.

Melindo                           - Madonna Panfila, anche eia sta ben?

Saltuzza                           - No parie, che la par un agnolo del pa-raiso.

Melindo                           - A ti, no te domando, perchè a te vedo prosperoso.

Saltuzza                           - No favelé, a magno tre volte la mattina, do al dopodisnare, e una co vago a dormir, cussi per mio piacere. Coi far servizi a tuli so ben vogiuo, come se fosse un can che no morde.

Melindo                           - Ah, eh, ah, pota de mia bisnona. Chi no te vorave ben? Questi i xe famegi da carezzar, e no certi balordi che no sa far un sofrito si no i ha tre massere par de drio.

Saltuzza                           - O missier Melindo, no tanti baston, ch'a porto guarnelo.

Melindo                           - Sicché madonna Panfila par una rosa, una viola e un carubin?

Saltuzza                           - La è anca pi bela: tal fià a zugon tra noi du come se fossimo mario e moiere: e sempre la sgrignolizea...

Melindo                           - Fievre ve bata! E parche no me ciamé anca mi par terzo, che fazemo una rosina in saltarello?

Saltuzza                           - No, no. El basta un matto par casa. Orsù, a son sta troppo qua; me voli comandar niente? Dise-melo, si no a vago.

Melindo                           - Si credesse ca ti fossi un omo... Basta!

Saltuzza                           - A ghe son, messier Melindo, affé de com­pare.

Melindo                           - Eh! so ben ciò che digo mi, co digo torta. 38

 

Saltuzza                           - E mi a ve respondo ca a son anca pi de omo. Disime pur sa voli qualcossa.

Mexindo                          - Sì voio... Si vorave... Oime; si voio, Sal­tuzza frar...

Saltuzza                           - Ma perchè non disio! Son appareccià per 8eguirve.

Melindo                           - Te '1 posso dir, dolce fio caro, e infidarme in ti, caro occhio?

Saltuzza                           - Si per quante anconete xe atacà sui can-ton dei muri.

Melindo                           - A son innamora a scotta deo.

Saltuzza                           - fCome, cancaro. Ve gavi innamora scotan-dove un deo?

Melindo                           - E digo mo, così all'improvviso, sastu?

Saltuzza                           - An, an, si, si, cosi sbefezando?

Melindo                           - Anzi, da seno. Un fuogo in fra carne e pelle me brustola, talmente che no magno, no bevo, no dormo, e no studio che staga ben, con grandissimo mio danno e deterioramento della vita e dell'onor; ma de quello no ghe bado.

Saltuzza                           - Mo, che ve go da dire, caro signore? E in chi pò?

Melindo                           - A me vergogno, fio daben, a dirtelo.

Saltuzza                           - E perchè ve volio svergognare a dirlo, sa voli che v'aiuti?

Melindo                           - Che soio mi? Ho paura, che ti no te me fassi nn rabbuffo.

Saltuzza                           - Sio forsi innamora un poco de mi?

Melindo                           - No diavolo! «Absit tanta sporchisia! ». Se ti m'imprometti la to' fede da real omo, de servirme, a te lo dirò.

Saltuzza                           - A v'imprometto, par sta man de Cristian batezzà cha ve tignare de segreto e ve servirò da omo dabben, perchè a son certo che no sari nn ingrato.

Melindo                           - Ingrato, Saltuzza, mai so sta, ne voio es­ser, anzi prodigo e generoso.

Saltuzza                           - Grazie. Comandeme pure! Ben chi eia sta femena, o altro che disi?

Melindo                           - Ascolta, speranza d'oro, anema mia: la xe madonna Panfila, sorela del to paron.

Saltuzza                           - A sì donche innamora in madonna Pan-fila?

Melindo                           - Ma sì; messier si, de essa, cuor mio dolce.

Saltuzza                           - Potta mo! A me fé pecca, ma a ve voio aiutare.

Melindo                           - Caro, bello Saltuzza. Felo, caro messer mio, e sarò vostro schiavo.

Saltuzza                           - Tasi, no avrì pi la bocca. Ve troverò dopo el disnar, e zercherò de darve una bona noela.

Melindo                           - Tiò, fio dolce, Saltuzza amorevole. Questo è un scudo; comprate qualcossa per amor mio e per segno de caritae.

Saltuzza                           - Che feu? A voli darve pensiero talmente?

Melindo                           - Fa quel che te piase, mo, a te priego, fa che mi te sia recomandao.

Saltuzza                           - Sangue de gramegna, farò meio che si fusse vu medesimo, si Die m'iti. Ma reste, adesso scapo. (Esce).

Melindo                           - Orsù, va in bonora. Oh! che timon suffi­ciente ga trova la mia nave! Me gera salta el grizzolo de far un sonetto par madonna Panfila, ma ormai xe tardi, e pian piano m'invio par trovar certi avocati. (Via).

Leccardo                         - (uscendo dalla casa di Melindo) Davver fa bisogno, a un par mio, tener amicizia più con servi e fantesche, che quasi con li padroni. Oh! come la Eoppa mi ha dato bene da colazione! Penso certo di poter durare fino al disnare, se la fatica non fosse causa, che, al mio dispetto, convenisse pigliarmi un rinfrescamento all'osteria della Torre. (Via).

Saltuzza                           - (rientrando; a Rosina che appare sull'uscio della casa di Melindo) Zota, bondiazzo, mo che fetu, cussi sola su l'uscio?

Rosina                             - (sull'uscio) La zoppa ti porti scalogna, im­piccato che possi essere.

Saltuzza                           - Sì, ma dove vorae mi, traditora.

Rosina                             - Sì, stanimi a burlare, con tutto quello che soffro.

Saltuzza                           - Te ghé così bona cera! Senti, cara Rosina, te fé male a no favellare alla to parona per lo mio paron, e guadagnane una cotola e la riconoscenza del più dabben omo del roerso mondo.

Rosina                             - Io voglio essergli obbligata. Le ho parlato, ma non vuole andare tanto in fretta.

Saltuzza                           - Ben, come la fetu con el to Leccar do? So che sì do gran amortelà e che la fé andare come voli.

Rosina                             - Anzi gli voglio male. In altra parte, Sal­tuzza, è rivolto il mio cuore, ma io so di non essergli degna. Dimmi, che fa messer Polidario? Di grazia, Sal­tuzza, raccomandami a lui.

Saltuzza                           - Ma sì, no favellare del ben che '1 te voi! Noi fa altro tutto il diazzo che averte in bocca.

Rosina                             - Anima mia, digli che non dubiti. Al tutto mi dispongo che egli sia servito.

Saltuzza                           - O che sia benedetta quella lengua. Ti sì bela, Rosina.

Rosina                             - Lasciami stare, non son per te.

Saltuzza                           - Per questo a te lodo. Te saludo parche no so che ombra, ehe sponta de là. (Via).

Polidario                          - (entrando) Io sto cercando Saltuzza, il mio famiglio, ma la fortuna non vuole che mi capiti tra i piedi. Eppure doveva portarmi la risposta di quanto gli avrà detto la zoppa.

Rosina                             - (tra se) O Dio! non poteva presentarsi più opportunamente la più desiderata cosa dell'anima mia e del cuor.

Polidario                          - Rosina mia, Dio ti salvi.

Rosina                             - A Dio, il mio caro Polidario.

Polidario                          - Ormai sarebbe tempo, ch'io per mezzo tuo, uscissi di sì grave tormento. Parlami di madonna Clinia, tua padrona, dolce la mia Rosina. Tuo schiavo sono. Pi­glia questi denari con i quali potrai uscirti di povertà ed io d'impaccio.

Rosina                             - Polidario, anima mia dolce, non pensar ch'io prenda da te cosa alcuna in premio. Non furono le ric­chezze che mi mossero a far cosa che ti sia gradita. Niente per me è più prezioso che la dolcezza del tuo aspetto e la piacevolezza delle tue parole.

Polidario                          - Ti prego, se mi porti amor, accettali.

Rosina                             - Non voglia Dio ch'io accetti i tuoi denari, né per ora altra cosa voglio da te. Quando fia tempo, ch'io ti domanderò cosa a me più cara. Allora conoscerò se avrai grata la servitù mia. Credi tu che sebbene rara­mente ti veda, di te io sia dimenticata? Io ho buonissime nuove.

Polidario                          - Beata lingua.

Rosina                             - Questa sera il padrone cena fuori e sarà molta ora di notte prima che ritorni.

Polidario                          - O me beato.

Rosina                             - Ritorna fra poco e io ti condurrò nelle più segrete parti della casa. Ho pensato come tu possa en­trare senza dar sospetto.

Polidario                          - E' questo un ottimo pensiero.

Rosina                             - Ascolta. Sai Leccardo, il parassito, che è spenditore di casa?

Polidario                          - Sì lo conosco.

Rosina i                           - Va e viene come egli vuole.

Polidario                          - Bene, e poi?

Rosina                             - L'altro giorno si partì scamiciato più cotto che crudo e lasciò qui una veste antica; s'io a te la dessi, anche se è unta e sporca, e tu con quella vestigia ve­nissi?

Polidario                          - Bene, non si poteva pensare meglio.

Rosina                             - Aspetta un momento, sono a te. (Esce di corsa).

Polidario                          - Io ti son schiavo, o Venere, madre san­tissima che mai abbandoni i tuoi fedeli. La fortuna mi soccorre benigna.

Rosina                             - (ritorna portando la veste di Leccardo).

Polidario                          - A te sempre resterò obbligato, cara la mia sorella.

Rosina                             - Polidario mio gentile, torna fra poco e solo allora mi sarai obbligato.

Polidario                          - Rosina, prepara le cose, sì che non inter­venga alcuno errore! In un attimo son da te. (Via).

Rosina                             - Addio;... tu questa notte da me non partirai e proverai quanto valga l'ingegno di donna innamorata.

Saltuzza                           - (entrando, a Rosina) Crozzola mia, mo' che fetu mala gobba?

Rosina                             - Ti caschi sopra il dosso quella di San Giobbe.

Saltuzza                           - Dime un poco, che vuol dir ancora su l'uscio?

Rosina                             - Se sapessi quello ch'io faccio non mi da­resti noia.

Saltuzza                           - Al so davanzo cha no te fare cosa da bon.

Rosina                             - So ben io. Basta che il tuo padrone non manchi.

Saltuzza                           - Cosa ditu senza pie, ne cao e senza con-clusion.

Rosina                             - Il vecchio Melindo cena fuori e ormai è l'ora dell'appuntamento. La padrona mia tutta si pro­fuma e pulisce.

Saltuzza                           - Donca eia lo speta chive?

Rosina                             - Anch'io aspetto qui.

Saltuzza                           - Ano t'intendo. Ghetu visto el me paron?

Rosina                             - Sì questo è l'accordo.

Saltuzza                           - Ben, dime un pò. Come stetu de morosi?

Rosina                             - Io aspetto l'amante mio questa sera.

Saltuzza                           - Chive, in casa del to paron?

Rosina                             - Certo in casa, non nella strada.

Saltuzza                           - Chi elo sto tosato? Dilo a mi mo, sa '1 cognosso.

Rosina                             - Non si può dirlo ora, da questa notte lo saprai.

Saltuzza                           - Oh el morbo alle strambe! A no deve saere, se è Leccardo che scartizza la lana.

Rosina                             - O tu sai male le cose. Saltuzza. Beato te se una così fatta zottarella amassi.

Saltuzza                           - Fa largo barba Lorenzo: passa un carro de delizie.

Rosina                             - Taci ch'io penso ad altro.

Saltuzza                           - Mo che pensi tu. A la morte de gatta mela?

Rosina                             - Penso, che se il galioffo di Leccardo venisse, dubito potrebbe disturbar la venuta del padron tuo.

Saltuzza                           - No se porave trovar qualche remedio?

Rosina                             - Il rimedio sarebbe, che il tuo padrone, non fosse di così poco animo.

Saltuzza                           - Voràvitu che '1 mio paron ghe desse dele bastonae?

Rosina                             - Non voglio dir così.

Saltuzza                           - E allora?

Rosina                             - Io ho pensato un'ottima medicina per guarir Leccardo di mille sue poltronerie e provveder anche al fatto nostro.

Saltuzza                           - A che modo, cara Rosina?

Rosina                             - Io vado di sopra. Tu aspetti qui il padron tuo per farlo entrare.

Saltuzza                           - E se Leccardo in fra sto mezo, arivasse?

Rosina                             - Scaccialo per amore o per forza.

Saltuzza                           - Dame pur un bon legno, e lassa l'impasso a Saltuzza ch'el farà sgombrar la campagna. Te dispiase?

Rosina                             - Anzi ti prego.

Saltuzza                           - Ma come farò? No vorae esser cognossù in tei menare.

Rosina                             - Se fossi travestito?

Saltuzza                           - Sì, ma a che modo?

Rosina                             - Vùi ch'io ti dia una gonnella e un panno in capo?

Saltuzza                           - Sì, sì, bene, dai.

Rosina                             - Aspetta, torno subito. (Va e torna) A te, Saltuzza.

Saltuzza                           - Al corpo de me pare, che me toca vedar.

Rosina                             - (gli mette la veste) Saltuzza, presto, l'ora è tarda. Chinati, non star così ritto. Non cossi, non tirare.

Saltuzza                           - Son ben co-usa?

Rosina                             - Tu stai benissimo. Lascia ch'io ti metta que­sto panno in capo.

Saltuzza                           - E la barba come anderàla?

Rosina                             - Lascia fare a me. O vedi come sta bene! Io entro in casa.

Saltuzza                           - Va pur via, che lo servirò mi. (Si fa notte).

Polidario                          - (entra, travestito con la veste di Leccardo) Ora sì ch'io posso laudar il cielo che troppo mi sono fa­vorevoli. O notte, ti ringrazio che ti sei degnata di far compagnia all'amoroso foco.

Saltuzza                           - (con un bastone, travestito da donna, semi­nascosto, tra sé) Vien pur oltre, che te farò mi com­pagnia come se deve.

Polidario                          - Pur ch'io non vada troppo tosto.

Saltuzza                           - (a parte) Che ciancia sta bestia de rosto? Mo, a te darò mi la salsa per petétolo.

Polidario                          - Chi è si grande, che non si chini in gi­nocchio per goder sì dolce frutto? Mi son acconcio e profumato con mille odori.

Saltuzza                           - (c. s.) Manca de onzarte con questo...

Polidario                          - Dubito di smarrirmi com'io la guardi.

Saltuzza                           - (c. s.) Te l'indovini che te farò smarrir e angosciare co te lo sentire.

Polidario                          - Amor, sempre tu sia lodato e Venere insieme.

Saltuzza                           - (c. s.) O mencion, ciama pitosto l'anconeta, che te salvi la schina.

Polidario                          - Non vedo persona alcuna. Voglio entrare.

Saltuzza                           - (c. s.) Al m'è tanto appresso ch'ai posso fornire da baron. (Botte, e poi via).

Polidario                          - Oimé, son morto, c'è un errore. Aiuto. (Via di corsa).

Leccardo                         - (entrando) Che diavol sarà questa sera! Ma ringraziamo Iddio, anche se sono costretto a mangiar alla veniziana con il piron, che sembre di toccar un corpo santo. Alla carlona è bello: mangiare con le mani, bere con l'orciolo. Andiamo da messer Melindo: si mangia male, ma c'è madonna Clinia e Rosina la zoppa che m'aspetta sempre. L'importante è di trovar conforme di appetito.

Rosina                             - (dall'altana) Ecco, ecco il mio carissimo bene, il mio dolcissimo signore. In tutto rassomiglia a Leccardo.

Leccardo                         - Le cose incominciano benone. Credo non ci sarà difficoltà per entrare nel castello.

Rosina                             - (aprendo l'uscio) Entra mio bene prima che la padrona esca dal bagno.

Leccardo                         - Io vengo, anima mia saporita. (Entrano in casa).

Melindo                           - (entrando in scena insieme a Saltuzza) E cussi, ti me assicuri, caro fio, che ormai son a cavalo.

Saltuzza                           - Sì; per tutti i santi. A ve spettare su l'uscio verto.

Melindo                           - E pò, che faremo?

Saltuzza                           - Andare in casa da Madonna Panfila.

Melindo                           - Mo, a che modo?

Saltuzza                           - Diàmbera, a v'ò lassa l'uscio verto.

Melindo                           - Basta, basta, mo senza scandalo, dolce frar.

Saltuzza                           - Scandalo niente. Pota, a sì pauroso!

Melindo                           - Besogna aver paura in tali imprese. Per­donimi si son importuno.

Saltuzza                           - A me smaraveio. Or su, va. Quel che è dito, è dito. Addio. (Via).

Melindo                           - E me recomando occhio mio, cuor mio dolce. Uscirò pur de sto labirinto e da sta passion. Che diavolo, tutto 'l dì carne de casa, la incorisse fina ai gatti! Ciamo el tosato e finzo d'andar par le scriture. Mo che vuol dir tanta luse in casa mia? Senti che ru­mor. Ehi! (Fischia).

Rosina                             - (di dentro) Lasciami, impiccato, traditore.

Leccardo                         - (e. s.) Chi pensavi, madonna, ch'io fossi?

Rosina                             - (c. s.) Parti gaglioffo, che non torni il padrone.

Melindo                           - (fischia, batte) In malora! Avrì sta porta.

Rosina                             - (aprendo l'uscio) Guardate padrone, chi mi offende.

Melindo                           - Che vuol dir sii atti? Seu imbriaghi?

Leccardo                         - Messer Melindo, questa furfante vi rovina la casa.

Rosina                             - Mentì falsamente.

Melindo                           - Tasi là, poltrona. Che ghe xe da niovo?

Leccardo                         - Io ero venuto per la cena e uscir poi per levarvi col ferale quando sento gocciolar in cantina. Di­mando una luce ma la signora Rosina, mi risponde il contrario. Per fortuna ho già rimediato a tutto e il vino più non si spargerà.

Rosina                             - Non dice il vero, padrone, anzi mi voleva...

Melindo                           - Tasi, poltrona, da poco, rovina de casa mia. Tasi ti e fa vegnir zoso el ragazzo col capello e la mia vesta niova. Ste asene de done ce le fa le bisse, un baston sul cao. (Scende il ragazzo con il ferale e se ne va con Melindo. Rosina rientra in casa. Anche Lec­cardo si allontana. Contemporaneamente, da opposte di­rezioni, entrano Polidario e Saltuzza).

Polidario                          - Oh! Saltuzza; da dove salti fuori? S'io pesco quella storpia di Rosina le vo' dare un buon ca­rico di bastonate. Hai visto come mi ha accolto?

Saltuzza                           - Ben paron, ma no cognossì, chi v'à ba­stona?

Polidario                          - Volesse il cielo che lo conoscessi.

Saltuzza                           - In ogni modo el gà fatto un gran male, ma noi voleva bastonarve da vero.

Polidario                          - • Come sai tu questo?

Saltuzza                           - Perchè el v'arae strupià e roba la vesta.

Polidario                          - Io non so, ma mi trovo tutto la vita pesta.

Saltuzza                           - Dai, dai; dormì sta notte e doman no sentire pi granite.

Polidario                          - Questi consigli vorrei servissero a te, e che tu fossi in mio loco.

Saltuzza                           - No, no, paron, i ve sta meio a vu, perchè a si rico, e podi spendere in rimedi; a mi, poerom, se fosse storpia a dovaria andar all'ospedale.

Polidario                          - Taci. Chi si lamenta? Fermati.

Leccardo                         - (entrando) Sia maledetta Rosina e il mio sfrenato desiderio.

Polidario                          - (piano) Stiamo a udire.

Leccardo                         - Oimè, fortuna inimica! Che strada pi-glierò? Son così debole che non vedo più lume. Aiu­tatemi, buona dea.

Polidario                          - (c. s.) Se pregasse...

Leccardo                         - Almeno fossi confessato; se il corpo si perde l'anima andrebbe a salvazione. Aiuto, buoni com­pagni.

Saltuzza                           - (c. s.) Senti che ben '1 fa la gata.

Leccardo                         - Oimè. Io cado.

Polidario                          - Salta, tienilo, Saltuzza. (Corrono a soste­nere Leccardo).

Leccardo                         - Chi sei che mi porgi aiuto?

Saltuzza                           - Non t'el cognossi?

Leccardo                         - Come vuoi ch'io ti conosca?

Polidario                          - Son, tuo amico.

Leccardo                         - O signore perdonami. Vi odo dalla voce.

Polidario                          - Che hai Leccardo che ti lamenti così dirottamente.

Saltuzza                           - No vedi, che l'è afamà, pien de scal-manele.

Leccardo                         - E' un secolo ch'io non ho mangiato.

Polidario                          - Se non è altro non dubitar... Io prometto di aiutarti.

Leccardo                         - Il corpo mio non si pasce di promesse.

Polidario                          - Questo scudo è per te se mi fai servizio.

Saltuzza                           - Scolta, el paron vole che ti rompi el muso a Rosina. Sito contento?

Leccardo                         - A Rosina? S'io son contento, Dio tei dica.

Polidario                          - Ecco appunto che compare sull'uscio.

Leccardo                         - Meglio è che ci nascondiamo. (Rosina ap­pare sull'uscio della casa di Melindo).

Rosina                             - Poiché il gaglioffo di Leccardo ha turbato il mio dolce colloquio e il mio gentil Polidario non appare, andrò fin alla sua casa, ad abbracciar le mura, in cambio del mio signor, poiché altro non posso fare.

Leccardo                         - (piano a Polidario) Non mi posso tenere. Lasciate fare a me. (Più forte, verso Rosina) Madonna dove si va? Tif, taf. (La batte).

Rosina                             - Deh! Lasciami andare? Non mi batter, as­sassino che sei.

Polidario                          - Tenela forte, Leccardo, che non ti scappi.

Rosina                             - Oimè, e che volete far di me, signor Poli­dario?

Leccardo                         - Ti vogliamo dare una disciplina, strega.

Rosina                             - O Leccardo, lascia ch'io torni a casa. Oimè! (Sfugge dalle mani di Leccardo e scappa in casa).

Polidario                          - Ecco, Leccardo, il tuo scudo.

Leccardo                         - Vi ringrazio. Voglio comprar due cap­poni più vecchi della Bibbia. (Via).

Saltuzza                           - Te potessi strangolarle. Paron, no v'ò conta la pi gran noela del roerso mondo.

Polidario                          - Che cosa, Saltuzza?

Saltuzza                           - Ohe sarà da ridere.

Polidario                          - Dì, di grazia.

Saltuzza                           - Mo, Messier Melindo, savi...

Polidario                          - Bene, che c'è?

Saltuzza                           -  (Lfè innamora.

Polidario                          - Di chi?

Saltuzza                           -  De madonna Panfila, vostra sorore.

Polidario                          - Dici il vero? Come Io gai?

Saltuzza                           - El pover om el me lo ga dito pregandome che l'aide.

Polidario                          - Che gli hai risposto?

Saltuzza                           - Ch'ai servirò.

Polidario                          - Che vuoi tu dire con questo?

Saltuzza                           - A me go impensà la pi alta noela che sìa mai sta fata.

Polidario                          - In che modo?

Saltuzza                           - Tasi pure, che la vago defroiando. Vu andè in camera e no ve mete a dormire perchè missier Melindo no pò stare ch'I vegnerà a trovarve.

Polidario                          - Ci vorrebbe altro rimedio per sanar la profonda piaga che mi ha fatto madonna Clinia.

Saltuzza                           - E se madonna disperata corresse pò da vu?

Polidario                          - Che dici mai, Saltuzza?

Saltuzza                           - Sì, mo. Dela chive, con patto de un farseto rosso e una centura da spada in pagamento.

Polidario                          - Saltuzza!

Saltuzza                           - Mo, sere l'uscio, che a vago a combinar. (Fischia. Polidario via).

Rosina                             - (alla finestra) Oimè, sarebbe mai il subio del padrone? Chi è là? Chi domanda?

Saltuzza                           - Do parole comare gambeta.

Rosina                             - Sei tu Saltuzza? Aspettami: ti voglio parlare.

Saltuzza                           - Vien, che t'aspetto.

Rosina                             - Io ho da lamentarmi assai di te e di quel tristo di Leccardo.

Saltuzza                           - Mo, frela! Anca el me paron l'è sta ba­stona per amor de ti.

Rosina                             - E per il tuo no? La gonnella e il panno da capo dove gli hai messi?

Saltuzza                           - Quando me misi a scampare via, a gò butà via la cotola, el fazuolo e tutto, perchè noi me cognossesse.

Rosina                             - Pazienza, se tutti i mali fossero questi!

Saltuzza                           - Cara la me Rosina, di tu da seno che la to parona ghe voi ben al me paron?

Rosina                             - Se mi prometti la tua fede, ti svelerò un gran segreto.

Saltuzza                           - Sì, per sangue di San Lazzaro.

Rosina                             - Son io che amo il tuo padrone, Saltuzza!

Saltuzza                           - Benon! E lu el te speta!

Rosina                             - O Saltuzza! Questi pochi mocenighi son niente, to' pigliali.

Saltuzza                           - Gramarciò. Potu vegnire via con mi?

Rosina                             - Sì ch'io posso. Il padrone cena fuori ed io ho le chiavi della porta sempre con me.

Saltuzza                           - Andon donca, Rosinetta bella.

Rosina                             - Andiamo. Dammi la mano che non cada. Fermati, l'uscio è qui. (Saltuzza e Rosina entrano in casa).

Leccardo                         - (entra con due capponi) Al corpo di mia comare badessa, ho durato fatica a trovar in tutti i negozi due capponi di questa fatta. Sia benedetto messer Polidario. Li voglio godere da solo. Oh che brodo mi fa­ranno. Son fin troppo grassi. (Entra nella casa di Melindo. Saltuzza esce dalla casa di Polidario).

Saltuzza                           - Un poco la volta li meto a posto tuti, me manca solo l'avocato. Che ostrega stalo indusiando? Ah, ah! Velo velo chi vien ingatolà ch'el pare una statoa, o el campanaro de Noenta quando el va a sonare i doppi la notte dei morti.

Melindo                           - (entrando) « Omnia vincit amor ». Tira de pi una pianela amorosa, de trenta tori in fila.

Saltuzza                           - Sio va, ei dal lume?

Melindo                           - (prende paura) Te go fato paura? Bona notte, Saltuzza.

Saltuzza                           - Finalmente messier Melindo.

Melindo ;                         - Ma ti sa che besogna lassar partir tutti. Mucci, mucci. No vedistu, che son vegnuo mi solo, con sto feraleto alla cavalcaresca, che nessun no dirave che fosse mi.

Saltuzza                           - Ben, che femo chi sula strada? Contar le stele?

Melindo                           - Missier no. Son qua secondo l'ordene e lassa l'impazzo a mi.

Saltuzza                           - Intrè adonchena e no fé' rumore. Deme sta luse, che la voi stuare.

Melindo                           - Sì, te fa ben. Per mille respetti. « In tene-bris omnia atta sunt bona ». (Entra da Polidario).

Carina                              - (daWaltana) In bona fé' che la luna è molto grande e vuole crescer ancora quattro giorni infino al tondo. Quando cala non mi piace. Rosina? 0 che zota tristarella! Deve essere in visinanza ad udir contar istorie come io più delle volte. A suo dispetto voglio chiudere l'uscio e andar di sopra.

Saltuzza                           - (col ferale) In gabbia ghi n'ò messi du e con poca faiga. Adesso voio compire el laoriero. (Batte da Melindo).

Carina                              - (di dentro). Chi picchia?

Saltuzza                           - Amisi. Avorae favellar con la parona. Lo so anca mi che noi ghe xe. A voi rasoner con la parona per un laoriero importante.

 Carina                             - Aspetta ch'io le dirò il tutto.

Clinia                               - (compare sull’uscio) Chi mi adimanda?

Saltuzza                           - O madonna 'Clinia, sin vu? Perdoneme sa ve descorzo.

Clinia                               - Non importa. Che vuoi a queste ore, Saltuzza?

Saltuzza                           - A ve dirò. Se ve svelasse un contrabando, che me darissi, madonna Clinia, bella e gentile?

Clinia                               - A seconda l'utile ch'io ne potrò ricavare.

Saltuzza                           - Si ve faesse veer messier Melindo con una femena, che pagarissi?

Clinia                               - Il marito mio? Con chi?

Saltuzza                           - Con Rosina.

Clinia                               - Bada a quel che dici.

Saltuzza                           - Ah gò ben a guarda. Vostro mario el xe con la zota, Rosina la massimi.

Clinia                               - O meschina me! Vecchio traditore. Ahi trista gaglioffa! E dov'è tale coppia di amanti?

Carina                              - O povera la mia padrona.

Saltuzza                           - I xe in una camera a casa nostra. I go sera dentro per vostro amore parche no merita quel vecio sì bella fante come si vu, madonna Clinia.

Clinia                               - Dici davvero o Saltuzza? Il diavolo mi ha fatto dir de sì. Che sia maledetto quel giorno tanto infelice per me. U... u... u... (Piange)

Saltuzza                           - Tasi, e laude Dio e sto vostro servitore. Se voli vegnire con mi, a ve farò vedere tuti du.

Clinia                               - Fammi compagnia, Carina, ci voglio andare.

Saltuzza                           - No dubiè, cusì a pe' de mi ; e pò, a go el dopiero.

Clinia                               - Dammi il panno da capo. O me sciagurata!

Saltuzza                           - Vegnì pure e no stè de mala voia, che se vorì a podi rimaridarve presto. (Via).

Leccardo                         - (mangiando, ubriaco, dalla finestra) Lodato sia Bacco con tutti gli dèi. Che vita c'è più gloriosa della mia? Pasciuto questo corpicciuolo, tutti i secoli son pa­sciuti. Io son padrone, madonna, servitore, fantesca, scalco, cuoco e infine sono fra gli invitati. O come saprei bene governare una mensa! Disporrei le vivande in ordine co­me fa un valoroso capitano, di un esercito. Per prima farei venire le fanterie: insalata, prosciutto, lesso, lingue, salsiccie e diversi boccali di preziosi vini al posto dei tam­buri. Per cavalleria, la carne di vitello, le zuppe, i polla­stri e capretti allessi. Poi metterei gli armigeri: capponi, pernici, galli d'India, fagiani, pavoni arrostiti. Per saccomani e avventurieri: la salsa, la mostarda, le olive. C'è poi la retroguardia cioè il saseo, le frutta, il codognato, le torte. Viene poi il gubernatore, colonnelli, intendo dire la malvasia, le ostriche, il marzapane, il confetto. Delle artiglierie non parliamo che scroccano di sotto. Godi fin che Iddio ci lascia vita e appetito. O che dolce e beato vivere a l'altrui spese. Chi ne vuole un po' di ben di Dio, pigliasi questi fichi. (Butta frutta).

Saltuzza                           - (solo alla porta) Mare biata, a go metà madonna Clinia in camera del me paron e ghe go lassa l'impazzo a lu. La norise a l'ho fatta spitare in la me camera e se sentiva el me paron che faxeva le carezze. Carina speta e mi me gò impensà de farla con chi ben la fa. Quell'uom daben de Leccardo voio farlo morire dal dolore. Besogna Saltuzza trovare scusa che la te vaia. Su mencion, etu paura? (Batte da Leccardo).

Leccardo                         - (alla finestra) Chi diavolo picchia così in fretta? «Vade retro, Satana».

Saltuzza                           - Leccardo, olà. Vien, verzi.

Leccardo                         - 'Chi mi domanda laggiù?

Saltuzza                           - A son mi, a son mi, verzi.

Leccardo                         - Quando io mangio e bevo, non ho orecchie, né lingua, ne occhi, né piedi. Quanto è saporoso! Che gusto ammirabile.

Saltuzza                           - Verzi che te rompo l'uscio. (Tic, toc, toc).

Leccardo                         - Chi tenta spezzarmi l'uscio? O ci sono o non ci sono. S'io ci sono non ci voglio essere, e s'io non ci sono, a che buttarmi l'uscio a terra?

Saltuzza                           - Avrì Leccardo e vien da basso.

Leccardo                         - Sei tu Saltuzza? Perdonami, io non ti avevo conosciuto. Vengo.

Saltuzza                           - A te farò veder mi.

Leccardo                         - Che vuol dir tanta fretta? Che buon vento ti mena?

Saltuzza                           - El me paron vuole un servizio da ti.

Leccardo                         - Che servizio?

Saltuzza                           - El vole i to stivali e el cappello per ma-gcherarse.

Leccardo                         - Ormai è notte e vuole andare in gattesco? Aspetta che vado sopra a guardar nel cassone.

Saltuzza                           - Ben va, che t'aspetterò. Presto de gambe e svelto de man. (Entra da Leccardo, poi esce quasi su­bito coi capponi) Ostrega, i scota.

Clinia                               - (sull'uscio della casa di Polidario) Messer Polidario, è molto tardi ormai.

Leccardo                         - (scendendo) Ecco Saltuzza, addio! (Gli dà le vesti e rientra in casa).

Carina                              - O vedete Saltuzza, carico di bagagli.

Polidario                          - Da dove vieni cobi affannato, con il ferale?

Saltuzza                           - A vegno, paron, dalla campagna e go trova dei banditi.

Carina                              - Che dici, dei banditi?

Saltuzza                           - Guardò mo chive?

Clinia                               - Capponi, alla croce di Dio.

Polidario                          - Tu hai fatto la berta a Leccardo. Conosco i suoi stivali e il cappello.

Saltuzza                           - A l'ave indovina, a è de compare. Ma che feu chive su la strada? No ste meio dentro?

Clinia                               - Messer Polidario, io vi ringrazio e il danno sia del marito mio. Per l'avvenire tenetemi per vostra e conservatemi l'amor principiato che è grandissimo. Vor­rei che mi facessi accompagnar con la torcia fino a casa mia.

Polidario                          - Madonna Clinia, perdonatemi se sotto trava d'altro, siete stata condotta da chi vi ama più di se stesso.

Carina                              - Padrona, non volete veder gli amanti?

Polidario                          - Saltuzza, apri tu, che li hai chiusi.

Saltuzza                           - (entrando in casa) Volentiera, paron. Vegnì fora, noizi. (Compaiono Melindo e Rosina).

Clinia                               - Ah, vecchio rimbambito! A questo modo si osserva il decoro della tua gravità?

Melindo                           - A moier bella, perdonarne, che «on sta inganna.

Clinia                               - E tu ribalda, quest'è la fede ch'io aveva di te?

Melindo                           - Cara dolce moier, non ho fatto mal nis-suni. Te domando venia e mille perdonanze. (A Rosina) Ah, brutta ladra, che te nasca...

Rosina                             - Non mi battere, padrone. Io non ci ho colpa.

 Clinia                              - Guardate, cavaliere. Vuol essere il gallo della contrada.

Rosina                             - O Saltuzza, aiutami.

Clinia                               - Così in giubbone ti voglio accompagnare a casa, e dimane in palazzo si parlerà di te.

Melindo                           - A cara moier, bella moier, dolce moier: misericordia che no farò mai pi ste brutte cose.

Polidario                          - Perdonategli, madonna Clinia.

Melindo                           - Sì, caro forestiero, dolce vesin. Lo go fatto senza voler.

Clinia                               - Tu puoi ringraziare questo gentiluomo al quale troppo son obbligata.

Melindo i                         - Grammercè a tutti do. O gramo mi, me­schino, mi, povero mi.

Leccardo                         - (esce furioso dalla casa di Melindo) Guai a chi ruba in casa di ladri. Il diavolo non ti salverà s'io ti trovo. (Batte alla cieca) Non sì può più vivere. Fino in casa nostra siamo assassinati. Dammi i miei capponi.

Rosina                             - Anche tu, sciagurato, mi batti.

Leccardo                         - Fuori la mia roba, inimici del bene altrui.

Polidario                          - Leccardo, che hai, che c'è?

Leccardo                         - S'io non vi squarto, s'io non vi ammazzo, tradi...

Saltuzza                           - Varda come te parli, aseno.

Clinia                               - Mirate, ubriaco senza modestia.

Leccardo                         - 0 Madonna Clinia, e voi messer Melindo, perdonatemi e voi signor Polidario, l'ira grande mi aveva impedito l'animo.

Polidario                          - Racchetati, Leccardo. Non son perduti i tuoi capponi.

Saltuzza                           - Eccoli in salvo.

Polidario                          - Or fate buona pace e i capponi si go­dranno assieme.

Leccardo                         - Son contento. Non potevo restare privo di tanto bene.

Melindo                           - « Pro famen lupus fecit tremare pasto-ribus ». L'è gran cosa a chi ha apetito, restare a desun.

Polidario                          - Messer Melindo, perdonate per mio amor a Rosina; e così voi, madonna Clinia. Saltuzza, trovagli la sua veste.

Melindo                           - Benedetto Dio. Se lo fasso ancora, moier, scaname. (A Rosina) A te, perdono col patto che ne te me vardi più in tei viso, azzò che no m'ingrinta.

Clinia                               - Anch'io ti perdono.

Rosina                             - Vi ringrazio tutti. Ma, padrone, Saltuzza è stato cagione di tutto.

Polidario                          - Entriamo in casa. Dopo cena, ve n'andrete ognuno alle case vostre. Tu, Leccardo, va, ordina la cena.

Clinia                               - Andiamo.

Melindo                           - Quando faroio tanto per la signoria vostra, messer Polidario, per quel che ave fatto a mia moiere e a mi? Basta, a tignerò conto de sti piaseri.

Saltuzza                           - Intrè, diàmbera, no favelè pi, che l'è tardo. Leccardo vegno.

Carina                              - (sola) Che vi par spettatori, «e le nostre cose? Iddio volesse che in tutte le case non intervenis­sero simili travagli. Chi ha avuto il male, il danno sia suo. Ora andatevi a riposare, perchè noi, penso, ci sta­remo tutta notte in sollazzo. Se la favola vi è piaciuta, fate segno di allegrezza.

FINE