Il si delle fanciulle

Stampa questo copione

COMMEDIA IH QUATTRO ATTI DI GHERARDO GHERARDI

IL SI DELLE FANCIULLE

Commedia in tre atti

Di LEANDRO FERNANDO DE MORATIN

PERSONAGGI

DON DIEGO

DON CARLO

DONNA IRENE

DONNA FRANCESCA

RITA, cameriera

SIMONE, servo

CALAMOCCHIA

La scena si svolge in una locanda ad Alcalà d'Henares e l'azione incomincia alle sette di sera e termina il mattino seguente.

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

Sala comune con quattro porte numerate, come in uso in tutte le locande. La comune, nel mezzo, lascia scor-gere la scala che conduce al piano inferiore. Finestra da un lato. Una tavola e qualche sedia.

(All'alzarsi del sipario, Simone, domestico di Don Diego, è in scena, seduto, in attesa. Dalla sua camera appare Don Diego e il servo si alza al suo apparire).

Diego                            - Non sono ancora giunte?

Simone                          - No, signore.

Diego                            - Saranno partite molto tardi.

Simone                          - E’ naturale, signore, si saranno trattenute in visita dalla zia oltre l'ora consentita per non far tardi. Voi sapete che la zia ama tanto quella fanciulla e credo non l'abbia più riveduta da quando la condusse a Guadalaxara.

Diego                            - Io non dico che non dovesse vederla; ma penso che con una visita di mezz'ora e quattro lacrime di circostanza, tutto poteva essere concluso.

Simone                          - Pure, mi permetto di osservare a vostra signoria che la decisione di rimanere chiuso qui dentro per due giorni mi sembra abbastanza strana! Leggere di continuo, stanca; dormire sempre, abbatte... La locanda non è casa propria, gli odori non sono gradevoli, le sedie non sono comode, alle pareti non vi sono che delle stampe con la storia del fìgliol prodigo, i cam­panelli trillano continuamente, i postiglioni urlano nella corte, e non si ha mai un momento di riposo.

Diego                            - Bella scoperta. Eppure non si poteva fare altrimenti: qui sono conosciuto da tutti ed ho preferito non essere visto.

Simone                          - Allora c'è un mistero?  Eppure io non riesco a scoprirlo. Vostra signoria ha accompagnato Donna Irene fino a Guadalaxara per ritirare dal con­vento la ragazza e con esse ritornare a Madrid...

Diego                            - C'è qualche cosa di più che tu non pensi.

Simone                          - Il mistero?

Diego                            - Il mistero, va bene, chiamalo come vuoi; ed è bene che tu lo conosca subito, altrimenti non mi lascerai più respirare. Ma bada di non fiatare! Ti so fedele e riservato e posso fidarmi di te; non venir meno alla mia fiducia. D'accordo?

Simone                          - Non sono chiacchierone e non tradirei un segreto nemmeno con la tortura.

Diego                            - Mi fido. Dunque, tu sai che ora esce dal convento la fanciulla e la conduciamo a Madrid.

Simone                          - Lo so.

Diego                            - Donna Pachita, la ragazza, io non l'ho mai vista.

Simone                          - No?!

Diego                            - E smettila! Lasciami parlare: non l'ho mai vista ma è come se la conoscessi da anni, tanto ho sen­tito parlare di lei da sua madre. Ho letto alcune sue lettere e altre ancora di una sua zia monaca con la quale visse a Guadalaxara. Ho avuto, insomma, tutte le informazioni che si possono desiderare su una fan­ciulla alla quale ci si interessa, e desiderai vederla. Mi sono convinto che le lodi sulla sua avvenenza e sui suoi costumi son poca cosa al paragone della verità: è gen­tile, garbata, onesta, leggiadra e la sua intelligenza non è comune. Perciò io ho deciso...

Simone                          - Non continuate, signore, è superfluo. Ho capito tutto. E l'idea mi sembra eccellente.

Diego                            - Avevi dunque immaginato, così ad un tratto?

Simone                          - E' tanto chiaro! E aggiungo che la signo­ria vostra ha avuto un ottimo pensiero!

Diego ----------------- - Certo, ho molto riflettuto, ma ora ritengo la cosa come fatta! Non per questo però desidero che non si sappia in giro fino a quando non lo riterrò op­portuno. Giacche non tutti vedono le cose col medesimo occhio, equalcuno potrebbe biasimarmi, dicendo che è una follia.

Simone                          - Follia?! Bisogna essere ciechi e stupidi a considerare follia un matrimonio con un fiore di grazia simile...

Diego                            - Eppure può sembrare tale, perché io sono ricco e lei povera; ma se io ho denari, ella ha virtù, modestia, gioventù, intelligenza, grazia, amante della casa... e io so che cosa vuol dire avere in casa una buona massaia! No, io non voglio affidare il mio ma­trimonio ad una vecchia strega, brutta, borbottona, piena di ghiribizzi. No! Voglio incominciare una vita nuova! Ho trovato chi mi assisterà con amore e vivremo come due santi.

Simone                          - Se loro due sono d'accordo, che potrà dire il mondo, infine?

Diego                            - So ben io, cosa dice il mondo! che il ma­trimonio è disuguale perché troppo sproporzionato nell'età...

Simone                          - A me non sembra una differenza spropor­zionata. Sette o otto anni al più...

Diego                            - Che sette o otto? La fanciulla non ha ancora diciassette anni...

Simone                          - Ebbene?

Diego                            - Ebbene, io ne ho 59! Per quanto io sia robusto».

Simone                          - Ma io non parlo di vostra signoria...

Diego                            - E di chi parli?

Simone                          - Un momento, e che vostra signoria mi scusi... Stavamo dicendo... vediamo un po'... perché forse io ho capito alla rovescia. Dunque Donna Pachita si deve maritare: con chi?

Diego                            - Con me.

Simone                          - Con voi?

Diego                            - E con chi dunque?

Simone                          - Ma io pensavo ad un altro; credevo fosse destinata...

Diego                            - A chi?

Simone                          - Ma a vostro nipote, a Don Carlo, giovane d'ingegno, colto, prode soldato, garbato cavaliere... Io credevo non potesse essere altrimenti...

Diego                            - E invece, no!

Simone                          - E va bene.

Diego                            - Bell'idea! Io dovrei maritarla ad un altro! Nossignore! Che pensi a studiare, mio nipote! Diventi un uomo di senno, di valore...

Simone                          - Quale maggior valore può desiderare la signoria vostra da un ufficiale che nell'ultima guerra ha combattuto così valorosamente da ottenere dal Re il grado di Luogotenente Colonnello e d'essere stato insignito con la croce d'Alcantara?

Diego                            - Tutto questo è vero, ma ora non serve. Chi prende moglie sono io.

Simone                          - Ma vostra signoria mi perdoni: è sicura di essere riamato, se la differenza d'età non l'atterrisce, se libera è la scelta della ragazza...

Diego                            - E perché non dovrebbe esserla?  Che ragione avrebbe ad ingannarmi? Tu sai bene che donna è la monaca di Guadalaxara e quanto senno abbia. La zia d'Alcalà non la conosco, ma so pero che è donna di rara virtù. Puoi bene immaginare quale possa essere il desiderio di Donna Irene: rendere felice sua figlia! Ebbene, tutti questi parenti mi danno piena fiducia, e come se non bastasse ho le informazioni della came­riera che la servì per quattro anni: mi ha assicurato che la fanciulla non ha mai dimostrato la più piccola inclinazione verso quegli uomini che potè vedere nel suo limitato recinto. Che te ne pare?

Simone                          - A me nulla, signore!

Diego                            - E vuoi che con tanta certezza di benessere io non colga l'occasione di guadagnarmi la confidenza e l'amicizia della fanciulla, e fare in modo che ella si confidi con tutta libertà? Certo, quella benedetta Donna Irene non sta mai zitta un minuto e la interrompe ad ogni istante... non si riesce mai a parlarle! E' una buona donna, sì, eccellente...

Simone                          - Io desidero che le cose vadano secondo il vostro desiderio.

Diego                            - Ne sono convinto, benché lo sposo non sìa di tuo gusto, e benché poco a proposito tu mi abbia ricordato il mio signor nipote col quale in questo mo­mento son veramente in collera.

Simone                          - Che vi ha fatto?

Diego                            - Una delle sue, e l'ho saputo soltanto pochi giorni fa. Già l'anno passato, te ne ricordi, rimase due mesi a Madrid e quella permanenza mi costò cara! Doveva recarsi col suo reggimento a Saragozza e dopo pochi giorni dalla sua partenza da Madrid mi scrisse di esservi giunto... e continuò a scrivermi da Saragozza... ma il signorino non era dove le lettere partivano e dal tre luglio alla fine di settembre non raggiunse mai la guarnigione. Ti sembra che abbia corso, no?

Simone                          - Forse si sarà ammalato durante il viaggio, e per non darvi pena...

Diego                            - Nessuna pena. Gli amoretti hanno fatto per­dere la testa al signor ufficiale. Può darsi che in quella città e che il cielo Io protegga a non aver incontrato una di quelle donne che giocano sull'onore per giungere al matrimonio...

Simone                          - Non c'è pericolo. Se anche si fosse imbat­tuto nella più scaltra maestra d'amore, non sarà mai abile quanto lui...

Diego                            - Sento la carrozza; devono essere giunte.... Va subito a cercare il padrone della locanda e digli di venire da me a mettersi d'accordo sulla partenza per domani.

Simone                          - Vado subito.

Diego                            - Mi raccomando: tutto quanto abbiamo detto è un segreto.

Simone                          - La signoria vostra Io sa: io non ho sentito perché noi non abbiamo parlato. (Esce per la porta comune. Entrano tre donne con abiti e borse da viaggio. Sono: Donna Irene, Donna Francesca, la fanciulla, e Rita, la cameriera).

Francesca                      - Eccoci giunte.

Irene                              - Che brutta scala!

Diego                            - Ben venute, o signore.

Irene                              - La signoria vostra, a quanto pare, non & uscita.

Diego                            - No, signora. Più tardi farò una passeggiata. Ho Ietto, ho cercato di dormire, ma in questa locanda non è facile.

Francesca                      - E' vero, ci sono molte zanzare: la notte scorsa non sono riuscita a riposare un istante. (Apre la borsa) Ecco, signore, ho portato con me molte cose: un rosario di madreperla; delle crocettine di legno, la regola di San Benedetto, un'ampollina di cristallo, due cuoricini di gesso...

Irene                              - Regalucci che le han fatto le monache. Erano pazze per lei.

Francesca                      - Quanto bene mi volevano tutte! E mia zia, poi! Oh, mia povera zia, piangeva tanto. E' tanto vecchia, sapete,..

Irene                              - Le dispiacque molto non poter conoscere la signoria vostra,..

Francesca                      - E' vero; ci domandava sempre perché non siete venuto anche voi a prendermi. (A Rita) Tieni. (Dà alla cameriera tutto ciò che è sulla tavola e la ca­meriera entra con la roba nella camera di Donna Irene) Mamma, andiamo in camera nostra o restiamo qui?

Irene                              - Aspetta, mia mia. Voglio riposarmi un istante. (Donna Irene e Don Diego si siedono).

Diego                            -  Oggi il caldo si è fatto sentire.

Irene                              - Com'è fresco quel parlatorio!  Sembra un paradiso. (Francesca si decide a sedere accanto a sua madre) Mia sorella è gracile e quest'inverno ha sofferto molto. Pure non sapeva più che cosa fare per questa fanciulla! E infine si è mostrata contentissima dell3 nostra scelta...

Diego                            - Ne sono grato. Sono grato a tutti, ma ora è necessario che acconsenta la parte interessata come hanno acconsentito tutti coloro che l'amano...

Irene                              - E' una figliola obbediente e non si opporrà mai ai voleri di sua madre.

Diego                            - Tutto questo va bene, ma...

Irene                              - Ella è stata educata saggiamente è deve com­portarsi come l'onore le impone...

Diego                            - Capisco, capisco... Ma non potrebbe, senza mancare alla sua educazione e senza venir meno al proprio onore...

Francesca                      - Mamma, debbo andarmene? (Si alza e poi torna a sedere).

Irene                              - No, signore. Non lo potrebbe. Una fanciulla bene educata, figlia di onesti genitori, non può condursi in qualsiasi occasione «e non come conviene al suo rango. Questa fanciulla è il ritratto vivente di sua nonna Donna Geronima di Peralta. In casa abbiamo un dipinto e forse la signoria vostra l'avrà notato. II quadro fu fatto per inviarlo a suo zio, il Vescovo eletto di Mezoacan.

Diego                            - Lo so.

Irene                              - Quel buon sacerdote perì in mare e fu una grande disgrazia per la famiglia. Anche adesso noi sen­tiamo le tristi conseguenze della sua morte. Don Cucufate, Rettore perpetuo di Zamora, non può ricordare Monsignore senza piangere.

Francesca                      - Mio Dio, quante mosche!

Irene                              - E morì in odore di santità.

Diego                            - Ottima cosa.

Irene                              - SI, signore. Ma poiché la famiglia è deca­duta... mancano i mezzi... e dove mancano i mezzi... Però ora si sta scrivendo la sua vita e speriamo che fra poco, con l'aiuto di Dio, possa essere pubblicata.

Diego                            - Oggi si stampa qualunque cosa...

Irene                              - L'autore è il canonico Castrogeriz, nostro parente, che vi lavora indefessamente, e a quest'ora ha già scritto i nove volumi che riguardano i primi nove anni del nostro santo prelato...

 Diego                           - Un volume per anno? E in che età morì il venerabile uomo?

Irene                              - A ottantadue anni.

Francesca                      - Mamma, posso andarmene?

Irene                              - Vai pure, se hai tanta fretta!

Francesca                      - (a Diego) Vostra signoria desidera ch'io faccia una riverenza alla francese?

Diego                            - Vediamola pure, figliola mia...

Francesca                      - Eccola, signor Don Diego. (Si alza, fa la riverenza a Don Diego, dà un bacio a sua madre e va nella sua camera).

Diego                            - Che graziosa fanciulla!

Irene                              - Semplice, vispa...

Diego                            -  Ha un garbo naturale che incanta!

Irene                              - Certo, signore, cresciuta senza artifici, ignara degli inganni di questo mondo, lieta di rivedersi ac­canto a sua madre, e ancora più contenta di vedere av­vicinarsi il giorno del suo matrimonio, non può mera­vigliare che quanto fa e dice sia così garbato. Soprat­tutto non deve meravigliare la signoria vostra...

Diego                            - Vorrei soltanto che ella si spiegasse chia­ramente a proposito del nostro matrimonio.

Irene                              -  Vostra Signoria udrebbe ripetere da lei ciò che ho detto io.

Diego                            - Non lo metto in dubbio; pure mi farebbe piacere sapere se ella ha un po' di simpatia per me; mi piacerebbe insomma sentirmelo dire da quella boc­cuccia deliziosa.

Irene                              - Non dovete avere il più piccolo dubbio su ciò; d'altronde vostra signoria sa benissimo che una fanciulla non ha mai il coraggio di dire liberamente ciò che sente, in tale argomento, e perciò non oserà mai dire apertamente «io amo vostra signoria».

Diego                            - Capisco, capisco. Ma se io fossi un uomo incontrato per caso, oppure uno di quei vagheggini che fanno la ronda sotto le finestre di tutte le ragazze, ella farebbe molto male a pronunciarsi; ma poiché sarò fra poco il suo sposo... potrebbe dirmi qualche cosa...

Irene                             - Con me usa tutta la sua franchezza, e poiché noi parliamo sempre di vostra signoria, a me ha già detto molte volte l'affetto che vi porta. Se aveste udito con quanto senno mi parlò ieri sera, dopo che la signo­ria vostra si fu ritirata. Quanto avreste pagato per udirla!

Diego                            - Che dite? Parlava di me?

Irene                              - E quanto saggiamente! Mi diceva che una giovinetta della sua età deve preferire un marito non più tanto giovane d'esperienza, di buona condotta.

Diego                            - Diceva questo?

Irene                              - E non soltanto questo. Mi ascoltava con tale attenzione che l'avreste detta una donna di quarant'anni. Io le davo dei consigli assennati e lei li comprendeva e li approvava come... Ma ditemi un po' voi: non è forse cosa da far pietà vedere come si fanno oggi certi matrimoni? Ad una ragazza di quindici anni fanno spo­sare un giovinastro di diciotto; ad una di diciassette un altro di ventidue! L'una senza cervello, l'altro senza esperienza e ignari entrambi delle cose del mondo. Chi governa la casa, chi comanda i servi? Chi educherà i figli? Perché questi giovinetti, appena sposati non pensano altro che a mettere al mondo dei figlioli...

Diego                            - Ed è molto triste vedere certi uomini privi d'ingegno incapaci di educare i propri figli.

Irene                              - Quando io «posai in prime nozze Don Epi­fanio non avevo ancora diciannove anni, ma egli era un uomo non comune: garbato cavaliere, elegante parlatore, bello di figura, e quando mi sposò aveva già compiuti i cinquant’anni.

Diego                            - Verde età, ma non possiamo dire che fosse un ragazzo.

Irene                              - Né a me poteva convenire un vagheggino. Non bisogna credere che egli avesse degli acciacchi! Nemmeno per sogno. Sano come un pesce. In tutta la sua vita non era mai stato ammalato, ma poi venne il vaiolo e lo portò alla tomba dopo sette mesi di matri­monio. Mi lasciò vedova e incinta di una povera crea­tura che morì di «scarlattina poco dopo nata... Ma io non volli restare senza figli, li amo tanto i bambini! e dai miei tre matrimoni ne ho avuto ventidue. Ed ora non mi rimane che la mia Pachita e vostra promessa sposa. (Dalla porta comune entra Simone).

Simone                          - Signore, il padrone della locanda vi aspetta.

Diego                            - Digli che vengo. Portami il cappello ed il bastone; voglio fare un giretto. (Simone entra nella camera di Don Diego e ritorna subito con cappello e bastone) Dunque, signora, domattina partiremo molto presto.

Irene                              - Mi è indifferente. All'ora che più farà pia­cere a vostra signoria. Ma se non sarà tanto presto è meglio giacché abbiamo molte cosucce da sistemare.

Don Diego                    - (esce seguito da Simone).

Irene                              - (sola) Ora che ricordo! Dio, mio!... Rita! Lo avranno lasciato morire! Rita!

Rita                               - (entra in scena con un lenzuolo ed un guan­ciale sul braccio) Signora!

Irene                              - Che cosa è avvenuto del fringuello? Gli hai dato da mangiare?

Rita                               - Ha mangiato come uno struzzo ed ora l'ho messo sul balcone.

Irene                              - Hai fatto il letto?

Rita                               - Il vostro è fatto, signora. Ora vado a fare l'altro, prima che venga sera, perché non mi hanno dato che questo candeliere.

Irene                              - E la ragazza che fa?

Rita                               - Sta sminuzzando una ciambella per dar da mangiare al pappagallo.

Irene                              - Povera me! Sono ben pigra nello scrivere e bisogna proprio che scriva a mia sorella che sarà certo in ansia. (Esce).

Rita                               - (sola) Quante sciocchezze!! Sono appena due ore che siamo venute via di là e già i corrieri incomin­ciano a portar missive! Oh, come non mi piacciono le donne sdolcinate! (Esce per la camera di Francesca).

Calamocchia                 - (entra dalla porta comune con una valigia ed una frusta in mano) Numero tre!... Lo co­nosco già io il numero tre... Neppure nel gabinetto di storia naturale vi è una collezione di serpenti più com­pleta. Ho paura ad entrare là dentro. Ho dato di sproni come un matto per venire a vedere le piaghe di Faraone che «tanno rinchiuse in quel malaugurato numero tre. E' un miracolo se quelle povere bestie sopravvivono a tanta fatica. Sono massacrate. E anch'io sono trafelato ed ho le os3a rotte. (Si sente Rita che cantarella di dentro) Eh!... non canta male! Questa è una buona av­ventura... Ahimè! Non ne posso più! (Si sdraia su una sedia).

Rita                               - (sulla soglia della camera) Sarà meglio chiu­dere prima che vengano a rubare! (Facendo uno sforzo per togliere la chiave dalla serratura) Oh, come stenta ad uscire questa chiave!

Calamocchia                 - (alzandosi in fretta) Posso aiutare la signorina?

Rita                               - Grazie, mio caro!

Calamocchia                 - (con sorpresa) Zitto!... Rita...

Rita                               - (lieta)  Calamocchia?

Calamocchia                 - Che combinazione!

Rita                               - E il tuo padrone?

Calamocchia                 - Siamo giunti ora, tutt'e due.

Rita                               - Davvero?

Calamocciha                 - Non è uno scherzo. Appena ricevuta la lettera di Donna Pachita, egli uscì di casa. Non so dirti dove sia andato, con chi abbia parlato, ne come abbia disposto le cose sue. Ti dico solo che la sera stessa partimmo da Saragozza e come due fulmini ab­biamo percorso la strada. Giungemmo stamane a Guadalaxara e lì, fatte le necessarie indagini, siamo risaliti in sella. E avanti, trotta, galoppa e suda. I cavalli sono affranti dalla fatica e noi, con le ossa rotte, abbiamo preso alloggio qui col proposito di partir domattina presto. II mio padrone è andato al Collegio maggiore a trovare un amico in attesa che la cena sia pronta. Ecco la storia.

Rita                               - Perciò egli è qui.

Calamocchia                 -  E’ innamorato più che mai, geloso, e risoluto di guarire per sempre dal singhiozzo chiunque osasse disputargli la sua bella.

Rita                               - Che dici mai?

Calamocchia                 - La verità: nè più né meno,

Rita                               - Ah! tu mi rallegri. Ora sono certo che l'ama.

Calamocchia                 - Amore, dici tu? Capperi! Otello in confronto al colonnello è un pezzo -di ghiaccio.

Rita                               - Oh, quando la ragazza lo saprà!

Calamocchia                 - E allora, vediamo un po'. Come mai ti trovi qui? Quando sei arrivata? Con chi sei venuta?

Rita                               - Ti spiego: la madre di Donna Pachita, dopo aver scritto lettere su lettere, dicendo che aveva deciso di maritare la ragazza con un ricco ed onorato cavaliere, si dette a fare a convincere Pachita che non avrebbe potuto trovare un marito migliore. Afflitta continuamente da questa storia, la ragazza sì vide nella dura necessità ch'era pronta ad ubbidire ai suoi ordini. Naturalmente non ti dico le lacrime che ha versato e quanto ne è afflitta. Non voleva mangiare, né poteva più dormire. Alla fine convenimmo che era necessario dissimulare affinché la zia non riuscisse a scoprire il nostro piano ben architettato. Passato così il primo impeto di dolore, subentrò la riflessione. Studiammo la faccenda e non trovammo altra soluzione, all'infuori di quella di scrivere al tuo padrone, sperando ch'egli non avrebbe mai acconsentito ad abbandonarla ad uno sconosciuto anche se l'amore di costui fosse sincero. Pochi giorni dopo aver fatto ciò ecco giungere il vetturale Gaspare!, quello delle calze azzurre, con la madre ed il fidanzato, che vengono a prenderla. Facemmo in fretta i nostri bagagli, ci congedammo da quelle buone donne, e ieri giungemmo ad Alcalà con due carrozze sgangherate. Lì ci fermammo perché la fanciulla doveva visitare una zia monaca, sorda più d'una campana, ed ora siamo qui per ripartire domattina, credo prestissimo.

Calamocchia                 - Ma che cosa mi racconti? Il fidan­zato è dunque qui con noi, nello stesso albergo?

Rita                               - E questa è la sua camera! questa appartiene a Donna Irene, e questa è la nostra. (Fa cenno col dito alle porte numerate della sala),

Calamocchia                 - Nostra, hai detto? Allora tua e mia?

Rita                               - No, poltrone, non fraintendere! Lì dentro dormiremo stasera la signorina ed io.

Calamocchia                 - Allora tanto peggio per te che perdi una co6Ì splendida compagnia. (Fa per prendere la va­ligia ed andarsene).

Rita                               - Dove vai?

Calamocchia                 - Lo so ben io. Dimmi un po', questo fidanzato non ha mica con lui amici, parenti, gente insomma?

Rita                               - Ha un servo.

Calamocchia                 - Troppo poco. Allora gli puoi dire che sarà bene reciti le sue ultime preghiere. Addio.

Rita                               - Ritorni presto?

Calamocchia                 - Credo. Per quanto io sia stanco più d'una bestia pure è necessario che avverta immediata­mente il colonnello, mio padrone, ch'egli rinunci alla visita che deve fare e che venga qui per disporre per il funerale di questo fidanzato.

Rita                               - Anch'io pregherò il cielo per lui.

Cal\mocchia                  - Addio, mia bella strega! (Entra con la valigia nella stanza di Don Carlo).

Rita                               - Per fortuna che Don Felice è qui, e se dav­vero egli ama tanto la signorina quanto dice, saprà ben difenderla da questo intrigo di parenti. (Mentre Calamocchia esce dalla stanza di Don Carlo e se ne va dalla porta comune, entra Donna Francesca).

Francesca                      - Mio Dio, Rita, come sono infelice!

Rita                               - Come, signorina, piangete?

Francesca                      - E come posso fare a non piangere? Mia madre è la più ostinata delle donne. S'è fitta in capo ch'io debba sposare quest'uomo. Se ella sapesse ciò che ho nel cuore, e che tu sai, non mi comanderebbe l'im­possibile. Continua a ripetermi che è ricco, che è buono, che io vivrò felice... e si è arrabbiata e mi ha detto che sono cattiva e disobbediente perché Don Diego si lagna che non gli dico, nulla. Eppure ho fatto sforzi per mo­strarmi lieta dinanzi a lui, mi sono comportata come una cretina facendo mille ridicolaggini, per far cosa grata a mia madre, e tu sola sai che cosa c'è nel mio cuore. (La scena si va lentamente oscurando).

Rita                               - Calmatevi, signorina, fino a questo momento non c'è tanto da disperarsi. Posso dirvi qualche cosa che vi darà molta gioia. Vi ricordate dell'anno scorso quand'eravamo nel casino di campagna dell'Intendente?

Francesca                      - E come puoi pensare ch'io l'abbia di­menticato?

Rita                               - Voglio dire di quel cavaliere con la croce verde, galante, bello...

Francesca                      - Non me lo ricordare, Rita, non me lo ricordare!

Rita                               - Che ci accompagnò fino alla città e che poi ritornò.»

 Francesca                     - E che tu mi hai fatto rivedere molte volte...

Rita                               - Non vorrete mica rimproverarmi? Non ab­biamo mai dato scandalo! Don Felice non ha mai var­cato la soglia della porta e quando vi parlava di notte eravate sempre a rispettosa distanza. Ma questo non importa, adesso. Debbo dirvi soltanto che un grande amore come il suo e come il vostro non può essere dimenticato. Vi ricordate di quei tre colpi battuti con le palme delle mani che udivamo fra le undici e le dodici della notte?

Francesca                      - Sì, Rita, tutto io ricordo e non dimen­ticherò fin che vivo. Ma chissà dove si trova egli adesso, e forse starà divertendosi con altre donne.

Rita                               - Non credo, signorina. Un uomo che per tre mesi si contenta di conversare al buio, e in tutto questo tempo si comporta da quel gran cavaliere che è, vuol dire che vi ama veramente.

Francesca                      - E' vero, ed è per questo che l'ho amato, ed è per questo ch'egli vive nel mio cuore. Chissà che cosa avrà detto leggendo la mia lettera. Povera Pachita, se egli non mi aiuta tutto è finito!

Rita                               - Ma egli vi aiuta!

Francesca                      - E che ne sai tu?

Rita                               - Io lo so. Appena letta la vostra lettera si è messo in cammino ed è venuto a consolare la sua po­vera amica... Però...

Francesca                      - Però che cosa?...

Rita                               - Vorrei sapere dove si trova Donna Irene.

Francesca                      - Sta scrivendo... scrive sempre...

Rita                               - Ma presto avrà finito... e la notte si fa buia... E Don Felice è giunto ad Henares.

Francesca                      - Rita, non m'ingannare, mi fai venir male.

Rita                               - Invece ve l'ho detto perché prendiate co­raggio. E' qui. Lo so di sicuro. Ho visto e parlato con Calamocchia. Quando voi siete entrata egli usciva dalla stanza del suo padrone e voi non ve ne siete accorta e non l'avete riconosciuto. E' andato a cercare il suo padrone.

Francesca                      - Allora egli mi ama! Mio Dio, ti rin­grazio. Vedi che abbiamo fatto bene a scrivergli? Vedi quanto è buono, gentile, caro, affezionato? Avrà corso mille miglia per venirmi a vedere, per venirmi ad aiutare! Ma ti prometto che non avrà da pentirsi di me perché lo amerò per tutta la vita.

Rita                               - Lo credo benissimo, non avete bisogno di convincermi. Vado a prendere il lume e cercherò di trattenermi giù finche arrivano. Così sapremo subito che cosa ha deciso di lare, perche se ci trovano qui tutti riuniti le cose precipitano. Calamocchia ha già parlato di funerali e quei due sarebbero capaci di uccidere davvero Don Diego!

Francesca                      - Vai, corri, e appena sarà giunto avver­timi! voglio rivederlo subito!

Rita                               - Rimanete qui di vedetta. Appena giungeranno io vi avvertirò con un forte colpo di tosse...

Francesca                      - La tua tosse mi ridarà la vita! Va, mia fedele Rita, va! Io muoio di felicità.

Rita                               - Per carità! Non è il momento opportuno di morire!

Francesca                      - Hai ragione!  Rita, ti ricordi quando mi diceva che non avrebbe mai potuto cancellarmi dalla sua memoria? Che nessuna difficoltà Io avrebbe trat­tenuto, che nessun pericolo lo avrebbe sgomentato?

Rita                               - Lo ricordo benissimo.

Francesca                      - Ebbene, diceva la verità! E' il primo uomo che dice la verità! (Corre verso la stanza di Donna Irene mentre Rita esce dalla comune).

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

La stessa scena, molto oscurata.

Francesca                      - (sola) E non tossisce! E non viene nes­suno... (Va avanti e indietro dalla comune alla porta dove si trova sua madre) Io mi sento morire... soffro... e mia madre mi crede un'ingenua, più ancora di una ingenua: una stupida. E crede che io non sappia far altro che divertirmi col fringuello, col pappagallo, con le figurine dei santi e le madonnine di zucchero. Non ho ancora compiuti diciassette anni, ma quante lacrime ho già versate per amore!

Irene                              - (entrando) Rita, mi avete lasciato qui sola, al buio. Dove sei Rita?

Francesca                      - Sono qui io, mamma. La sto aspettando. E’ andata per le candele.

Irene                              - E che fai tu qui?

Francesca                      - Prendo un po' d'aria!

Irene                              - E quella ragazza! Per ogni piccolo mestiere che deve fare impiega un anno! Perché non porta il lume? Si sarà fermata a discorrere con qualche dome­stico! Che donna scostumata. E io sono qui che fremo. Don Diego non è ancora rincasato?

Francesca                      - Non so, ma non credo.

Irene                              - Ripensa, figlia mia, a ciò che ti ho detto. Bada che non intendo ripetere cento volte le stesse cose. Questo cavaliere è un uomo per bene, perciò...

Francesca                      - Va bene, mamma, ma non sgridatemi più.

Irene                              - Non ti sgrido: ti consiglio. Tu non hai an­cora abbastanza esperienza per capire l'utilità di questo matrimonio. E' la fortuna che è entrata nella nostra casa. Io sono ammalata: ho i nervi scossi, sovente mi prendono le convulsioni, occorrono medici e farmacisti; una scatola di pillole costa perfino trenta reali. Ri­corda sempre queste necessità nostre e ti convincerai che poche ragazze hanno la fortuna di trovare un par­tito come questo che il cielo ti manda. E lo devi alle preghiere di tua zia, che è una santa, e non ai meriti tuoi e nemmeno alle mie cure. E' il cielo, soltanto il cielo che ti fa questa grazia. Ebbene, che ne dici?

Francesca                      - Io? Nulla, mamma.

Irene                              - E tu non dici mai nulla! Quando io ti parlo di ciò, tu non hai mai nulla da dire... (Entra Rita dalla porta comune con due lumi che depone sulla tavola) Credevo tu volessi restare fuori tutta la notte!

Rita                               - Ho tardato, signora, perché ho dovuto andare io a comperare le candele. Il puzzo del sego fa tanto male a vostra signoria...

 Irene                             - Certo che mi fa male! Patisco di nervi! Ho dovuto mettermi dei cerotti di canfora sulle tempie! Ora mi sento meglio. Rita, lascia qui una candela e porta l'altra in camera mia. E non dimenticare di chiu­dere bene le imposte affinché non entrino le zanzare.

Rita                               -  Sarà fatto. (Prende una candela e fa per en­trare nella camera di Donna Irene).

Francesca                      - (piano a Rita) Non è arrivato ancora?

Rita                               - (piano) Verrà...

Irene                              - (a Rita) Ascolta: darai il foglio che è sopra la mia tavola al servo della locanda affinché lo consegni subito al corriere. (Rita esce) E tu, figliola mia, non hai ancora cenato? Domattina dobbiamo alzarci presto... Vuoi prendere un brodo? (Ritarientra con un foglio in mano e per tutta la scena va e viene) Rita, prepara due tazze di brodo. E che siano ben calde, mi raccomando.

Rita                               - Va bene.

Irene                              - Rita!

Rita                               - Vostra signoria comanda?

Irene                              - Dì al servo che porti subito la lettera... Anzi, no... non dirgli nulla, non mi fido... Prega Simone di portarla lui al corriere..,

Rita                               - Sarà fatto.

Irene                              - Rita!

Rita                               - Signora!...

Irene                              - Per quanto non sia urgente, non dimenticare di ritirare il fringuello dal balcone e di portarlo qui... mi piace tanto sentirlo cantare in camera mia, ma non di notte...

Rita                               - Sì, signora. (Esce).

Irene                              - Don Diego avrà incontrato certo qualcuno e si sarà trattenuto a discorrere. E' sempre così pun­tuale. (A Francesca) Che uomo dabbene! che buon cri­stiano, pieno di garbo, attento a qualsiasi finezza... e che generosità! Se tu vedessi la sua casa: splendida. Casa ricca! E come la tiene: che biancheria; che di­spensa, che cucina! Quanta grazia di Dio! Ma mi sem­bra che non ascolti affatto ciò che ti dico...

Francesca                      - Vi ascolto, mamma; ma non voglio in­terrompervi.

Irene                              - (proseguendo) In quella casa ci starai come una regina. Non avrai mai desideri, perché egli ti ama tanto e tutti li preverrà. Ma alla fine, mi farai andare in collera! Sembra che tu lo faccia apposta a non ri­spondermi. E' una cosa ben strana!

Francesca                      - Non arrabbiarti... non c’è nulla di strano!

Irene                              - Tu credi che io non capisca che cosa ti sei messa in testa? che io non immagini le tue pazzie?

Francesca                      - E allora, poiché Io sapete, mamma...

Irene                              - Vorresti ingannarmi? Sappi che ho molto vissuto, che ho più esperienza di quanto tu possa im­maginare e perciò non me la farai. Tu non riuscirai ad ingannarmi!...

Francesca                      - (tra se) Sono perduta.

Irene                              - (continuando) Tu non mi conti per nulla, come se non fossi tua madre? Ed io ti assicuro che se anche questa occasione non si fosse così benevolmente presentata, dal convento sarei venuta lo stesso a por­tarti via! Anche se avessi dovuto fare la strada a piedi sarei venuta a tirarti fuori di lì dentro. Vedi un po' che razza di cervello! Per aver vissuto un po' con le mo­nache, cosa credi, di essere anche tu una monachella? In qualunque modo si serve Iddio, fraschetta! U primo dovere di una ragazza è quello di ubbidire a sua madre, assisterla, consolarla...

Francesca                      - Tranquillizzatevi, mamma: io non ho mai pensato ad abbandonarvi.

Irene                              - Taci: lo so.

Francesca                      - No, mamma. Pachita non lascerà mai la sua mamma e non le darà mai dei dispiaceri.

Irene                              - E’ proprio vero quanto mi dici?

Francesca                      - Mamma, io non so mentire.

Irene                              - Ti credo. E allora farai quanto ti ho detto? E avrai un po' di giudizio con lui?

Francesca                      - (tra se) Poveretta me. Sono perduta. (Entra Don Diego e posa sulla tavola cappello e ca­stone),

Irene                              - Così tardi?

Diego                            - Appena in strada ho incontrato il rettore di Malaga e il dottor Padilla ed ho dovuto seguirli al caffè. Mi hanno rimpinzato di cioccolato! Ebbene, come vanno queste signore?

Irene                              - A meraviglia!

Diego                            - Anche Donna Pachita?

Irene                              - Pensa sempre alle sue monache, ed io le stavo ripetendo di aver invece cura di sua madre!

Diego                            - E’ possibile che...

Irene                              - Si meraviglia forse la signoria vostra? Sono ragazze. Non sanno ciò che amano e ciò che invece le incanta in apparenza. In un'età simile, poco a poco...

Diego                            - Non poco a poco. La sua età è precisamente quella dell'amore. E se la ragione è debole, l'impulso del cuore è violento. Donna Pachita, parliamoci fran­camente: volete ritornare al convento...

Irene                              - Ma se mi stava dicendo...

Diego                            - Vi prego, Donna Irene, lasciatela rispondere!

Francesca                      - Mamma, avete sentito quanto vi ho detto poco fa; per nessuna ragione al mondo voglio recarvi dispiacere...

Diego                            - (a Donna Irene) Lo dice però con aria molto afflitta!

Irene                              - E' naturale! Non vede vostra signoria che...

Diego                            - Ma tacete, Donna Irene. Di vero e di natu­rale in tutto ciò non c'è che il timore della ragazza che non osa opporsi ai desideri di sua madre, e in più di questo non osa dire parola. Ma se la si dovesse costrin­gere, sull'onor mio... come non detto, e la fanciulla è libera.

Francesca                      - No, signore. Io dico ciò che dice la mamma perché voglio obbedirla in ogni suo desiderio, in tutti i suoi comandi.

Diego                            - Comandare, figliola mia, non è esatto. I ge­nitori consigliano, propongono, secondo loro sembra più giusto ed assennato. Ma comandare in faccende simili sarebbe un errore che porterebbe a cattivi risultati! Quanti matrimoni non vediamo finir male perché furono costretti dal comando? No, no, questo non va bene. Donna Pachita, sappiate che io non sono uomo da sot­terfugi. Io so che la mia persona e la mia età non pos­sono ispirare amore, ma non credo cosa impossibile che una giovinetta a modo mi si possa affezionare e, in av­venire, anche amichevolmente amarmi... E questo credo possa rendere felice un matrimonio.

Irene                              - Don Diego, può ben credere che...

 Diego                           - Lasciatemi terminare, signora. Dunque, cara Francesca, io mi accorgo che il convento può aver eser­citato su di voi una grande influenza; se fosse così, io imploro la vostra sincerità. L'amore che vi porto non deve rendervi infelice, nè vostra madre può esigere da voi cosa ingiusta. Nessuno sarà mai felice per forza. Se vostra signoria non trova in me nulla dì suo gradimento; se il cuore arde di qualche altra passioncella, io sono uomo di cuore e di senno, e potete confessarlo...

Irene                              - Posso parlare, signore?

Diego                            - Pachita deve parlare, e senza interprete e senza suggeritore.

Irene                              - Parlerà quando io glie lo permetterò.

Diego                            - Potete permetterglielo; tocca a lei a rispon­dere. E' lei che dovrebbe sposarmi, non voi.

Irene                              - Né con lei, né con me, signor Don Diego! Ma in che conto ci tenete? Ben chiaramente mi scri­veva a questo proposito il padrino della ragazza, giorni fa. Egli non l'ha vista che portandola al fonte battesi­male, ma è uomo dotto e ani ha scritto in latino... e mi ha dato savi consigli.

Diego                            - E che c'entra tutto questo con il nostro ma­trimonio? Il latino del padrino non lo conclude davvero.

Irene                              - No, no, sono le supposizioni della signoria vostra che offendono noi povere due donne sole. E perciò vi ho detto che non siamo sole, che esiste un padrino e che scrive in latino. E come non mi devo dolere delle parole dette a mia figlia? Amori? Pen­sieri profani? A quell'angelo? Rispondi tu ora, Pachita. Parla a Don Diego se mai ci sono stati pretendenti alla tua mano...

Diego                            - Ma io sono tranquillo intorno...

Irene                              - Rispondigli!

Francesca                      - Io non so cosa dire perché vedo che le signorie vostre sono in collera...

Diego                            - No, figlia mia. Noi esponiamo, magari con un po' di calore - è vero - le nostre ragioni, ma non andiamo in collera. Donna Irene sa bene quanto io la stimi.

Irene                              - Lo so, ne sono gratissima, e perciò...

Diego                            - Non parliamo di gratitudine: non è il caso. Desidero soltanto che Pachita sia contenta.

Francesca                      - Lo sono, signore.

Diego                            - E che il matrimonio che le viene proposto sia di suo gradimento.

Irene                              - Noi non potremmo essere più liete dì tanta fortuna...

Diego                            - Quand'è cosi, non sarò certo io a darle il motivo di pentirsene: ella verrà quale mia sposa ono­rata e stimata e spero di sapermi meritare la sua stima e il suo affetto.

Francesca                      - Signor Don Diego, io vi sono grata per la benevolenza che voi portate ad una povera orfana.

Diego                            - Voi siete degna in tutto, per la vostra virtù e la vostra grazia; la fortuna non potrà mancarvi.

Irene                              - Vieni qui, figlia mia, vieni fra le mie braccia. Tu sei degna di tua madre. (L'abbraccia) E come mi sta a cuore il tuo bene e il tuo avvenire, io non domando altra grazia che ti vederti collocata prima che io muoia. Figlia mia, figlia della mia anima, ricordati di essere buona.

Francesca                      - (si commuove e piange; Donna Irene a sua volta si scioglie in lacrime) Anch'io vi amo tanto, madre mia...

Diego                            - Andiamo, su, calmatevi e andiamocene di qui; potrebbe giungere qualcuno e trovarci tutti in la­crime.

Irene                              - Vostra signoria dice bene.

(Don Diego e Donna Irene entrano nella stanza di quest'ultima; Fran­cesca sta per seguirli, ma sopraggiunge Rita che le fa segno di fermarsi).

Rita                               - Signorina, ehi, signorina! (Tossisce) E' giunto!

Francesca                      - Come?

Rita                               - In questo istante entra nella locanda e con vostra licenza l'ho subito abbracciato per voi. E1 qui che sale le scale.

Francesca                      - Mio Dio, che debbo fare?

Rita                               - Aver coraggio, prima di tutto; non perdersi in moine d'amore, andare diritti allo scopo... e ricordarsi che qui siamo circondati dì pericoli. Far presto, in­somma. Eccolo.

Carlo                             - (entrando dalla comune) Pachita, anima mia!

Francesca                      - Ben venuto, amor mio; in quale stato mi trovi!

Carlo                             - Perché tanta tristezza; credevo che la mia presenza ti rallegrasse».

Francesca                      - Mi rallegra, mi rende felice; ma mi sono accadute tali cose che mi rendono la più infelice delle donne... Devi sapere dunque... Appena scritta la lettera...

Rita                               - Ma sa tutto... e fate presto, che vostra madre è là. (Indica la stanza).

Carlo                             - Sola?

Francesca                      - No, purtroppo, ma in compagnia del mio promesso sposo.

Carlo                             - Per mille diavoli, chi mi trattiene? (Va piano fino all'uscio di Donna Irene ascolta un istante e ritorna in punta di piedi presso Pachita. Rita entra nella camera di Donna Irene).

Francesca                      - Che vuoi fare?

Carlo                             - Se dovessi dare ascolto al mio impulso, uc­ciderei quell'uomo. Ma sarà bene procedere con cau­tela per salvarti da quest'odioso assedio. Quel promesso sposo sarà senza dubbio un uomo d'onore e non posso insultarlo perché ama una fanciulla ; io non conosco tua madre...

Francesca                      - Mìa madre vuole per forza, e per l'in­teresse, maritarmi con lui. E vuole che le nozze siano celebrate subito, appena giunti a Madrid.

Carlo                             - Questo poi no. Questo non avverrà.

Francesca                      - Ma come? Mia madre non ha ormai altro scopo nella sua vita; mi ha minacciala, mi ha impaurita, e...

Carlo                             - E forse tu hai dato speranze? o hai pro­messo di sposare quell'uomo?

Francesca                      - Ingrato! Ma non sai dunque quanto ti amo?

Carlo                             - Lo so, Pachita, lo so e per questo non c'è da disperare. Prima di rinunciare a te, rinuncerò alla vita. E' mio il tuo cuore?

Francesca                      - Interamente, tutto il mio cuore è sol­tanto tuo.

Carlo                             - Meravigliosa creatura, ecco che la mia spe­ranza si anima. Una parola d'amore basta ad infondere il più grande coraggio. Sono felice di essere venuto qui, e se domani vi recate tutti a Madrid verrò anch'io. Tua madre saprà subito chi sono e quali oneste intenzioni ho. A Madrid posso contare sulla protezione dì un mio zio, che mi ha sempre fatto le veci di padre e che mi ama come un figlio. E' un uomo dabbene, ricco, e non mi negherà il suo aiuto per poterci sposare.

Francesca                      - Non m'importa delle ricchezze.

Carlo                             - Lo so. Nessuna ambizione può muovere un'anima come la tua.

Francesca                      - (disperata) Ma mia madre?! Io amo mia madre e non vorrei essere la causa della sua disperazione...

Carlo                             - Troveremo rimedio anche a questo... Hai fiducia in me?

Francesca                      - Tutta e sola in te è riposta la mia fi­ducia. (Piange).

Carlo                             - Non piangere: basto io solo per te. Non hai nulla da temere.

Francesca                      - E' possibile?

Carlo                             - Tutto è possibile. L'amore ha unito le nostre anime; solo la morte può dividerle per ricongiungerle subito in cielo.

Rita                               - (entrando) Signorina, la mamma vi cerca: vuol cenare ed andare a letto. E voi, signore innamo­rato, cercate di svignarvela in fretta senza compromet­tere la signorina con la vostra presenza.

Carlo                             - E' giusto. Non bisogna dar sospetti. Fino a domattina non potrò vedere il mio rivale.

Rita                               - E' un cavaliere d'onore, ricco e saggio. Porta un'ampia zimarra, una camicia bianca, e i suoi sessant'anni sotto la parrucca. (Va via per la porta comune).

Francesca                      - A domattina.

Carlo                             - A domattina, amor mio.

Francesca                      - Mio bene.

Carlo                             - Addio, anima mia.

Francesca                      - Addio, mio bene. (Entra nella camera di Donna Irene).

Carlo                             - (solo) Toglierla a me? Chiunque sia costai, con le buone o con le cattive, non me la toglierà. E sua madre non potrà essere così intransigente e crudele; non può essere madre se vuol fare un così indegno mercato dell'adorata sua figlia. Ma il danaro! Maledetta ricchezza! Devo combattere non con degli uomini, ma contro del denaro... (Calamocchia entra dalla comune).

Calamocchia                 - Signore, abbiamo questo capretto arrosto, una insalata condita da mano peccatrice, vino di Terzia, pane bianco e freschissimo...

Carlo                             - Non mangio. Posso soltanto riflettere e par­lare. Tu mangia, io rifletterò e parlerò mentre tu man­gerai. Dove hanno preparata la tavola?

Calamocchia                 - Laggiù, hanno preparata una piccola tavola che è una gioia vederla. (Rita entra dalla comune con piatti e tazze e la zuppiera contenente il brodo).

Rita                               - (a Carlo) Volete un po' di brodo?

Carlo                             - No, grazie.

Calamocchia                 - Se una bella ragazza volesse cenare con un po' di capretto, insalata, vino, pane fresco, resta servita.

Rita                               - La ragazza ha cenato e ringrazia il signor mi­litare. (Entra nella stanza di Donna Irene).

Calamocchia                 - Pupilla dei miei occhi! (Si sentono passi per le scale; Calamocchia va a guardare. Scorge Simone che sale e ne dà avviso al suo padrone) Per­bacco, qui c'è Simone! Che facciamo?

Cablo                            - Bisogna abbindolarlo, trovare qualche scusa, mentire...

Calamocchia                 - E' nelle mie mansioni: l'uomo è già nella rete. (Entra Simone) Simone? tu qui! Come va? Ma che sorpresa; e come mai da queste parti? Ma che novità è questa? E il tuo padrone è rimasto a Madrid? Sei venuto per qualche incarico del tuo padrone?

Simone                          - Non posso rispondere a tante domande, fa caldo, sono tutto impolverato, lasciami respirare!

Carlo                             -  Ho capito: sei venuto per qualche riscos­sione. (Simone s'accorge ora di Don Carlo).

Simone                          - Vostra signoria mi perdoni, non l'avevo veduta; questo manigoldo scherza sempre, e mi ha in­vestito di domande. No, signore, non sono venuto per delle riscossioni. Ma vostra signoria, non era col reg­gimento a Saragozza?

Calamocchia                 - Eravamo... ma poi... la strada è lunga... la vita è breve... (Prendendolo da parte e sot­tovoce) Maledetto, non fare più una domanda o sei morto!

Simone                          - Misericordia!

Cablo                            - Con tutto ciò non mi hai ancora detto se mio zio si trova a Madrid o in Àlcalà...

Simone                          - Ecco, dirò a vostra signoria, dirò in vero, che stando le cose... (sente la voce di Don Diego) che il padrone è qui che viene. Eccolo.

Diego                            - (entrando, ma ancora rivolto verso la camera con inchini e ringraziamenti) Non disturbatevi, quic'è luce, buona notte...

Cablo                            - Mio zio!

Calamocchia                 - Addio capretto, addio insalata.»

Diego                            - (uscendo dalla stanza di 'Donna Irene si incam-mina verso la sua, non si accorge del nipote ma intrav-vede qualcuno. Simone gli sta dietro con un lume in mano, che poi depone sulla tavola) Simone, chi c'è?

Simone                          - Un amico di vostra signoria...

Carlo                             - Sono perduto!

Diego                            - Un amico? Chi è? accosta il lume! (Simone ubbidisce e col lume fa luce sul viso di Don Carlo) Tu?Che fai qui? (Carlo tenta di prendere la mano dello zio, ma Don Diego gli si scosta in modo sdegnoso).

Cablo                            - Se andate in collera...

Diego                            - Non vado; lo sono. E non da questo mo­mento. Eccoti qui certo a recarmi dolori, sempre...

Cablo                            - Sono infelice, perdonatemi!

Diego                            - (commosso) Ti è successo qualche disgrazia?!

Calamocchia                 - Siamo tutti una disgrazia!

Dreco                            - Mio Dio, ma parla, dunque! Parlate... Non tenetemi in questo orgasmo... Avete ucciso qualcuno... hai avuto un duello?... sei inseguito? Bisogna nascon­derti...

Cablo                            - Nulla di tutto questo, mio amato zio!

Diego                            - E allora perché sei venuto da Saragozza senza che io lo sapessi? Perché sei imbarazzato ora, riveden­domi? Se hai commesso una nuova pazzia, questa volta costerà la vita al tuo povero zio! Hai dei debiti?

Cablo                            - Non ho fatto nulla che possa dispiacere alla signoria vostra...

Diego                            - Eppure una ragione ci deve essere della tua presenza in questa locanda.

Calamocchia                 - Siamo venuti per...

 Diego                           - T'ho detto di tacerò! (Al nipote) Vieni qua. (Lo prende per mano e lo conduce in disparte).

Cablo                            - Una leggerezza; una mancanza di riguardo verso vostra signoria...

Diego                            - Questo non conta più. Mi hai parlato di disgrazia, di infelicità, sei turbato, il tuo servo cerca di mentire... che cos'è questa faccenda? Un ufficiale non abbandona così senza ragione il suo reggimento. Non esiste una disciplina?

Carlo                             - In questo vostra signoria può stare tranquilla. Mi sono assentato dal reggimento col permesso dei su­periori; in tempo di pace non c'è un servizio molto ri­goroso... Infine io sono venuto qui soltanto per rivedervi.

Diego                            - Che storie son queste di rivedere lo zio ogni otto giorni? E' uno zelo che non ha nulla a che vedere con l'affetto, ed io desidero più saperti saggio e studioso che averti qui senza ragione. (Alza la voce e passeggia concitato) D'ora in poi prenderò dei provvedimenti; que­ste pazzie non si devono ripetere! E per adesso vostra signoria farà bene a ripartire immediatamente.

Cablo                            - Sì, zio.

Diego                            - All'istante. Non devi nemmeno dormire qui.

Calamocchia                 - Ma c'è un guaio, signore; i cavalli sono sfiniti dalla fatica, non possono più muoversi.

Diego                            - (a Calamocchia) E allora prendi la valigia e portala, con i cavalli, alla locanda del sobborgo, lontano da qui. Non dovete dormire qui, stanotte. Presto, dunque, ubbidisci, buonalana! (A Simone) Aiutalo, tu! Quanti denari hai addosso?

Simone                          - Qualche piastra...

Diego                            - Dammele. E tu va con quel bel tipo, aiutalo, e non ritornare fino a quando non sarai più che sicuro che tutti e due sono partiti. (/ due domestici entrano nella stanza di Don Carlo. Indicando la borsa col denaro al nipote) Prendete, signorino: qui v'è di più di quanto possa occorrervi per il viaggio...

Carlo                             - (fa per rifiutare) Non ho bisogno...

Diego                            - Prendi! E fa ciò che ti si dice. Quando io dispongo di qualche cosa so quel che faccio. E' per iltuo bene. Non ti accorgi che stavi commettendo una paz­zia? Non credere che sia mancanza di affetto... sai che ti ho sempre voluto bene... che ti sono amico... che puoi contare su di me come su tuo padre... ma ora fa ciò che ti dico... va alla locanda del sobborgo... (I due servi escono dalla camera di Don Carlo con la valigia e vanno dalla comune) ... lì potrete dormire mentre i cavalli man­geranno e si riposeranno. Non ritornare qui con nessuna scusa, non venire a Madrid. Alle quattro, in cammino. Ricordati: io saprò esattamente l'ora della tua partenza. Hai capito?

Carlo                             - Ho capito. Farò ciò che vostra signoria de­sidera.

Diego                            - Così va bene. Ti perdono. Iddio ti aiuti, ed io dimentico ciò che hai fatto l'altra volta a Saragozza.

Carlo                             - Che ho fatto?

Diego                            - Ti dico che lo so e che ti ho perdonato; non insistere con delle scuse, non è il momento. Addio!

Carlo                             - Addio. (Fa per andare).

Diego                            - Senza baciare la mano a vostro zio?

Carlo                             - Non ne avevo il coraggio. Perdonatemi. (Ba­cia la mano allo zio e si abbracciano).

Diego                            - Abbracciami, caro, se per sventura non do­vessi più rivederti!

Carlo                             - Che dice mai vostra .signoria? Che idee sono queste?

Diego                            - E chi lo sa, figliolo ; non sono più tanto gio­vane. Dimmi; hai debiti? Hai bisogno di nulla?

Cablo                            - No, zio, no.

Diego                            - E’ strano perché i denari non li hai mai rifiu­tati. Ti deve essere accaduto qualche cosa che non capi­sco. Beh! scriverò al mio Intendente che ti dia cento doppie per mio conto. Bada di spenderli con giudizio. Hai il vizio di giocare?

Carlo                             - Non ho mai giocato.

Diego                            - E' già una gran virtù. Mantienila. £ sii un buon soldato! Addio Carlo! (Si riabbracciano).

Carlo                             - (uscendo dalla comune) L'abbandono, povero mio amore, e la perdo per sempre!

Diego                            - (solo) La faccenda è accomodata. Egli lo saprà a suo tempo. E' un caro ragazzo, però. (Prende il lume e entra nella sua camera. La scena rimane al buio com­pleto, Francesca esce dalla camera di Donna Irene. Rita la segue con una candela che depone sulla tavola).

Francesca                      - Si saranno già coricati?

Rita                               - Certamente.

Francesca                      - Dovevano essere stanchi, dopo tanto cam­mino...

Rita                               - L'amore non sente stanchezza...

Francesca                      - L'amore fa miracoli...

Rita                               - E questo non sarà l'ultimo. Oh, che brutto fiasco farà Don Diego a Madrid! Peccato, perché è un gentiluomo.

Francesca                      - Tutto è qui. Don Diego è così per bene chemia madre non ha esitato a darmelo come fidanzato, ne io sarei costretta a dissimulare se fosse un uomo ri­pugnante.

Rita                               - Oh, Dio! Anch'io non ho più la testa. Devo ritirare dal balcone il fringuello e l'ho dimenticato. (Va verso la stanza di Donna Irene).

Francesca                      - Portalo qui, ma sta accorta a non sve­gliare la mamma. (Rita esce. Ritorna Simone dalla co­mune e trova Francesca).

Simone                          - Ancora qui, signorina? Il mio padrone sarà certo andato a Ietto. Ed io son sempre l'ultimo...

Francesca                      - Sono giunti ospiti nuovi?

Simone                          - Sono giunti e sono anche ripartiti,

Francesca                      - Chi erano? Li conoscete?

Simone                          - No, signorina. Un ufficiale ed il suo servo; venivano da Saragozza, a quanto mi pare di aver inteso.

Francesca                      - E dov'erano?

Simone                          - In quella stanza. (L'indica) Ma appena giunti hanno ripreso il loro bagaglio e sono andati via. Buona notte. (Entra nella stanza di Don Diego).

Francesca                      - (sola) Dio dell'anima mia! Che sarà ac­caduto? Come sono infelice! Non posso reggermi in piedi. (Si lascia cadere su una sedia).

Rita                               - (entra e depone la gabbia sulla tavola. Vedendo la padroncina mezzo svenuta) Signorina!

Francesca                      - E' finita! Tutto è finito. Sono partiti! Perfido uomo, perché ingannarmi così?

Rita                               - (va alla camera di Don Carlo, l'apre, si accerta che non c'è più nessuno) Partiti! Non capisco più nulla

Francesca                      - Come attribuire il motivo di un tale cam­biamento, di una simile risoluzione? Non mi ha mai amata! Ed io sono pazza, l'amo più della mia vita!

 Rita                              - Non so capire neppure io. (Cerca di rialzare Francesca e, sostenendola, di condurla nella sua camera) Ma qualche cosa di grave deve essere accaduto.

Francesca                      - Può aver avuto paura di un rivale? Sembra impossibile, eppure bisogna pensarlo!

Rita                               - E' il più cattivo dei pensieri! Noi non possiamo sapere che cosa è successo, ma l'amore non si arrende. Ne sapremo qualche cosa. L'amore bussa sempre quando vuol farsi ascoltare. Vedrete che il suo richiamo lo riu­diremo presto!

Francesca                      - (spaventatissima) L'avranno ucciso?

Rita                               - (corre alla porta di Don Diego e origlia; ritorna in punta di piedi) Russa! Non è ancora morto, pur. troppo!  (Le due donne entrano' nella stanza di Francesca).

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

(La scena è, ad arte, completamente al buio. Ma il pubblico vedrà, nella penombra, Simone disteso sulla panca. Sulla tavola un lume spento e la gabbia col frin­guello).

Diego                            - (entrando dalla sua camera) Impossibile pren­der sonno! Caldo, zanzare, agitazioni, pensieri... (Simone si sveglia e Don Diego lo scorge) Che cosa fai qui?

Simone                          - E' l'unico posto dove non si soffre il caldo.»

Diego                            - Ma la panca sarà dura...

Simone                          - Poiché son dure anche le mie ossa, non ne soffro... Vostra signoria non si sente bene?

Diego                            - Benissimo di salute, ma agitato di nervi e annoiato dal caldo e dalle zanzare. Non posso dormire. Che ore sono?

Simone                          - Mi pare di aver udite le tre al campanile, se ho udito bene e se non ho sognato.

Diego                            - Quante cose per stabilire le ore! Quei due saranno partiti, o staranno per partire...

Simone                          - Se vostra signoria avesse visto com'era ab­battuto il vostro signor nipote, non l'avrebbe mandato via così presto...

Diego                            - Non doveva venir qui senza motivo e senza permesso. Infine, poiché gli ho perdonato, anche se parte prima dell'alba, alla sua età non è cosa grave... Riposerà al reggimento invece di correre dietro alle donne... (Si odono dalla strada tre colpi battuti con le palme delle mani) Che strano rumore è questo? A quest'ora? Mi sembra un segnale! E per chi? (Suono di chitarra dalla strada).

Simone                          - Gente che passa per la contrada, sfaccendati in cerca di grattacapi; qualcuno, disturbato dal sonno, tirerà loro qualche brocca sulla testa.

Diego                            - Taci. Fanno una serenata. Hanno buon tempo.

Simone                          - Scommetterei che è un innamorato della domestica di questa locanda. E' un tipo romantico, e con le sue moine sembra una bertuccia. Mi sembra il tipo in­dicato per queste smangerie notturne.

Diego                            - Può darsi.

Simone                          - Ma è una vera serenata. Chi suona la chi­tarra non dov'essere uno zotico. Me ne intendo. Vostra signoria vuol vederli?

Diego                            - No, lasciamoli. Se ci scorgono si daranno im­portanza; crederanno che ci siamo alzati per loro, (Francesca esce dalla sua stanza, con Rita, e entrambe si diri­gono verso la finestra. Don Diego e Simone, subito avve­dendosi della presenza di qualcuno, per quanto al buio, si ritraggono per non essere scorti. Osservano la scena da un angolo in fondo).

Simone                          - (sottovoce) Accorto.

Diego                            - (zittendo) Silenzio.

Rita                               - (piano, a Francesca) Adagio, signorina.

Francesca                      - (piano) Seguendo la parete vado bene?

Rita                               - Mi sembra di sì. Ma non andate fino alla fine­stra; cerchiamo di capire prima se è proprio lui.

Francesca                      - Chi vuoi che sia? H segnale è quello, e altri non possono conoscerlo.

Rita                               - Ma possono averlo pensato, a caso, altre per­sone... (Si ripete la prima suonata).

Francesca                      - Non senti? E' la ripetizione. Tutti i se­gnali sono esatti. Non c'è più dubbio: è qui. (Si accosta alla finestra, apre le imposte e batte tre volte le palme delle mani) Zitta. (Cessa la musica) Rallegrati, cuor mio, è lui!

Simone                          - (pianissimo) Vostra signoria ha udito?

Diego                            - (cupo) Sì.

Simone                          - E vostra signoria si rende conto?

Diego                            - (ancor più cupo) Purtroppo.

Simone                          - Che vorrà dire?

Dìego                            - Non mi sembra difficile da capire. (Francesca si afaccia alla finestra e Rita le sta alle spalle).

Francesca                      - Sono io! Disperata e infelice mi hai la­sciata. Che cosa è successo? Che cosa significa quella fuga? (Si rivolta) Rita, sta accorta, sorveglia alle mie spalle. (Dì nuovo parlando dalla finestra) Come? Per sempre? Non capisco. Un foglio? Va bene, gettalo! (En­tra dalla finestra e cade in mezzo alla scena un foglio ar­rotolato) Sì, deve essere caduto qui; non lo vedo, ma Rita lo raccoglie. Non m'importa del foglio, dimmi che cosa è successo. Voglio saperlo dalla tua voce. Non ti ho mai visto così impaurito. Mi hai lasciata in tanta di­sperazione... (Simone si avvicina alla finestra con l'inten­zione di sottrarre il foglio, ma poiché è curvato nella ri­cerca urta Rita che si trova nella stessa posizione e nella medesima ricerca. Entrambi urtano la tavola e la gabbia si rovescia).

Rita                               - (con agitazione) Signorina, per carità, c'è gente. Scappiamo. (Le due donne si precipitano nella camera di Francesca).

Francesca                      - (con un filo di voce) Mi sento morire!

Diego                            - (cupo) Sono fuggite. Cerca la lettera! Un amante... ha un amante e non ancora diciassette anni. E viene dal convento e vorrebbe farsi monaca. Povero me e povere le mie illusioni!

Simone                          - (che ha trovato la lettera) Eccola!

Diego                            - Trova un lume, una lanterna; corri: nella scu­deria, in cucina, un lume all'istante, ti dico! (Simone esce, correndo e inciampando, dalla comune. Don Diego si lascia cadere su una sedia) Di chi è la colpa? Sua madre? lei? io? Sopra di chi dovrà scatenarsi il mio furore? Sembrava così celestiale agli occhi miei.., quanta felicità mi ero promessa! Sono geloso? alla mia età... è una vergognai Ma perché sento tanta indignazione? Non dovrei compiacermi di aver avuto dalla fortuna tanta as­sistenza in tempo? (Udendo rumore dalla stanza di Francesca, si ritrae nuovamente in fondo alla scena).

Rita                               - (entrando) Se ne sono andati. (Ascolta. Le sembra sia ritornato il silenzio e fa per avvicinarsi alla finestra e cercare la lettera) Quella fanciulla muore! Bi­sogna trovare questa lettera; se non la trovassi sarebbe un bel fatto! (Si avvicina alla finestra) Non c'è più nes­suno nella strada! Maledetta lettera!

Simone                          - (ritornando e illuminando la scena col suo lume) Ecco fatto.

Rita                               - (sorpresa, stupefatta) Sono perduta!

Diego                            - (accostandosi) Rita, tu qui? Che cerchi a quest'ora?

Rita                               - Cercavo... dirò, signore; abbiamo udito un forte rumore. (Si appiglia alla gabbia ancora rovesciata) Ah, ecco, ho capito! Era questa stupida gabbia; speriamo che il fringuello non sia morto,

Diego                            - (a denti stretti) Il fringuello non è morto.» è vivo... trema... ma è vivo... vivissimo...

Rita                               - (attacca la gabbia ad un chiodo della parete) Meno male che ho sentito e se il gatto lo vedeva?

Diego                            - Lo avrebbe mangiato, infatti.

Rita                               - Ormai non c'è più verso dì dormire, (Accende la candela che è sopra la tavola).

Diego                            - E Donna Pachita dorme?

Rita                               - Come un angelo!

Diego                            - Ha il sonno duro, l'angioletto! Con tanto ru­more... (Don Diego entra nella sua camera perché gli preme di leggere la lettera e Simone lo segue con il lume).

Francesca                      - (entrando) Sei sola? Hai trovato la lettera?

Rita                               - Non si trova quella maledetta lettera.

Francesca                      - E quei due? Che facevano qui? Avranno sentito quando parlavo dal balcone? Ma questa lettera!

Rita                               - Non la trovo. Non c'è.

Francesca                      - Non cercarla più: è evidente. L'hanno trovata e se ne sono impossessati. Ora tutto è finito dav­vero e io sono perduta per sempre. Ci cacceranno di casa tutte e due.

Rita                               - Credo di sì; questa volta la faccenda non ter­mina troppo bene.

Francesca                      - (lasciandosi cadere su una sedia) Sono disperata!

Rita                               - Ma Don Felice non si è spiegato? Non vi ha detto...

Francesca                      - Voleva farlo; ma siamo scappate. Ho capito soltanto che in quella lettera spiegava i motivi della sua fuga... E intanto assicurava che non si tratta di una fuga! Ma era così agitato!

Rita                               - Attenta, ritornano! (Si sente qualche rumore nella stanza di Don Diego).

Francesca                      - Non m'importa. Restiamo. Che cosa ho più da perdere, ormai? Non è finita per me? Voglio morire, e perciò facciano ciò che vogliono. (Entrano Don Diego e Simone).

Diego                            - Non ho bisogno di sapere altro; tutto è chiaro abbastanza. Fin troppo. (A Simone) Fa sellare il morello. Se sono partiti, raggiungili. Digli che gli impongo di ri­tornare qui.

Simone                          - Vado immediatamente.

Diego                            - (vedendo Pachita) Donna Pachita si è alzata di buon'ora?

Francesca                      - Sì, signore.

Diego                            - E Donna Irene ha chiamato?

Francesca                      - No, signore. (A Rita) Ma sarà bene tu vada nella sua camera a vedere se è già sveglia e se vuole vestirsi. (Rita entra nella camera di Donna Irene),

Diego                            - La signoria vostra ha dormito bene questa notte?

Francesca                      - No, signore, e voi?

Diego                            - Neppure.

Francesca                      - Faceva molto caldo.

Diego                            - Ed io ho avuto Io stesso caldo che avete avuto voi. Ma vi vedo abbattuta...

Francesca                      - Un poco...

Diego                            - E che vi sentite? (Le si siede accanto) Vi vedo troppo afflitta, Pachita, siete inquieta e avete pianto. Perché non vi confidate in me? Non vi amo io abba­stanza per meritare le vostre confidenze?

Francesca                      - Sì, signore.

Diego                            - Ebbene, perché non mi aprite il vostro cuore? Non sono forse un amico?

Francesca                      - E' questo, appunto, che mi obbliga a tacere.

Diego                            - Allora sono io la ragione della vostra deso­lazione!

Francesca                      - No, signore. Voi non mi avete offesa af­fatto, ed io non posso lagnarmi di nulla. Anzi...

Diego                            - Anzi... avanti... e allora parliamoci una volta almeno senza simulazioni e senza cerimonie; sincera­mente. Ditemi la verità: siete disposta o no a questo matrimonio? Se vi dicessero che siete libera di scegliere, mi sposereste ugualmente?

Francesca                      - (esitante) Certamente.

Diego                            - Riflettete prima di rispondere...

Francesca                      - Non ho detto di sì a vostra signoria?

Diego                            - Ma questo non conta: non è la vostra vera parola. E' la prima volta che parliamo da soli... io non sono un vecchio rimbambito che vi vuole ad ogni costo... e se voi preferite farvi monaca... ritornare in convento...

Francesca                      - (sincera) Ma nemmeno per sogno!

Diego                            - Ecco. Mi basta. Era questo che volevo sapere. E' dunque vostra madre soltanto che scopre in voi tanta inclinazione per la vita religiosa... Dunque, voi non pen­sate al convento; non avete altro nome di uomo in cuore, nutrite per me un sincero affetto...

Francesca                      - (piangendo) Lo nutro... Io nutro...

Diego                            - E allora perché piangete? (La scena incomincia ad illuminarsi sempre più della luce dell'alba) Infine, s'io affrettassi la nostra unione, voi acconsentireste a diventare mia sposa...

Francesca                      - (piangendo più forte) Acconsentirò... sì... farò ciò che mia madre vorrà...

Diego                            - ...ma che voi non volete. E poi, Pachita?

Francesca                      - (piangendo più forte) Sarò una sposa saggia tutta la vita... ih! (Piange a dirotto).

Diego                            - Sareste una sposa per forza, la peggiore sposa che si possa desiderare...

Francesca                      - (piange ancora più forte).

Diego                            - Ma perché vi ostinate in questo silenzio, in questo pianto che mi strazia? Ma non capite che io so ormai ciò che vi accade?

 Francesca                     - Se lo sapete non me lo dite, e se non lo sapete non me lo domandate.

Diego                            - Ecco i bei fratti dell'educazione! Ecco che cosa vuol dire allevare bene le fanciulle! Tatto si insegna loro fuor che la sincerità. Purché non dicano ciò che sentono, pronuncino pure un «sì» compromettente che le trascina all'infelicità tutta la vita.

Francesca                      - Questo ci insegnano; questo si esige. Ed io sono tanto infelice!

Diego                            - Non disperatevi, Pachita. Non vi abbandonate al dolore. Io sono un amico che vi ama... rimettetevi... non presentatevi a vostra madre in questo stato...

Francesca                      - Voi conoscete il carattere di mia madre come farò a presentarmi dinanzi a lei; come potrò guar­darla in faccia? Chi avrà pietà di me, di questa povera infelice!

Diego                            - Ne avrò io la cura, non la pietà! Asciugate i vostri begli occhi così sciupati e confidate nella mia protezione. (Le porge la mano),

Francesca                      - Davvero?

Diego                            - Non conoscete il mio cuore!

Francesca                      - Ora sì, lo conosco. (Vorrebbe baciargli la mano, ma Don Diego si sottrae al gesto) Sono un'in­grata; vostra signoria mi perdoni...

Diego                            - Non c'è bisogno di perdono... fu un equivoco da parte mia... ma voi siete innocente. Adesso andate da vostra madre e io vi raggiungerò fra poco. Non si può più stare in questo arnese. (Accenna alla sua veste da camera) C'è da diventare ridicoli...

Francesca                      - (avviandosi) Venite presto. (S'incammina, poi ritorna di scatto, prende la mano di Don Diego e glie la bacia).

Diego                            - Sì, verrò subito.

Simone                          - (parlando di dentro e poi comparendo) Ci sono, ci sono; li ho raggiunti mentre partivano...

Diego                            - Che ti ha detto?

Simone                          - Appena ho fatta la commissione è rimasto come tramortito!

Diego                            - Non incominciare ad intercedere grazia per lui…..

Simone                          - Io? No, signore.

Diego                            - E’ uno scellerato! Nessuna compassione! Ma digli che venga. (Entra nella sua camera per togliere la veste da camera).

Simone                          - (alla comune) Venite avanti, signorino, salite.

Carlo                             - (sale e compare in scena molto titubante) Dov'è?

Simone                          - (indica la camera; fa un cenno sulla veste da camera come per dire che è andato a cambiarsi. Intanto ritorna Don Diego),

Diego                            - Venga avanti il signorino. Molto bene! E mi dica per favore dove è stato da quando ci siamo lasciali.

Carlo                             - Alla locanda del sobborgo.

Diego                            - E non è uscito il signorino durante la notte?

Carlo                             - Sì, sono entrato in città... e...

Diego                            - Oh, benissimo. Allora possiamo sederci...

Carlo                             - Anch'io ho da dirvi cose della massima im­portanza... (Siedono).

Diego                            - Ti ascolto...

Carlo                             - Quando sono venuto ieri sera volevo parlarvi, ma non ne ho avuto il coraggio. Ora non è più possibile attendere...

Diego                            - L'ho visto! Ma venirla a vedere alle tre del mattino, mi sembra un po' troppo... E questo foglio... (Gli mostra la lettera lanciata dalla finestra e raccolta nella notte).

Cablo                            - (riconosce la sua lettera e, indignato, si alza in atto di congedarsi) Se vostra signoria sa tutto, perché me lo chiede? Perché non mi ha permesso di seguire il mio cammino, evitandomi così...

Diego                            - Tuo zio vuol conoscere questo affare e ti or­dina di dirgli sinceramente tutta la verità. Siedi. Dove hai conosciuto questa fanciulla? Che amore è questo? Da quali circostanze è nato? Quali promesse vi siete giu­rate? Dove l'hai vista la prima volta?

Carlo                             -  Vi dirò: quando ritornavo a Saragozza  dopo la mia ultima visita - giunsi a Guadalaxara e non avevo nessuna ragione di trattenermi in quella città. Ma l'Intendente mi forzò a rimanere la sera per prendere parte ad una festa nella sua villa. Fra le invitate c'era Donna Pachita in vacanza quella sera dal convento. Fu un istante. Quella sera stessa mi innamorai pazzamente di lei e, chiesto informazioni all'Intendente, della fan­ciulla, egli per scherzare mi presentò col nome di Don Felice da Toledo. La signorina gradì le mie assiduità di quella sera e...

Diego                            - Prosegui.

Carlo                             - ...e mi disse di essere figlia di una dama di Madrid, vedova, onorata...

Diego                            - La conosco. Continua.

Carlo                             - Ormai follemente innamorato mi confidai col mio domestico e quell'accidente, voi lo conoscete, mi aiutò a rivederla anche di notte. Prendemmo in fitto una casa poco lontana dal collegio e in presenza della sua cameriera potei sovente parlarle. I nostri segnali conve­nuti per incontrarci erano quelli che avete sentito questa notte. Nei tre mesi che mi trattenni presso di lei non svelai il mio nome e continuai a farle credere di essere Don Felice di Toledo per poterla giudicare a mio agio. Se ella davvero fosse stata degna di diventare mia sposa le avrei detto poi ogni cosa. Venne il momento della se­parazione e le sue lettere consolarono per qualche tempo la mia tristezza. Pochi giorni fa mi scrisse del suo pros­simo matrimonio ed io sono corso per impedirlo, per ri­velarmi a lei, per dirlo a voi, per presentarmi a sua madre, per giurarle eterno affetto, per condurla all'altare.

Diego                            - E credi di esserci?

Carlo                             - Se vostra signoria lo vorrà! Non domando ricchezze, non domando aiuti, solo vorrei che mi accom­pagnasse il vostro consenso e la vostra benedizione.

Diego                            - E l'altro? Il fidanzato impostole da sua madre?

Carlo                             - Non potrà sbarrarci il cammino, se capirà l'imposizione della madre.

Diego                            - Ma al suo cuore non pensi? Del suo dolore non t'importa nulla? Non soffro io come soffri tu?

Cablo                            - Zio?! voi...

Diego                            - Debbo io rinunciare alla mia felicità per la vostra?

Carlo                             - Ma noi ci amiamo...

Diego                            -  E io non ho forse gli stessi vostri diritti...

Carlo                             - Zio, questa conversazione e umiliante; se cre­dete che ella potrà essere felice con voi, sposatela. Io so ciò che mi resta da fare. La guerra è una buona occasione per cancellare tutto...

 Diego                           - Ragazzo! Ma mi credi dunque così sciocco? Non faccio che provare i tuoi sentimenti, come poco fa ho provato i suoi. Va, entra in quella stanza!

Carlo                             - Ma...

Diego                            - Entra. Obbedisci. (Carlo entra nella stanza di Don Diego),

Irene                              - (entrando) Buon giorno, Don Diego. (Spegne il lume che è acceso sulla tavola) Vostra signoria sta re­citando le preghiere?

Diego                            - (passeggiando nervoso) Le ho già recitate tutte...

Irene                              - Allora possiamo far portare il cioccolato; poi facciamo avvertire il padrone della locanda di preparare la carrozza... Ma vostra signoria mi sembra inquieto... qualche novità?

Diego                            - Novità, infatti, non ne mancano. Da ieri sera non vedo e ascolto che cose nuove!

Irene                              - Gesummaria! Mi sento male! Mi sento scuo­tere dal capo ai piedi. Dopo il mio ultimo parto... sono ormai passati diciassette anni...

Diego                            - Non è il momento di rimembranze gestative; debbo parlarvi di cosa della più grande importanza. Dove sono le ragazze?

Irene                              - Stanno facendo il bagaglio. Raccolgono le loro robe...

Diego                            - Benissimo. E allora sedete, signora. (Siedono) E fate in modo che le forze non vi abbandonino: tenetevi il capo con le mani e state ben salda sulla sedia. Vostra figlia è innamorata.

Irene                              - Ve l'avevo detto; ora ne siete sicuro...

Diego                            - Ne sono sicuro, ma vorrei non esserlo. E' innamorata, ma non di me!

Irene                              - Ma è un'enormità! E come può dir questo vostra signoria?

Diego                            - La mia signoria Io sa, ha veduto, ha sentito, ne è sicuro.

Irene                              - (piange) Povera me! Ecco che oppressa da tante infermità...

Diego                            - Signora, non fatemi scappare la pazienza...

Irene                              - Ho già capito... ho capito... volete ritirare la parola data. (Ancora lacrime),

Diego                            - Smettetela, signora, altrimenti vado in collera davvero. Donna Irene, abbiate la bontà di ascoltarmi con calma, non dite spropositi, non piangete, non invocate il cielo e lasciate in pace il Signore che non c'entra.

Irene                              - Non piango. Non piango.

Diego                            - Pachita da un anno coltiva una corrispondenza d'amore. Più volte si è incontrata col suo innamorato; si sono giurati amore eterno. (La lontananza non scemò, ma rese più saldo questo amore...

Irene                              - Sono storie, cattive lingue, calunnie... la mia piccina è innocente...

Diego                            - Innocente, ma innamorata. E non sono storie né calunnie. Lo so, ne sono certo.

Irene                              - Balordaggini!

Diego                            - Finitela! Si tratta di una lecita passione, e tutti noi fummo tratti in errore nel giudicarla. Leggete, (Le dà la lettera di Don Carlo, Donna Irene la legge e poi agitatissima si alza e corre alla porta della sua ca­mera per chiamare. Don Diego cerca invano di trat­tenerla).

Irene                              -  Io divento pazza! Francesca! Rita!

Diego                            - A che serve chiamarle adesso? Non avete il più piccolo senso di opportunità.

Irene                              - Voglio che si discolpi, che vi disinganni... (Entrano Francesca e Rita).

Rita                               - Signora?!

Francesca                      - Mamma, hai chiamato?

Irene                              - Sì  figlia mia. Ti ho chiamata perché questo signore ci tratta in modo poco conveniente. Che cos'è questa storia di un tuo amore disperato? A chi. hai dato la parola di matrimonio, se non a questo signore? Che inganni sono questi? Chi ha scritto questo foglio? (Porge la lettera di Don Carlo).

Rita                               - (a Francesca) E' la famosa lettera.

Francesca                      - (a Don Diego) Quale cattiveria! Così mantenete la vostra parola?

Diego                            - Davvero io sono il meno colpevole. (Prende per mano Pachita) Non temete. (A Donna Irene) E vostra signoria taccia, e non mi faccia diventare idrofobo. Pachita, vi ricordate dei tre colpi battuti con le palme delle mani, stanotte?

Francesca                      - Me ne ricorderò finche vivo,

Diego                            - E questo è il foglio che vi hanno gettato dalla finestra. Poiché è diretto a voi è bene che lo leggiate...

Francesca                      - (piangendo) Avrei dovuto leggerlo un pò prima, ma mi contento lo stesso. (Legge ad alta voce) a Mio amore, se non potrò parlarti, farò in modo che al­meno tu legga questo biglietto. Appena ci siamo lasciati ho incontrato nella locanda mio zio. Ho il sospetto che egli sia anche il mio rivale: è l'unico uomo ch'io non posso uccidere perché egli è un padre per me. Mi ordinò di lasciare immediatamente la città e non posso non ob­bedirlo. Sappi dunque ch'io non mi chiamo Don Felice da Toledo, ma Don Carlo. Sii felice. Io scomparirò per sempre dalla tua vita; ricordami come colui che ti ha amata fino alla morte. Carlo d'Urbino ».

Irene                              -  Che cosa mi tocca sentire! Sciagurata. Ti uc­ciderò...

Francesca                      - Mamma, perdonami!

Irene                              - (fa per percuoterla, ma Don Diego glie lo im­pedisce) Voglio ucciderti, voglio ucciderti.

Carlo                             - (entra dalla stanza di Don Diego e si precipita a impedire che Donna Irene tocchi Pachita) Questo poi no!

Irene                              - Non difendetela, non merita perdono. Devo ucciderla!

Francesca                      - Carlo! (Gli si butta tra le braccia e Carlo la protegge col suo corpo).

Irene -                           - Chi è costui? Che azione è questa? Tranello... scandalo... Ucciderò anche voi...

Diego                            - E' inutile tanta carneficina a parole; farete svegliare tutta la locanda... verrà gente... verranno i gen­darmi... Qui non vi sono scandali e non è il caso di gridare. Vostra signoria    - (a Irene) si calmi un momento, e voi due (ai ragazzi) abbracciatevi senza paure! (Carlo e Pachita, dopo essersi stretti, si rifugiano accanto allo zio protettore).

Irene                              - Dunque è vostro nipote?

Diego                            - E' mio nipote; anzi, sono i miei nipoti... Ho fatto un sogno... ma mi sono svegliato presto...

Francesca                      - Vostra signoria ci perdona?

Diego                            - Mi pare...

Irene                              - E’ possibile che vostra signoria intenda sacri­ficarsi fino a questo punto?

 Diego                           - Non mi sacrifico, Donna Irene; mi accorgo di non essere ancora uno sciocco e di non aver ancora perduto il buon senso..,

Francesca                      - (avvicinandosi alla madre) Mamma, mi perdoni; ci perdoni?

Irene                              - E come non perdonarvi di fronte alla gene­rosità, al disinteresse di un uomo così eccezionale?

Diego                            - Risparmiatevi e risparmiatemi, Donna Irene. Se voi aveste un'altra figlia vi farei una predica intorno all'abuso di autorità, ma poiché maritata questa la vostra vita non avrà più preoccupazioni... Abbracciate dunque i vostri figli... (Donna Irene esegue con trasporto).

Irene                              - Franceschina, figlia mia, ti benedico! (Guarda Carlo) Come sei stata di buon gusto! (Svenevole) Che bel ragazzo...

Rita                               - Signorina... e a me non date un bacio...

Francesca                      - Sì, Rita. (Esegue) E rimarrai sempre con noi giacche sei sempre stata per me un'amica...

Rita                               - (commovendosi) Grazie, signorina. (Bacia la mano alla ragazza e a Carlo).

Diego                            - Vieni, Pachita: dà un bacio anche a me. Il primo bacio del tuo nuovo genitore. (La bacia, la guarda) E pensare che per un po' ho pensato davvero di poterti baciare in altro modo. Perdonami. Ogni uomo ha i suoi cinque minuti di stupidità!

Calamocchia                 - ( entrando con la spada sguainata) Dov'è, dov'è il rivale? Io lo uccido!

Carlo                             - Bestia! Troppo tardi! taci!

Diego                            - (accennando a Calamocchia) Questo però è stupido tutta la vita!

FINE