Il tacchino

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ATTO PRIMO

IL TACCHINO

Tre atti brillanti

di

GEORGES FEYDEAU

Personaggi:

            VATELIN

          LUCIANA VATELIN, sua moglie

          GIOVANNI, maggiordomo

          PONTAGNAC

          CLOTILDE PONTAGNAC, sua moglie

          SOLDIGNAC

          MEGGY SOLDIGNAC, sua moglie

          REDILLON

          GIROLAMO, domestico

         PINCHARD

          SIGNORA PINCHARD

          ARMANDINA

          IL DIRETTORE

          CLARA, cameriera

          VITTORIO, valletto

          IL COMMISSARIO

Viaggiatori, gendarmi…

ATTO PRIMO

A Parigi, in casa Vatelin. Salotto elegante. Porta nel fondo. Due porte a destra e due a sinistra. Mobili a piacere. All’alzarsi del sipario, la scena rimane vuota un istante. Subito si odono rumori nel fondo e Lu­ciana, in abito da passeggio) col cappello un po’ di traverso sul capo, irrompe nel salotto, come spaven­tata.

LUCIANA (entra rapida e fa per chiudere la porta dietro di sè, ma non arriva in tempo a impedire che un bastone, introdotto da persona che non si vede, rimanga tra il battente e lo stipite. Si sforza inutil­mente di chiudere la porta) — Ah, mio Dio!... An­date via, signore! Andate via!

PONTAGNAC (cercando di spingere avanti la porta, che Luciana, alla sua volta, spinge indietro) — Si­gnora!... Signora!... ve ne supplico.

LUCIANA — No, no!... Ma che modi strani!... (Gri­dando, mentre lotta sempre contro la porta) Gio­vanni, Giovanni!... Rosina! Dio, non c’è nessuno!

PONTAGNAC — Signora, Signora!

LUCIANA — No, no!

PONTAGNAC (che ha finito per entrare) — Signora, vi scongiuro, ascoltatemi.

LUCIANA — E’ una violenza, la vostra... Vi im­pongo di uscire.

PONTAGNAC — Non abbiate timore, signora, non voglio farvi del male, tutt’altro! (Si avvicina a lei).

LUCIANA (ritraendosi) — Ma siete pazzo, voi?!

PONTAGNAC — Sì, signora, l’avete detto: sono paz­zo... di voi e per voi... Quel che ho fatto è audace... dite pure, indegno di un gentiluomo.., ma non me ne importa!... So una cosa soltanto: che vi amo, e che tutti i mezzi mi paiono buoni per giungere a voi.

LUCIANA — Signore, io non posso ascoltarvi più oltre... Andate via!

PONTAGNAC — Tutto, signora, ma andarmene, no! Vi ripeto che vi amo. M’è bastato vedervi; è stato come un colpo di fulmine per me! Da otto giorni, seguo i vostri passi... e voi ve ne siete accorta.

LUCIANA — Nemmeno per sogno!

PONTAGNAC — Via, confessatelo. Una donna si ac­corge sempre d’essere seguita.

LUCIANA — Sciocco!

PONTAGNAC — Dite, piuttosto, osservatore.

LUCIANA — In fin dei conti, signore, io non vi conosco.

PONTAGNAC — Nemmeno io... e ciò mi spiace a tal punto, che voglio far cessare questo stato di cose ormai poco conveniente anche per voi...

LUCIANA —~ Ma signore, finitela.

PONTAGNAC — Ah, Margherita!

LUCIANA _(dimenticandosi) — Luciana... Se vi piace.

PONTAGNAC — Grazie... Ah, Luciana!

LUCIANA — Ma signore, vi proibisco... Chi vi ha permesso?

PONTAGNAC — Scusate, siete stata voi a dirmi come vi dovevo chiamare.

LUCIANA — Per chi mi prendete?

PONTAGNAC — Per me... se mi sarà possibile!

LUCIANA — Sono una donna onesta, io!

PONTAGNAC — Tanto meglio! Adoro le donne one­ste: sono proprio il mio genere.

LUCIANA — Badate, signore: io volevo evitare uno scandalo, ma poiché voi non volete andarvene a nes­sun costo, chiamerò mio marito.

PONTAGNAC — Oh! Avete marito?

LUCIANA — Per servirvi.

PONTAGNAC — Ebbene, lasciamo quell’imbecille da parte!

LUCIANA — Imbecille mio marito?!

PONTAGNAC — I mariti delle donne che ci piaccio­no sono sempre imbecilli!

LUCIANA (risalendo la scena) — Va bene: adesso vedrete come vi tratterà quell’imbecille!... Per l’ulti­ma volta: volete uscire?

PONTAGNAC — Adesso meno di prima!

LUCIANA (si avvicina alla porta di destra e chiama)— Crépino, Crépino!

PONTAGNAC — Oh, che brutto nome!

LUCIANA — Sarà sempre più bello del vostro!... Crépino!

VATELIN — Mi hai chiamato, cara? (Riconoscen­do Pontagnac) Oh, Pontagnac! Voi qui? Caro Pon­tagnac!

LUCIANA — Oh!

PONTAGNAC (a voce alta) — Caro Vatelin!

VATELIN — Come va?

PONTAGNAC — Benissimo!

LUCIANA (tra sé) — Lo conosce?!

PONTAGNAC — Guarda, guarda che bella improv­visata!

VATELIN — Che bella improvvisata? Siete in casa mia: era logico trovarmici.

PONTAGNAC — Già... No... Volevo dire: « Oh, che bella improvvisata vi ho fatta! ».

VATELIN — Questo, sì!

LUCIANA — Che faccia tosta!... (A Vatelin) Come, tu conosci il signore?

VATELIN — Altro che!

PONTAGNAC (atterrito) — Sì, sì… egli mi... io lo...

(Perdendo la testa cava un napoleone di tasca e lo mette nelle mani di Luciana) Tenete... prendete... e non dite nulla, per carità!

LUCIANA (sbalordita) — Un napoleone a me?!

VATELIN — Oh! cosa avete?

PONTAGNAC— Io?... nulla!

VATELIN — Caro amico! Non potete credere quan­to vi sono grato.. io, che avevo deposto ogni speran­za di vedervi in casa mia! e me lo avevate promesso tante volte!

LUCIANA— Davvero, tu non potrai mai ringraziare abbastanza il signore d’essere venuto... com’è venuto! (ironicamente).

VATELIN (mentre Pontagnac si profonde in saluti, mal celando il suo turbamento) — Soprattutto, quando meno me lo aspettavo.

PONTAGNAC — Oh, grazie, grazie. Caro Vatelin... Signora!

VATELIN — Adesso, che ci penso: voi non cono­scete mia moglie... (Presentandoli) Luciana, uno dei miei buoni amici; Pontagnac, mia moglie!

PONTAGNAC — Signora!

VATELIN — Veramente, io non so se non sia stata un’imprudenza presentarti Pontagnac.

PONTAGNAC e LUCIANA — Perché?

VATELIN — Eh! un uomo così pericoloso! un pec­catore impenitente, un Don Giovanni di quella sorta!... Tu lo conosci, Luciana. Egli non può vedere una donna, senza farle la corte... le desidera tutte, lui!

LUCIANA (con aria motteggiatrìce) — Tutte?... Ah, ah! Questo non è lusinghiero per nessuna.

PONTAGNAC — Oh, signora! Suo marito esagera...

LUCIANA — Bella delusione per una donna che s’è potuta credere la preferita, e finisce per accorgersi ch’è stata soltanto... sommata alle altre.

PONTAGNAC— Vi ripeto, signora, ch’è una calun­nia..

LUCIANA — Oh, confesso che, se io fossi una di quelle “tutte” non ne andrei altera, no, davvero!... Ma sedete, signore. (Siede sul canapé, vicino al ca­mino).

PONTAGNAC (tra sé mentre siede sul canapé) — Non c’è dubbio: mi prende in giro.

VATELIN (sedendo) — Dite, Pontagnac: mi pare che mia moglie vi punzecchi.

PONTAGNAC — Pare anche a me!

LUCIANA — Bisogna, poi, che voi altri uomini ab­biate una ben triste opinione di noi, a giudicare dal modo con cui taluni di voi ci trattate. Passi per quel­li che ci corteggiano: è sempre una prova di defe­renza!Ma ve ne sono pure che sperano di prenderci d’assalto... per esempio, seguendoci per la strada.

VATELIN — Chi segue una signora per via, non può essere che un bellimbusto, un imbecille o un borsaiolo.

LUCIANA (molto cortesemente, a Pontagnac) — Sce­gliete!

PONTAGNAC (imbarazzato) — Ma, signora, io non capisco perché vi rivolgiate a me.         VATELIN — Oh! Mia moglie parla in generale.         

LUCIANA — Già!       

PONTAGNAC— Volevo ben dire!

LUCIANA _Ebbene, io non la penso come voi su tale argomento. A me pare che, se   fossi uomo, sif­fatto metodo di conquista non mi garberebbe... Per­ché, una delle due: o la signora non ne vorrebbe sapere, e io rimarrei con le pive nel sacco: bel gusto! o mi lascerebbe fare, e ciò mi toglierebbe subito ogni desiderio di lei.                  

PONTAGNAC — Giustissimo!

LUCIANA — Sì, ma pare che non tutti gli uomini la pensino così. Almeno a giudicare da un certo tale che si ostina a seguirmi!

PONTAGNAC (tra sé, sulle spine) — E dalli!

VATELIN (alzandosi e andando verso sua moglie) —Qualcuno ti segue?

LUCIANA— Tutti i giorni!

PONTAGNAC (alzandosi e venendo in avanti) — Dite un po’: se parlassimo d’altro? Mi pare che questo discorso…

VATELIN (avvicinandosi a lui) — Tutt’altro! M’im­porta di venirne a capo. Pensate: un uomo cheosa seguire mia moglie!

PONTAGNAC — Oh, non sarà stato lui a seguirla: sarà stata lei, per combinazione a precederlo!

LUCIANA — Vi posso assicurare di no: è lui che misegue sempre.

PONTAGNAC— Con tanta discrezione!

VATELIN — Che ne sapete voi? Un uomo che se­gue una signoraè sempre un indiscreto!... Ma tu, perché non mi hai avvisato subito?

LUCIANA_ A che pro? Quel signore mi pareva così poco pericoloso!                    

VATELIN— Sia pure... Ma, almeno, avresti dovuto cercare di sbarazzartene. Alla fin fine, dev’essere noioso avere sempre un uomo alle calcagna!

LUCIANA — Altro che noioso!

VATELIN — D’altra parte, è umiliante per me!... Bisognava., che so io... prendere una carrozza... en­trare in una bottega...

LUCIANA — L’ho fatto: sono entrata in una pastic­ceria, ma è entrato anche lui.

VATELIN— Cara mia, quando un uomo vi segue, non si entra in una pasticceria; si va piuttosto da un gioielliere... Perché non hai fatto così?

LUCIANA— Ho fatto anche questo, ma il mio inse­guitore mi ha aspettata sulla porta.

PONTAGNAC (tra sé) — Non si sa mai!

VATELIN — Non c’è che dire: ostinato e furbo, l’uomo. (A Pontagnac) Ma è inconcepibile, amico mio, che a Parigi vi siano tanti maleducati.

PONTAGNAC — Oh, maleducati... Dite, piuttosto... Se parlassimo d’altro?

VATELIN — In tal modo un marito non può lasciare uscire sua moglie sola, senza esporla alle imperti­nenze di un mascalzone! (Luciana si alza e va a sedersi sul pouf).

PONTAGNAC (furioso) — Vatelin!

VATELIN — Cosa?

PONTAGNAC (reprimendosi) — Voi andate troppo oltre, adesso!

VATELIN — Ma che troppo! Ah! Vorrei che mi ve­nisse tra i piedi quel bellimbusto!

LUCIANA (seduta sul pouf) — Davvero? Non è poi tanto difficile... Non è vero, signor Pontagnac?

PONTAGNAC — Eh? Che ore sono?

VATELIN — Come? Pontagnac lo conosce?

LUCIANA — Altro che! Via, diteci il suo nome, si­gnor Pontagnac.

PONTAGNAC (sulle spine) — Ma, signora, come vo­lete che io...?

LUCIANA — Vi aiuterò io: si chiama Ponta... Pon­ta... Su, continuate... Ponta... chè? PONTAGNAC — Pontachè!

LUCIANA — No... Pontagnac!

VATELIN — Voi?

PONTAGNAC (sforzandosi di ridere) — Ma sì, sì... e vero! eh! eh! ero io!

VATELIN (scoppiando dalle risa) — Ah! ah! Mat­tacchione!

PONTAGNAC — Ma, capirete bene... io sapevo con chi avevo a che fare... Sapevo ch’era la signora Vatelin... Allora, mi sono detto: “Voglio metterla un po’ in imbarazzo... farò mostra di seguirla”.

LUCIANA — Facevate mostra?!

PONTAGNAC — Dicevo: sarà una bella sorpresa per lei il giorno in cui ci troveremo faccia a faccia in casa di suo marito!

VATELIN — Frottole!... Voi non sapevate nulla... Questo vi insegnerà a seguire le signore!... Volevate, forse, far cascate una moglie, e, invece, v’è cascato addosso il marito! La lezione è meritata!

PONTAGNAC — Ebbene, sì, lo confesso... Non me ne volete, però?

VATELIN — Io? Nemmeno per sogno!... So bene che siete un amico, e perciò... E, poi, io sono sicuro di mia moglie... D’altra parte, in queste faccende, un marito è ridicolo, quando non sa... Poniamo che io non avessi saputo: voi seguendo mia moglie avre­ste potuto sapere chi è; incontrandomi avreste po­tuto sapere ch’io sono suo marito; ebbene, in questo caso, davanti a voi, io avrei fatto la figura di un imbecille... Nel vostro caso, no; voi sapete che io so; io so che voi sapete ch’io so; noi sappiamo che noi sappiamo che sappiamo, e allora.., non me ne importa niente: non faccio più la figura di un imbe­cille!

PONTAGNAC — Già!

VATELIN — Piuttosto, la cosa deve seccare a voi.

PONTAGNAC — A me?

VATELIN — Già, secca sempre di aver preso un granchio!

PONTAGNAC — Nel mio caso, no; poiché mi ha procurato il piacere di incontrarvi.

VATELIN — Il piacere è mio.

PONTAGNAC — Siete molto gentile.

VATELIN — Niente affatto.

LUCIANA (tra sé) — Come sono carini tutt’e due... (A voce alta) Io sono veramente felice di essere stata l’anello di congiunzione tra noi.

VATELIN — Ora, rimane una sola cosa da fare: chiedere scusa a mia moglie.

PONTAGNAC (avvicinandosi a L’u.ciana) — Signora, mi sento molto colpevole.

LUCIANA — Via, tutti uguali, voi scapoli.

VATELIN — Scapolo, lui? Ma è ammogliato!

LUCIANA — Possibile?!

PONTAGNAC — Sì, signora.

LUCIANA — Ammogliato?! Voi siete ammogliato?! Ma è vergognoso.

PONTAGNAC — Vi pare?

LUCIANA — Vergognoso è la parola. E come mai?

PONTAGNAC — Cosa volete?... Lo dovete sapere an­che voi... Un bel giorno ci si incontra al municipio... non si sa come, per forza delle cose. Il sindaco ci fa delle domande. Si risponde “sì”... così... perché c’è gente che aspetta... e poi, quando tutti se ne sono andati, ci si accorge d’essere marito e moglie... e si tratta di tutta la vita!

LUCIANA — Davvero voi non meritate scuse!

PONTAGNAC — Perché ho preso moglie?

LUCIANA — Perché, avendo moglie, vi comportate in questo modo... Ma cosa ne dice la signora Pon­tagnac?

PONTAGNAC — Vi confesso ch’io non ho l’abitudine di metterla a parte dei fatti miei.

LUCIANA — Fate benissimo. Ma se credete che il vostro modo di procedere sia onesto... Vi parrebbe indelicato, non è vero, intaccare anche menoma­mente la sostanza di vostra moglie? Ma quando si tratta di quell’altro bene, che pure le appartiene, che le è dovuto, che fa parte del patrimonio sociale, la fedeltà coniugale, ah, questo non lo risparmiate; tutt’altro!... Chi ne vuole un bocconcino? Avanti, avanti, la prima venuta! Ce ne rimarrà sempre abbastanza! E così, sbocconcella di qua, sbocconcella di là: cosa v’importa? tanto, è vostra moglie che paga! Vi sembra onesto questo?

PONTAGNAC — Dato che io sono abbastanza ricco da poterne sostenere le spese, mi pare che...

LUCIANA — Vi pare?!

PONTAGNAC — Poniamo che Rothschild...

LUCIANA — Innanzi tutto, voi non siete Rothschild o, se lo siete stato, ormai non lo potete essere più.

PONTAGNAC — Che ne sapete voi?

VATELIN — E’ un po’ severa mia moglie con voi!

LUCIANA — Ammettiamo pure che lo siate ancora. Ma si tratta di beni che non vi appartengono più. Voi li avete ceduti a vostra moglie, e non potete disporre di un capitale che avete alienato.

PONTAGNAC — Scusate... Il capitale, io non lo toc­co: vi assicuro ch’è intatto!... Vi vorreste negare an­che il diritto di spendere un po’ delle rendite? No­tate che, per contratto, io ho l’amministrazione dei beni... Ora, purché abbia impiegata la maggior parte in rendita dello Stato, non è poi male che faccia qualche impiego in valori esteri.

LUCIANA — Quando uno èammogliato, deve fare soltanto impieghi da buon padre di famiglia.

PONTAGNAC — Signora, io non ho figli. Del resto, voi parlate come un notaio.

LUCIANA — Sì, ma vorrei vedere cosa direste, se vostra moglie facesse altrettanto!

PONTAGNAC — Siamo giusti: non è uguale.

LUCIANA (alzandosi e venendo verso la ribalta) —Già! Non èuguale. Per voi uomini non èmai la stessa cosa... Meritereste che vostra moglie andasse un po’ anche lei a sprecare i beni comuni alla roulette,’...

VATELIN — Bada, Luciana: darai ai nervi a Pontagnac, se continuerai a fargli la morale. (Pontagnac va a poggiare un ginocchio sul pouf e ascolta).

 LUCIANA — Oh, non parlo per lui. Per te, piutto­sto, dato il caso che ti saltasse il ticchio di seguire l’esempio del signor Pontagnac.

VATELIN — Io? Ma no, cara.

LUCIANA — Non si sa mai. Bada, però, che te ne verrebbe male. Perché, sai pure, con me la cosa andrebbe per le spicce.

PONTAGNAC (con gioia mal dissimulata, lascia il pouf) — Veramente?

VATELIN — Pare che vi faccia piacere?!

PONTAGNAC — A me? Nemmeno per sogno... Ho detto: “Veramente!” così, come avrei detto: « Oh, non èpossibile! ».

LUCIANA — Io non conosco la signora Pontagnac, ma la compiango.

PONTAGNAC — A me lo dite? Vi assicuro che la compiango anch’io ogni volta che la tradisco.

LUCIANA — Allora la compiangerete spesso.

VATELIN — E ora che conoscete la strada di casa mia, amo sperare che ci condurrete la signora Pon­tagnac. Mia moglie ed io saremmo felici di cono­scerla.

PONTAGNAC (tra sé) — Mia moglie! Ah, no. (A voce alta) Grazie, grazie. Anche mia moglie ed io sarem­mo felici.., ma, disgraziatamente, non è possibile.

VATELIN e LUCIANA — Perché?

PONTAGNAC — Povera donna! E’ piena di reuma­tismi.~

VATELIN e LUCIANA — Davvero?

PONTAGNAC — Figuratevi! E’ sempre inchiodata in casa... tutt’al più, nelle giornate di gran sole, esce in una carrozzella spinta a mano.

VATELIN — Poveretta; non lo sapevo; scusate...

LUCIANA — Che sventura!

VATELIN — Peccato, davvero! Ma andremo noi a vederla, se permettete.

PONTAGNAC — Figuratevi!

VATELIN — Dove abita?

PONTAGNAC — A Cannes.

VATELIN — Diavolo! E’ un po’ lontano.

PONTAGNAC — Ci sono treni diretti... I medici le hanno prescritto il mezzogiorno, per la sua salute.

LUCIANA Peccato!

GIOVANNI (entrando) — Signor padrone, c’è di là una persona che ha portato un quadro. VATELIN — Ah, il mio «Corot ». Ho comperato un « Corot ».

PONTAGNAC — Sì?

VATELIN — L’ho pagato seicento franchi.

PONTAGNAC — Non è caro. E’ firmato?

VATELIN — E’ firmato «Poitevin », ma il nego­ziante mi garantisce che la firma è falsa... Io farò togliere Poitevin, e rimarrà un «Corot ». (A Gio­vanni) Va bene, fatelo passare nello studio... Per­mettete un momento: sbrigo il negoziante e sono subito da voi... Voglio anche farvi vedere i miei quadri: voi siete uomo di gusto e tengo al vostro giudizio.

PONTAGNAC — Con piacere. (Vatelin esce dalla pri­ma porta di destra).

LUCIANA — Sedete.

PONTAGNAC — Non vi faccio più paura, adesso? (Sedendo) Vi devo essere sembrato molto ridicolo.

LUCIANA (sorridendo) — Vi pare?

PONTAGNAC — Mi pare che mi burliate.

LUCIANA — Ditemi un po’: cosa speravate da me, per seguirmi con tanta insistenza? PONTAGNAC — Oh, Dio! speravo ciò che ogni uomo spera dalla donna che segue, quando non sa chi sia.

LUCIANA — Siete sincero, non c’è che dire!

PONTAGNAC — Se vi avessi detto che vi seguivo per chiedervi ciò che pensate di Voltaire, probabil­mente non mi avreste creduto.

LUCIANA — Incominciate a divertirmi... Ditemi un’altra cosa: il vostro metodo vi procura qualche fortuna? C’è veramente qualche signora che...

PONTAGNAC — Ce n’è: possiamo calcolare il tren­tatrè per cento.

LUCIANA — Oggi, però, siete cascato male: vi è capitata una delle altre sessantasette per cento.

PONTAGNAC — Non parliamone più... Se sapeste a quanto ne sono pentito. Ma cosa volete? è una vera disgrazia un temperamento come il mio. E’ più forte di me: io ho la donna nel sangue.

LUCIANA — Il sindaco ve ne ha pur data una.

PONTAGNAC — Una. Mia moglie. Sì, è una donna graziosa, ma lo è per me da troppo tempo. E’ un romanzo che ho sfogliato così spesso!

LUCIANA — Tanto più che non deve essere molto comodo voltarne le pagine.

PONTAGNAC  -Perché?

LUCIANA — I reumatismi!

PONTAGNAC — Che reumatismi?

LUCIANA — L’avete detto voi...

PONTAGNAC — Già, è vero. Dunque, con una mo­glie piena di reumatismi, quando la provvidenza mette sul vostro cammino una creatura squisita...

LUCIANA — Basta, adesso! Speravo che io scherzo fosse finito.

PONTAGNAC — Allora, confessatelo francamente: voi amate un altro.

LUCIANA — Ma sapete che la vostra impertinenza passa ogni limite? Dunque, voi non ammettete che una donna possa essere moglie fedele? Se vi resiste, vuoi dire, per voi, che ama un altro. Non trovate altra ragione alla sua onestà?... Ma che genere di donne avete avvicinato, finora? (Siede sul divano).

PONTAGNAC (sedendo sulla sedia) — Tutti i generi e anche le suocere!

LUCIANA — Non me ne rallegro con voi!

PONTAGNAC — Vi prego di credere che ho avvici­nato le suocere, soltanto a causa delle nuore.

LUCIANA - Meno male, allora.

PONTAGNAC — Scusate, signora: mi promettete di non ripetere a nessuno ciò che vi dico?

LUCIANA — Nemmeno a mio marito.

PONTAGNAC — Non chiedo di più... Ebbene, io stento a credere che voi possiate amarlo.

LUCIANA — Tralasciate pure di crederlo, se vi può far piacere.

PONTAGNAC — Moltissimo. Vostro marito è un’otti­ma persona... io gli voglio molto bene...

LUCIANA — Me ne sono accorta, subito.

PONTAGNAC — Ma, in confidenza, non è uomo ca­pace di ispirare una passione.

LUCIANA (con severità) — E’ un marito.

PONTAGNAC (alzandosi) — Vedete: siete anche voi della mia opinione.

LUCIANA — Niente affatto!

PONTAGNAC — Ma sì, ma sì. Se voi lo amaste nel vero senso della parola, non avreste bisogno di dare una ragione del vostro amore. La donna che ama, dice semplicemente che ama. Voi, al contrario, dite: “Lo amo, perché è mio marito”. Ma l’amore, cara signora, non è una conseguenza: è un principio. Esiste, vale soltanto allo stato di essenza; voi, invece, ce lo servite come estratto.

LUCIANA — Avete certi paragoni da profumiere, voi.

PONTAGNAC — Cosa prova il marito? Tutti possono essere mariti: basta essere accetti alla famiglia e trovarsi in buone condizioni... di salute. Per essere marito non si richiedono attitudini maggiori di quel­le che occorrono per essere impiegato in una banca, o capo-sezione in un ministero qualunque. Per essere amante, invece, occorre ben altro: ci vuole la scintilla, ci vuole un’arte tutta particolare. L’amore legale è il pranzo domestico quotidiano: sempre lo stesso commensale, la stessa tavola, gli stessi cibi, che finiscono con stancare qualunque stomaco. L’amore, chiamiamolo pure illegale, per una donna maritata è la cena “en cabinet particulier»: un pa­sto prelibato, raffinato, che ha sempre qualcosa di nuovo, di piccante: quando è finito, si ha più fame di prima.

LUCIANA — Dunque, voi vi presentate per offrir­mi... da cena?

PONTAGNAC — Per l’appunto.

LUCIANA — Vi ringrazio, ma vi devo confessare che io ho la fortuna di avere un marito, il quale mi offre già l’una cosa e l’altra. E’ un cuoco molto abile, ve l’assicuro.

PONTAGNAC — Caso raro!

LUCIANA — Perciò non desidero di più. Almeno fino a quando mio marito non andrà a portare le sue abilità... culinarie fuori di casa.

PONTAGNAC — Ah! Ma se egli lo facesse...

LUCIANA — Oh, sarebbe un’altra cosa, allora. Sono della scuola realistica, io. In tal caso: occhio per occhio.

PONTAGNAC — E dente per dente. Benissimo..

LUCIANA — Vi assicuro che andrei sino in fondo, sino alla frutta...

PONTAGNAC — Siete incantevole.

LUCIANA — Figuratevi. Prima, mai; dopo, subito... come dicevo l’altro giorno a...

PONTAGNAC (notando la reticenza di Luciana) —A...?

LUCIANA — A... una mia cugina, la quale insisteva molto per sapere se io non mi risolverei un giorno...

PONTAGNAC (con certa incredulità) — A una cu­gina?

GIOVANNI (dal fondo, annunciando) — Il signor Rédillon.

LUCIANA — Giungete proprio a proposito, mio ca­ro: ho bisogno del vostro aiuto per convincere il signore... (Presentando) Il signor Ernesto Rédillon, nostro amico... Il signor Pontagnac, amico di mio marito,.. (I due uominisi salutano. A Rédillon) Voi che mi conoscete bene, dite al signore che io sono il modello delle mogli, e che non tradirò mai mio marito se non sarà lui a darmene l’esempio.

REDILLON— Ma perché mi fate questa domanda?

LUCIANA — Ve ne prego... il signore vorrebbe sa­pere...

RÉDILLON — Il signore? Ah, il signore vorrebbe sa­pere? Graziosa conversazione, davvero!... Mi pare che, messa tale questione sul tappeto tra voi, io fac­cia qui da terzo incomodo.

LUCIANA — Voi? Tutt’altro. Sono stata io a chia­marVi in mio aiuto.

PONTAGNAC— Oh, noi scherziamo.

RÉDILLON — Va bene! Vuoi. dire che il signore è un vecchio amico, un amico intimo di casa... seb­bene io non lo abbia mai incontrato.

LUCIANA — Il signore? lo conosco da venti minuti soltanto.

RÉDILLON— Di bene in meglio. Mia cara amica, mi dispiace di non poter rispondere alla domanda che mi avete rivolta. Io ho troppa stima per le don­ne, da intavolare con esse certi discorsi, che in bocca mia stimerei fuori posto... Mi dichiaro, quindi, in­competente. Vatelin non è in casa?

LUCIANA — E’ di là in ammirazione di un “Corot”. Anzi, vado a vedere se, per caso, non si sia smar­rito nel paesaggio, e ve lo riconduco qui subito. Vi ho presentati l’uno all’altro; vi conoscete; vi posso lasciare insieme. (Pontagnac e Rédillon si inchi­nano. Luciana esce. Una pausa. I due uomini si squadrano di sbieco).

PONTAGNAC(tra sé) — Se non sbaglio questo deve essere il cugino. (Scena muta. I due uomini sono risaliti al fondo della scena, e guardano i quadri. Essi ridiscendono, a poco a poco, uno a destra, l’al­tra a sinistra. Di tanto in tanto, si guardano di sfug­gita, si squadrano, ma affettano indifferenza quando i loro sguardi si incontrano. Redillon. va al canapé, sul quale si lascia cadere, e incomincia a zufolare. Pontagnac vicino alla tavola) Scusi.

REDILLON — Signore...

PONTAGNAC— Credevo che mi avesse rivolto la parola.

RÉDILLON — Ha sbagliato.

PONTAGNAC — Scusi.

REDILLON— Si figuri. (Si rimette a zufolare. Pon­tagnac, dopo una pausa, indispettito, si pone canticchiare un’altra aria. Rédillon ha cavato di tasca un giornale e, seduto sul canapé, voltando le spalle a Pontagnac, si mette a leggere. Pontagnac, che ha veduto la ” Revue des deux mondes” sulla tavola, si dà a scorrerla, con l’aria di chi non ha di meglio da fare).

LUCIANA — Mi spiace assai di dover interrompere la vostra conversazione... (I due uomini chiudono, l’uno il giornale, l’altro la rivista, e si alzano) ma mio marito vi prega di passare da lui, signor Ponta­gnac: vuole mostrarvi il suoi « Corot».

PONTAGNAC— Ah, vuole mostrarmi...

LUCIANA — Guardate: di là a destra, sempre di­ritto...

PONTAGNAC (mentre si avvia a destra, senza entu­siasmo) — Di là?

LUCIANA — Sì, sì, andate.

PONTAGNAC — Vado, vado! (Dopo una pausa) Il signore non. desidera vedere anche lui il “Corot”?

LUCIANA — No. Non è appassionato di quadri.

PONTAGNAC— Ah, allora! (Esce a destra).

LUCIANA (a Rédillon, che va su e giù, nervosa­mente, per la scena) — Sedete, mio caro.

RÉDILLON — Grazie! Sono venuto in carrozza... ho bisogno di fare del moto.

LUCIANA— Cosa avete?

RÉDILLON — Nulla. Vi pare, forse, che abbia qual­che cosa?

LUCIANA — Avete l’aria di un orso in gabbia. La presenza di quel signore vi dà ai nervi, forse?

RÉDILLON — A me? Auff! Cosa me ne importa! Se credete che io mi occupi di quel signore...

LUCIANA— Credevo.

REDILLON — Toglietevelo pure di testa... (Pausa) Chi è quell’uomo?

LUCIANA — Ma se non vi occupate di lui.

RÉDILLON — Vi chiedo scusa della mia curiosità. (Dopo una pausa) Vi fa la corte?

LUCIANA— Sì.

RÉDILLON — Benone!

LUCIANA — Credete di averne voi la privativa?

RÉDILLON — Oh, per me non è la stessa cosa. Io vi amo.

LUCIANA — Potrebbe dire lo stesso quel signore.

RÉDILLON — Andiamo: un uomo che conoscete da dieci minuti.

LUCIANA — Prego: da venti minuti. Di vista, poi, lo conosco da molto tempo. Da otto giorni, mi segue per la strada.

REDILLON — Mascalzone!

LUCIANA — Grazie per lui.

RÉDILLON— Ve lo avrà presentatovostro marito, naturalmente: avrà creduto di farla da uomo di spi­rito, lui!... (Luciana sorride, aprendo le braccia in segno di assentimento) Bel gusto. Tutti uguali i mariti. Si direbbe che facciano apposta a mettersi nei pericoli da loro stessi.

LUCIANA — Via, Rédillon...

RÉDILLON— Oh, io dico ciò che penso. E poi, quando capita loro… ciò che può capitare... allora, si lamentano... In fin dei conti, che gusto ci trova Vatelin a introdurre estranei in casa sua? O che ne abbiamo bisogno, noi? Siamo già in tre, e non. gli basta? (Vedendo Luciana che ride) Cosa volete? Io non posso vedere un uomo gironzolarvi attorno: divento pazzo. Eppure non posso andare a dirlo a vostro marito.

LUCIANA (andandogli  vicina) — Via, via… calma­tevi.

REDILLON (piagnucolando) — Già, lo sapevo che oggi mi sarebbe capitata qualche disgrazia... Ho so­gnato, stanotte, che mi cadevano tutti i denti... me erano cascati già quarantacinque. Quando sogno che mi cascano i denti, non c’è santi! L’ultima volta, mi hanno rubato una cagnetta alla quale volevo molto bene... Oggi, tentano di portarmi via la mia amante.

LUCIANA —            La vostra amante? Ma io non sono la vostra amante.

REDILLON — Siete l’amante del mio cuore... questo nessuno me lo può contestare; nemmeno voi.

LUCIANA — Sia pure, se mi scaricate di ogni responsabilità!

REDILLON — Giuratemi che non amerete quell’uomo, mai.

LUCIANA— Amare quell’uomo, io? Ma siete pazzo? non lo conosco nemmeno! Credete veramente che mi curi di lui?

REDILLON — Ah, grazie, grazie. Innanzi tutto, avrete ­notato com’è antipatico... Avete osservato il suo naso? Con un naso simile si è incapaci di amare.

LUCIANA — Ah!

REDILLON — Guardate il mio, invece. Io ho il naso come si deve… ho il vero naso per l’amore... il naso dell’uomo che ama.

LUCIANA — Come lo sapete?

REDILLON — Tutti me l’hanno detto.

LUCIANA — Ah! allora...

REDILLON — Luciana... non dimenticate ciò che avete promesso: che non apparterrete mai ad altri e a me.

LUCIANA — Adagio! Ve l’ho promesso, sì; ma ad una condizione: che io debba, un giorno, apparte­nere a qualcuno che non sia mio marito. Sapete pure che, per questo, occorrono circostanze parti­colari...

REDILLON (con un sospiro) — Lo so, lo so... Bisogna e vostro marito vi tradisca... Allora, sì che... (Tra ) Ma cosa aspetta? che temperamento ha? (A voce alta) Ma voi non pensate alla crudeltà del supplizio m’imponete? Il supplizio di un uomo, al quale si dia continuamente il vermouth... Senza mai offr­irgli da pranzo!

LUCIANA — Cosa volete che vi dica? Andate a pranzare altrove.

REDILLON — Bisogna pure che lo faccia... Sono di carne ed ossa, io! Ho fame, vi ripeto, ho fame.

LUCIANA (ridendo) — Dio, come diventate brutto quando avete fame!

REDILLON — Ridete, ridete pure, donna senza cuore.

LUCIANA — Dovrei piangere, forse? Ora, poi, tanto meno, poiché so che vi offrite dei piatti extra.

RÉDILLON — Ah, sì: bella roba i miei piatti extra. Ve li lascio tutti, io! No, non avete il diritto di rim­proverarmeli: è colpa vostra, se... Se voi voleste, non cercherei altro, io! Ma voi non volete... Ebbene, tanto peggio per voi.

LUCIANA — Accomodatevi pure!

RÉDILLON (con fatuità) — Già!

LUCIANA — Epoi, mi venite a raccontare che mi amate.

RÉDILLON— Certamente... Ciò che faccio non mi impedisce certo di amarvi. E’ colpa mia se, a fianco dell’uomo che ama, c’è la bestia?

LUCIANA — Ci siamo! Mi pareva strano che non si dovesse parlare anche della bestia... Ma, dite un po’ non potreste darvi la briga di ammazzarla... quella lì?

RÉDILLON — Sono incapace di far male a chic­chessia.

LUCIANA — Poveretto1 Allora... tenetela bene a fre­no, la vostra bestia.

RÉDILLON— Si fa presto a dirlo: la bestia èpiù forte di me, mi trascina e bisogna che io la conduca a spasso.

LUCIANA — Oh, gli uomini! E come si chiama?

RÉDILLON— Chi?

LUCIANA — La vostra.., passeggiata.

RÉDILLON— « Pluplu ». Abbreviativo di Pluchette.

LUCIANA — Carino!

RÉDILLON (andando vicino a Luciana, dietro al ca­napé) — Oh, ma il cuore non c’entra per nulla, lo sapete. Cosa conta Pluplu, per me? Per me esiste una donna soltanto... e quella donna siete voi. Cosa importa l’altare, sul quale sacrifico, se l’olocausto è per voi?

LUCIANA — Come siete buono!

RÉDILLON — Il mio corpo è vicino a Pluplu... ma il mio pensiero vola a voi, l’anima mia è tutta per voi... sono vicino a Pluplu, e immagino che siate voi... Chiudo Pluplu tra le mie braccia, ma mi pare di abbracciare voi... Io le dico: “Taci! Non voglio sentire la tua voce”. Chiudo gli occhi e la chiamo Luciana!

LUCIANA — Ma è una usurpazione. Io non voglio. E l’accetta lei?

REDILLON— Pluplu? Altro che. Anzi, essa si crede obbligata a fare come me... Chiude gli occhi e mi chiama Clemente.

LUCIANA (alzandosi) — Graziosissima, davvero! Si direbbe una commedia recitata da attori che ripie­ghino la parte.

REDILLON(alzandosi, con uno slancio di passione) Oh, Luciana, Luciana! Quando porrete termine alle torture ch’io soffro? Quando verrà il giorno in. cui mi direte: “ Rédillon, eccomi qua: ti apparten­go; fa di me ciò che vuoi”?

LUCIANA — Andiamo, Rédillon: siate serio.

RÉDILLON (inginocchiandosi davanti a lei) — Sono serissimo, Luciana. Ti adoro.

LUCIANA — Su, alzatevi. Mio marito può entrare e ricordatevi che vi ha già colto due volte in ginoc­chio davanti a me. (Lo respinge. La spinta fa cadere Rèdillon seduto per terra. Luciana va rapidamente a sedere vicino alla tavola).

VATELIN (entra e si arresta, vedendo Rédillon) —Ma cosa succede? Siete ancora per terra, voi?

REDILLON— Come state?

VATELIN — Grazie, benissimo!... Ma è una vera mania, la vostra. (A Pontagnac) Non lo credereste, mio caro: eccolo lì il mio amico Rédillon... (Presen­tando) Il signor Rédillon... il signor Pontagnac.

PONTAGNAC— Non occorre: ci conosciamo già.

VATELIN — Davvero non ho mai visto un tipo simile. Figuratevi che ogni qualvolta egli mi aspetta in questo salotto.., e sì che le sedie non mancano... io lo. trovo in quella posizione.

PONTAGNAC(seccamente) — Ah!

REDILLON — Vi dirò: è un’abitudine contratta da bambino. Mi piaceva assai di rotolarmi per terra... Così, ogni qualvolta vado in casa d’altri, piuttosto che stare in piedi...

VATELIN — Che strana abitudine!

RÉDILLON(alzandosi) — Non strana: comoda.

LUCIANA — E così, signor Pontagnac, avete ammi­rato i quadri di mio marito?

VATELIN — Altro che! N’è rimasto sbalordito; mi ha detto che nemmeno i musei hanno una raccolta simile. (A Pontagnac) Non è vero?

PONTAGNAC — Certamente! (Si ode il suono di un campanello).

VATELIN (indicando la prima porta a sinistra) —E ne ho ancora molti di là... Se volete...

PONTAGNAC— No, grazie. Non tutte le gioie nella stessa giornata. Preferisco riserbarmene qualcuna per un’altra volta.

VATELIN — E’ un vero peccato che la povera si­gnora Pontagnac sia in quello stato. Le avrei fatto vedere la mia galleria con vero piacere.

PONTAGNAC — Ah, già, peccato! I suoi reumatismi.

GIOVANNI(dal fondo) — La signora Pontagnac.

TUTTI — Eh?!

PONTAGNAC(di soprassalto, tra sé) — Accidenti, mia moglie!

TUTTI— Vostra moglie?

PONTAGNAC— Eh!... Sì... No... può essere.

LUCIANA — La credevamo a Cannes. Ce lo detto voi.

VATELIN — Già, con ireumatismi.

PONTAGNAC — Cosa volete che vi dica? Può darsi che sia guarita. I medici sono capaci di tutto. (Al domestico) Non siamo in casa. Dite che non ci siamo.

LUCIANA — Niente affatto! (Al domestico) Fatela entrare!

PONTAGNAC — Già, già. Volevo dire: « Fatela en­trare»... Sentite, per favore: per ragioni mie parti­colari, che vi spiegherò dopo, se mia moglie vi fa­cesse qualche domanda, non una parola... O, piut­tosto, rispondete come me... Siamo intesi? Rispon­dete come me.

CLOTILDE (entrando) — Vi chiedo scusa, signora, signori...

PONTAGNAC (andandole incontro) — Oh, mia cara, tu qui? Che bella improvvisata. Ero sul punto di andarmene. Dunque, salutiamo questa bella com­pagnia e... andiamo. Vieni, andiamo via.

TUTTI— Ma perché? Cosa dice? Ma niente af­fatto.

CLOTILDE(sedendo) — Vi chiedo scusa, signora, se mi sono permessa di venire in casa  vostra, senza aver avuto l’onore di esservi presentata.

LUCIANA (seduta) — Figuratevi, signora. Anzi, toc­ca a me...

VATELIN— Certamente... Credete pure...

CLOTILDE— Cosa volete? Da tanto tempo sento parlare di voi da mio marito.

VATELIN — Davvero? Siete molto buono, Ponta­gnac!

CLOTILDE — Per questo, ho pensato che tale con­dizione di cose non dovesse continuare. Amici così intimi le cui mogli non si conoscono...

LUCIANA e VATELIN— Così intimi?!

CLOTILDE — Potete essere certi che mio marito vi èmolto affezionato a segno da rendermene gelosa. Tutti i giorni, la stessa cosa. “Dove vai? “. « In casa Vatelin »... E tutte le sere, anche: “ Dove vai? “. “In casa Vatelin “. Sempre in casa Vatelin.

VATELIN — Come in casa Vatelin?

PONTAGNAC — Ma già. Questo non dovrebbe me­ravigliarvi. (Prontamente a sua moglie) Non hai vi­sto la galleria del signor Vatelin? Non l’hai vista? Allora vieni subito a vederla. Ti assicuro che lo merita. Andiamo a vederla, subito.

CLOTILDE — Ma no... no. Si può sapere cos’hai?
PONTAGNAC — Cos’ ho? io? Nulla. Cosa vuoi che abbia?

VATELIN — Io non capisco nulla.

REDILLON (seduto sul canapé, tra sé) — Dio, come mi diverto; davvero mi diverto.

CLOTILDE — Mi pare che tu sia molto turbato!

PONTAGNAC — Turbato io? Cosa ti salta in mente? Tu, piuttosto vieni qui a raccontare ai coniugi Va­telin ch’io vengo da loro tutti i giorni... Ma lo sanno pure ch’io vengo da loro tutti i giorni. Ditelo voi, Vatelin: sapete ch’io vengo qui tutti i giorni non è vero?

VATELIN — Ma sì!

PONTAGNAC (a Clotilde) — Vedi?

RÉDILLON (alzandosi e facendosi in mezzo, con aria canzonatrice) — Anzi, io stesso ce l’ho incon­trato parecchie volte.

PONTAGNAC (dopo un istante di meraviglia, sotto­voce) — Grazie, signore, grazie!

RÉDILLON (sottovoce) — Si figuri! (Torna a sedere).

PONTAGNAC (a Clotilde) — Ebbene, sei convinta, adesso?

CLOTILDE (sempre dubbiosa si alza) — Sì, sì.

PONTAGNAC — Volevo pur dire!

VÀTELIN (sottovoce a Pontagnac) — Aspettate, vi caverò d’impaccio io.

PONTAGNAC (sottovoce) — Bravo. Grazie.

VATELIN — Vi devo anche assicurareche il mio amico Pontagnac nelle sue visite frequenti mi ha parlato spesso di voi...

CLOTILDE — Davvero?

PONTAGNAC (sottovoce) — Bene. Questo ci voleva. Grazie.

VATELIN — Tanto, che io avrei sollecitato da mol­to tempo l’onore di esservi presentato, se non avessi saputo che eravate a Cannes...

CLOTILDE — A Cannes?

PONTAGNAC (tra sé) — Asino. (A voce alta, facendo fare una giravolta a Vatelin per mettersi tra lui e la signora Pontagnac) Ma no, ma no, cosa dite, adesso? A Cannes? Ma dove andate a prenderla, Cannes?

VATELIN — Come: dove vado a prendere Cannes? Non vado a prenderla: la lascio dove si trova, ma voi ci avete sempre detto che vostra moglie era a Cannes.

PONTAGNAC — Ma chi vi ha mai parlato di Cannes?

VATELIN (che vuole aggiustare la cosa) — Forse sbaglio con Cannes. Io ho detto... cioè, volevo dire che, se avessi saputo che voi eravate a...

PONTAGNAC — In nessun posto.

VATELIN (non sapendo più che cosa dire) — Per l’appunto... che eravate in nessun posto.

PONTAGNAC — Ecco. (Sottovoce) Finitela, insom­ma.

VATELIN — La finisco, insomma.

RÉDILLON (tra sé) — Dio, come mi diverto, come mi diverto.

CLOTILDE (tra sé) — Incomincio proprio a credere che i miei sospetti fossero fondati... (A voce alta) Oh, signor Vatelin, voi non mi dovete scuse. Io sa­pevo di non poter fare assegnamento sopra una vo­stra visita; mio marito mi aveva informata delle vo­stre condizioni di salute.

VATELIN — Delle mie condizioni di salute?

PONTAGNAC (tra sé) — Questa ci mancava.

CLOTILDE — Già, i reumatismi.

VATELIN — Ah, voi?

CLOTILDE — Io?! No... Voi; poiché siete costretto a farvi trascinare in carrozzella...

VATELIN — Scusate, signora.., siete voi...

CLOTILDE — No, siete voi...

PONTAGNAC (avvicinandosi a Vatelin) — Ma sì ,si... siete voi! E cosa v’importa? Non è mica un disonore soffrire di reumatismi.

VATELIN — Va bene, va bene!... Vuoi dire che li abbiamo tutti e due.

PONTAGNAC (tra sé) — Adesso, gliela faccio finire! (Prendendo Vatelin sottobraccio, e trascinandolo a sinistra) Venite, venite a farmi vedere la vostra gal­leria... io non l’ho ancora visitata tutta, non l’ho ancora visitata interamente.

VATELIN — Sì, sì, con piacere. Andiamo a vedere la galleria.

CLOTILDE — Edmondo, ti tratterrai molto di là?

PONTAGNAC — No, no... ritorno subito.

VATELIN — Ritorniamo subito. (Escono dalla pri­ma porta di sinistra).

CLOTILDE — Ah, questo è troppo. Signora, ve ne prego, siate franca: si son presi gioco di me?

LUCIANA — Sì, signora. Poiché gli uomini si so­stengono tanto tra di loro, occorre che anche tra noi donne ci sia un po’ di solidarietà. E’ vero: si sono presi gioco di voi. (Siede).

CLOTILDE (seduta) — Lo sospettavo.

LUCIANA — Vostro marito non è affatto intimo del mio. Sono soci del medesimo club: ecco tutto. Mai, prima di oggi, il signor Pontagnac aveva messo piede in casa nostra. E se il caso ha voluto che voi ce l’abbiate incontrato adesso, non credete che egli sia venuto per trovare un amico, no davvero! Bensì per una donna, ch’egli non conosceva, e che credeva quella che non è...

CLOTILDE — Una donna?

LUCIANA —Per l’appunto. Io. Dopo avermi seguita per via, con insistenza degna di...

RÉDILLON (sempre sedutosul divano) — Di un mascalzone!

CLOTILDE — Ah, sì!

LUCIANA — E’ entrato a forza sino in questo sa­lotto, dove la sua mala ventura gli ha fatto cono­scere che la donna a lui ignota era la moglie di un amico suo. Ben gli sta. Come vedete, vostro marito ha mentito, ed in quanto alle sue pretese visite qui, esse erano soltanto un alibiper nascon­dere le sue visite.., altrove.

CLOTILDE — Infame!

RÉDILLON — Ben detto!

LUCIANA (alzandosi) — Perdonatemi, signora, se vi ho parlato con franchezza, quasi brutale. Ma voi avete fatto appello alla mia sincerità, ed io sen­tivo il dovere di aprirvi gli occhi interamente.

CLOTILDE (alzandosi) — Me li avete spalancati. Ve ne ringrazio.

LUCIANA — Uguale franchezza vorrei che gli altri avessero con me. Se, per avventura, mio marito...

RÉDILLON (con aria scoraggiata) — Oh, quello lì... non c’è pericolo purtroppo!

LUCIANA — Dite: « Per fortuna.», vi prego.

CLOTILDE — I miei sospetti erano fondati. Adesso so ciò che volevo sapere: tanto meglio. A noi due, signor Pontagnac. Io faccio finta di nulla, ma vi tengo d’occhio, vi spio, vi colgo sul fatto, e allora...

LUCIANA — Allora?

CLOTILDE — Ah, ah; non ho bisogno di dirvi altro.

LUCIANA — Occhio per occhio?

CLOTILDE — Ben detto.

REDILLON (alzandosi) — Brava.

LUCIANA (riscaldandosi, come la signora Pontagnac)— Come me. Se mai mio marito mi... REDILLON — Sì, sì!

CLOTILDE — Per fortuna sono giovane e bella... non mi mancherà la scelta.

LUCIANA — Anche a me!

CLOTILDE — Forse, non è modesto ciò che dico...

REDILLON — Non importa: quando uno è in col­lera, non ha il dovere di essere modesto.

CLOTILDE — In ogni caso, non mi sarà difficile trovare più d’uno, che sarebbe felice...

REDILLON — Altro che!

LUCIANA — E io? Non è vero, Rédillon?

RÉDILLON — Oh, voi, poi...

CLOTILDE — Né crederete che mi darei la briga di sceglierlo, io. Nemmeno per sogno. Sento che ciò m’impedirebbe. di assaporare bene la mia vendetta. Non importa chi. Il primo imbecille che mi capi­tasse tra i piedi.

REDILLON — Benissimo.

CLOTILDE (a Rédillon) — Voi, ad esempio, se vi facesse piacere.

REDILLON (guardando Clotilde) — Io sono già impegnato, signora.

CLOTILDE — Non importa, ditemi il vostro nome e datemi il vostro indirizzo.

REDILLON — Rédillon, via dei Corni, 25.

CLOTILDE — Rédillon, via dei Corni, 25. Va bene, siamo intesi, signore. Lasciate ch’io colga mio marito e corro subito da voi e vi dico: signor Rédillon, prendetemi: io vi appartengo. (Si lascia cadere nelle braccia di Redillon).

LUCIANA (ripetendo l’azione di Clotilde) — Ed io pure, Rédillon, vi appartengo.

REDILLON (con le due donne tra le braccia) — Ah, signore!... (Tra sé) Che strana fortuna mi capita al condizionale!

CLOTILDE — I nostri mariti. Non una parola di più! (A Vatelin e a Pontagnac, i quali, poco rassicurati, con aspetto timido, rimangono nel vano della porta)— Avanti, avanti, signori. Perché restate sulla so­glia? Cosa avete?

VATELIN e PONTAGNAC — Nulla!. Nulla!

CLOTILDE — Ebbene, avete visitata la galleria?... Sei rimasto soddisfatto? (A Pontagnac). PONTAGNAC — Soddisfattissimo!

CLOTILDE — Frattanto, noi abbiamo parlato molto di te.

PONTAGNAC (inquieto) — Ah!

CLOTILDE — Anzi, il signore (accennando Rédillon) m’ha detto che ti ha incontrato qui di frequente, e che ti stima molto.

PONTAGNAC — Davvero? Ha detto questo?... (A Ré­dillon) Oh, signore, grazie, grazie. Che buoni ami­ci siete tutti.

CLOTILDE (accennando Rédillon) — Il signore è così simpatico. Ho avuto agio di conoscerlo e di stimarlo a mia volta.

PONTAGNAC — Simpaticissimo, davvero!... (A Ré­dillon) Caro signore, mia moglie riceve tutti i ve­nerdì... Se ci vorrete fare l’onore...

REDILLON — Figuratevi, con il maggiòr piacere.

GIOVANNI (a Vatelin) — C’è di là una signora che ha bisogno di parlare.

VATELIN (risalendo la scena) — Chi è?

GIOVANNI — Non so. Una signora che non ho mai vista.

LUCIANA — Una signora? Cosa vuole?

VATELIN — Cara mia, come vuoi che lo sappia lui? (A Giovanni) Avreste dovuto chiederle il nome.

LUCIANA (a Giovanni) — E’ bella?

GIOVANNI (con una smorfia) — Così.

VATELIN — Scusa, mia cara, non è decoroso chie­dere al domestico la sua opinione sulle persone che vengono da me... (A Giovanni) Le avete detto che ero in casa?

GIOVANNI — Sì, signore. L’ho fatta attendere nel salottino.

VATELIN — Va bene. Vengo subito. (Giovanni esce).

CLOTILDE — Andiamo... Signor Vatelin, voi avete da fare: io non voglio abusare del vostro tempo, soprattutto quando lo dovete impiegare nel ricevere una signora.

VATELIN — Sarà una cliente. Non c’è fretta.

CLOTILDE — Arrivederci, cara signora... (A Ré­dillon) Molto lieta, signore...

PONTAGNAC (venendote in aiuto) — Rédillon.

RÉDILLON — Via dei Corni, 25.

CLOTILDE — Benissimo. (A Pontagnac) Prendi nota.

RÉDILLON — Non importa. Troverete il mio indi­rizzo nella guida di Parigi.

PONTAGNAC — Tanto meglio, ma io ho l’abitudine di segnare nel mio taccuino i recapiti di tutte le mie conoscenze e dei miei amici... Se mi permettete già di annoverarvi tra questi.

REDILLON — Figuratevi, via dei Corni...

PONTAGNAC — Grazie.

RÉDILLON — Vengo con voi: ho qualche cosa da fare... (A Luciana) Arrivederci, signora. (Sottovoce) Arrivederci, Luciana mia! (A Vatelin) Arrivederci.

PONTAGNAC — Andiamo. (Stringe la mano a Va­telin, poi a Luciana) Signora... (Sottovoce, in fretta) Riconduco a casa mia moglie, e torno subito: voglio spiegarvi la mia condotta. (Escono).

VATELIN — Lasciami un momento, mia cara: mi libero di quella signora. (Suona).

LUCIANA — Fa’ pure, caro. (Esce dalla seconda porta di sinistra).

GIOVANNI — Il signore ha suonato?

VATELIN — Sì, fate entrare quella signora. (Gio­vanni esce dalla prima porta di destra; poi ritorna, introducendo Meggy, ed esce. Vatelin è seduto al suo tavolo e sta mettendo in ordine alcune carte, per darsi aria di persona occupata, voltando le. spalle alla persona che entra) Si accomodi pure, signora.

MEGGY (lo raggiunge alle spalle, gli prende il capo e gli dà due grossi baci sugli occhi. Accento inglese molto teatrale) — Oh, my love!

VATELIN (stupito, si alza) — Chi è?... (Riconoscen­dola) La signora Soldignac! Meggy! Voi?

MEGGY — Io! Yes!

VATELIN — Voi, qui? Ma è una pazzia.

MEGGY — Perché?

VATELIN — Perché vi credevo a Londra.

MEGGY — Io averlo lasciato.

VATELIN— E vostro marito?

MEGGY — Lui essere a Parigi.., lui essere venuto per affare.

VATELIN — Ma voi cosa siete venuta a fare?

MEGGY — What? Cosa io essere venuta a fare?... Oh, ingrate! Oh, you naughty thing! How can you ask me: «What? »! I have sacrified every thing, my duties, my conjugal fidelity.

VATELIN (volendo interromperla) — Sì, sì! (Va ad ascoltare alla porta di Luciana).

MEGGY — I leave London! I cross the seas. All this to reach him; and when at last I find him, he askes me: “What have you come here for?”.

VATELIN — Smettetela col vostro inglese, perché io non ci capisco un’acca! Come mai siete qui? Per­ché siete venuta? Cosa volete da me?

MEGGY — Cosa io volere? Voi domandare cosa io volere? Io volere voi.

VATELIN — Me!

MEGGY— Oh, yes... Mio cretino!

VATELIN — Cretino, un corno. Crépino.

MEGGY — Crepino, cretino, essere lo stesso.

VATELIN — Sembra a voi!

MEGGY — Oh! yes... Perché io amare voi sempre moltissimo... Ah, dear me! Per trovare voi, io aver lasciato Londra, io aver attraversato il Manica, che ha fatto me molto malato... Oh, yes (mossa di chi ha il mal di mare) Come dire voi, questo?

VATELIN — Non importa... Ho capito!

MEGGY — Io quasi morto... ma essere lo stesso. Io dire.. “Io vedere lui... io essere con lui otto giorni”. (Siede).

VATELIN (cadendo sopra una sedia) — Otto giorni? Una settimana? Voi volete trattenervi qui una set­timana?

MEGGY — Oh, yes! Una settimana, tutto settimana per voi. Ah, voi dire me voi amare me ancora. Per­ché voi non rispondere lettere di io? Io dire già: « Oh, mio Crepino, lui non amare me più ». Ah, sì, voi amare me. Oh, Crepino, tell me you love me!

VATELIN (alzandosi) — Ma sì, ma sì!

MEGGY (alzandosi) — Quando io essere arrivato questa mattina, io avere subito scritto a voi... Poi io pensare: Crepino non rispondere. Allora, io get­tare lettera, prendere un cab e venire qui... Quanto essere felice, voi venire mia casa, questa sera?

VATELIN — Siete pazza!

MEGGY — Aoh! Voi non dire no! Io aver trovato questa mattina piccola appartamento, pianterrena tutta mobilia, come io avere scritto voi in lettera che io aver gettato prima. Stiamo via Roquepen, 48.

VATELIN — Siete scesa in via Roquépine?

MEGGY — Scendere, no. Stiamo pianterrena.

VATELIN — Voglio dire, se abitate in via Ro­quépine?

MEGGY — Oh, no! Con Mr. Soldignac io abitare “Hotel Chatam”, ma piccola pianterrena essere per noi due... Io affittare lui per otto giorni... Io aspettare voi là, questa sera.

VATELIN — Ah, no davvero!

MEGGY — No?! Perché no?

VATELIN — Perché... perché è impossibile! Non

sono libero, io: ho moglie... Capite? sono ammo­gliato!

MEGGY — Voi essere ammogliato?

VATELIN — E come!

MEGGY — Aoh! In Londra voi dire me voi essere vedòvo.

VATELIN — Ve l’ho detto perché avevo lasciato mia moglie a Parigi… è un modo di dire!

MEGGY — Allora, allora! What? Essere tutto finito insieme?

VATELIN — Via, Meggy, siate ragionevole!

MEGGY — Voi non riamare me più... più no?

VATELIN — Sì... quando verrò di nuovo a Londra. Va bene?

MEGGY — Quando voi venire Londra? Subito?

VATELIN — Non so... Prima di morire, certo.

MEGGY (scoppiando in singhiozzi) — Aoh! Crépino non amare me più! Crépino non amare me più!

VATELIN (correndo alla porta di Luciana) — Ma ta­cete, per Dio! Mia moglie vi può udire!

MEGGY — A io fa tutto uguale!

     VATELIN — Ma non a me! Via, Meggy, ve ne scon­giuro, calmatevi... Vi assicuro che sono commosso del vostro affetto, ma cosa volete? Il romanzo che abbiamo incominciato a Londra non poteva durare eternamente. Ricordate? Vi conobbi durante la tra­versata: voi soffrivate; soffrivo molto anch’io... il mare era così agitato! Eravamo agitati anche noi!... due cuori teneri, in due corpi che soffrono uguale travaglio, sono fatti per comprendersi... e noi ci siamo compresi. A Londra, voi veniste tutti i giorni a vedermi all’albergo. Io feci la conoscenza di vostro marito; mi legai subito con lui... e ciò che doveva accadere, accadde. Ebbene, contentiamoci di ricor­dare quei bei giorni, senza cercare di rinnovarli. Tanto più, ch’io non ne ho il diritto... Là, avevo una scusa! Certe cose si possono fare da una parte dello stretto; ma dall’altra, no!... A Londra, avevo un braccio di mare, la Manica, tra mia moglie e me; qui, ho le braccia di mia moglie, senza... manica. Dunque, fatevi una ragione, e non vi sarà poi tanto difficile di consolarvi... Troverete a Londra uomini assai più belli di me!

MEGGY — Oh! no! Io non potere... io essere donna fedele! Io avere avuto un amante; io non volere altro amante. Crépino, allora voi non volere me più?

VATELIN — Via, via, ragionate un po’.

MEGGY — Well’ Well! Addio, Crépino!

VATELIN (avviandosi verso la porta) — Addio, si­gnora, addio!

MEGGY (cadendo sopra una sedia) — Aoh! io dubi­tare questo.. quando voi non rispondere lettere di io!... Per questo io aver preparato un lettera per Mr. Soldignac... io mandare lettera a lui.

VATELIN — Fate pure.

MEGGY (cava di tasca una lettera e legge) — « Good bye, my poor dear! Dont grieve about me! It is a guilty creature who writes to you and who is about to die. I have been the mistress of Mr. Vatelin, twenty eight Rivoli Street. He has left me. I am going to kill myself! ».

VATELIN — Va bene. Mi pare che vada benissimo. Mandategliela pure.... Ma cosa vuol dire?

MEGGY — Voi non capire? (Traducendo) Addio, mio povero caro; voi non piangere me! Io essere creatura colpevole, e io andare suicidare me! Io essere stato amante signor Vatelin, 28, via Rivòli...

VATELIN — Ma siete pazza? E date anche il mio indirizzo? Ma siete pazza? Voi non spedirete quella lettera!

MEGGY — Oh, yes!

VATELIN — Nemmeno per sogno! Suicidarvi, col mio nome e col mio recapito? Siete proprio pazza!(Riprendendosi) Ascoltatemi, mia cara Meggy...

MEGGY — Non essere più cara Meggy!

VATELIN — Ma no, no, Meggy!... Non farete nulla di tutto ciò!

MEGGY — Allora, voi venire questa sera via Ro­quepen, 48.

VATELIN — Ma se vi dico che non posso! Che pre­testo potrei trovare per mia moglie?

MEGGY — No? Bene, io suicidare me!

VATELIN — Oh, mio Dio, con le donne ogni sforzo èinutile; va bene: verrò stasera in via...

MEGGY — . . .Roquepen, 48. Sì? Aoh! My dearest! Voi amare me ancora?

VATELIN — Sì, sì... vi amerò ancora!

MEGGY — Oh, io essere felice! Crépino, io amare te moltissimo! (Si ode il suono del campanello).

VATELIN (tra sé) — Sanguisuga! Poteva almeno crepare a Londra.

GIOVANNI (comparendo dai fondo) — C’è di là un signore che chiede di lei.

VATELIN — Chi è?

GIOVANNI — Il signor Soldignac.

MEGGY — Il marito di io!

VATELIN — Lui!... (A Giovanni) Va bene... Fra pochi minuti sarò libero. (Giovanni esce) Cosa vor­rà da me?

MEGGY — Io non sapere! Lui essere in. Parigi; lui venire stringere il mano suo caro amico.

VATELIN — Ad ogni modo, è bene che non vi trovi qui... Passate di qua. (Le indica la prima porta a destra e ve la fa passare).

MEGGY — Io andare, yes!... Oh, you wicked man!... I love you! (Esce a destra).

VATELIN — Accidenti, che storia. E dire che ho tradito mia moglie una volta sola, da quando l’ho sposata... e avevo una scusa: lo stretto! Ma guarda cosa mi capita tra capo e collo.

LUCIANA (mettendo la testa tra i drappi della portiera a sinistra) — Se ne è andata la signora?

VATELIN — Sì, sì!

LUCIANA — Chi ha suonato?

VATELIN — Un amico che ho conosciuto a Londra.

GIOVANNI (introducendo Soldignac) — Il signor. Soldignac.

SOLDIGNAC (accento inglese) — Buon giorno, caro amico! Come state voi?

VATELIN — Benissimo. Che bella improvvisata! (Soldignac saluta Luciana) Ti presento il signor Soldignac.

LUCIANA — Signore...

SOLDIGNAC — La signora Vatelin, certamente! Oh, benissimo! benissimo! Mio caro amico, due parole solamente: io non ho tempo da perdere... Una sera, se voi vorrete, io sarò libero… ma, nel giorno, “Business his business”, come noi diciamo in In­ghilterra! Dunque, io sono venuto per stringere la mano a voi, innanzi tutto; poi, per mia moglie...

VATELIN (andando allo scrittoio.) — Come sta la signora Soldignac?

SOLDIGNAC — Grazie! Molto bene... Essa ha inca­ricato me di tante cose per voi... Per lei, appunto, io sono venuto... Mio caro amico, io ho saputo una cosa... Voi sarete molto maravigliato... I sono becco!

VATELIN — Cosa dite?

SOLDIGNAC — Io credevo che fosse una parola molto significante. Se volete meglio: mia moglie tradi­sce me.

VATELIN — Oh!

LUCIANA (alzandosi) — Scusate, signore... temo di essere indiscreta... vi lascio.

SOLDIGNAC — Non importa!... Voi potete rimanere, signora... Io sono molto filosofo. Solamente, io non ho tempo da perdere. “Times is money”! Ecco i fatti. Questa mattina, io ho trovato questa lettera nel cestino della camera di mia moglie.

VATELIN (tra sé) — Accidenti! La lettera che Meggy mi aveva scritta!... Voglia Dio che non abbia fatto ilmio nome!

SOLDIGNAC – Io essere Parigi… Noi potere amare noi ancora... Voi capite?

VATELIN — Sì, sì!

SOLDIGNAC — Questa sera, marito di io... Io sono questo! essere molto occupato in affari di lui. Io es­sere sola. Voi venire trovare io via Roquepen, 48, pianterrena... Io aspettare voi - Meggy. Cosa dite?

VATELIN — Dio mio, cosa volete? Non bisogna, così, alla prima impressione. Può darsi che in fondo non ci sia ancora nulla.

SOLDIGNAC — Se non ancora nulla, in fondo arri­verannoquesta sera. Io lo spero.

VATELIN — Come! Voi?

SOLDIGNAC — Sì, perché io voglio fare divorzio... Mia moglie mi secca... essa ha un temperamento. impossibile: essa non èmai soddisfatta. E questo disturba me in miei affari. Io non tempo da per­dere, Io sono stato già dal Commissario di polizia... Io non so chi sia il “my love”, ma questa sera, io farò cogliere tutt’e due, essa e il suo  “love”... via Roquepen, 48... (Si alza) Va bene, signora?

LUCIANA (alzandosi) — Ma signore... cosa volete che io...

SOLDIGNAC — Divorzio. Subito. (A Vatelin) Per questo io sono venuto da voi, come procuratore, e io prego voi di preparare subito tutte carte neces­sarie. (Prende il suo cappello).

VATELIN — Io?

SOLDIGNAC — Sì, perché io non tempo da perdere. Voi procuratore; io becco.

VATELIN — Ma non è affar mio; non si può. Oc­corre che voi facciate le pratiche a Londra. SOLDIGNAC — Perché a Londra? Io non sono in­glese: io sono francese.

VATELIN — Francese, voi?

SOLDIGNAC — Per l’appunto: Narciso Soldignac, di Marsiglia. Io sono stato educato, sin da bambino, in Inghilterra, dove io ho vissuto sempre per i miei affari e dove io ho preso moglie, ma al Consolato francese. Per conseguenza, voi potete preparare le carte per il mio divorzio.

VATELIN — Se è così, va bene!

SOLDIGNAC — Siamo intesi!

VATELIN — Intesi!

SOLDIGNAC — Io vi saluto, perché io non tempo da perdere.

VATELIN — Converrete però, signor Soldignac, che tutto ciò è sottoposto ad una condizione essenziale: che voi sorprendiate vostra moglie con il suo com­plice.

SOLDIGNAC — Naturalmente. Ma voi non pensate a questo. Lasciate fare a me stasera... via Roque­pen, 48. In quanto al complice, quando lo avrò tra le mani, mi riserbo il piacere di dargli una piccola lezione di boxe.

VATELIN — Ah, vi dilettate di boxe?

SOLDIGNAC — Sono campione dilettante. Anche mia moglie. Io insegnato a lei... Una volta io ho avuto una lotta con il primo campione di Londra, e io ho conciato bene lui! Io ho dato a lui un colpo tale, da far passare a lui la Manica!

VATELIN e LUCIANA — Oh!

LUCIANA — Avete una certa maniera di raccontare le cose...

SOLDIGNAC — Se è vero che ho preso la flemma inglese, ho però conservato sempre la natura del mio paese: Marsiglia. A Londra abbiamo nebbia, sì; ma anche sotto le nebbie voi trovate sempre un raggio del nostro sole del mezzogiorno.

LUCIANA — Siete poeta!

SOLDIGNAC — No, il tempo manca a me! Io saluto voi… io non ho tempo da perdere. In quanto al com­plice, questa sera... (facendo un gesto di boxe) quan­do io avrò preso lui, io farò vedere a lui!... Arrive­derci!... (Fa per uscire) e si urta con Pontagnac che entra).

PONTAGNAC — Scusi!

SOLDIGNAC — Buongiorno, signore!... Io non ho tempo da perdere!

VATELIN (a Luciana) — Fammi il piacere di ac­compagnare il signor Soldignac; ho una parola da dire a Pontagnac.

LUCIANA (uscendo dietro a Soldignac) — Con pia­cere!

PONTAGNAC — Ma chi è quell’energumeno?

VATELIN — Un inglese di Marsiglia. Siete giunto veramente a proposito, mio caro Pontagnac: ho da chiedervi un favore. Un favore particolare, da uomo a uomo. Ho, per stasera, un appuntamento con una signora.

PONTAGNAC — Voi? Casco dalle nuvole! Allora voi tradite vostra moglie?

VATELIN — Cosa volete? Nella vita degli indivi­dui...

PONTAGNAC (raggiante, tra sé) — Inganna sua mo­glie, e lo viene a dire a me, proprio a me!

VATELIN — Ci eravamo dati appuntamento in un luogo, nel quale ragioni particolari, ma imperiose, ci impediscono di andare... Voi, che siete pratico di queste cose, non mi sapreste indicare un albergo, nel quale potrei...

PONTAGNAC — Ma sì, certo. Ce n’è più d’uno il « Continental »... il “Grand Hòtel” l’”Ultimus”. Io vado sempre a questo qui: è molto comodo, ci sono parecchie uscite, si ha l’aria di un forestiero... Spedite subito un telegramma, perché vi tengano una camera per questa sera.

VATELIN — Grazie, mio caro. Lo faccio subito. E telegraferò anche alla signora per avvertirla.

PONTAGNAC — Naturalmente. E con vostra moglie? Vi lascerà libero?

VATELIN — Inventerò un pretesto... La mia pro­fessione mi obbliga spesso ad assentarmi da Parigi. Dirò che sono chiamato in provincia, per un testa­mento, per un inventario, qualche cosa di simile.

PONTAGNAC — Benissimo!

VATELIN — Vi lascio: vado a fare il telegramma. (Esce a destra).

PONTAGNAC — Inganna sua moglie: Dio sia be­nedetto!

LUCIANA (entrando) — Che bel tipo quell’inglese!

PONTAGNAC — Ah,Luciana! Scusate, signora. Vi devo parlare.

LUCIANA — Cosa c’è?

PONTAGNAC — Sappiate che... Oh, no! Non posso!

LUCIANA — Tutto qui? e allora?

PONTAGNAC — Sentite. Forse non è bello ciò che faccio, ma l’amore è più forte. Voi siete donna da mantenere le vostre promesse, vero? Ricordate ciò che mi avete detto: «Io non sarò mai la prima a tradire mio marito; ma s’egli mi inganna seguirò il suo esempio senza esitare!».

LUCIANA — Esatto.

PONTAGNAC — Ebbene, ci siete. Se avrete la prova del tradimento di vostro marito, lo farete anche voi?

LUCIANA — Immediatamente.

PONTAGNAC — Ho la prova.

LUCIANA — Fuori la prova.

PONTAGNAC — L’avrò stasera, all’Hòtel Ultimus. Vostro marito sarà là, con una donna. LUCIANA — Non mentite?

PONTAGNAC — Vedrete che tra poco vi darà ad intendere che un telegramma lo obbliga ad andare in provincia… per un testamento, per un inventario o per qualche cosa di simile.

LUCIANA — Non è possibile.

PONTAGNAC — Lo vedrete! Io, stasera, lo spierò e non appena egli sarà là, verrò a prendervi e vi con­durrò io stesso sul luogo del reato: Hòtel Ultimus. Volete?

LUCIANA — Lo voglio, lo voglio!

PONTAGNAC — Eccolo: calma, vi prego!

VATELIN (entrando) — Ah, sei qui? Una tegola sul capo, cara mia!

LUCIANA — Sentiamo la tegola.

VATELIN — Figurati! Un telegramma mi obbliga a lasciare Parigi questa sera, con il treno delle otto. Devo andare ad Amiens, per un testamento.

LUCIANA — Ma non potresti mandare uno dei tuoi giovani di studio?

VATELIN — Impossibile, mia cara! Certe cose oc­corre che le faccia io di persona.

LUCIANA — Allora, va’, va’ pure... non c’è proprio nulla da fare.

VATELIN — Già! Ma mi secca assai, te l’assicuro.

LUCIANA — Pazienza. Prima di tutto il dovere.

VATELIN — Scusa, sai... debbo far spedire alcuni telegrammi, sempre per questa noia... dell’apertura. (Esce dal fondo).

PONTAGNAC — E così? Siete convinta?

LUCIANA — Non dubito più... Infame!... E io lo credevo uno dei pochissimi mariti fedeli. Anche lui uguale agli altri. Va bene, signor Pontagnac: vi aspetterò questa sera, e se avrò la prova di quanto m’avete detto, vi prometto che un’ora dopo mi sarò vendicata!

PONTAGNAC — Sono felice. A questa sera. (Esce).

LUCIANA — A questa sera!

SIPARIO

ATTO SECONDO

(Camera 39 dell’Hotel Ultimus: camera grande, comoda, con un letto nel fondo, a destra, entro una alcova; tavola, cassettone, toilette, tutta mobilia da camera d’albergo. Nel fondo a sinistra, porta d’en­trata che dà sul corridoio. A sinistra, sul davanti, porta di comunicazione con la camera 38; più indie­tro, un camino. A destra, verso il fondo, porta che mette in uno spogliatoio. All’alzarsi del sipario, Ar­mandina, in piedi vicino alla tavola ch’è nel mezzo, sta chiudendo una valigetta. Si picchia alla porta di fondo.

ARMANDINA — Avanti!... (Vedendo Vittorio) Ah, sei tu? Hai eseguito la commissione?. VITTORIO (diciassette anni, livrea da valletto d’al­bergo) — Sì, signora: il direttore verrà subito da lei.

ARMANDINA — Gli hai detto che mi diano un’altra camera?

VITTORIO — Sì, signora; ma lo sapeva già. Glielo aveva detto la cameriera.

ARMANDINA — Va bene. Grazie. (Il ragazzo fa per andare, ma lei lo richiama) Senti, ragazzo, quanti anni hai?

VITTORIO — Diciassette.

ARMANDINA — Diciassette! Sei molto carino, sai?

VITTORIO (arrossendo e abbassando il capo) — Si­gnora!

ARMANDINA — Diventi rosso? Vuol dire che ti fa piacere...

VITTORIO — Oh, sì, sì... se me lo dice la signora! (Chiudendo gli occhi non osando proseguire).

ARMANDINA (facendogli una carezza sul viso) —Allora, te lo ripeto: sei molto carino! (Nel momento m cui la mano di Armandina gli sfiora la bocca, co­me smarrito, Vittorio la prende con le proprie mani e la bacia freneticamente) Ma cosa fai?

VITTORIO — Scusi, signora!

ARMANDINA — Non perdi tempo, ragazzo mio!

VITTORIO — Oh, signora! Non sapevo che mi fa­cessi... non l’ho offesa, signora?

ARMANDINA — No... Certe impertinenze non of­fendono mai le donne.

VITTORIO — La signora non dirà nulla al direttore? Mi licenzierebbe subito.

ARMANDINA (ridendo) — Non sono cattiva...

VITTORIO — Grazie, signora. Ecco il direttore. (Giunto alla porta, si tira indietro, perché il direttore entri senza che lo veda. Poi esce).

IL DIRETTORE — La signora mi ha fatto chiamare?

ARMANDINA — Sì. Volevo sapere cosa avete sta­bilito per la camera.

IL DIRETTORE — Siamo intesi, signora : gliene da­ranno un’altra sul davanti.

ARMANDINA — Va bene. Qui non mi ci posso ve­dere. Capirete, se mi dovrò trattenere .una diecina di giorni, sino a che abbiamo messo in ordine il mio nuovo appartamento... Per voi fa lo stesso, non è vero?

IL DIRETTORE — Anzi, se anche la signora volesse tenere questa camera, adesso non gliela potrei più lasciare: l’abbiamo già ceduta ad altri.

ARMANDINA — Tanto meglio per. voi. Ma chi è il disgraziato che ci verrà?

IL DIRETTORE — Un certo signor Vatelin, il quale m’ha telegrafato di fissargli una camera: gli ho riserbata questa.

ARMANDINA — Vatelin? Non lo conosco. Ma non importa.

IL  DIRETTORE — Allora per lei il numero 17; dà sulla strada.

ARMANDINA — Va bene, se mi assicurate ch’è mi­gliore... Vedete, mi ci vuole una camera un poco grande, comoda... perché, se venisse a trovarmi il mio amico... o qualche altro... e se volesse trattenersi una sera... anche sino alla mattina dopo...

IL DIRETTORE — Ah! La signora non è sola? Bene! bene! Sì, sì, capisco perfettamente: la signora vor­rebbe una camera, dove, all’occorrenza... In questo caso, daremo alla signora il numero 23... le converrà meglio: è una camera a due letti.

ARMANDINA — A due letti? Cosa volete che me ne faccia io di due letti? Volete far ridere alle mie spalle?

IL DIRETTORE — Ma, signora… pensavo che per l’amico… o per quell’altro…

ARMANDINA -Come? L’altro letto... Perché riman­ga vuoto? No, no; preferisco il numero 17.

IL DIRETTORE — Come comanda, signora.

ARMANDINA — Mandate a prendere il mio baule.

IL DIRETTORE — La signora sarà servita... (Esce, ma, appena messo il piede fuori dalla porta, si ar­resta, parlando a qualcuno che non si vede) Signore... (Rumore di voce) ... sì, signore: è qui. Vado a vedere. (Ritorna).

ARMANDINA — Cosa c’è?

IL DIRETTORE — Un signore per la signora.

ARMANDINA — Chi è?

IL. DIRETTORE — Non so. Vado a chiedergli il nome.

ARMANDINA —     Non occorre: fatelo entrare!

IL DIRETTORE — Favorisca, signore! (Si tira indietro per lasciar passare Rédillon, poi esce).

REDILLON — Buona sera!

ARMANDINA — Voi?

RÉDILLON — Io, per l’appunto!

ARMANDINA — Non perdete tempo, voi, non c’è che dire.

REDILLON — Sono fatto così, io: vado sempre per le spicce.

ARMANDINA — Come state, dall’ultima volta che ci siamo veduti?

REDILLON — Benone! Permettete? (Sporge le labbra in avanti, arrotondandole per mostrare che vuoi darle un bacio).

ARMANDINA — Fate pure! (Si baciano sulle labbra).

REDILLON — Ah!Come fa bene!

ARMANDINA — Mi ami?

REDILLON — Ti adoro.

ARMANDINA — Vai per le spicce, davvero, tu! Co­me ti chiami?

REDILLON — Ernesto.

ARMANDINA — Ernesto... e poi? Avrai pure un altro nome! Tuo padre non ti ha riconosciuto, forse?

REDILLON — Sì, sì... Mi chiamo Rédillon.

ARMANDINA — Che nome stupido!

REDILLON — Cosa vuoi? Lo portano da tanto tem­po nella mia famiglia.

ARMANDINA — Del resto, l’abito non fa il monaco, e il nome non fa l’uomo... Guardami... Sei bello, non c’è che dire! (Rédillon si ringalluzza) Sai, cosa trovo?

RÉDILLON — Cosa?

ARMANDINA — Che rassomigli al mio amante. E’ un uomo molto elegante, te l’assicuro: il barone di Schmitz-Mayer... ricco a milioni. Fa la gran vita, lui. I giornali ne parlano spessissimo.

RÉDILLON — I giornali parlano di tutti.

ARMANDINA — Sua sorella ha sposato il duca di Marmontel; sua madre...

RÉDILLON — Cara, non sono venuto qui per ascol­tare la genealogia del tuo amante.

ARMANDINA — Poveretto! Pensa che sta facendo  i suoi trenta giorni di servizio militare.

RÉDILLON — Tanto meglio! Lasciagli fare i suoi trenta giorni. (Attirandola sulle sue ginocchia) Ar­mandina mia!

ARMANDINA — Cosa vuoi? (Rédillon sporge le labbra come sopra) Sì! (Lo bacia lungamente) Sai, io mi accorsi subito, a teatro, che tu mi facevi l’occhiolino.

REDILLON — Cara.

ARMANDINA — Avevi Pluplu, in palco, con te?

RÉDILLON — Sì... la conosci?

      ARMANDINA — Sì, come lei conosce me, di vista. E’ una donnina molto elegante. Anzi, il vederti in sua compagnia m’ha destato il desiderio di avvici­narti... Se no, credi pure, non avrei risposto alle tue occhiate. Perché devi sapere che io, quando non conosco una persona, non ho l’abitudine...

RÉDILLON — Già!

ARMANDINA — Ma cosa vuoi? L’amante di una donnina elegante ci mette un po’ di invidia addos­so. E quando si invidia, si desidera; quando si desi­dera, si tenta di avere... Per questo, ti ho mandato il mio biglietto di visita per l’inserviente del teatro.

REDILLON — Bene! Allora, io devo la mia fortuna a Pluplu?

ARMANDINA — Sì, ma non dirglielo: si insuper­bisce.

REDILLON — Mi credi stupido?

ARMANDINA — Ti conosco così poco. Perché, se tu avessi intenzione di dirglielo, bada, non conclude­remmo nulla tra noi... Non voglio fare a Pluplu un’ azionaccia simile, io! (Va al camino).

REDILLON (seguendola) — Sta’ tranquilla... Pluplu non lo saprà mai. (L’abbraccia) Ma sai che sei fatta molto bene? E’ tutta roba tua, questa?

ARMANDINA (appoggiata al camino) — E di chi vuoi che sia?

RÉDILLON (davanti a lei!) — Mia.

ARMANDINA — Goloso. Me la restituirai, almeno?

RÉDILLON — Certamente!

ARMANDINA — Siamo intesi. Altrimenti, qualcuno se l’avrebbe a male: Schmitz-Mayer! RÉDILLON — Finiscila una buona volta col tuo Schmitz-Mayer!

ARMANDINA - Mi vuole molto bene. Non puoi im­maginare che bel tipo. Sai cosa mi dice sempre? Ti amo, perché sei stupida. Ma io non sono stupida.

RÉDILLON — Stupido., sarà lui. Tu sei un amore. Armandina mia! (Si abbracciano). ARMANDINA — Scusa, come ti chiami?

REDILLON — Ernesto.

ARMANDINA — Ernesto mio!

RÉDILLON (attirandola a sé) — Vieni a sedere sulle mie ginocchia! (Siede a sinistra). -ARMANDINA — Di già?

REDILLON — Sì, sì, è tempo. Oh, Luciana! Luciana mia!

ARMANDINA — Come! Luciana!... Io non mi chia­mo Luciana! Mi chiamo Armandina! REDILLON (sempre in estasi) — No, Luciana... La­sciati chiamare Luciana... Per te fa lo stesso, e io preferisco questo nome... Ah, Luciana!

ARMANDINA — Bel tipo anche tu!... Sai, ciò mi ricorda che una volta...

REDILLON (c. s.) — No, non ti ricorda nulla!... Taci, non dire una parola, e abbracciami. Luciana, sei tu, sei tu, non è vero?

ARMANDINA — Ti dico di no.

RÉDILLON — Ma taci, santo Dio! Luciana, dimmi che sei tu, proprio tu! (Bussano). ARMANDINA — Chi è?

REDILLON (parlando a voce più alta che quella del fondo, per  impedire che questa si senta) —Oh, Luciana! Luciana mia!

ARMANDINA (a Rédillon) — Ma taci, non si può sentire. (A voce alta) Chi è?

LA VOCE DI VITTORIO — Signora, sono io!

ARMANDINA — E’ il ragazzo. Avanti!

VITTORIO (entrando) — E’ permesso? (Scandaliz­zato, vedendo Armandina sulle ginocchia di Rédillon) Oh!... (Scoraggiato) Oh!

ARMANDINA — Cosa vuoi, carino?

VITTORIO (con voce tenera e carezzevole) — Si può trasportare il baule?

ARMANDINA — Sì, sì.

RÉDILLON (a Vittorio) — Quale baule?

VITTORIO (brutalmente, a Rédillon) — Il baule che è lì, si capisce! Mica il baule del pascià. RÉDILLON — Ma che maniera è questa di rispon­dere. Te lo darò io il baule del pascià!... Chi t’ha insegnato a...

ARMANDINA — Via, non fargli male, è così carino!

RÉDILLON — Carino quanto vuoi, ma gli insegnerò a parlare garbatamente.

ARMANDINA — Lascia stare. Dagli piuttosto cinque lire.

REDILLON — Gli dovrò dare anche la mancia, do­po che...

ARMANDINA — Saresti capace di rifiutarti?

RÉDILLON — Non per le cinque lire, ma... Va bene: ecco cinque lire, per questa volta. Ma che sia la prima e l’ultima.

VITTORIO (seccamente) — Grazie!... (A mezza voce tra sé) Schifoso! (Con voce carezzevole ad Arman­dina) Vado a cercare la cameriera, perché mi aiuti a trasportare il baule.

ARMANDINA — Va’ pure, carino! (Vittorio esce).

RÉDILLON (borbottando) — La lezione, almeno, gli servirà! Io non permetto a nessuno di parlarmi sgar­batamente.

ARMANDINA — Via, povero piccino! Bisogna com­patirlo. (Vittorio ritorna accompagnato dalla came­riera, alla quale indica il baule).

VITTORIO — Aiutatemi a trasportare quel baule lì nella camera 17. Anche la valigia. (Portano via il baule e la valigia).

RÉDILLON — Cambi camera?

ARMANDINA — Sì, questa non mi piace... ne ho chiesta una sulla strada: è molto meglio. RÉDILLON — Io non capisco perché sia meglio stare verso strada... Ma non fa nulla!.,. Andiamo verso strada! (Va al camino a prendere il suo cappello).

ARMANDINA — Andiamo? No, caro: ci vado io! Co­sa vuoi, tu?

RÉDILLON — Cosa voglio?... Ho bisogno di dirtelo? (Maliziosamente) Fammi l’ingenua, adesso!

ARMANDINA — No, no, amico mio. Questa sera, no.

RÉDILLON — Perché?

ARMANDINA — Per una ragione semplicissima; perché è impossibile. Mi spiace assai.

RÉDILLON — E tu credi che  io me ne andrò così, a bocca asciutta?

ARMANDINA — E’ impossibile, ti ripeto! Aspetto un amico alle undici.

RÉDILLON — Tutto qui? Bella ragione. Me ne infischio, io, dell’amico. Chi è?

ARMANDINA — Un signore di Londra... Non lo conosci... Il signor Soldignac... Tutte le volte che viene a Parigi, sono per lui.

RÉDILLON — Una volta tanto, sarai anche per me!

ARMANDINA — Impossibile! Gli ho già dato ap­puntamento qui.

RÉDILLON — E tu non farti trovare. Sai cosa devi fare? Vieni a casa mia.

ARMANDINA — A casa tua?

RÉDILLON (prendendola sotto braccio) — Certo, a casa mia... Credi che non abbia una casa, io?

ARMANDINA — Ma che gli dico, all’inglese?

REDILLON — Gli farai dire che sei andata a ve­gliare tua madre, che è molto ammalata. E’ un pre­testo che ha la barba lunga, ma fa. sempre effetto.

ARMANDINA — Non è bello.

REDILLON — E’ bellissimo, invece. Su, metti il cap­pello e vieni con me.

ARMANDINA (andando al camino) — Non è bello, ma con te non ci sono ragioni. (Mette il cappello. Bussano).

RÉDILLON — Avanti!

IL DIRETTORE — Il signore e la signora mi scuse­ranno se disturbo, ma i forestieri che hanno preso in affitto questa camera, sono arrivati, e così...

ARMANDINA (al camino) — Va bene! Finisco di mettermi il cappello e cedo il posto... Pregate il si­gnore... Come si chiama? Non ricordo più.

IL DIRETTORE — Vatelin.

RÉDILLON — Vatelin?

ARMANDINA — Sì... pregatelo di pazientare un mi­nuto.

REDILLON — Come? Vatelin qui? Che fortunata combinazione! Fatelo entrare: sarò felice di strin­gergli la mano.

ARMANDINA — Lo conosci?

RÉDILLON — Altro che!

IL DIRETTORE — Si accomodi pure, signore!

RÉDILLON (andando verso il fondo) — Quell’ottimo amico... (Vedendo Pinchard entrare, in uniforme di maggiore medico, seguito da sua moglie) Oh! Non è lui!

PINCHARD (mentre sua moglie fa degli inchini ad Armandina e Rédillon) — Mi spiace assai che la mia venuta vi obblighi ad andar via... (Tra sé) Sacripante! Che bella donna! (A voce alta) Ma io avevo telegrafato che mi tenessero una camera in questo albergo per questa sera, e, come vedete dal dispaccio “Tenuta per lei camera 39”, è proprio questa...

ARMANDINA — Tocca a me, piuttosto, di farvi le mie scuse, perché la occupo ancora... Stavamo per andarcene.

PINCHARD (deponendo la sua valigia sulla tavola dove era precedentemente quella di Armandina) —Fate pure i vostri comodi, signora. Sarei dolente di arrecarvi il minimo disturbo. Tanto più che, dove c’è posto per due, ce n’è anche per quattro.

ARMANDINA — Molto galante!

PINCHARD — Niente affatto!... (A Rédillon) La­sciate signore che io mi congratuli con voi: vostra moglie è veramente bella. (Rédillon s’inchina lusin­gato) Farei volentieri cambio con la mia!

RÉDILLON e ARMANDINA (meravigliati guardano la signora Pinchard, la quale continua a pro fondersi in piccole riverenze) — Cosa dite?

PINCHARD — Lo ripeto… e non esito a farlo da­vanti a mia moglie.

RÉDILLON — Non gliene importa, forse?

PINCHARD — Non dico questo; ma poiché è sorda come la solita talpa... (Rédillon e Armandina ridono).

LA SIGNORA PINCHARD — Signora, ve ne prego, non disturbatevi per noi.

ARMANDINA (ringraziandola) — Vostro marito ha già avuto la cortesia di dircelo.

LA SIGNORA PINCHARD (che non ha capito) — Nem­meno per sogno, nemmeno per sogno! -

PINCHARD — Non ci fate caso, se vi risponde a casaccio. Poveretta!

LA SIGNORA PINCHARD (molto amabile) —- E mio marito pure!

PINCHARD — Cosa volete? Bisogna assuefarcisi!... Io la duro così da venticinque anni... già... perché sono passati ormai venticinque anni  da che l’ho spo­sata... Era sorda anche da ragazza. Il giorno delle nozze, al municipio, le dovetti dare un pizzicotto, perché rispondesse il “sì”a tempo... Oggi, appunto, ricorre l’anniversario dei nostro matrimonio; per fe­steggiarlo abbiamo fatto una gita a Parigi. Voglio condurre mia moglie all’Opéra, stasera.

REDILLON — Stasera?

PINCHARD — Sì. Capisco, è un po’ tardi, ma si dà la “ Favorita” e il ballo «Coppelia ». A noi basta arrivare a teatro per il ballo, perché, in quanto a me, la musica mi annoia, e mia moglie, nelle sue condizioni, gusta soltanto il ballo... Essa vede bal­lare e si diverte... Però, dice che il ballo guadagne­rebbe molto se fosse accompagnato dalla musica. (Dandole un buffettino sulla guancia) Non è vero, Cocò?

LA SIGNORA PINCHARD — Cosa?

PINCHARD (tenendo i pollici delle mani nelle tasche del suo dolman, mentre discorre, batte leggermente il ventre con le altre dita) — Che a te pare che i balli sarebbero più divertenti con un po’ di musica?

LA SIGNORA PINCHARD (che ha seguito il movimen­to delle mani di lui) — Sì, sì... molto meglio! Ades­so è cessato, ma in treno, che dolori, Dio mio! (Ré­dillon e Armandina si guardano).

PINCHARD — Non ci fate caso: anche stavolta non ha capito nulla. Figuratevi, parlava del suo ventre. Poveretta, va soggetta a coliche epatiche. Ha sofferto molto durante il viaggio; ma adesso si sente meglio! Ci vuol altro a discorrere con lei. Occorre pazienza. Non che io ne abbia, ma ci si abitua a tutto.

ARMANDINA — Signore, noi non vogliamo abusare più a lungo della vostra cortesia. Sei pronto, Erne­sto? (A Pinchard) Signore...

PINCHARD — Signora, felice. Fortunato, signore.

RÉDILLON — Fortunatissimo, io! Anzi, vi devo dire ancora una cosa.

PINCHARD — Dite pure.

REDILLON — Che il mio migliore amico si chiama Vatelin.

PINCHARD — Ah!

REDILLON — Sì!

PINCHARD — Una confidenza ne merita un’altra! Il mio migliore amico si chiama Pielusch.

RÉDILLON — E cosa vuole che me ne importi?

PINCHARD — Felicissimo, signore! (Rédillon e Ar­mandina salutano la signora Pinchard che non sente e non si volta. Pinchard dando un colpettino sul braccio di sua maglie) Cocò... (La signora Pinchard si volta verso suo marito) Il signore e la signora ti salutano.

LA SIGNORA PINCHARD — Cosa?

PINCHARD (urlando) — Il signore e la signora ti salutano.

LA SIGNORA PINCHARD — Non capisco.

PINCHARD — Hai ragione! Aspetta. (Articolando semplicemente le parole con le labbra, senza che si oda il suono della voce) Il signore e la signora ti salutano.

LA SIGNORA PINCHARD — Oh, mille scuse. Arrive­derci, signora! Signore...

ARMANDINA — Ernesto, vieni?

REDILLON — Eccomi! (Bussano. Entra Vittorio).

VITTORIO (ad Armandina) — La signora non ha altro da far portare giù?

ARMANDINA — No, grazie! Avvisa il portiere che se qualcuno venisse a chiedere di me, gli dicano ch’io non ho potuto aspettare, perché sono stata chiamata al letto di mia madre, che è ammalata. Hai capito?

VITTORIO (con un sospiro) — Sì, signora!

ARMANDINA — Bravo! Dammi la valigia.

RÉDILLON (a Vittorio) — Dammi la valigia.

VITTORIO — Eccola! (Prende sulla tavola la valigia di Pinchard e la da a Rédillon. Vittorio segue Armandina con lo sguardo sospirando. I due escono).

LA SIGNORA PINCHARD (togliendosi il cappello e pettinandosi con un pettine da tasca) — Mi metto in ordine, se vogliamo andare all’Qpéra.

PINCHARD — Va bene. (A Vittorio) E tu cosa fai, lì impalato, fannullone. Via, march.

VITTORIO — Sì, signor maggiore!... (Tra se, an­dandosene di corsa) Bel tipo!

LA SIGNORA PINCHARD — Incomincia alle dieci e mezza? Non c’è tempo da perdere.

PINCHARD — Va bene, ma dov’è la valigia?

LA SIGNORA PINCHARD — Cosa?

PINCHARD (urlando) — Dov’è la valigia? (Artico­lando le parole, senza far sentire il suono della voce) Dov’è la valigia?

LA SIGNORA PINCHARD — La portavi tu.

PINCHARD — Io, la portavo? (Senza voce) Io la portavo?

LA SIGNORA PINCHARD — Sì, tu. Dove l’hai messa?

PINCHARD — Sacripante! Dove l’ho potuta mettere?

(Si picchia alla porta mentre Pinchard continua a cercare) Avanti!

CLARA — Sono venuta a preparare il letto... Il si­gnore e la signora cercano qualcosa?

PINCHARD (senza guardare Clara) — Sì, una valigia. Sa il diavolo dove l’ho messa.

LA SIGNORA PINCHARD — Guarda se, per caso, il ragazzo non l’avesse portata nello spogliatoio.

PINCHARD — Credi? L’avrei veduto. (Entra a destra).

CLARA (alla signora Pinchard) — La signora pre­ferisce guanciali di piuma o di crine? (La signora Pinchard non risponde) La signora desidera guan­ciali di piuma o di crine? (La signora Pinchard non risponde) Ma dov’è? nelle nuvole? (Mettendosi da­vanti a lei) La signora desidera...

LA SIGNORA PINCHARD — Ah, buona sera, cara.

CLARA — Buona sera, signora. Volevo sapere...

PINCHARD (rientra, e cerca ancora con l’occhio la valigetta) — Lasciate stare, ragazza! Perderete il fiato. Può darsi che l’abbia lasciata giù. Cosa volete?

CLARA—      Volevo sapere...

PINCHARD — Sacripante, che bella ragazza.

CLARA — Se il signore e la signora preferiscono guanciali di piuma o di crine.

PINCHARD (a Clara) — Va’ là, che sei fatta molto bene, tu!

CLARA — Io?

PINCHARD — Come ti pare, di piuma o di crine... Sai, il guanciale ch’io preferirei? la metà del tuo...

CLARA (scandalizzata) — Ma, signore!

PINCHARD — Come ti chiami?

CLARA — E tu?

PINCHARD — Mi dà del tu, mi dà del tu, che gioia.

CLARA — Bravo! E chi ha permesso a voi di dare del tu a me?

PINCHARD — Fa’ pure, bellezza, fa’ pure. (Pren­dendola per la vita) Dammi del tu, dammi del tu!

CLARA—      Lasciatemi stare... (Chiamando) Signo­ra, signora!

LA SIGNORA PINCHARD — Smarrita? Chissà dove l’avrà lasciata.

CLARA — Ma è sorda?

PINCHARD — Come la solita campana. E tu sei fre­sca come la solita rosa. (L’abbraccia).

CLARA (dandogli uno schiaffo sonoro) — Eccole la rosa.

PINCHARD — Oh!

LA SIGNORA PINCHARD (voltandosi) -— Hanno pic­chiato?

PINCHARD — Sacripante! Sì.

CLARA — Il signore non desidera altro?

PINCHARD — No, no... grazie! (Tra sé) Sacripante, che mano!

LA SIGNORA PINCHARD — Hai mal di denti?

PINCHARD —          No, no... Non è nulla! (A Clara) Devo aver lasciato la mia valigia giù al bureau: dite che la portino su; la ritroverò rincasando.

CLARA — Sarà servito.

PINCHARD (a sua moglie) — Andiamo, dunque!... (Senza voce) Andiamo, andiamo.

LA SIGNORA PINCHARD — Andiamo, sono pronta.

(Escono).

CLARA (sola) — Mi pare d’averlo messo a posto il militare, con le sue dichiarazioni. La metà del mio guanciale? Aspettalo... Asino. Crede forse che avrei aspettato proprio lui per darmi alla bella vita. Caro mio, se avessi voluto avrei potuto diventare cocotte da molto tempo. Non mi sono mica mancate le occasioni. (Fa il letto).

PONTAGNAC (socchiudendo un poco la porta del fondo e mettendo il capo in scena) — Non m’ero ingannato: mi pareva proprio che se ne fossero an­dati. Vatelin ha fissato questa camera per questa sera, e non può tardare... Prepariamo le comunica­zioni. (Si avvia in punta di piedi verso la porta di sinistra).

CLARA — Signore, cosa cerca?

PONTAGNAC (tra sé) — Diavolo, la cameriera!... (A voce alta) Cosa cerco, io? Ma il re del Belgio, diamine! Non lo sapete?

CLARA — Non sta qui.

PONTAGNAC — Non sta qui? Diavolo! Difatti non ne ero sicuro. Sapevo che sua maestà voleva la camera numero 39, ma mi chiedevo: “Sarà in que­sto albergo?”. Si vede che l’albergo è un altro.

CLARA (sorridendo) — Il signore ha sbagliato di poco.

PONTAGNAC — Cose che capitano! Ho visto il re, oggi, e mi ha detto: Amico mio, noi scenderemo all’Hòtel Ultimus: ho la camera numero 39.  Del numero della camera sono sicuro. In quanto all’albergo, mi pareva proprio di aver udito Ultimus. Ma forse avrà detto Continental.

CLARA — Il signore fa parte della corte?

PONTAGNAC — Un poco... Allora, per essere vicino a sua maestà, ho preso la camera numero 38. (Avvi­cinandosi a sinistra) Che è quella camera lì?

CLARA — Sì.

PONTAGNAC (che si è avvicinato alla porta, si sforza di togliere la chiave dalla serratura) — La camera numero 38 èquesta qui!

CLARA — Lo so!

PONTAGNAC (che si è impadronito della chiave, tra sé) — La chiave c’è! (A voce alta) Sua maestà non c’è. Poco male. Ci rivedremo a Bruxelles. Signorina, tante belle cose. (Esce canticchiando tra i denti, mentre Clara lo guarda, stupefatta).

CLARA (ridendo) — Se ne è andato! Bel tipo. Io non dovrei stupirmi più di nulla e di nessuno, ma gli originali mi fanno sempre una certa impressione. Bene, andiamo a prendere i guanciali. (Esce dalla porta del fondo. Si ode un rumore nella serratura della porta di sinistra; subito dopo entra Pontagnac circospetto).

PONTAGNAC (a Luciana che è ancora di dentro) —Potete venire: non c’è più nessuno.

LUCIANA — E’ qui?

PONTAGNAC — Esattamente: il numero 39.

LUCIANA — Che infamia. (Sedendo) E dire che qui, in questa camera... che pure ha l’apparenza onesta, tra poco, mio marito...

PONTAGNAC — Con una donna.

LUCIANA — Sì: E allora, tutt’e due.... lui, come io lo conosco nell’intimità, con le sue parole, con le sue tenerezze, con... E lei, come io non la conosco, con... cosa so io di lei? No, non posso, non posso! Ma voi potrete assistere a tutto ciò?

PONTAGNAC — E perché no, se faranno le cose per bene?

LUCIANA — Tacete, tacete, per carità. Io mi figuro già tutta la scena... mi ballano già davanti agli occhi immagini orribili. No, no; non voglio vedere... non voglio vedere nulla. (Pone le mani sugli occhi) No, così no, preferisco tener gli occhi aperti. Quan­do li chiudo vedo di più.

PONTAGNAC — Non vi agitate così, andiamo; avete bisogno di molta calma, invece.

LUCIANA — Mi pare di avercela con tutto ciò che mi circonda... con queste pareti, per la loro com­plicità... con questi mobili, per ciò che vedranno... con questo letto, per... No, no... non voglio. Dov’è il campanello?

PONTAGNAC — Il campanello? perché?

LUCIANA — Voglio far portar via il letto.

PONTAGNAC — Non ci mancherebbe altro. Insom­ma, volete sorprendere vostro marito, sì o no?

LUCIANA — Lo voglio!

PONTAGNAC — Ebbene, se volete avere la prova materiale del reato non togliete il mezzo perché esso possa compiersi.

LUCIANA — Ma è terribile questa prova che mi imponete!

PONTAGNAC — Fatevi animo. Procureremo di non prolungarla... inutilmente. Purché ci sia dato di arrivare al momento buono.

LUCIANA — Ma come faremo a sapere qual è il momento buono?

PONTAGNAC — Non ve ne curate, voi. Ci ho già pensato io... Ho il mezzo: eccolo qui! (Cava di tasca due campanelli).

LUCIANA — Due campanelli?

PONTAGNAC — Ora vi spiego la funzione: è come la pesca al sonaglio. Si lega un sonaglio all’estremità di una canna; il pesce, quando ha abboccato all’amo, muove la canna, e quindi il sonaglio. Così, avvisa lui stesso il pescatore ch’è stato preso. Qualcosa di simile io ho immaginato per acchiappare Vatelin. Vedrete che lui e la sua complice avranno la cor­tesia di avvertirci essi stessi del momento buono.

LUCIANA — Possibile?

PONTAGNAC — Adesso vedrete... (Va ai piedi del letto, seguito da Luciana. Il letto è collocato per tutta la sua lunghezza parallelamente alla parete di fondo, un po’ discosto da questa, in modo da lasciare un piccolo passaggio) Da quale lato sta, abitual­mente, vostro marito?

LUCIANA (indicando la sponda del letto verso la camera) — Da questo.

PONTAGNAC — A sinistra? Va bene. Allora, io pren­do questi due campanelli; il grosso, prima... (Fa suonare uno dei campanelli; suono grave) Questo è per Vatelin... Quest’altro, più piccolo (fa suonare l’altro campanello: suono più acuto) servirà per la signora. Benissimo! Metto il signore, qua... (fa pas­sare il primo campanello sotto al materasso, a sini­stra; poi, fa il giro del letto) e la signora là... (Col­loca l’altro campanello sotto il materasso, a destra).

LUCIANA — E poi?

PONTAGNAC — Non c e più nulla da fare. L’esca è a posto; poi dovremo soltanto aspettare che i pesci abbocchino.

LUCIANA — Non capisco.

PONTAGNAC — Ma ci vuol tanto?! Uno dei due entra nel letto... drin! suona il primo campanello. Noi non ci muoviamo: c’è soltanto un pesce. Appena sentiamo l’altro campanello, allora… avanti. Ci sono tutt’e due!

LUCIANA — E’ molto ingegnoso, non c’è che dire!

PONTAGNAC — Simpatico: ecco tutto. Sento rumo­re... Forse i pesci si avvicinano.

LUCIANA — Caverò gli occhi a tutt’e due, io.

PONTAGNAC — Pazienza. Ma se cavate loro gli occhi prima, non vedranno più l’amo. Presto! Andia­mo... Non c’è tempo da perdere.

LUCIANA (come se parlasse a suo marito) — Ah, se ti farai cogliere. (Escono dalla porta di sinistra, e si ode, subito dopo, il rumore della chiave nella serratura. Nel medesimo tempo, si apre la porta di fondo e Meggy entra, seguita da Clara, che porta due guanciali).

MEGGY — What?... Io domandare voi camera 39... Non essere questa camera Mr. Vatelin?

CLARA — Scusi, signora: le ripeto che io non posso lasciar entrare nessuno nella camera di un forestiero, quando egli non c’è... a meno che non ne abbia dato l’ordine.

MEGGY — Good gracious. Io dire voi: lui aver detto me: io aspettare lui qui... Voi non credere a io? Well! Tenere, leggere! (Le dà un telegramma aperto).

CLARA — Yes!

MEGGY — Oh! Voi parlare inglese? Do you speak English?

CLARA — Io dico “Yes”: ecco tutto. (Leggendo) Vostro marito sa tutto; ha trovato la vostra lettera nel cestino. (Interrompendosi) Ah!

MEGGY — Aoh! questo non essere per voi; questo essere per io! Leggere fine... Venite Hòtel Ultimus...

CLARA (leggendo) — Vi farete dare la mia camera, e se io non ci sarò, aspettate. Vatelin.

MEGGY (durante questo tempo ha tirato fuori dalla sua valigetta una veste da camera, una piccola mac­chinetta a spirito, un ferro per arricciare i capelli, una acconciatura da notte simile ad un berrettino bianco, una scatola per il tè, ecc.) — Well!Bene? essere persuaduto?

CLARA — Va bene, signora: aspetti pure!

MEGGY — All right. Dove essere toilette?

CLARA (andando ad aprire la porta di destra ) —Di qua, signora.

MEGGY (mentre si avvia, con la sua veste da camera e il suo berrettino da notte, verso lo spogliatoio di destra) — Voi portare a io teapot.

CLARA — Cosa?

MEGGY — Acqua bollente e tazze per mia tè. (Esce a destra).

CLARA — Sarà servita, signora!... (Tra sé) Non c’è bisogno di chiedere di che paese sia; quella lì. Credo che non andrebbero a casa dell’amante senza por­tare con loro tutto l’occorrente per il tè.

VITTORIO (introducendo Vatelin) — Ecco la sua camera, signore!

VATELIN — Va bene.

CLARA (a Vittorio ) — Ma vi sbagliate! Questa ca­mera è occupata: è la camera del signor Vatelin.

VATELIN — Benissimo. Vatelin sono io.

CLARA — Ma i due forestieri che erano qui poco fa?

VATELIN — Sì, sì. Non ve ne date pensiero. Hanno già verificato la cosa al bureau. Il direttore aveva telegrafato a quei signori che teneva per loro la camera n. 59;per errore nel telegramma, hanno scritto 39; così, quando sono arrivati, li hanno con­dotti qui... (Prende la valigia che aveva lasciata fuo­ri della porta) Hanno già preso nota, giù ,di avver­tirli quando ritorneranno.

CLARA — Allora faccia pure, signore.

VATELIN — Grazie. (Mentre Vittorio si volta per uscire) Senti: avvisa giù, che se qualcuno verrà a chiedere di me, gli dicano il numero della mia ca­mera e lascino salire.

VITTORIO — Sarà servito, signore! (Se ne va di corsa).

CLARA — Il signore cerca una signora?

VATELIN — Grazie: ho già quanto mi abbisogna!

CLARA — Scusi, signore: non intendevo di farle un’offerta. Volevo avvertirla ch’è venuta una signora a chiedere di lei, e che là signora è di là.

VATELIN — Di già?

CLARA — Debbo avvertirla?

VATELIN — No, sta bene dov’è. Lasciatela stare..

CLARA — Allora, vado a prendere il tè. (Esce).

VATELIN — Sì, sì.. stia pure dov’è. La vedrò anche troppo presto. Sono d’un umore, io!... (Meggy entra canterellando) Eccola qui.

MEGGY — Crepino, voi qui?

VATELIN (bruscamente) — Sarà un’ora almeno.

MEGGY — Aoh! no. Io essere dieci minuti.

VATELIN — Poco male. Mi sono sbagliato.

MEGGY — Yes! Io era aspettare voi, là... Oh. Cre­pino, Crepino, come io essere felice!... (Gli salta al collo; Vatelin tira indietro la faccia) What? Tu non volere essere abbracciato da io!

VATELIN — No! Avete voluto che venissi, e sono venuto. Avevo questo mezzo soltanto per evitare uno scandalo in casa mia, e per impedirvi di com­mettere una follia. Ho ceduto per forza maggiore... ma, ora che sono al sicuro, voglio che vi mettiate bene in capo che tutto è e deve essere finito tra noi!

MEGGY — Aoh, Crepino! Perché voi dire questo? Oh! voi essere cattiva! Io amare voi, perché voi esse­re tanto tenera, tanto dolcissima, tanto buona, vici­na mio marito voi essere tanto gentile, tanto bene educata con signore.

VATELIN — Io? Bene educato, io? Chi ve l’ha dato ad intendere? Vi siete ingannata di grosso. Adesso vedrete come sono bene educato, io! (Passeggia per la camera, gridando e facendo atto di chi vuol menare le mani) Va’ al diavolo tu e tutta l’Inghilterra! All’inferno tu e..

MEGGY — Aoh! Quanto voi essere comica, cosi.

VATELIN — Comico?! Ah, vi pare ch’io sia comico? Adesso vedrete. Non mi conoscete, no! Non sono tenero, io, non sono dolce, non sono buono. In Inghilterra, sì. L’aria mi faceva bene, ma in Francia, no. Qui sono collerico, sono violento, sono furioso, sono brutale.

MEGGY — Voi?!

VATELIN — Sì, io! Picchio le donne, anche! Ve ne accorgerete presto, cosa sono io!

MEGGY (che sta quasi per cadere nelle sue braccia) —      Oh, Crepino!

VATELIN — Badate; non vi accostate o vi picchio.

MEGGY (con aria di chi accetta una sfida) — Come voi dire?

VATELIN (più timidamente) — Vi ripeto di non venirmi vicino, o vi picchio.

MEGGY — Voi, picchiare? Anch’io picchiare. Molto buono boxe. (Si mette in guardia ed incomincia a dare colpi ben assestati ) Là, questo, ecco.

VATELIN (cadendo a sedere) — Oh, là, là... Basta, basta!

MEGGY — Ah, lui voler picchiare?

VATELIN — Basta, andiamo, ma che storie sono queste?

MEGGY (trovandosi dietro di lui, lo prende per il collo, e lo bacia) — Crepino, Crepino, io adorare voi. (Bussano) Avanti.

CLARA (entrando) — Il tè.

MEGGY (vedendo entrare Clara con un vassoio, conte­nente il necessario per fare il tè) — Ah! Well, well!... Voi mettere là. (Clara esce) Well! (Mentre versa dell’acqua calda nella teiera) Ah, voi aver preso boxe sufficiente? (Vatelin fa una smorfia) Voi volere ancora picchiare vostra piccola Meggy?

VATELIN — Abusare così della propria forza!

MEGGY  —   Allora voi volere essere gentile, buona per vostra piccola Meggy?

VATELIN — Ma insensata che sei! Ti vuoi perdere a tutti i costi? Sai pure che tuo marito ha una pulce nell’orecchio!

MEGGY — Lui avera pulce in orecchio? Aoh!

VATELIN — E’ un modo di dire! Sa tutto! Se io non ti avessi telegrafato...

MEGGY — Io essere caduto in bocca lupo? Yes!

VATELIN — Sai cosa ti debbo dire? che ne ho fin sopra ai capelli, io. Non ci mancherebbe altro che, per causa tua, dovessi passare qualche grosso guaio. No, no, cara mia, io non ti posso seguire assoluta­mente nelle tue pazzie. Non posso e non voglio. Se tu non. ragioni, avrò testa io per tutt’e due. Addio!

MEGGY — Crepino, Crepino! Restare! Oh, restare!

VATELIN — No, lasciami andare!

MEGGY — Io andare suicidare me!

VATELIN — Ancora? Ma è un ricatto! Ebbene, buon suicidio e lasciami in pace.

MEGGY — All right! Io prendere mio tè e morire! (Si versa il tè nella tazza).

VATELIN — Fa’ presto.

MEGGY Voi prendere tè con io?

VATELIN — Se vi fa piacere...

MEGGY (riempie un’altra tazza e la porge a Vatelin; poi con la zuccheriera in mano) — Una pezzo? Dua pezzi?

VATELIN (modestamente) — Cinque.

MEGGY (glieli mette nella tazza, contandoli. Poi cava di tasca una boccetta, la mostra e domanda se ne vuole) — Una goccia, due gocce?

VATELIN — Cos’è, liquore? un cucchiaino.

MEGGY — Basta uccidere tutto reggimento.

VATELIN (deponendo in fretta la sua tazza) — Ac­cidenti, ma cos’è?

MEGGY — Essere stricnina. (Avvicina la boccettina alle labbra).

VATELIN (precipitandosi sopra di lei per portarle via la boccetta) — Disgraziata, date qua. MEGGY — No... Io volere morire sotto vostro occhio!

VATELIN — In nome di Dio, Meggy... vi scongiuro!

MEGGY — No? Good bye, Crepino.

VATELIN — No, Meggy, no. Sarò buono, vi giuro... farò tutto ciò che vorrete.. Farò tutto ciò che vuoi... Va bene, così?

MEGGY — Oh, voi dire questo?

VATELIN — Sì, sì... tutto. Te lo giuro.

MEGGY — Yes?!

VATELIN — Yes! (Tra sé) Iddio m’è testimonio che ho fatto quanto era in me. Ma non c’è santi e bi­sogna che mi arrenda. Ebbene, facciamola finita. Ma levati quell’affare dalla testa.

MEGGY — Ah, andare meglio, adesso. (Mette la boc­cettina in tasca).

VATELIN (alzandosi)— Sì, sì... hai ragione. Mi sono fatto forza sin troppo. Basta, adesso basta. Meggv, Vieni qui.

MEGGY (atterrita) — Aoh! No, no... Io non vo­lere...

VATELIN — Non vuoi? Peggio per te; adesso vo­glio io.

MEGGY — No, io non volere, così!... Voi aspettare: io andare là. Voi non volere io restare questo vestito?

VATELIN — Che bisogno hai di andare di là? To­glilo qui.

MEGGY — Shocking!

VATELIN — Allora, va’ di là. Ma fa’ presto. (Meg­gy esce a destra. Vatelin avviandosi al letto) Adesso sono in ballo. Mi sono cacciato in un imbroglio ma­ledetto. (Siede sulla sponda del letto. Sotto il peso di Vatelin, il campanello suona. Dopo una lunga pau­sa, e rimanendo nella stessa positura) Che baccano fanno i campanelli in quest’albergo. (In questo momento s’apre la porta di sinistra, e Luciana sporge la testa in scena. Riconoscendo suo marito, ch’essa vede alle spalle, apre le braccia e spalanca la bocca, in atto di grande meraviglia. Ma prima che abbia avuto il tempo di cacciare un grido, Pontignac si è precipitato sopra di lei, facendo segno di no con la testa, come per dirle che non è ancora il momento.

Nel medesimo tempo, la mano sinistra di lui ha preso la mano destra di Luciana e la tira rapida­mente indietro, mentre la mano destra richiude in un attimo la porta, senza far rumore. Tutti questi movimenti devono essere assolutamente senza pa­rate, e durare un batter d’occhio. Vatelin voltandosi rapidamente) Eh? Chi è là?... (Non vedendo nes­suno) Nessuno?! curioso davvero, eppure io ho sen­tito. (Va a osservare la porta) E’ chiusa... (Guarda nella toppa) La chiave non c’è... la comunicazione è impedita. (Al pubblico) Strana cosa l’illusione. Giurerei che ho sentito persino l’aria mossa dalla porta. Sarà stato un incubo, certamente. Quella maledetta Meggy con il suo tè alla stricnina. (Va per suonare) Sarà meglio farlo buttar via quel tè! (Leggendo il cartellino appeso alla parete) Per la cameriera, due volte. (Suona due volte) Non si sa mai! Le potrebbe saltare il ticchio, nuovamente. (Bussano) La cameriera, almeno, è sollecita in que­st’albergo. Avanti!

SOLDIGNAC (entrando) — Buona sera!

VATELIN (tra sé) — Accidente! Soldignac! Il marito. (A voce alta) Ah, ah, ah! Siete voi?

SOLDIGNAC — Sì, io sono!

VATELIN — Ah, ah, ah! Come mai siete qui?

SOLDIGNAC — Ah, questo a voi fa meraviglia?

VATELIN — Non vi aspettavo! (Tra sé) Mio Dio, sua moglie è di là...

SOLDIGNAC — Io dirò a voi: io ero giù, al bureau, quando il groom, che voi avete mandato, è venuto a dire: se qualcuno chiederà del signor Vatelin, facciano salire al n. 39.

VATELIN (tra sé) — Che asino sono stato.

SOLDIGNAC — Voi dovete sapere: io ero venuto in quest’albergo per un appuntamento con una per­sona; ma lei non ha potuto aspettare me, e lei ha fatto pregare me di scusare lei!

VATELIN — Sì, Si, Sì.

SOLDIGNAC — Lei ha dovuto andare presso sua ma­dre, molto ammalata... Questo che io dico non inte­ressa a voi?

VATELIN (come se uscisse da un sogno) — Molto. Continuate pure: vi seguo! Avete detto: ammalato; siete ammalato?

SOLDIGNAC — Non io, la madre.

VATELIN — Capito: la vecchia signora è ammalata.

SOLDIGNAC — Allora, cosa fare? Voi mi direte: voi potete andare via!

VATELIN (prendendo Soldignac sotto il braccio e conducendolo verso 1a porta) — Andarvene? Altro che! Andate, andate pure! Non vi date pensiero per me.

SOLDIGNAC — Aoh, no! Questa era ipotesi.

VATELIN — Vi avevo detto che ve ne potevate an­dare, perché so che di solito voi non avete tempo da perdere.

SOLDIGNAC — Nel giorno… ma nella sera, io ho sempre il tempo da perdere.

VATELIN (tra sé) — Ci sarà da stare allegri, adesso.

SOLDIGNAC — Io non posso andare via... Io sapevo che io sarei stato in questo albergo, questa sera; per questo, io ho dato appuntamento qui al Commis­sario di polizia. Voi sapete che io faccio sorpren­dere mia moglie qui questa sera.

VATELIN — Ma vostra moglie non è qui, non è qui.

SOLDIGNAC — Io so perfettamente che lei è in via Roquepen.

VATELIN — Già, già!... (Tra sé) Non sa nulla!

SOLDIGNAC — In questo momento, il Commissario sorprenderà lei. Per sicurezza maggiore, lui sta die­tro lei da questa mattina... Questo che io dico non interessa a voi?

VATELIN — Certo, mi interessa; vostra moglie è là, in via Roquepen.

SOLDIGNAC — Il Commissario verrà qui a dare no­tizia a me, quando tutto sarà finito. VATELIN — Benissimo, benissimo!

SOLDIGNAC — Ma cosa avete voi per essere così agitato?

VATELIN — Agitato? nemmen per sogno. Vi pare?

SOLDIGNAC — Sì, pare a me. Voi state male?

VATELIN — No, no! Oh, un poco, molto poco.

SOLDIGNAC — Colica?

VATELIN — Be’, no, così... ma non sarà nulla, ve­drete. (Risalendo la scena, mentre Soldignac siede sul divano) Ah, mio Dio, mio Dio! Come faccio a liberarmene adesso?! (In questo punto dalla porta di destra, che è socchiusa, appare il braccio nudo di Meggy, la quale depone il suo corpetto sulla sedia posta a fianco della porta).

SOLDIGNAC — Grazioso! Molto grazioso!

VATELIN (alle parole di Soldignac si è voltato) Accidenti, il braccio di Meggy. (A voce alta) Quello lì era un braccio.

SOLDIGNAC — Io ho veduto. Molto grazioso. Gra­ziosissimo. Il braccio di chi?

VATELIN — Non so... non so... non è mio. E’ il braccio del vicino.

SOLDIGNAC — Bugie. Quello è il braccio di vostra moglie.

VATELIN — Già, già! E’ il braccio di vostra moglie... di mia moglie... del vicino ch’è mia moglie!... (Va a raccattare il corpetto deposta da Meggy; ma, ap­pena io ha preso, il braccio riappare, tenendo la sottana di Meggy. Vatelin si precipita alla porta, afferra la sottana e la caccia, insieme con il corpetto, dentro al letto).

SOLDIGNAC — Mio caro, dove siete andato?

VATELIN (ridiscendendo la scena) — Sono qua, sono qua!.

SOLDIGNAC — Perché voi non sedete qui, vicino a me?

VATELIN (sedendo sulla spalliera del canapé) —Benone! Adesso, ha preso domicilio qui.

SOLDIGNAC — Io faccio a voi tutti i miei compli­menti... Vostra moglie ha un braccio meraviglioso! (In questo punto Meggy entra in scena, come se nulla fosse. Essa è in veste da camera, col berretto in testa. Ma appena ha scorto suo marito, soffoca subito  un grido e fugge.         Al grido, Soldignac volta il capo, ma Vatelìn, che ha preveduto le sue inten­zioni, gli prende il capo con le due mani e glielo abbassa sul canapé, impedendogli di vedere) Aoh! Cos’è questo?

VATELIN — Vi chiedo scusa! Ma era mia moglie... in tale disordine... Capirete...

SOLDIGNAC — Capisco, capisco. Voi avete fatto molto bene.

VATELIN — Vi pare? Ebbene, andiamo a fare una partita al biliardo?

SOLDIGNAC — Sì, eccellente idea. Se noi restiamo qui, noi disturbiamo la signora.

VATELIN — Molto gentile. Grazie. Andiamo. (Bus­sano alla porta del fondo) Cosa c’è di nuovo?

SOLDIGNAC — Avanti.

VATELIN — Avanti, avanti! Come se fosse in casa sua, lui! Bel tipo.

REDILLON (tenendo in mano la valigia che aveva portato via prima) — Vi chiedo scusa, signori!

VATELIN — Rédillon?!

REDILLON — Devo aver scambiata la valigia poco fa. (Riconoscendo Vatelin) Oh, Vatelin. Voi qui?

VATELIN — Già. Io qui. Cosa volete? Ho perduto la corsa. Vi spiegherò poi... Sentite, andate a fare una partita al biliardo col signore.

REDILLON — Col signore?

VATELIN — Sì, con lui. Signor Soldignac, signor Rédillon, andate a fare una partita al biliardo in­sieme.

RÉDILLON — Ma io non so giocare.

VATELIN — Non importa, lui sa giocare: v’inse­gnerà.

REDILLON (sedendo) — No, no... non posso... ho fretta.. mi aspettano.

VATELIN — Ma, se avete fretta, perché sedete? Noi scendiamo.

REDILLON — Aspettate un momento. Sapete cosa m’è accaduto?

VATELIN — Lasciate stare! Non abbiamo tempo, adesso! Ce lo racconterete un’altra volta. Dov’è il mio cappello?

REDILLON (accennando Vatelin) —. Ma cos’ha? Mi dà le vertigini! (Va per bere il tè che è sulla tavola).

VATELIN (portandogli via la tazza) — Non bevete: non c’è tempo, adesso. (Bussano). SOLDIGNAC — Avanti.

VATELIN (tra sé) — Che il diavolo lo porti con i suoi avanti!

CLARA (entrando) — Il signore ha suonato?

VATELIN — Io? No. Ah, sì. Ho suonato io. Ma sarà una mezz’ora almeno! Non lo ricordavo nemmeno più.

CLARA — Certo, signore, che in una mezzora c’è tempo di dimenticarsene.

VATELIN — Portate via il tè. (Prende il vassoio e lo dà a Clara che esce. Vatelin, facendo passare avanti Rédillon) E adesso, via.

RÉDILLON — E la mia valigia? Ero venuto a pren­dere la mia valigia.

VATELIN (dando a Rédillon la stessa valigia ch’egli ha portato) — Eccola qui la vostra valigia. Via!

REDILLON (restituendo gli la valigia) — Ma io non la voglio questa! Ve l’ho riportata adesso!

VATELIN (dandogli la valigia di Meggy) Allora sarà quella lì.

REDILLON (prendendo la valigia) — Non so... non è la vostra?

VATELIN — No.

RÉDILLON — Allora sarà la mia. Andiamo.

SOLDIGNAC — Noi andiamo.

VATELIN — Finalmente. Precedetemi... Dico una parola, e vi raggiungo subito. (Rédillon e Soldignac escono dalla porta del fondo. Vatelin, che è andato alla porta di destra) Meggy! Meggy! Presto!

MEGGY — Io poter venire? loro essere partiti?

VATELIN — Ma che partiti! Mi aspettano fuori! Sono costretto ad andare a fare una partita al bi­liardo con vostro marito. Anche questa mi doveva capitare. Durante la mia assenza, non vi muovete da questa camera, ve ne prego. Per maggior sicu­rezza, vi chiuderò dentro e porterò via la chiave... Se verrà qualcheduno, nascondetevi nella toilette e non uscite se non quando io sarò ritornato. Avete capito?

MEGGY — Ah! yes. (Rumore di voce al di fuori).

VATELIN (vivamente) — Lui?! nascondetevi! (Meg­gy ha appena il tempo di nascondersi nel passaggio tra il letto e la parete).

SOLDIGNAC (contro la porta) — Vatelin, cosa state voi facendo?

VATELIN — Eccomi, eccomi, vengo! (Esce portando la chiave, e dal di fuori chiude la porta a dop­pio giro).

MEGGY (sola) — Aoh! Come io essere spaventato! Quando io aver veduto marito di io là, tutta mio coraggio essere partito. Oh, no, io non volere più. Io volere partire. (Cercando il suo vestito) Dove essere vestito di io?... (Si sente parlare nel corridoio) Oh, chi essere ancora?

LA VOCE DI PINCHARD — Accidenti, non c’è la chia­ve nella toppa. Hodimenticato di chiederla giù... (Chiamando) Cameriere, mi volete aprire, per pia­cere?

LA VOCE DI UN CAMERIERE- Eccomi, signore! (La chiave gira nella toppa).

MEGGY — Oh, good gracious! (Fugge nello spoglia­toio di destra. La porta del fondo si apre. Pinchard e la signora Pinchard entrano).

PINCHARD (al cameriere nel corridoio) — Grazie! (Il cameriere richiude la porta. Pinchard a sua mo­glie ch’egli sostiene) Via,via... non ti lamentare cosi... Passerà, passerà. Maledette crisi epatiche. Le dovevano proprio ritornare mentre eravamo a tea­tro. Ce ne siamo dovuti andare prima che lo spet­tacolo terminasse. (Scorgendo la sua valigia) Ah, la mia valigia. L’hanno portata; meno male. Ero certo che l’avevo lasciata giù. (A sua moglie, la quale se­duta, lo guarda con aria dolce e sofferente. Tutte le frasi che seguono sono pronunziate da Pinchard senza voce, con la semplice articolazione delle pa­role) E così? Non ti senti meglio, adesso? (La si­gnora Pinchard fa segno di no con il capo) Fammi vedere la lingua. (La signora Pinchard tira fuori la lingua) Non è mica brutta, sai! (La signora Pi-nchard fa una smorfia espressiva come a dire che essa sente che la lingua deve essere brutta) Dovresti andare a coricarti! (La signora Pinchard acconsente. Quindi si alza ed accenna a dare al marito la buonanotte, con una mossa del capo e con un sorriso malinco­nico) Buona notte! (La signora Pinchard va lenta­mente tra la parete e il letto per spogliarsi) Adesso, le preparo un calmante... (Va al camino e prende la candela accesa; accende la veilleuse, poi apre la valigia e vi fruga dentro) Dov’è la mia farmacia? (Cavando le pantofole) Le pantofole... (Le getta sul letto, cava dalla valigia un altro paio di pantofole) Tieni, Cocò, le tue pantofole! (Va a portar le pan­tofole a sua moglie).

LA SIGNORA PINCHARD (dietro il letto) — Grazie!

PINCHARD (tornando a frugare nella valigia) — Ah, eccola qui la mia farmacia... (Aprendo la farmacia tascabile) Laudano, laudano!

LA SIGNORA PINCHARD (Dall’altro lato del letto) —Dammi il mio pettine.

PINCHARD (cavandolo dalla valigia) — Tieni. (Le fa passare il pettine di sopra al letto; poi va al comodino sul quale sono preparati una bottiglia con acqua, un bicchiere e un cucchiaio; versa l’acqua nel bicchiere) Prepariamo questo calmante, (Va alla tavola ch’è nel mezzo della camera e prepara la pozione. La signora Pinchard in sottana, senza corpetto, siede sul letto, sciogliendosi i capelli. Sotto i suo peso il campanello collocato sotto il materasso suona. Pinchard sulle prime non presta attenzione alla cosa. Contando le gocce) Una, due, tre, quat­tro, cinque, sei... (Rimescolando) Accidenti, chi è quell’animale che si diverte a suonare così, a ques­t’ora? (Posando il bicchiere sulla tavola) Accidenti, ma non la smette più. (Va ad aprire la porta del fondo e grida verso il corridoio) La volete finire una buona volta?

UNA VOCE — Chi è che suona a questo modo?

PINCHARD (rispondendo alla voce) — Signore, non so nemmeno io... è insopportabile!... (Gridando) Fi­nitela, c’è gente che dorme.

LA SIGNORA PINCHARD (levandosi da letto per an­dare a vedere. Il campanello cessa di suonare) —Cosa c’è?

PINCHARD (non sentendo più suonare) — Oh, era tempo!

UNA VOCE — Era tempo. Buona notte, signore. PINCHARD — Buona notte! (Richiude la porta).

LA SIGNORA PINCHARD — Pinchard, cosa c’è stato?

PINCHARD — Nulla, nulla!... (Spingendola verso il letto) Va’a coricarti: è tardi! Mi corico subito an­ch’io! (Si toglie il dolman. Intanto, la signora Pin­chard è andata a letto. il campanello riprende a suonare senza interruzione) Ricominciano? E’ una bella storia davvero. (Si appoggia al letto, dalla parte dei pubblico, per togliersi le scarpe. Il campanello, che è da questo lato, incomincia a suonare insieme con l’altro) Accidenti! Uno non basta? Anche un altro adesso?

LUCIANA (entra in un lampo seguita da Pontagnac, il quale parta nella mano destra una candela accesa, un po’ al di sopra del capo, tenendo dietro ad essa la mano sinistra, a guisa di riverbero) — Ah, ti ho colto, infame!

PINCHARD (atterrito) — Eh?! Chi va là?

LA SIGNORA PINCHARD (levandosi a sedere sul let­to) — Cosa c’è?

LUCIANA E PONTAGNAC — Non è lui! (Fuggono di corsa nella camera di destra).

PINCHARD (che s’era abbassato per finire di met­tersi le pantofole, rialza il capo e non vedendo più nessuno) — Accidenti, dove sono? Dove sono an­dati?

VITTORIO E CLARA (entrando di corsa) — Cosa c’è, signore? cosa c’è? Cos’ha il signore da suonare tanto?

PINCHARD — Io?!

IL DIRETTORE (entrando) — Scusi, signore, non è il modo di suonare! lei sveglierà tutto l’albergo.

PINCHARD — Cosa? Cosa dite? Io suono?!

UN VIAGGIATORE (entrando in veste da camera e berrettino da notte) — Ma la vuole smettere, una buona volta? Mia moglie non può dormire.

UN ALTRO VIAGGIATORE (c. s.) — Ah, è qui che si suona a quel modo?

ALTRI VIAGGIATORI E VIAGGIATRICI (entrano suc­cessivamente, tutti in diverse acconciature, ciascuno gridando a sua volta) — Cosa c’è? Perché suo­nano così? Non la volete smettere? E’ ora di fi­nirla! Ma che indecenza!

PINCHARD — Ma cos’è? Accidenti, ve ne volete andare?

IL PRIMO VIAGGIATORE — Sì, quando lei avrà smesso di suonare! (Tutti gli altri acconsentono a soggetto).

PINCHARD — Cosa? Io suono? Ma dove avete gli occhi? Mi vedete suonare, forse? C’è qualcheduno che suona, qui? Ma che modo è codesto di entrare in camera degli altri? Via, andate fuori dai piedi! (Furioso, vicino al tetto) Vi ripeto di andarvene fuori dai piedi! (Scande ogni sillaba con un pugno sul materasso. Il campanello suona a ogni colpo, drin, drin! Pinchard si arresta, meravigliato, guarda il materasso, e prova ancora a darvi sopra dei pugni. Il campanello risponde nuovamente) C’è un campa­nello nel letto.

TUTTI — Nel letto?

PINCHARD — Certamente!... (Guarda sotto al mate­rasso e tira fuori il campanello) Bello scherzo! Chi è quell’imbecille che si diverte a fare di queste burle?

TUTTI (meravigliati) — Ah!

PINCHARD — E continua. Ce ne dev’essere un altro sotto mia moglie. (Tutti vanno verso il fondo. Il direttore va nel passaggio tra la parete e il letto, e si avvicina alta signora Pinchard).

LÀ SIGNORA PINCHARD (che non capisce nulla di quanto succede) — Cosa c’è?... Signore, cosa vuole da me?... Pinchard, Pinchard: cosa fa tutta questa gente?

PINCHARD — Lascia stare.

IL DIRETTORE — Non abbiate timore, signora!... (Fruga sotto il materasso e ne trae fuori il campa­nello) Già. Eccone qui un altro.

PINCHARD —L’avevo detto, io! Accidenti, vorrei un po’ sapere chi s’è preso questo bel gusto. Ma ce ne sono di cretini, al mondo!

IL DIRETTORE — Non ci capisco nulla. Eppure sono il direttore.

PINCHARD — Ah, se nel vostro albergo c’è l’abitu­dine di spassarsi a questo modo a spese dei clienti, state fresco se mi ci vedrete un’altra volta.

IL DIRETTORE — Scusi, signore. Le assicuro...

PINCHARD — Va bene, va bene!... Adesso, andatevene via tutti quanti e lasciateci in pace! (Tutti. escono. Pinchard chiude bruscamente la porta) S’è mai visto disturbare la gente così? Cretini...

LA SIGNORA PINCHARD — Ma cosa c’è, Pinchard? Fammi il piacere di dirmi cosa c’è. Cosa voleva tutta quella gente?

PINCHARD  (accompagnando le parole con un gesto negativo) — Nulla, nulla.   

LA SIGNORA PINCHARD — Che paura mi hanno fatto. I miei dolori si erano già quasi calmati. Ades­so, mi sono ritornati peggio di prima!

PINCHARD — Animali! Senti: vuoi provare un ca­taplasma?

LA SIGNORA PINCHARD — Come vuoi che ti capisca? Mi parli contro luce: io non vedo ciò che mi dici!

PINCHARD (prende la candela, e si illumina il viso. Senza voce) — Vuoi provare un cataplasma?

LA SIGNORA PINCHARD — Sì, sì! Con qualche goc­cia di laudano, mi farà bene. Ma dove lo prendo a quest’ora?

PINCHARD (additando la sua valigia, senza voce) —Ho quanto occorre lì dentro. Bisogna soltanto pre­pararlo. Aspetta! (Va a suonare il campanello; poi apre la valigia e ne cava un pacchettino, contenente semi di lino) Meno male che ci sono io che quando parto mi ricordo di tutto!

VITTORIO — Il signore ha suonato?

PINCHARD — Sì, questa volta sono io. Vorrei che mi facessero un cataplasma con questi semi di lino... per mia moglie, che ha dei dolori.

VITTORIO — Scusi, signore, ma in cucina non c’è più nessuno.

PINCHARD — Non ci pensavo! Ma ci sarà almeno un fornello?

VITTORIO — Sì, signore, c’è!

PINCHARD Meno male. Allora, fate il piacere di condurmi in cucina: lo preparerò io stesso.

VITTORIO — Faccia pure: l’accompagno!

PINCHARD (con la candela in mano c. s.) — Vado in cucina, a fare il cataplasma. Ritorno fra cinque minuti. Procura di dormire. Poi io ti sveglio e ti metto il cataplasma.

LA SIGNORA PINCHARD — Dormire? Volesse Iddio. Fa’ presto.

PINCHARD —Non dubitare! (La signora Pinchard si volta dalla parte del muro. Pinchard esce con Vittorio. La scena rimane vuota un istante).

MEGGY (entra) — Io non sentire più rumore. Ma cosa essere arrivato? E Vatelin non tornare! Oh io non aspettare lui. No, io volere vestire e io volere andar via. Ma dove avere lui cacciato vestito di io?... (Cerca un po’ da per tutto. Andando a guar­dare sul letto vede la signora Pinchard) Good Gra­cious! Essere una persona in letto. (Fugge atterrita, nella camera che aveva appena lasciata. La scena resta di muovo vuota un istante. Si sente il rumore di una chiave che gira nella toppa del fondo, e poi quello di un spinta conto la porta. Ma la porta resiste).

LA VOCE DI VATELIN — Ma cos’ha questa serratura? (Nuovo giro di chiave e spinta di Vatelin. La porta si apre).

VATELIN — Asino che sono. Giravo, all’inverso. In­vece di aprire, chiudevo a doppio giro. (Chiude la porta) Dio, che sanguisuga, quel Soldignac! Andia­mo a liberare Meggy. (Si sente russare nel letto) Eh? qualcuno russa. (Va al letto a guardare) Oh, è già andata a letto, e dorme saporitamente. E’ una donna che fa sbalordire. Non si turba per nulla,

lei. Nemmeno davanti al pericolo. Che gente gli inglesi! Che temperamenti fortunati. Ma a Londra non russava. Tanto meglio, se ha già preso sonno. (Spogliandosi) Adesso, mi corico anch’io, ma ada­gino per non svegliarla: non ci mancherebbe altro. Così, almeno, potrò riposare anch’io. (inciampa nel­le scarpe lasciate da Pinchard e le raccatta) Accidenti! Che razza di piedi hanno queste inglesi. (Va a mettere le proprie scarpe e quelle di Pinchard fuori della porta) Che sete! (Prende il bicchiere lasciato dalla signora Pinchard e beve) Ah, buono. (Finisce di spogliarsi) Ho gli occhi stanchi... mi ad­dormenterò subito. (Va sotto te coltri) Accidenti, ne occupa del posto! Queste inglesi, a vederle svestite, sembrano attaccapanni; ma, poi.. Accidenti che sonno! Non so perché ma non posso più tenere gli occhi aperti. Cosa ci avrà messo dentro a quel bicchiere dove ho bevuto? Stricnina, come poco fa? Mio Dio... stri... chni... na... (Si addormenta. Vittorio apre la porta del fondo per lasciar entrare Pinchard il quale tiene il cataplasma in una mano la candela nell’altra).

PINCHARD (a Vittorio) — Grazie!... (Vittorio esce. Pinchard depone la candela sul camino, e si dirige verso il letto) Cocò, eccomi qui. Vedi, come mi sono sbrigato? Ecco il cataplasma. Bada: è molto caldo. (Scopre Vatelin con la mano sinistra, e con la destra gli applica il cataplasma sullo stomaco).

VATELIN (urlando) — Oh!

PINCHARD — Cosa c’è?!

VATELIN — Chi va là? Al ladro!

PINCHARD — Un uomo nel letto di mia moglie?

LA SIGNORA PINCHARD (svegliandosi) — Cosa c’è? Ah, mio Dio! Un uomo nel mio letto!

VATELIN (alla signora Pinchard) — Ma voi chi siete?

PINCHARD (saltandogli al collo) — Assassino! Cosa fai, lì?

VATELIN — Lasciatemi, per Dio!

TUTTI E TRE — Aiuto! aiuto! aiuto!

PINCHARD (urlando) — C’è un uomo nel letto di mia moglie!

VATELIN — Lasciatemi, vi ripeto!

LUCIANA (irrompe nella stanza seguita da Ponta­gnac, che ha sempre la candela in mano) — Ah, ti ho colto, finalmente.

VATELIN — Accidenti, mia moglie! (Dà una spinta a Pinchard, prende di furia i suoi abiti e scappa).

PINCHARD (si lancia per inseguire Vatelin) — Arrestatelo! Arrestatelo! Era nel letto di mia moglie!

SIGNORA PINCHARD (la quale durante questo tempo si è alzata, si è messa la sottana e le panto­fole) — Pinchard! Pinchard! Dove vai? (Corre die­tro a suo marito).

PONTAGNAC (a Luciana) — Ebbene, siete convinta, adesso? Vi basta?

LUCIANA — Se mi basta! L’infame!

PONTAGNAC — Avevo ragione io di dirvi di aspet­tare? E voi ve ne volevate andare?

LUCIANA — Sì, sì, avevate ragione! Grazie a Dio, ho visto con i miei occhi.

PONTAGNAC — E, adesso, spero che vi saprete ven­dicare!

LUCIANA — Ah, sì, ve lo giuro!

PONTAGNAC — Ricordate ciò che mi avete pro­messo? “Occhio per occhio”.

LUCIANA — Certamente! Né mi disdico! Vi dimo­strerò che so mantenere le mie promesse!

PONTAGNAC — Brava!

LUCIANA — Ho detto che prenderei un amante e lo prenderò!

PONTAGNAC — Grazie! Io sono il più felice dei mortali.

LUCIANA — E se mio marito vi chiederà chi è il mio amante, diteglielo pure!

PONTAGNAC — Che bisogno c’è di farglielo sapere?

LUCIANA — No: diteglielo pure: è il suo migliore amico, Ernesto Rédillon.

PONTAGNAC (allibito) — Eh? Cosa dite? Réd...

LUCIANA — Arrivederci! vado a vendicarmi.

PONTAGNAC (correndo dietro Luciana) — Luciana! Luciana! Per amor di Dio... (Trovando la porta chiusa corre verso il fondo e urta nel Commissario di polizia, che entra seguito dai suoi agenti e da Soldignac).

IL PRIMO COMMISSARIO — In nome della legge, vi dichiaro in arresto.

PONTAGNAC — Il Commissario!

SOLDIGNAC — Eccolo lì il suo “love”!

IL PRIMO COMMISSARIO — Signore, noi sappiamo tutto: voi siete qui, con la moglie dei signore

PONTAGNAC — Io?!

IL PRIMO COMMISSARIO — Dove si nasconde la vostra complice?

PONTAGNAC — La mia complice?

IL PRIMO COMMISSARIO (agli agenti) — Cercate!

PONTAGNAC — Io casco dalle nuvole!

UN AGENTE DI POLIZIA (che è entrato ai destra, rien­tra in scena trascinando per mano Meggy) — Ve­nite avanti, signora!

PONTAGNAC — Chi è quella lì?

MEGGY — Il marito di io!

SOLDIGNAC — Mia moglie! (Fanno atto di litigare fra loro).

IL SECONDO COMMISSARIO (entra seguito dai due agenti di polizia e dalla signora Pontagnac) — In nome della legge!

PONTAGNAC — Un altro? Mia moglie?!

LA SIGNORA PONTAGNAC — Fate il vostro dovere, signor Commissario!

PONTAGNAC — Clotilde!

SOLDIGNAC (a Pontagnac) — Adesso, a noi due! (Si

     slancia sopra Pontagnac e incomincia a tempestarlo di pugni come se tirasse di boxe. Gli agenti cer­cano di separari. Meggy sviene).

RÉDILLON (entrando dalla porta del fondo) Che succede qui?... (Vedendo i Commissari) Avevo scam­biato la valigia! (Lascia la valigia che porta seco, ne prende rapidamente un’altra e via di corsa).

SIPARIO

ATTO TERZO

Salottino in casa di Rédillon. Porta nel fonda, che dà in una stanza interna; due porte a destra, e due a sinistra. Nel fondo, a destra, una finestra, che lascia vedere la stanza interna.

GIROLAMO (entra dalla porta di fondo, portando sul braccio sinistro gli abiti di Rédillon. e la sot­tana di Armandina e tenendo in mano le scarpe dell’uno e dell’altra che ha lustrate) — Un’altra sot­tana. Sempre sottane! Quel ragazzo è incorreggi­bile. Ma vorrei sapere che gusto ci piglia, ridotto com’è. Ecco la gioventù del giorno d’oggi! Crapula, crapula! E, poi, a trent’anni, sono già andati... (Va a bussare alla seconda porta di destra).

LA VOCE DI RÉDILLON — Cosa c’è?

GIROLAMO — Sono io, Girolamo!

RÉDILLON (sporgendo il capo fuori dalla porta) —Cosa vuoi?

GIROLAMO — Sono le undici.

REDILLON — Tanto piacere. (Gli sbatte la porta in faccia).

GIROLAMO — Grazie. Ecco cosa si guadagna a dirgli che ore sono. La porta sul muso! Un ragazzo che ho visto nascere. Ecco la gioventù del giorno d’oggi! Non ha più rispetto per nessuno. E quel brav’uomo di suo padre, il mio povero fratello di latte, voleva ch’io vegliassi sopra di lui, e me l’ha fatto promet­tere al suo letto di morte. Povero Bartolomeo, come vuoi ch’io vegli sul tuo figliolo? Che potere ho io sopra di lui? Se non mi dà retta, mai! Quando gli faccio la morale, mi dà dell’imbecille. E sì che, in fin dei conti, tocca sempre a me fare la cameriera alle sue belle e alle sue brutte. (Si ode parlare nella camera di Rédillon e la porta si apre) Finalmente! (Esce dalla prima porta di destra, per portare gli abiti e le scarpe che ha sempre con sè).

ARMANDINA (entra dalla seconda parta di destra, seguita da Rédillon, che viene avanti trascicando. Non ancora pettinata ha i capelli semplicemente attorcigliati sulla nuca, e indossa una veste da ca­mera da uomo. Entrando, incespica nella veste da camera e sta quasi per cadere a terra) — Com’è lunga la tua veste da camera!

REDILLON (che s’è lasciato cadere sul canape’) — E’ lunga per te, ma per me va bene.

ARMANDINA — Ah, già. Avrei dovuto capirlo. Ci volevi proprio tu a portarmi, una dopo l’altra, tutte le valigie dell’albergo, tranne la mia, naturalmente.

RÉDILLON — Ma la conosco, forse, la tua valigia?

ARMANDINA — Va bene! ma, in mezzo a tante altre, sarebbe stato meglio che ti fosse capitata pro­prio la mia!

REDILLON (sbadigliando) — Non è mica una lot­teria che ci si rimette alla sorte. ARMANDINA — Cos’hai? sbadigli?

RÉDILLON — Sono stanco. Undici ore diletto non sono undici ore di riposo. (Siede vicino alla tavola. Girolamo entra dalla seconda porta di destra).

GIROLAMO — Bel pro, ridursi in quello stato mi­serevole.

REDILLON — Cosa borbottate, Girolamo?

GIROLAMO (imbronciato) — Nulla!

REDILLON — Allora, perché mi guardate a quel modo?

GIROLAMO — Ah, Ernesto, tu ti logori, ragazzo mio!

RÉDILLON E ARMANDINA — Eh?!

GIROLAMO Mi fai compassione.

REDILLON — Volete andare fuori dai piedi? Chi vi ha pregato?

GIROLAMO — Non c’è bisogno che tu mi preghi! Ti dico, che mi fai compassione! (Esce). REDILLON — Non ci pensare, tu! Scusa sai, è un vecchio domestico di casa, maniaco quanto mai.

ARMANDINA — Si prende un po’ troppa confidenza, mi pare!

RÉDILLON — Pare anche a me. Ma cosa vuoi che faccia? E’ come uno di famiglia, lui E’ mio zio di latte.

ARMANDINA — Tuo zio di latte?

RÉDILLON — Sua madre fu la balia di mio padre. Come vedi, siamo parenti per via lattea. ARMANDINA — Capisco... ma è così strano che lui ti dia del tu, mentre tu gli dai del voi! RÉDILLON — Cosa vuoi? Mi ha visto nascere; io no. Che ne so io della sua nascita? (Sbadiglia) Co­me sono stanco.

ARMANDINA — Ma èuna mania. In materia d’amo­re, non credo ce la faresti a battere un record.

RÉDILLON — Cosa me ne importa? Non ho mai posato a primo campione di Francia. ARMANDINA — Non ci mancherebbe altro. (Lo ab­braccia) Ti dà fastidio quando ti abbraccio?

REDILLON — No. Ho paura soltanto che si debba ricominciare, ed io sono tanto stanco. Ti prego...

ARMANDINA — Sì, sì, ho capito. (In piedi, davanti a lui, con le mani appoggiate alle spalle, guardando un acquarello, al di sopra del canape’) Com’è bello quel dipinto! Di’ un po’: è una villa tua?

RÉDILLON — Quella? Ma no: è il Campidoglio!

ARMANDINA — Il Campidoglio?! Curioso, mi ha fatto pensare a Schmitz-Mayer...

REDILLON — Sì, sì, lo so: il tuo amante!

ARMANDINA — Mi secca sempre con quell’affare lì! Non so perché. Dice che io ho salvato il Cam­pidoglio.

RÉDILLON — Io ho capito; ma tu non cercare di capire, è meglio.

ARMANDINA — Preferisco. (Lo abbraccia).

GIROLAMO (entrando con un bicchiere a calice pieno di vino, in mano) — Daccapo? (Ad Arman­dina, mettendosi tra Rédillon è lei) Signorina, ve ne prego: abbiate un po’ di riguardo.

ARMANDINA (allontanandosi) — Che volete?

GIROLAMO (guardando Rédillon)- Guardate un po’ in che stato lo avete ridotto.

REDILLON — Ma la volete finire? O finirò io col mettervi alla porta.

GIROLAMO — Discorsi inutili. Tanto non me ne andrò! Su, bevi!

RÉDILLON — Ce ne vuole della pazienza! Cos’è?

GIROLAMO — Bevi. E’ coca-tonico, corroborante. (Ad Armandina, sottovoce) Pensate ch’è un ra­gazzo. Ha appena trentadue anni! Non è mica come me, lui!

RÉDILLON — Cosa borbottate voi due?

GIROLAMO — Nulla, nulla!

ARMANDINA (con aria canzonatoria) — Abbiamo i nostri segretucci, noi!

GIROLAMO — Tu non c’entri!

RÉDILLON — Allora, vi chiedo scusa. (Restituisce il bicchiere a Girolamo) Non è venuto nessuno a chiedere di me?

GIROLAMO (con disprezzo) — Sì... prima, la tua cosiddetta Pluplu!

RÉDILLON — E’ venuta Pluplu?

GIROLAMO — Sì, e ti voleva vedere a tutti i costi!

RÉDILLON — Cosa le avete detto?

GIROLAMO — Ch’eri con tua madre. Voleva aspet­tare, ma io le ho detto che, quando sei con tua madre, ne hai sempre per tre o quattro giorni.

ARMANDINA — Avete fatto benissimo. Guai se ci fossimo incontrate a faccia a faccia.

GIROLAMO — Poi è venuto il signor Gruyère. ARMANDINA — Gruyère? chi è? lo conosco?

RÉDILLON — Non lo puoi conoscere... e un anti­quario che sta qui sotto. Ogni volta che compera qualche cosa me lo viene a dire.

ARMANDINA — Eppure il nome Gruyère non mi è nuovo.

REDILLON — Lo avrai mangiato, come formaggio. Cosa voleva, Gruyere?

GIROLAMO — Ha un nuovo acquisto da farti vedere: un oggetto rarissimo, al giorno d’oggi, una cintura di castità del quattordicesimo secolo. (Bus­sano).

REDILLON — Se è una signora, dite che non ci sono.

GIROLAMO — A me lo dici! (Esce).

ARMANDINA — Già! Non ci siamo. Non ci mancherebbe altro che fosse ancora Pluplu! Non voglio scenate, io! (Si avvia verso la porta di destra).

REDILLON — Dove vai?

ARMANDINA — A vestirmi... Se è una donna, me la svigno. E ti saluto adesso.

LA VOCE DI GIROLAMO — No, signora. Non c’è: sono sicuro. (Sporgendo il capo fuori della porta del fondo a voce bassa, ma in guisa da farsi udire da Rédillon) E’ proprio una delle solite, Vattene in fretta!

RÉDILLON e ARMANDINA — Via! (Scappano dalla seconda porta di destra).

GIROLAMO — Ebbene, signora, guardi lei se non mi crede. Le ripeto che il padrone non c’è.

LUCIANA — Va bene. Ditegli che la signora Vate­lin ha bisogno di parlargli.

GIROLAMO — La signora Vatelin? La moglie del suo amico, il signor Vatelin, dal quale egli va così spesso?

LUCIANA — Per l’appunto!

GIROLAMO — Oh, allora, è un’altra cosa. Le chiedo scusa, signora: io l’avevo presa per una cocotte.

LUCIANA — Eh?!

GIROLAMO (chiamando a destra) — Ernesto, è la signora Vatelin.

LA VOCE DI REDILLON — Cosa dite?

GIROLAMO — E’ la signora Vatelin. Vieni subito!(A Luciana) Eccolo qui.

RÉDILLON — Mi sembra impossibile! Voi a casa mia? Come mai?

LUCIANA (sedendo) — Vi meraviglia! Anche a me, ve l’assicuro!

REDILLON (sottovoce a Girolamo) — Dite a quella signorina che mi spiace di non poterla salutare... ma un affare importante... inventate ciò che volete... e non appena si sarà vestita, fatela andar via, di là.

GIROLAMO — Capito! (Bussa alla seconda porta di destra).

LA VOCE DI ARMANDINA — Non si può.

GIROLAMO — Non importa. (Entra).

RÉDILLON — Voi, voi qui?

LUCIANA — Proprio io! Voi sapete tutto, non è vero?

RÉDILLON — No!

LUCIANA — Come? Se sono qui, ne dovreste pure indovinare il motivo!

RÉDILLON — Io?!

LUCIANA — Questa notte ho colto mio marito in flagrante adulterio.

RÉDILLON — Davvero? Allora siete venuta per mantenere la vostra promessa?

LUCIANA — Io mantengo sempre, quando pro­metto!

REDILLON — Ah, Luciana! Come sono felice! Di­sponete pure di me: prendetemi, io sono vostro.

LUCIANA — No, scusate. Tocca a me dir così: sono venuta per questo.

REDILLON — Già!

GIROLAMO (entrando dalla porta di fondo) — Ssst!

REDILLON — Cosa c’è? (Girolamo fa segno con la mano a Luciana che si nasconda, perché Armandina deve passare dalla stanza interna; poi chiude la porta di fondo).

LUCIANA — Cosa c’è?

RÉDILLON — Deve passare qualcuno di là... Na­scondetevi dietro di me... E meglio che non vi si veda! (Luciana si nasconde dietro Rédillon, il quale tien d’occhio la finestra di fondo. Attraverso ai vetri, si vede Girolamo accompagnare Armandina, vestita e velata. Essa fa un piccolo saluto col capo a Rèdillon, il quale le risponde allo stesso modo. Girolamo e Armandina scompaiono).

LUCIANA — E così?

RÉDILLON (fa cenno a Luciana di tacere) — Aspet­tate! (Girolamo rientra dalla porta di fondo e con la mano fa cenno a Rédillon che Armandina se n’è andata) Sì? (Girolamo fa cenno col capo di sì, e accompagna il segno strizzando maliziosamente l’oc­chio a Rédillon) Va bene: chiudete la tenda di là.

GIROLAMO — Subito! (Esce e subito dopo lo si vede dalla finestra chiudere la tenda).

REDILLON — Non volete sedere?

LUCIANA — No, no! Chi l’avrebbe pensato! in­fame!

REDILLON — Chi?

LUCIANA — Come chi?... Mio marito, si capisce.

RÉDILLON — Ah, sì, sì! Che testa, non ci pensavo più.

LUCIANA— E dire ch’io gli sono stata fedele, sem­pre… che non ho mai voluto cedere a quel povero Rédillon.

RÉDILLON — Già! Quel povero Rédillon.

LUCIANA — Adesso, però, non gli resisterò più. No, davvero. Egli mi ama: ebbene sarò sua. Sarà la mia vendetta!

REDILLON — Sì, sì, Luciana!

GIROLAMO (sporgendo il capo dalla porta di fondo)— Senti, io esco: vado a prendere due costolette.

REDILLON (stizzito) — Va’ al diavolo! Ma guarda se è il momento di costolette! Ah, Luciana! (Cor­rendo alla porta di fondo) Senti... Prendi anche dei piselli… hai capito? Piselli!

GIROLAMO — Va bene, piselli.

REDILLON (ridiscendendo la scena) — Quell’imbe­cille ha la mania di darmi patate tutti i giorni. Io incomincio ad esserne stufo. Vi chiedo scusa: è un vecchio domestico di famiglia. Un uomo zotico, sen­za ideale.. Dunque, dicevamo...

LUCIANA — Dicevate che quell’imbecille ha la ma­nia di darvi patate tutti i giorni!

RÉDILLON — No… prima, prima...

LUCIANA — Dicevate: “Ah, Luciana, Luciana!”

RÉDILLON (in tono lirico, mentre ha l’aria di pen­sare a ciò che avrebbe potuto dire veramente) —Ah, Luciana! Luciana! Sì, sì... (Dopo una pausa) Ah, Luciana, Luciana... (La conduce al canapé) Di­temi che non è un sogno questo! Voi siete mia, non è vero? Mia, unicamente mia.

LUCIANA — Vostra, sì. Unicamente vostra.

REDILLON — Oh! come sono felice!

LUCIANA — Tanto meglio, caro! Nelle cose della vita vi deve pur essere questo compenso: che la sventura degli uni formi, almeno, la felicità degli altri!

RÉDILLON — Ah! Sì, sì! Vi prego: appoggiate il vostro capo qui (accennando il suo petto) affinché io possa inebriarmi del profumo dei vostri capelli.

LUCIANA (accennando a togliersi il cappello) —Aspettate.

REDILLON — Sì, sì... toglietelo! (Luciana si toglie il cappello, Rédillon lo depone sopra la tavola; poi, ritorna vicino a lei e la abbraccia) E’ la prima volta che posso sfiorare il vostro viso con le mie labbra.

LUCIANA — Fate pure! Vendichiamoci! Vendicatemi!

RÉDILLON. — Sì, sì.

LUCIANA — Incominciando da oggi, io non sono più la moglie del signor Vatelin. Sono vostra, e voi mi sposerete.

RÉDILLON — Ah! sì, sì.

LUCIANA — Un uomo che io amavo veramente, al quale avevo dato tutto: la mia tenerezza, la mia felicità, il mio candore di fanciulla!

RÉDILLON — Non continuate, per carità!... Non mi parlate di vostro marito! Via, in questo momento soprattutto, l’immagine sua. Ah, Luciana mia ado­rata! (Si mette in ginocchio davanti a lei).

GIROLAMO (sporgendo il capo dalla porta di fondo) —    Sono tornato.

RÉDILLON — Non si può! Andate via. Chiudete la porta e non tornate più per l’eternità.

GIROLAMO — E se chiami?

RÉDILLON — Allora ritornate.

GIROLAMO — Va bene. Ma volevo dirti che non ho trovato i piselli ed ho preso patate. (Esce).

REDILLON — Vi chiedo scusa: è un vecchio do­mestico di famiglia... (Si rimette in ginocchio) Ah, Luciana mia, lasciate che vi stringa tra le mie brac­cia... Siete mia moglie, oramai...

LUCIANA — Mi amate?

RÉDILLON — Se vi amo! No... così non sto bene... non vi sono abbastanza vicino. Fatemi posto accanto a voi. (Siede alla destra di lei) Così, così va bene. Adesso posso stringervi meglio al mio cuore.

LUCIANA — La sonnambula aveva ragione.

RÉDILLON (con gli occhi semichiusi) — Quale son­nambula?

LUCIANA — La sonnambula, che mi predisse ch’io avrei avuto due avventure amorose nella mia vita: una a venticinque anni; l’altra, a cinquantotto. Per la prima, ha indovinato: compio venticinque anni proprio oggi!

RÉDILLON Sì... ed io sono ilprincipe azzurro... (Mutando tono) No, così non sto bene... Aspettate. (Appo ggia il dorso al dorso di Luciana, stendendo le gambe).

LUCIANA — Cosa fate?

RÉDILLON — Ah, così sto meglio! Vi sento di più... Ah, Luciana, Luciana! (Le prende una mano e glie­la accarezza).

LUCIANA (con un sospiro) — Ah!

RÉDILLON — Luciana! (Il viso di Rédillon rivela una grande ansietà; egli accarezza macchinalmente la mano di Luciana, ma si vede che il suo pensiero è altrove. Luciana si volta per guardarlo. Egli sor­ride immediatamente).

LUCIANA — E così?!

RÉDILLON — Cosa?

LUCIANA — Come vi sentite, adesso?

RÉDILLON — Meglio, molto meglio. Ah, Luciana, Luciana... (Tra sé) Cosa m’è venuto in mente di far venire qui Armandina, ieri sera. (Luciana lo guar­da di nuovo) Ah, Luciana!

LUCIANA — Ho capito! Luciana, Luciana... Ma non sapete dire altro?

RÉDILLON — Scusate, sono così turbato, così com­mosso. Io non so...

LUCIANA — Mi amate tanto?

REDILLON — Vi adoro. Ma dovreste comprendere. Ero così lontano dall’aspettarmi questa felicità. Ora la gioia quasi mi paralizza. Aggiungete lo scrupolo. Lo scrupolo di un uomo onesto, che non durerà molto, ma che è legittimo e doveroso, anche. Io non posso non pensare a vostro marito, che è mio intimo amico. Fargli un’azionaccia simile, così, da un momento all’altro. Lasciatemi il tempo di pre­pararmi.

LUCIANA — Tardi scrupoli i vostri, mio caro.

RÉDILLON — Passeranno, ve l’assicuro. Datemi sol­tanto il tempo di riflettere. Non vi chiedo molto... Tornate domani... magari questa sera...

LUCIANA — Domani? Questa sera? Impossibile. Mio marito sarà qui tra poco ed io voglio che al suo arrivo la mia vendetta sia compiuta.

REDILLON — Vostro marito verrà qui? Ma cosa dite?

LUCIANA — Certamente! Prima di uscire gli ho fatto avere un biglietto con queste precise parole: “Voi mi avete tradita; io vi tradisco a mia volta. Se ne dubitate, venite a mezzogiorno in casa del vostro amico Rédillon: mi troverete nelle braccia del mio amante”. Capirà che siete voi.

REDILLON — Gli avete scritto così? Ma siete paz­za? Stavo per farla bella, io! Pareva che lo prevedessi: ecco perché mi sentivo senza slancio davanti ad una fortuna simile. Ma grazie al cielo ho avuto la forza di essere ragionevole.

LA VOCE DI GIROLAMO (fuori della porta) — Vi dico che non si può.

LA VOCE DI CLOTILDE — E io vi dico di sì!

RÉDILLON — Cosa c’è?

CLOTILDE (che è entrata, dando uno spintone a Gi­rolamo) — Lasciatemi entrare!

REDILLON e LUCIANA — La signora Pontagnac!

CLOTLLDE — Proprio io. Ah, voi non aspettavate di vedermi così presto, non è vero? Signor Rédillon, cosa vi dissi ieri?  Lasciate che io abbia la prova dell’infedeltà di mio marito, e correrò da voi per dirvi: “Vendicatemi, io sono vostra”!

RÉDILLON — E due.

CLOTILDE (togliendosi la giacchetta e gettandola sul canapé) — Signor Rédillon, vendicatemi: io so­no vostra!

RÉDILLON — Ma no, ma no, andiamo: è una manìa.

LUCIANA — Un momento, signora. Andate un po’ troppo per le spicce, voi!

CLOTILDE — Ma come, signora? Eravamo già d’ac­cordo col signor Rédillon.

LUCIANA — Scusate, ma io sono venuta prima di voi.

CLOTILDE — Sarà. Ma vi faccio notare che io ave­vo impegnato il signor Rédillon fino da ieri.

LUCIANA — E che m’importa che l’abbiate impe­gnato?! Io sono arrivata prima ed ho la precedenza: mettetevj in fila.

RÉDILLON (intervenendo tra le due signore) — La volete smettere? Che non c’entro per nulla, io?!

LUCIANA — Avete ragione. Parlate!

REDILLON — Ma èenorme, davvero! Voi avete tutt’e due buone ragioni per vendicarvi dei vostri mariti... E vorreste tutt’ e due che io... Ma dite un po’: mi prendete per uno strumento di rappresaglie coniugali?

LUCIANA — In poche parole: quale delle due?

CLOTILDE — Sì, quale delle due?

RÉDILLON — Quale delle due?! Ebbene: né l’una né l’altra!.

LUCIANA e CLOTILDE — Eh?!

RÉDILLON — Vi saluto! (Risale la scena).

LUCIANA e CLOTILDE — Ah!

GIROLAMO (accorrendo dal fondo) — Senti: Plu­plu...

RÉDILLON — Cosa? Pluplu?

GIROLAMO — E’ ritornata. Ti vuole vedere!

RÉDILLON — Eh?! Anche Pluplu, adesso! Ah, no, basta. Ne ho fin sopra i capelli. Non ricevo più donne. Dite che sono morto (Si avvia per uscire).

GIROLAMO — Va bene. (Esce).

LUCIANA e CLOTILDE (insieme) — Rédillon! Signor Rédillon!

RÉDILLON — Sono morto! (Entra a destra e chiudela porta a chiave).

LUCIANA e CLOTILDE (che sono corse con lo stessa moto istintivo alla porta dalla quale è uscito Rédillon) — Si è rinchiuso.

CLOTILDE — Vedete, signora, che cosa avete fatto?

LUCIANA — Scusate, signora: la colpa è vostra.

CLOTILDE (ridendo ironicamente) — Già, la colpa è mia! Mia cara signora, dovreste pure comprendere che il passo che ho fatto è, almeno per me, già ab­bastanza doloroso.

LUCIANA — Ma cosa credete? Che io ci abbia pro­vato gusto a venire qui? Sono stata spinta dal vostro stesso sentimento. Ma sono, come voi, una donna onesta spinta alla disperazione dal proprio marito. Come voi. Quindi è inutile insultarci.

GIROLAMO (entrando dalla porta di fondo) — Si­gnore, c’è di là un giovanotto che chiede della signora Vatelin.

LUCIANA — Un giovanotto che chiede di me? Chi è?

GIROLAMO — Il signor Pontagnac.

CLOTILDE — Ma non è un giovanotto: è mio ma­rito! (A Luciana) Che vorrà mio marito?

LUCIANA — Che ne so. Ha fatto chiedere di me, forse? Del resto, giunge a proposito. Avevo bisogno di un complice per la mia vendetta!

CLOTILDE — Eh?! Cosa dite? Vorreste forse...

LUCIANA — Cosa v’importa, oramai? Vi ha già tra­dito una volta.

CLOTILDE (riflettendoci su) — Già!

LUCIANA — Me lo cedete?

CLOTILDE — Sì, sì! Prendetelo pure. Anzi, ciò var­rà a consolidare la mia posizione contro di lui.

LUCIANA — Va bene! (Prende la giacchetta di Clo­tilde sul canapé e la dà a questa) Prendete, signora, e andate di là. (Fa uscire Clotilde dalla seconda porta di sinistra; poi a Girolamo) Fate entrare il si­gnor Pontagnac. (Tra sé) Ma guarda che razza di amante mi doveva capitare. Non ho proprio fortuna. (Girolamo introduce ed esce dal fondo).

PONTAGNAC (entrando) molto commosso) — Sola!

LUCIANA — Cercavate di me?

PONTAGNAC — Sì. Siete qui da molto tempo?

LUCIANA — Sono arrivata da poco.

PONTAGNAC — E Rédillon?

LUCIANA — Lo aspetto.

PONTAGNAC — Dio sia benedetto. Giungo in tem­po. (Depone il cappello sulla tavola).

LUCIANA — Potrei sapere il motivo per cui siete venuto a scovarmi, qui? Cosa volete?

PONTAGNAC — Cosa voglio? Io vi voglio impedire di commettere una follia! Io mi voglio mettere tra voi e Rédillon, per contendervi, per strapparvi a lui.

LUCIANA — Voi? E con quale diritto?

PONTAGNAC — Col diritto che mi danno tutti i guai, tutte le noie che da ventiquattr’ore mi piovono sul capo. Voi non sapete nulla di quanto accadde ieri sera, dopo la vostra fuga dall’albergo. Per amor vostro io mi sono cacciato in un ginepraio maledetto. Ho due delitti flagranti sulle spalle. Delitti flagranti nei quali non c’entro per nulla. Fui colto da un marito che non conosco, con una donna che non ho mai vista. Fui colto da mia moglie, sempre con la stessa donna che non conosco! Quindi, senza dubbio, divorzio tra mia moglie e me. E un altro divorzio tra la signora che non ho mai visto e il signore che non conosco, ma nel quale sarò impli­cato come complice. Zizzania tra mia moglie e me. La signora che non ho mai vista è venuta, stamat­tina, a dirmi, con accento inglese, che io le devo una riparazione. Un alterco con percosse con il si­gnore che non conosco. Non basta. Processo, scan­dalo, mille altre seccature d’ogni genere. Vi par poco? E mi deve essere capitato tutto questo perché vi debba gettare nelle braccia di un altro? Fosse almeno mio amico, ma io lo conosco da ieri soltanto. Io avrò seminato e sarà lui a raccogliere? Ah, no, no! Voi non lo permetterete.

LUCIANA (tra sé) — Tra poco mio marito sarà qui. Mi crederà colpevole: sarà già una vendetta. (Ri­mane assorta e pensierosa).

PONTAGNAC — A che pensate?

LUCIANA — Penso che non avete tutti i torti.

PONTAGNAC — Meno male. Siete la prima persona, da ieri sera, che ha un po’ di comprensione per me.

LUCIANA — Anzi, vi confesso che, appena vi ho visto entrare, mi sono detta, risoluta com’ero di ven­dicarmi: « Alla fine perché dovrei scegliere il signor Rédillon? E’ stato il signor Pontagnac a denunziar­mi l’infedeltà di mio marito. Dunque... ».

PONTAGNAC — Infatti, sono stato io a darvene la prova materiale.

LUCIANA — Dunque, se mi devo vendicare con qualcheduno, questo qualcuno siete voi. PONTAGNAC — Dio sia lodato! Allora posso sperare?

LUCIANA — Sperare? Ma siete nel vostro diritto come strumento della mia vendetta. PONTAGNAC — Possibile? Ma non è un sogno? Ah, Luciana, Luciana!

LUCIANA (tra sé) — Anche lui! Tutti gli uomini dicono: “Ah, Luciana, Luciana! “. Non sono molto larghi di inventiva.

PONTAGNAC — E in casa di Rédillon, per giunta. Oh, che vendetta raffinata!

LUCIANA (andando verso la tavola) — Su! (Si toglie la giacchetta di velluto, e rimane in corpetto) inte­ramente scollacciata. Nello stesso tempo fa cadere i capelli, scuotendo il capo) Con i capelli sciolti, così, mio marito mi trovava bella; ditemi se sono vera­mente bella.

PONTAGNAC (togliendosi i guanti) — Sì, sì, siete bella, affascinante, seducente.

LUCIANA — Meno male. (Mutando tono e avvici­nandosi) Mi amate?

PONTAGNAC (stringendola tra le sue braccia) — Pro­fondamente!

LUCIANA (svincolandosi) — Va bene. Andate a sedere.

PONTAGNAC (meravigliato) — A sedere?

LUCIANA - Non vi meravigliate: fa parte della seduzione. Non voglio farlo con troppa fretta, mi piace scegliere il momento, voglio farmi desiderare, voglio che l’uomo al quale dovrò appartenere sia lo schiavo dei miei capricci; Vi ho detto di sedere.

PONTAGNAC (sedendo vicino alla tavola) — Mi sono seduto.

LUCIANA (avvicinandosi) — Benissimo! Toglietevi la giacca: così, non potrei... mi ricordate mio marito. E con lui, mai più.

PONTAGNAC — Allora... (Si toglie la giacca) E adesso?

LUCIANA — Venite qui e sedete vicino a me. (Pon­tagnac si siede accanto a Luciana sul divano) Bravo!

PONTAGNAC (dopo una pausa) — Se èlecito, cosa aspettiamo?

LUCIANA — I miei ordini.

PONTAGNAC — Ah!

LUCIANA — Toglietevi anche il panciotto. Così avete l’aria di un domestico che tolga la polvere.

PONTAGNAC (togliendosi il panciotto) —. Ecco fatto. (Sedendo) Non mi trovate ridicolo? LUCIANA — Non ve ne date pensiero. (Sfilandogli la cinghia del calzoni) Via anche la cinghia. Sono così brutte a vedersi! I capelli: ma chi vi pettina a questo modo? avete una pettinatura da cameriere. (Tirandogli i capelli in su) Voltatevi. Così va bene. Adesso, almeno, avete l’aria di un artista.

PONTAGNAC — Vi pare? (Esaltandosi, al contatto di Luciana) Ah, Luciana, Luciana mia! LUCIANA — E dagli! Vi prego di contenervi, quando non c’ è nessuno.

PONTAGNAC — Aspettate che venga gente?

LUCIANA — Vi ho detto di pazientare.

PONTAGNAC — Va bene, lo capisco, ma non sono di marmo.

LUCIANA — Io neppure, e - come vedete - paziento.

PONTAGNAC — Va bene, pazientiamo. (Luciana si alza e va a prendere un giornale sulla tavola, torna a sedere e si mette a scorrere il giornale) Avete uno strano concetto dell’amore.

LUCIANA — Sarà almeno personale. Dunque, c’è una novità stasera all’Odéon.

PONTAGNAC — Dumas, naturalmente.

LUCIANA — Naturalmente. Ci andrete?

PONTAGNAC — No!

LUCIANA — Ah!... (Si rimette a leggere. Pontagnac, non sapendo che fare, si mette a zufolare tra sé, men­tre guarda intorno. Dopo un certo tempo si alza e, con le mani dietro al dorso, va a esaminare i vari oggetti. Luciana, senza levare il capo dal giornale) Restate seduto, per piacere.

PONTAGNAC — Come vi pare! (Va a sedere con aria rassegnata. Scorgendo sulla tavola un fascicolo, lo prende e si mette a leggere).

LUCIANA (volgendosi e guardandolo) — Cosa leggete?

PONTAGNAC — Non so. (Guarda il titolo) “ La pollicoltura: rivista bimensile “.

LUCIANA (sorridendo) — Vi attrae?

PONTAGNAC — Certamente, visto che non si sa per­ché dobbiamo ingannare questa attesa. (Si odono rumori nel fondo) Cosa c’è?

LUCIANA (si alza subito e butta via il giornale) —Finalmente. Non datevene pensiero. Verrà qualcu­no.., mio marito, forse.

PONTAGNAC — Vostro marito?

LUCIANA — Così la mia vendetta sarà completa! (In questo momento, si vede la tenda della finestra del fondo scostarsi e dai vetri appaiono alcune teste).

LA VOCE DEL PRIMO COMMISSARIO — In nome della legge, aprite!

PONTAGNAC — Sono loro. Nascondetevi.

LUCIANA — Nemmeno per sogno. Dite: mi amate abbastanza da contendermi anche a mio marito?

PONTAGNAC — Certamente... ma...

LA VOCE DEL COMMISSARIO — Volete aprire?

LUCIANA — Ecco, io voglio esser vostra davanti a tutti. Pontagnac, prendetemi.

PONTAGNAC — Come? adesso?

LUCIANA — Adesso o mai!

PONTAGNAC (allontanandosi) — Neppure per sogno!

IL COMMISSARIO — Aprite, o rompo i vetri.

PONTAGNAC (allibito) — Sì, sì... apro! (Va ad aprire. Luciana si lascia cadere sul canapé, le braccia in­dietro il dorso appoggiato alla spalliera e le gambe incrociate. Getta a Vatelin uno sguardo di sfida).

VATELIN (entrando) — L’infame!

IL COMMISSARIO — Nessuno si muova!

VATELIN — Era vero!

PONTAGNAC (al Commissario) — In fin de’ conti, signore...

IL COMMISSARIO (guardandolo) — Voi, signore, per la seconda volta! Mi pare che abusiate un po’ troppo!

PONTAGNAC — Non vi comprendo, signore! Cosa pensate? Io stavo facendo visita alla signora.

IL COMMISSARIO — In quell’arnese? Rivestitevi subito, signore. (Pontagnac si rimette il panciotto e la giacchetta, dimenticando di riallacciare la cinghia).

RÉDILLON (entrando dalla stessa porta dalla quale era uscito) — Ma che cosa succede?

IL COMMISSARIO (a Luciana) — Signora, io sono il Commissario di polizia del vostro quartiere, e sono venuto qui a richiesta del signor Crépin Vatelin, vostro marito.

RÉDILLON — Una sorpresa? In casa mia? (Tra sé) Pontagnac!

LUCIANA (rimanendo nella posizione in cui si è messa al principio della scena) — Non occorre, si­gnor Commissario: conosco la tirata. Risparmiate pure il fiato. Il signor Pontagnac vi potrà dire ciò che vorrà, per cercare di salvarmi: èsuo dovere di gentiluomo. Ma io voglio che la verità sia cono­sciuta da tutti. (Lancia un’occhiata di sfida a Va­telin ch’è vicino al camino) Sono venuta qui, per­ché così volevo io e ci sono venuta per trovare il signor Pontagnac, mio amante. Potete, signor Com­missario, trascrivere queste mie stesse parole nel processo verbale.

VATELIN (lasciandosi cadere sopra la seggiola, vi­cino al camino) — Oh!

CLOTILDE (entrando dalla porta di destra) — Ades­so, a me.

PONTAGNAC — Mia moglie. Ci voleva.

CLOTILDE — Signor Commissario, trascrivete an­che nel processo verbale che avete trovato me, Clo­tilde Pontagnac, moglie legittima del signore qui presente, in questa casa, dove sono venuta, come la signora Vatelin, per trovare il mio amante.

PONTAGNAC (scattando) — Cosa dice?

CLOTILDE — Arrivederci, signore. (Esce dalla porta di sinistra).

PONTAGNAC (correndole dietro) — Disgraziata!

IL COMMISSARIO (trattenendolo.) — Signore, vi pre­go di rimanere: abbiamo bisogno di voi.

PONTAGNAC — Ma non avete udito ciò che ha det­to? Signor Commissario, mia moglie ha un amante. Dov’è questo amante? Io debbo ucciderlo. Venga fuori questo amante, se non è vile!

GIROLAMO (entra e piantandosi  dinanzi a Ponta­gnac) — Sono io!

PONTAGNAC — Voi?

REDILLON (a Girolamo) — Cosa dite?

GIROLAMO (sottovoce a Rédillon) — Taci. Ti salvo.

PONTAGNAC — Va bene, signore! Ci rivedremo. L’arma e il luogo. Il vostro biglietto di visita?

GIROLAMO — Non ne ho. Ma non importa. Io sono Girolamo, cameriere del signor Ernesto Rèdillon. (Dà un buffetto a Rédillon ed esce).

IL COMMISSARIO (a Pontagnac) — Ma non vedete che si burlano di voi? e più di tutti la signora Pon­tagnac? Non capite che la sua è una commedia di moglie oltraggiata? Una donna che fa veramente di quelle cose non le confessa così.

PONTAGNAC (andando a prendere il suo cappello.) —Lo saprò!

IL COMMISSARIO — Più tardi, signore. Adesso la vostra presenza è necessaria. Dove si può scrivere?

REDILLON — Di là, signor Commissario. (Gli in­dica la stanza che si vede dalla porta del fondo aperta).

IL COMMISSARIO — Grazie. (A Pontagnac) Abbiate la compiacenza di seguirmi, signore... (a Luciana) e la signora, anche.

LUCIANA — Eccomi! (Si alza e risale lentamente la scena, con lo sguardo sempre fisso su Vatelin. Mentre contiene a stento la propria commozione, il viso di lei si contrae tra singhiozzi repressi. Va nella stanza indicata, raggiungendo gli altri, ad ec­cezione di Rédillon e Vatelin. Si vedrà uno dei due agenti che funziona da segretario seduto alla tavola;

il Commissario in piedi vicino a lui che gli detta il verbale; Luciana e Pontagnac Sono in piedi, cia­scuno da un lato della tavola).

REDILLON — Bell’imbroglio! (Vedendo Vatelin ac­casciato sul divano, col capo tra le mani) Su, Vate­lin, su! Ci vuole coraggio.

VATELIN — Non potete immaginare quanto soffro!

REDILLON (mettendogli la mano sulla spalla) —Animo! Non sarà nulla!

VATELIN — Per voi! Ma per me... Si trattasse della moglie di un altro, non me ne importerebbe nulla. Ma si tratta della mia. E pensare, che abbiamo una moglie soltanto e proprio questa ci deve tradire!

REDILLON — Vatelin, posso parlarvi da amico?

VATELIN — Ve ne prego.

REDILLON — Siete un ingenuo. Voi non siete af­fatto tradito. Ragioniamo: vostra moglie vi scrisse di venire qui, dove sarebbe stata nelle braccia del suo amante. E’ vero? (Vatelin acconsente col capo) Ebbene, questo fatto soltanto avrebbe dovuto illu­minarvi. Una donna che sta per tradire il marito, non gli manda un biglietto d’invito. Non si usa.

VATELIN — Ma già, è vero. E allora?

REDILLON — Allora, se si comporta così, vuol dire che ha una ragione: stimolare la gelosia del marito. Avete sentito il Commissario di polizia poco fa? Ha detto al signor Pontagnac : “Non vedete che tutto ciò è la commedia di una moglie oltraggiata?”. E voi non avete notato con quale accanimento si ac­cusa? Lo fa, e può farlo, perché ha la coscienza pulita. E voglio proprio dirvi tutto: era venuta prima da me, a propormi di recitare quella parte. Ma io ho rifiutato, perché ho capito: sono avvocato.

VATELIN — Come sono felice! Mi viene da pian­gere dalla commozione.

REDILLON — Piangete, piangete pure. Vi farà bene. La porta di fondo si apre e Luciana entra con la stessa aria arrogante di prima. Ma, appena vede Va­telin che piange, si arresta meravigliata e interroga con lo sguardo Rèdillon il quale fa segno di tacere).

VATELIN — Come sono felice!

REDILLON — Adesso frenate la vostra gioia; potreb­be farvi male.

VATELIN — Mi volete fare un grande favore? An­date da mia moglie, ditele che io amo unicamente lei, e che ha in me il più fedele dei mariti. E’ la verità.

RÉDILLON — Dopo la vostra scappata di stanotte...

VATELIN — Bella storia. Mi sarebbe piaciuto aveste assistito.

RÉDLLLON — Grazie dell’invito, ma sono discreto.

VATELIN — Avevo conosciuto quella donna a Lon­dra e ieri mi è capitata in casa. Minacciò uno scan­dalo… voleva suicidarsi... Un vero ricatto. Io ebbi paura e cedetti. Intendiamoci: andai all’albergo... lei era già coricata e russava... Io non so cosa avessi bevuto: fatto sta che appena a letto mi addormentai anch’io. Mi sorpresero nel sonno. Ma non c’era stato nulla tra noi.

RÉDILLON — Nulla anche voi?

VATELIN — Cosa volete dire?

RÉDILLON (riprendendosi) — Non ci badate! M’era venuto in mente…

VATELIN — Del resto, una magra conquista, ve l’assicuro. Ha dei piedi, mio caro. Avrei dovuto por­tarvi una delle sue scarpe.

RÉDILLON — Non ve ne eravate accorto, a Londra?

VATELIN — A Londra i piedi delle inglesi sono tutti uguali: come potevo accorgermene?

REDILLON — Peccato che vostra moglie non sia ad ascoltarvi.

VATELIN — Davvero. Perché, se fosse qui, sento che riuscirei a convincerla... sono certo che finirebbe col credermi... Mi farei così umile... Lei leggerebbe nei miei occhi tanta passione che non avrebbe cuore di respingermi. Metterebbe la sua manina in questa mano e la udrei sussurrarmi: “Crépino mio, ti per­dono!”. (Rédillon ha preso la mano di Luciana e la mette in quella di Vatelin).

LUCIANA — Crépino mio, ti perdono!

VATÈLIN — Cattiva, cattiva. Quanto mi hai fatto soffrire!

LUCIANA – E tu?

VATELIN – Io ti adoro.

LUCIANA — Amor mio!

REDILLON (con voce lagrimosa) — Come vi voglio bene anch’io!

VATELIN (stringendogli la mano) — Ottimo amico! (A Luciana) Non se ne trova un altro come lui.

LUCIANA (tra sé) — Per fortuna.

IL COMMISSARIO (rientrando) — Il verbale è ter­minato: lo volete esaminare?

VATELIN — Ma che verbale! Non esiste colpa e possiamo dimostrarlo. Signor Commissario, andiamo a stracciare il verbale!

IL COMMISSARIO — Ma sono capitato in una gabbia di matti, io? (Va al fondo, trascinato da Vatelin).

RÉDILLON (solo con Luciana) — E così?

LUCIANA — E così?

RÉDILLON — Rimandato.

LUCIANA — Cosa dite? rimandato che cosa?

RÉDILLON (sorridendo) — Tutto finito tra noi?

LUCIANA — Caro mio, la difficoltà per voi sta nel­l’incominciare.

RÉDILLON — Aspetterò.

LUCIANA — Aspettate pure. La sonnambula mi ha predetto due avventure: la prima, grazie a Dio, è passata. La seconda mi dovrà capitare a cinquan­totto anni. Un po’ troppo tardi, non è vero?

RÉDILLON — Oh, non per voi, sarete sempre ca­rina. Ma per me, piuttosto: sarò molto stanco.

LUCIANA (gentilmente canzonatrice) — Sempre lo stesso, allora.

VATELIN (rientrando, seguito da Pontagnac) — Fat­to. Con voi, poi, signor Pontagnac, la dovrei avere, ma non vi serbo rancore. E ve ne do una prova su­bito. Ogni lunedì noi riceviamo a pranzo degli amici: volete essere tra questi?

PONTAGNAC — Certamente, con piacere.

VATELIN — Siamo tra uomini soltanto. Il lunedì, mia moglie pranza sempre in casa di sua madre.

PONTAGNAC (comprendendo la lezioncina) — Con lo stesso piacere. (Tra sé) Allora, non mi resta più nulla a fare qui. (Va a prendere il cappello).

REDILLON (sottovoce a Luciana) — Sentite: se per caso vi saltasse nuovamente il ticchio, disponete pu­re di me. Però, fatemi il piacere di avvertirmi il gior­no prima.

LUCIANA — Basterà?

GIROLAMO (dal fondo) — E la colazione? Mi pare che sia l’ora.

PONTAGNAC (andandosene) — Era scritto che do­vessi fare io la figura del tacchino.

FINE