IL
TACCUINO
un monologo
di
Nini Ferrara
A mio padre,
a mia madre
La panchina di un parco.
Ad apertura di sipario, un uomo, seduto sulla panchina, lancia in terra,
davanti a sé, da un sacchetto che tiene sulle gambe, del cibo per
uccelli.
Ogni tanto si volge verso l’alto ed emette una sorta di richiamo, nel
tentativo, vano, di farne avvicinare qualcuno.
Veste un abito scuro e una camicia bianca, che indossa senza cravatta e
abbottonata fin sotto il mento. Accanto a lui, sullo schienale della panchina,
è posato un impermeabile chiaro, leggero.
Dopo qualche istante sfila da una tasca della giacca un taccuino: un piccolo
quaderno con disegni cachemire in copertina:rosso il bordo esterno delle
pagine: sa di antico.
Appunta qualcosa. Riflette. Di nuovo scrive.
Lo ripone in tasca.
Per qualche istante ancora rimane come assorto e, in questo atteggiamento,
quasi con un movimento automatico, senza guardare, prende una caramella
dall’altra tasca della giacca, la scarta e la mette in bocca: la ingoia quasi
subito.
Quindi, accuratamente, fa una pallottola della carta che la conteneva, e la
infila, con la mano tutta, nella medesima tasca da dove l’aveva prima presa.
Pochi istanti.
Immediatamente dopo si volge da una parte, come ad aver visto qualcuno
sederglisi accanto.
Accenna un sorriso di cortesia.
Poi riprende a gettare il cibo dal sacchetto, lentamente, ogni tanto volgendosi
verso l’altro.
Quindi...
(volgendo lo sguardo verso i rami) Si sono intimiditi.
Hanno paura.
Identici noi.
Le sorprese.
(tornando a spargere il mangime intorno a lui e guardando di sfuggita l’altro)
Io oggi non aspettavo nessuno.
(una breve pausa, quindi volgendo lo sguardo al suo interlocutore) Io oggi non
aspettavo nessuno.
E’ una cosa normale.
(sorridendo) Non continui a trottolare ovunque la testa.
Gli metterà ancora più paura.
Sto proprio parlando con lei.
(annuendo) Con lei.
Con lei, sì.
Non sono ancora tipo da parlare da solo...
Le dicevo?...
Ah, come no...
E’ una cosa normale, ecco... una cosa normale.
Non che parli con lei, adesso, che non so chi è - solo una bella espressione
-... (una breve pausa) Che non aspetti nessuno, dico, è una cosa normale.
Ma non oggi soltanto.
(sorride e affabilmente) Buon giorno.
(una breve pausa) Io ci vengo spesso qui.
Spesso.
Abbastanza spesso.
E mi siedo qui, su questa panchina. (indicando la parte della panchina dalla
quale sta seduto)
Qua.
Qua proprio.
E’ sotto i rami - vede? - : nelle giornate di caldo non mi viene sole.
C’è un’altra panchina così all’ombra.
Sotto un albero grande, anche quella: giù in fondo al vialetto, vicino alla
fontana,... è un po’ nascosta da una parte.
Se dovesse passarci s’accorge subito che è quella che le dico io, ché non c’è
più briciolino sotto ai piedi ed è ghiaia là intorno.
No grossa.
Scricchiola.
Passandoci.
Come di mare...
Ghiaia.
Qualche volta pure lì vado a sedere.
Anche agosto pieno è frescura bella.
Adesso ci hanno messo uno scivolo.
(ride, quindi come a volersi giustificare) Sa cosa? Sembra un gobbo tirato su
per il culo che scalza via tutti giù dal sedere, e sta con la testa nascosta in
fondo alla sabbia.
E la gobba d’acciaio che brucia solo a guardarla.
(confidenzialmente) L’ho disegnato.
E’ uguale.
I bambini arrivano in cima.
E poi ridono.
O piangono.
I bambini...
E le mamme.
E le mamme e i bambini... E le amiche delle mamme, e dei bambini i compagnetti
di scuola...
E per me è troppo schiamazzo.
E poi c’è quasi sempre un gruppetto di turisti che inseguono tutti un
ombrellino giallo, e sembra sorridano uno identico all’altro, e scattano foto
tutt’intorno.
(sorride per un attimo. Poi, guardandolo)
E allora io non ci posso più restare lì.
Non posso più.
Mi devo alzare.
E andare via.
(una breve pausa)
Perché io non ci voglio entrare nelle loro fotografie.
Non li conosco io, che ne so di loro.
Da dove vengono.
Dove ce le hanno le loro case?
E poi chissà chi le vede quelle foto.
Quello che possono dire.
O pensare.
Dove le mettono.
Che ne so poi io dove le mettono.
(breve pausa, lo fissa come a studiarlo. poi con sottile aggressività)
Chi le tocca?
Lei pure: non deve essere di qui!
(una breve pausa) Non s’offenda.
Mi guarda così adesso...
(sorridendo) Mi fa specie.
Non ce l’ho con lei.
Mi creda.
(interrompendosi, sorride. Poi) Le parole sono fatte di aria. Ci si dimentica
che i pensieri bisogna legarglieli stretti. Perché poi basta un poco di vento e
quelli si mischiano, pure un niente, fra loro.
E capirsi diventa difficile.
(una breve pausa)
Un poco di più.
(una breve pausa e di nuovo sorridendo)
Qua come una piazza di paese.
Le facce della gente che ci viene...
Io me ne accorgo. Le vedo.
Diventano familiari.
E lei non è di qui.
(una breve pausa) Ho ragione, vero?
Così.
Ci si saluta anche. Quei pochi pochi. Qualche volta.
(una breve pausa)
Ride.
(una breve pausa, poi guarda ancora fra i rami)
Fino a un po’ di tempo fa ci venivo pure con la pioggia.
No, non mi sedevo.
Passavo.
Qui non c’è nessuno quando piove, lo sa?
Nessuno... (guardando tra gli alberi) Ci sono i miei amici, chiusi tra i rami.
(una breve pausa)
Aspettando dietro una finestra... sembrano me, io loro.
Mi vedevano andare sotto l’ombrello e io gli lasciavo un pezzetto di pane sotto
una tegola rotta.
Sempre lì.
(una breve pausa, sorride) Era anche un po’... - adesso rida, rida pure - (con
ironia) per controllare.
Per controllare.
Controllare.
Io, oramai, qui ci sono di casa...
E pure questa panchina - sa? - pure questa...
E chi può dire che non è mia?
E lei anche, ora ... Ora adesso, qui, seduto, così come sta. Pure lei,
qui.
(lo guarda, una breve pausa) Forse potrei anche prenderla per una visita!
Casuale - certo! - ma una visita.
(sorride)
No, no...
Non mi dà fastidio.
(una breve pausa) Stia.
(volge ancora lo sguardo verso l’alto) Vedrà che tra un po’ si avvicinano. Sono
uno spettacolo.
(una breve pausa, guarda l’altro, poi, d’un tratto)
Sa cosa ho letto?... - adesso, non mi viene in mente, dove non lo so, ma se lo
cercassi... (portando una mano alla tasca dove tiene il taccuino) Perché l’ho
segnato, glielo direi... - ...che a una certa età è come...
Si smette di pensare.
Sì, quello scriveva... come se le cellule qui dentro (portando una mano alla
testa) - quelle cerebrali - un po’ per volta s’infiacchissero anche loro.
S’infiacchissero!
Ma come parlano?
Le gambe s’infiacchiscono.
(toccandosi la testa) Non ci abbiamo gambe, qua!
E pure se fossero gambe - qua! - le mie sa cosa sarebbero? Correre correre
correre. Ogni giorno correre.
Questo sarebbero!
Sgropparli i pensieri... Appresso all’altro.
(una pausa) Mi siedo.
Sto qui.
Penso.
Devo pensare.
(una breve pausa) Io ho tante cose a cui pensare.
E non mi chieda perché proprio qui che tanto non c’è un perché.
Passeggio.
Mi struscio un poco per le traverse di Viale Corsica.
Con la gente che mi corre in faccia senza vedermi!
(una breve pausa)
Io mi sono abituato e non la guardo nemmeno la gente.
(sorride) Così...
M’annoio.
Mi creda.
(una breve pausa)
Mi annoio.
Neanche lo so come ci capito qui, però...
(una pausa, quindi protendendosi verso l’interlocutore) Le sembro vecchio.
(una breve pausa, poi sornione, sorridendo) Non lo vede che le sto raccontando
una bugia?
Ma poi, anche se gliela dicessi la verità, lei ci crederebbe?
Non mi dica niente che tanto qualunque cosa sarebbe bugia pure la sua.
Certo che io lo so come è che ci capito qui.
Solo che...
(una breve pausa)
La verità?
Sono i piedi.
Che non ci crede... Vede?
Però è così.
Sono i piedi.
Passata la porta di casa, se ne vanno.
Sa, avevo un cane - me l’avevano regalato cucciolo d’una mano,... che ci stava
dentro alla mano... E aveva una macchia. Marrone. Sul muso. (ha un attimo di
sospensione come se non ricordasse, prende dalla tasca il taccuino, velocemente
lo sfoglia e dopo averlo nuovamente riposto)
A destra sul muso l’aveva.
(una breve pausa) Si chiamava Perù.
E’ grazioso come nome, vero?
Però non mi capiva, e pure quando lo chiamavo - Perù! - non mi sentiva... Il
veterinario diceva che era un cane sordo. Ma io non ci ho mai creduto.
Parlava un’altra lingua.
No sordo.
E io allora gli ho dato “Luna”, per ricordarmi che non poteva essere che era un
cane di qui.
E avevo ragione perché pure quando lo chiamavo - Luna! - quello continuava
sempre ancora a non capire.
Non poteva.
Ecco, passata la porta di casa, Luna faceva così uguale.
Come al cane il guinzaglio, così ai piedi le scarpe: appena le indosso...
Tirano.
(una breve pausa, serio) Perché sono i piedi che vanno. Non noi.
Ci ha fatto caso?
Io me li guardo sempre.
Me li studio.
Per strada...
Basta che incrocino un altro paio di piedi che gli piacciono.
Puntano!
Si fermano, li aspettano, li lasciano avvicinare, non li perdono un attimo, e
poi ancora si girano, e ancora li inseguono fino a quando quelli si perdono tra
migliaia di passi uguali fra loro, o spariscono dietro uno spigolo.
Io faccio finta di non accorgermi.
(una breve pausa)
Hanno occhi vispi i piedi.
Bisogna solo sbendarli.
(una pausa, sorride)
Non le è mai capitato di impacciarsi di fronte a... Destra sinistra e non sa
dove prendere e...
(protendendosi a lui e indicando i piedi) Sono antipatie.
Semplici.
Si mettono uno di fronte all’altro, a sfidarsi davvero, mezzo passo a destra,
mezzo a sinistra, a destra di nuovo...
E io cosa vuole che faccia: mi tolgo il cappello e chiedo scusa.
E lo so che poi subito mi viene un poco da ridere.
Allora mi rimetto le mani dietro la schiena e di nuovo torno a guardarli i
piedi, per capire dov’è che vogliono portarmi.
E’ così, mi creda.
Ci vuole solo un poco di tempo.
Alla fine, quando sono stanchi, mi portano qui, e si sistemano lì dove li vede.
Uno accanto all’altro.
Accucciati.
S’assopiscono.
(una pausa)
E’ naturale.
Ecco.
E’ naturale.
I piedi bugie non ne raccontano.
Lo dice sempre mia moglie.
Che le frottole non stanno in piedi. Perché non ce li hanno i piedi.
E non la possono toccare la terra.
Mentre i piedi la toccano la terra.
La sentono.
La pestano.
Si sporcano di terra.
E ci inciampano.
Se non vogliono camminarci così come devono, poi c’inciampano sulla terra.
(una breve pausa) Ma sono sempre veri.
(una pausa) Se non fosse per loro, forse saremmo frottole anche noi.
(sorridendo) Nient’altro che fantasie.
(lo guarda, poi serio) Provi ad alzarsi!
Dove sta?
Dove sta, s’accorge?
Dove?
Dai piedi in su ci muoviamo, respiriamo, parliamo, che stiamo già in mezzo al
cielo, basta un poco di nebbia alle nuvole per catturarci da non riuscire più a
vedere.
E siamo più vicini alle frottole.
(volge lo sguardo verso gli alberi) Tardano.
Ogni giorno compro un sacchettino di mangime per uccelli.
(mostrandolo) Questo.
Per loro.
Che poi - ma l’ha mai sentito l’odore? - quello che ci mettono dentro,
dall’odore non si capisce - lo vendono qua fuori - l’ha visto? - quello con un
poco di barba, simpatico, allegro, qualche giorno si porta pure la moglie, pure
la moglie con un poco di barba...
(sorride timido) Io le posso dire queste cose. Non sono più cattiverìe.
(una breve pausa) E poi vende pure - io non li ho mai comprati - dei
pupazzetti.
Uno è carino.
Una giraffa.
Tutta collo. E due occhi blu blu blu blu...
Impauriti un poco.
Un poco confusi.
(indicando il taccuino) L’ho segnata oggi.
Per non dimenticarmi.
Ci passi.
E’ il banchetto all’ingresso dalla parte della piazza.
Non può sbagliare.
E’ il solo.
Alle tre lo trova, ogni giorno.
E la Domenica pure la mattina.
(guarda verso l’alto e riferendosi agli ipotetici uccelli) Loro
m’aspettano.
Qualche volta lì proprio, intorno dove è il banchetto, e quando mi vedono se ne
volano dentro, sugli alberi.
Lo sanno che vengo per loro.
Lo sanno.
(una breve pausa, poi sorridendo) Mio figlio mi prende in giro.
E` ancora giovane.
E’ ingegnere.
Se n’è andato via due anni fa: Germania.
Non a fare l’emigrante.
Lui qui guadagnava bene.
E finché ci sono io, i soldi...
Ma quando uno è... - come dire? -...come lui - affamato- insomma... Di vita.
Affamato.
(una breve pausa) Si divora ogni cosa, per saziarsi.
Gliel’hanno proposto.
E così, in due settimane: via: è andato.
Ma a Natale ritorna.
Natale scorso è ritornato.
E’ venuto con una ragazza... Alta, bionda... Bella. Proprio bella. Ingegnere
anche lei... Aspetti le dico il nome...
(sfogliando il taccuino)
Simpatica.
Me mi chiamava Pappi.
Appena me l’ha presentata... Pappi.
Non mi ha mai chiamato nessuno Pappi.
Professore ancora oggi, ma Pappi...
Però lei rideva, e io...
(rintracciato il nome sul taccuino) Sta qua.
Hellen, ecco...
Hellen si chiama.
(una breve pausa) E’ un nome tedesco.
Hellen.
A mia moglie avrebbe fatto piacere conoscerla: ma non era tornata.
(indicando il taccuino e sorridendo, quasi a giustificarsi) Io me le segno le
cose. Per ricordarmi bene. Non è che mi scordo.
Per ricordarmi.
Bene.
E poi questi quadernini sono così comodi da portarsi dietro...
(riponendo il taccuino in tasca) Vede? Sta in tasca. Un anno intero... Anche
più. In tasca.
Tutti i giorni della settimana sono sistemati in appena due pagine: si apre, e
in una sola occhiata si sa già tutto quello che si deve fare,... gli impegni...
le cose...
Così non ne vendono.
Una specie, forse.
Questo l’ho sistemato io. Giorno per giorno. E poi ho incollato pure due
calendarietti dell’istituto dove insegnavo - tre anni e mezzo che sono in pensione
- e così se voglio sapere...
Giugno dell’anno prossimo.
Il tre e il quattro, ad esempio, di che giorno cadono.
In un attimo: mercoledì. E qui giovedì ...
Il quattro, giovedì.
(sorride) Hmmm?
(Ripone in tasca il taccuino, lancia del mangime e rivolgendosi agli uccelli)
Siete andati a dormire presto, oggi? Non avete fame?
(di nuovo al suo interlocutore, come a spiegare) Dagli altri non ci vanno,
sa?... Non ci vanno...
Si radunano qui davanti. A volte così tanti che neanche a contarli. Tutti
stretti stretti, a beccare i semini.
Quando glieli lancio... - li ha mai visti lei, come fanno? - schiudono le ali,
le battono forte, veloce, si alzano appena un po’, fermi a mezz’aria, e poi di
nuovo giù, a rubarseli dentro al becco, l’uno con l’altro.
(una breve pausa) Di me non hanno paura.
Mi conoscono.
(una breve pausa) Eppure, dopo tanti anni, mia moglie ancora non ci crede che
quando esco vengo qui a sedermi.
Pensa che vada chissà dove.
(quasi confidenziale) Ma poi non mi dispiace nemmeno che lo pensi.
E’ un po’ giocare.
(una breve pausa) Perché poi, per ogni tempo, ce le creiamo da noi quelle
piccole realtà di cui abbiamo bisogno ogni giorno; o forse, col tempo, sentiamo
di doverci legare a quelle cose (con un piccolo gesto, a indicare sé stesso)
che nessuno ormai ci porterebbe più via.
E dire che, volendo, potrebbe pure vederlo che sto qui.
(una pausa, accenna un sorriso) Ci avevamo sedici anni. A scuola si usava
l’inchiostro, e il pennino.
E le “o” diventavano sul foglio - quante volte! - una macchiaccia nera di
china.
La campanella d’ingresso suonava alle otto, ma le ragazze - era diverso - le
ragazze stavano ad un altro piano.
La mattina la vedevo per strada. Fitta in fondo a un cappottino chiaro.
Cammello.
Colore cammello era quel cappottino.
La vedevo ogni mattina.
L’aspettavo da dentro una bottega che ci aveva le brioches calde a quell’ora, e
io ne ordinavo una.
La vedevo passare dalla vetrina, svelta svelta, sempre con un cerchietto tra i
capelli del colore uguale a quell’orlo di gonna che io ci riuscivo appena ad
intuirlo sotto il cappotto.
E poi quand’era passata, uscivo sulla porta per vederla allontanare.
E subito la seguivo.
Passò un mese.
Almeno un mese.
E poi una mattina: “Picciotto, ma sta briosc’ la vuoi? O mi stai prendendo per
il culo?”
Come si dice oggi? Un’illuminazione?
La raggiunsi - e guardi che mai non una sola parola c’eravamo detti! - mai mai
- e comincia a camminarle accanto, per tutta la strada, fino a scuola.
(sorride) “Accanto”.
Le parole cambiano significato. “Accanto” voleva dire lei tre passi più avanti,
io dietro. Andavamo così, “accanto”, lontani tre passi, rubandoci poi quei
primi sguardi - timidi! - o quei sorrisi di un attimo, riflessi nelle vetrine
di quella benedetta strada per scuola.
Così.
Basta.
E saremmo andati avanti così per una vita intera se quella mattina non le si
fosse sciolta la cinta dei libri.
Li raccolse in un attimo.
In tre passi li raccolse.
Ed eravamo accanto. Veramente accanto.
Mi veniva da ingoiare, non riuscivo a smettere d’ingoiare, non facevo altro che
ingoiare...
Camminavamo.
Accanto.
(una breve pausa, sorride) Ci avranno scambiato per due soldati.
Dritti.
Tesi.
Che guardavamo fisso la strada.
E il cuore sa come mi faceva?
Me lo sentivo sulle punta delle dita quanto batteva, e li stringevo i pugni
perché si calmasse un poco. Almeno un poco, almeno lui. Perché io... continuavo
ancora a ingoiare, non riuscivo a smettere di ingoiare, non facevo altro che
ingoiare.
(sorride, una breve pausa) Era ancora inverno. E sudavo.
(una breve pausa) Poi... (con tenerezza) un’eternità quei marciapiedi, con
questa mano, la sfiorai.
La sua mano.
Lei la ritirò subito... e si fermò, sgranandomi gli occhi addosso.
(una breve pausa) Fu solo un attimo.
Lunghissimo.
E il marciapiede mi sembrava che avesse partorito una montagna.
Davanti a me.
E io non riuscivo più a ingoiare.
Poi, sorrise.
Questo soltanto.
E cominciò a... (sorride) Fa così con le mani... (si accarezza il dorso di una
mano) Quando “non sa”: fa così con le mani.
Come quella mattina.
Sorridendo ancora.
Io non lo sapevo cos’era, ma faceva così con le mani.
Da quel giorno i marciapiedi mi sembravano diventati ogni più corti, sempre più
corti, sempre più...
Poi un passo, la strada per scuola.
(una breve pausa, poi confidenzialmente) Ora, secondo me, lei - proprio adesso,
sa? - in quest’istante ci sta guardando... E non me lo confiderebbe mai - No.
Non lei.
(gli fiorisce un piccolo sorriso sulle labbra. Poi, con tono confidenziale) Non
si giri subito: il palazzo dove vivo io è quello scuro là in fondo... No, non
quello, quello più scuro.
Si confondono un poco.
Del mio si vedono gli ultimi due piani e la terrazza.
(una breve pausa) La finestra mia però non si vede.
Ora non più.
E` quella palazzina più bassa che copre.
Quando l’ho comprato non c’era: li vedevo tutti questi giardini.
E lì davanti non ci avrebbero potuto costruire.
Invece, quattro anni fa, hanno buttato giù una villa antica che da quando me la
ricordo ci stava... e in niente tirato su quella...
Alta giusto quanto basta a coprire la mia finestra.
(indicando il taccuino) Pure il giorno che hanno cominciato potrei dirle.
(una breve pausa, si volge dalla parte del "palazzo") Capisce,
ora?
Io ci giurerei proprio che quando è a casa, mia moglie sale in terrazza.
E da lì lei mi guarda.
(come fosse un segreto) Lo so!
(rimane a osservare il suo "vicino" per un attimo. Una pausa. Poi, di
nuovo richiamando gli uccelli) Non mi guardi in quel modo. Vengono. Vengono. Si
fanno aspettare, ma poi vengono.
Tra un po’, magari.
(lancia del mangime. Una breve pausa)
Quand’ero bambino da qui cominciava l’aperta campagna.
Potrei dirle dove stava il carrubbo, o la ficatara di Don Saro, che ci
aspettava col due canne caricato a sale quando venivamo a maggio a fregargli la
frutta.
Le case - case vere - qua ce le avevano i ricchi.
Guardi adesso.
Due bei cancelli di ferro battuto; un cartello dove hanno scritto “Villa...” e
il resto non si legge più; un omino che vende semi per gli uccelli; e così un
bel giorno hanno inventato il parco.
Anzi, come lo chiamano?
Già, zona verde.
(una breve pausa, poi con amarezza) E` che tutto corre via.
Come se guardassi dal finestrino di un treno e tutto se ne corre via.
(toccandosi il petto) E allora piglia qua... - che so! -...
Anche solo la voglia di scendere nella stazioncina di un paese di mare,
passeggiare per la strada costeggiata dai pini.
Quell’odore pungente, di pesce, che viene giù dalle finestre socchiuse; i panni
stesi a far tetto nei vicoli. E lungo la marina quelle reti di ruggine,
spiegate per terra.
E camminargli d’accanto, seguirle fino...
(una breve pausa) Un vecchio pescatore...- uno vecchio quanto me - che se ne
sta seduto su una cassetta di legno, con il suo pezzo di rete sulle gambe, a
ricucirne gli strappi dell’ultima pesca.
E restare in silenzio, accanto a lui, a guardare...
A guardarlo...
A guardarsi...
(richiama gli uccelli, poi sorride )
Semplicemente.
(lo guarda per un attimo, poi sorride ancora, quindi prende da una tasca una
caramella e indicandola)
Ogni tanto mi piace mettere qualcosa in bocca.
Ne vuole?
(vuota sulla panchina, accanto a lui, le tasche piene di caramelle di diverso
colore) Io le mando giù subito: se le tenessi troppo in bocca, poi
m’infastidirebbe. Così, invece, mi rimane solo una traccia d’aroma.
E non mi viene sete.
Ce n’ho alla frutta, alla menta, alla liquirizia.
Le porto tutte con me.
Non badi alle carte, le getto poi: a casa. Voglio pulito, qui!
(sorride) Vede? Vede quanti gusti?
Perché io non lo so di quale mi viene voglia. E se poi quel gusto lì non ce
l’ho?
Le più buone sono quelle alla...
In televisione le chiamano "esotìk", o qualcosa del genere...
(prende il taccuino, cerca di leggere)
E` una marca strana. Non lo capisco come ho scritto...
Ecco “esotìk”. Con la kappa però.
Se lo vuole scrivere?
Perché poi è facile fare confusione.
Sono quelle con la carta colorata, e le stelline dei fuochi di fine anno
disegnate su. Perché frizzicano.
In bocca!
Ma ci devono essere qui in mezzo.
Le cerchi!
(cercando di leggere sul taccuino) Ma sa che non lo capivo proprio come avevo
scritto!
(Si odono voci di bambini) Le piacciono i bambini?...
(indicandone uno) Guardi quello che carino... (come per farlo avvicinare) Vuoi
una caramella?
E` andato via.
(indicando le caramelle) Prenda.
Prenda.
Era bello anche mio figlio.
Un bel bambino era. (tira fuori dal taccuino una fotografia e la mostra
all’altro) Guardi.
Qui non aveva nemmeno cinque anni.
(una breve pausa) Mi piacerebbe avere un nipotino.
Sarebbe un’occupazione in più, qualcuno a cui badare.
Insegnare.
E mio figlio anche, forse si convincerebbe a tornare.
(con ironia) Sa quanti numeri bisogna fare per telefonare in Germania?.
Quindici.
Quindici numeri.
In fila quindici.
E io mi confondo.
E alla terza volta che sbaglio... mi passa la voglia. (sorride)
(si odono di nuovo voci di bimbi, sorride) Guardi come corrono.
(D’un tratto, con rabbia) Mi fanno paura.
Vorrei strappargli quel velo d’innocenza che si portano addosso.
Strapparlo!
Tirarglielo via!
(una brevissima pausa) Identico, lo aveva mio figlio.
(una breve pausa) Non ne ebbi il coraggio... (riavendosi da quell’attimo d’ira,
una breve pausa)
A Natale porterà un’altra ragazza. Io e mia moglie - perché questa volta lei ci
sarà, a casa, con noi - l’accoglieremo ancora.
Insieme.
Come se quella dovesse essere quella “giusta?”.
Sono diventato un brontolone. (sorride ancora, poi una pausa) Quando si
comincia a sentire il tempo scorrere via, scivolare addosso.
Me ne accorgo.
Ma non faccio nulla. Rimango immobile.
Chiudo gli occhi, e incrocio le mani sulle gambe.
Poi passa.
Così come viene.
Uno di quei brividi che ogni tanto ci corrono dentro. Ma questo qui le lascia
le sue tracce: sul volto; sul corpo; sulla pelle, che comincia a macchiarsi di
scuro.
Tra i capelli.
Come fosse una mano che li ravvia, e ravviandoli, ogni volta, un po’ per volta,
li sporca di bianco.
Tornano immagini, allora...
Ricordi.
Il volto di un uomo, su un treno, venticinque anni fa...
Uno di quelli che la casa se la portano dietro, in una vecchia borsa di pelle.
E lì dentro, tra l’odore del tempo: un tocco di pane, l’ennesimo riavvolto
nello stesso pezzo di carta velina; una piccola fiasca col vino appena di un
pranzo; immagini del Cristo, che tirava fuori, baciava, e subito se le
riconservava gelosamente. E quaderni, tanti; e una stilografica che - mi disse
- lui regalò a una figlia quando questa ancora ricordava di avere un
padre.
Mangiammo insieme; bevemmo il suo vino; parlammo; rise di me, pure, e senza
dire nient’altro.
Poi, prima di scendere dal treno, prese uno dei suoi quaderni e, guardandomi
fino in fondo agli occhi... “grazie, ma io, a te, ti scrivo qui.”
E’ questo? (prende in mano il taccuino)
Ogni mese, ogni giorno, ogni ora una pagina dai contorni ingialliti.
E’ questo?
Poche frasi. Appunti di attimi, annotati tra schizzi di emozioni lontane.
Ritagli di foto. Brandelli di immagini sbiadite. Incollate di fretta.
E’ questo?
I biglietti di un cinema, di un tram, di un viaggio: quello di andata, o il
ritorno.
Lei lo sa?
(una breve pausa, sorride) Eppure chissà se anche lei, come me, è già segnato
su un taccuino, da qualche parte. (una improvvisa folata di vento)
Che giorno è oggi?
Venerdì, vero?
Domenica giochiamo in casa. Lo scudetto quest’anno non ce lo porta via nessuno!
Non ci danno per favoriti, ma i nuovi acquisti non sono chiacchiere.
Io non vado spesso allo stadio, ma quando torna mio figlio mi ci faccio
portare.
La partita da soli non la si può vedere: "cornuto" non lo dici per
l’arbitro, lo dici per te e per la persona che viene con te.
Per poi guardarsi negli occhi, e ridere, o buttare giù una bestemmia insieme!
(si segna con la croce)
Quattro colonne. Sempre le stesse.
(mostra una pagina del taccuino) Ventidue anni che gioco così.
E ho fatto dodici due volte!
Un divano, e il tavolo e le sedie della cucina mi sono comprato: nuovi!... Il
Cagliari prima, l’Inter tre anni fa...
Se l’azzeccavo...
Una villetta in collina, con la vista sul mare.
(sorride, una breve pausa) Ma io sono uno di quelli che il tredici non lo
fanno. E poi smetterei di sognarla.
E a me...
Consuntivi: questi vengono in mente.
(sorride, lancia del mangime e guardando in alto) Chissà dove se ne sono andati
i miei amici. (ancora sorridendo) Si sono proprio scordati di me, oggi.
(improvvisamente, ricordando qualcosa) Oddio! le ricette! - Vede? - (indicando
in alto) Io come loro.
Mi dimentico.
(prendendo il taccuino) Non l’avevo proprio scritto delle ricette...
(appuntando) Sempre così.
Mi dimentico.
E poi all’improvviso mi ricordo di nuovo!
(come sentendosi osservato, quasi a spiegare) E` per le pasticche...
(accarezzandosi sul petto) Ogni tanto il “signorino qua dentro” fa le bizze...
(una breve pausa) L’altra notte ci ho avuto un po’ paura. Davvero.
(interrompendosi, con un mezzo sorriso) Ma poi che potevo fare.
(prendendo un tubetto dalla tasca) Me ne sono presa una.
Poi ho aperto la porta di casa e mi sono seduto in cucina.
(sorride) Aspettavo.
(una breve pausa)
Il mio medico riceve solo due giorni la settimana.
(tira fuori il taccuino e la penna) Quello che avevamo prima era bravo. Ma
adesso è in pensione. Questo nuovo è giovane: tutta un’altra scuola.
Con un’occhiata capisce quello che hai: neanche spogliarti gli serve.
E io che ci vado a fare?
Perché quando uno entra dal medico ci vuole stare almeno un quarto d’ora.
Parlare.
Raccontargli dei soliti acciacchi e tirarsi fuori qualche fastidio nuovo.
Sennò poi, a casa...
(sorride) L’ultima volta - sa? - mi ha raccomandato di camminare.
Camminare! A me!
Che non riesco a stare fermo un attimo!
Li sa i miei piedi? Per la noia, dal medico, di mettono a fare le flessioni...
Punta tallone punta!
Camminare?
Io ho bisogno di fare!
Cosa le sembro?
Uno che s’addormenta davanti al televisore?
Io non voglio dormire.
Ho sempre dormito poco.
Non mi piace.
Toglie tempo, dormire.
E ci sono un mucchio di cose da starci dietro.
Anche in casa.
L’altra mattina ho spazzato tutte le stanze. La casa deve essere sempre in
ordine. Tra poco mia moglie tornerà.
Perché ormai è tanto che è andata via: (una pausa) il giorno che è nato mio
figlio.
E’ andata via.
Oltre una porta verde, in fondo a un corridoio.
Bianco.
Il giorno che è nato mio figlio. (accarezzandosi il dorso della mano) Faceva
“così” con le mani.
(una pausa) Non è più uscita da quella stanza: è dovuta andare.
E’ dovuta andare.
Mi ha lasciato il bambino.
E’ andata via.
(una pausa) E’ andata via...
(una pausa)
Ma ogni tanto ritorna. Lo sento.
Il suo profumo, per le stanze... lo sento.
E io lo so che è venuta, che è tornata...
Anche solo per un attimo, ma è tornata.
Sa quante cose devo dirle.
(indica il taccuino) Le ho scritte: tutte: qui.
Sa che sto già preparando quello per l’anno che viene? Siamo ad ottobre. Uno
glielo voglio regalare a mio figlio.
(una pausa) Lo sa che non m’ha mai chiesto perdono d’esistere?
(una pausa, poi come riavendosi) Neanche ottanta giorni mancano a Natale: e
alle cose ci si deve pensare prima. (tira ancora fuori il taccuino) La vita
bisogna organizzarla. Per tempo. Non è vero che ci si abitua, che ci si
stanca.
Non ci creda!
Ci si vuole abituare, ci si vuole stancare.
Ma io non posso: mia moglie deve ancora tornare.
(lancia del mangime e guardando in alto) Meno male che oggi c’è lei qui con me:
loro mi hanno lasciato solo, volano in altri cieli...
(al suo interlocutore) Ma lei verrà ancora a farmi "visita",
vero?.
Io sono qua.
Abbastanza spesso.
Mi dispiace che la panchina sia così.
Si figuri che m’era venuto in mente di verniciarla.
Ma poi a che servirebbe? Domani sarebbe daccapo tutta graffiata, come le altre.
(indicando la panchina) Guardi che frasi: un pomeriggio le ho trascritte tutte:
“Stefano ama Anna”... “Anarchia!”... “Roberta è una puttana”...
E le altre pure.
E ogni giorno, se ne trovo di nuove, le scrivo, e ci metto accanto la data.
Così capisco chi ci viene qui, quando io non ci sono.
Non ci voglio gente strana! Non qui!
(una pausa. Poi, osservandolo) Sorrida.
Rischiamo di prenderci troppo sul serio.
(una breve pausa) Guardi, qualcuno ci ha pure disegnato una stella.
(Il vento comincia a soffiare. Indossa l’impermeabile) Ma io non so ancora il
suo nome.
Aspetti: me lo voglio scrivere...
(prende il taccuino) Solo un attimo, non vada via...
Il tempo di trovare la pagina. La gente si dimentica così facilmente... E io
non voglio perdere... nulla voglio perdere.
Domani. La scrivo sulla pagina di domani.
E così domani mi ricorderò di lei...
E parlerò di lei con mia moglie, quando tornerà...
E chissà, perché non proprio domani, ehh?
(come a sé stesso, cercando la pagina) Certo... Domani... Devo scriverlo...
(sorridendo, con imbarazzo) Oddio, non trovo la pagina.
Adesso - aspetti! - la trovo. Ci vuole un po’ di calma. La trovo.
Perché non può non esserci.
(cerca sul taccuino la pagina con ansia crescente. Poi) Non può non esserci...
Sul taccuino... Domani... Non può non esserci.
L’ho scritto.
Io l’ho scritto.
Non può mancare.
Con queste mani. Giorno per giorno, l’ho scritto.
Ho dovuto scriverlo.
Con queste mani.
Non può mancare...
Tutti i giorni... Tutti i giorni ho scritto...
Non può mancare, deve esserci...
E` vero che deve esserci?
Lo dica: è vero?
Domani... Deve esserci... Guardi il cielo... e gli alberi...
Ci sono! E allora domani deve esserci...
E gli uccelli, loro...
(una improvvisa, violenta folata di vento lo interrompe: ha un attimo di
esitazione. Poi, guardando l’altro)
Perché non cantano?
Gli uccelli...
Perché non cantano?... Perché non scendono qui?
Non può mancare, vero?
Non può non esserci.
Ancora...
Domani...
Non può non esserci. Vero?
(una pausa) Qualcuno me l’ha portato via... - capisce? - qualcuno me l’ha
portato via. Nessuno può. E` la mia vita. Nessuno può portarne via un giorno.
Nessuno può farlo. Deve esserci... E` la mia vita...
La mia vita...
Deve esserci.
Deve.
Domani.
Nessuno può rubarne un giorno...
Nessuno... può... Nessuno...
(improvvisamente si calma e, freddo, alzando piano lo sguardo sull’altro e
lasciandosi scivolare sulle gambe)
E tu?
(una pausa)
Chi sei tu?
(una pausa. Lo guarda, immobile. Poi, lentamente si stringe dentro l’impermeabile,
acquattandosi sulla panchina. Si ode solo il vento. Adesso soffia più forte,
con violente folate. Poi, improvviso, acutissimo, uno stormire d’uccelli. Pochi
istanti. Di colpo)
B U I O
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