Il trionfo del diritto

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IL TRIONFO DEL DIRITTO

Commedia in tre atti

di NICOLA MANZARI

PERSONAGGI

L’AVVOCATO PEDIGO’

SILVIA

MARTA, sua madre

PILLACCHERA

L’AVVOCATO MARTINOTTI

CALOGERO E ROCCO, agricoltori

VINCENZO, mediatore

LA VEDOVA ZUMMO

L’AVVOCATO SISTETTI

L’UFFICIALE GIUDIZIARIO

LA PRIMA DATTILOGRAFA

LA SECONDA DATTILOGRAFA

Oggi in un ricco paese di provincia. Dal primo al secondo atto passano due giorni. Dal secondo al terzo, due anni.

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

In casa della ve­dova Marta Pinelli. Una stanza arredata a studio : scrivania, libreria a muro, scaffali, due poltrone. Nessun telefono. I mobili sono di un pesante gusto pro­vinciale e nemmeno del medesimo stile. I libri sono sparsi un po' dovunque, persino sulle seggio­le, in gran disordine. Intorno alla scriva­nia sono seduti Mar­ta, una donna sulla cinquantina; Rocco, un uomo di mezza età; e Vincenzo, un vecchietto tutto pepe. Marta e Rocco sono vestiti di nero con l'eleganza tipica dei contadini arricchiti. Non mancano alle loro dita pesanti anelli d'oro. Vincenzo è invece visibilmente di misere condi­zioni. Stringe fra le mani un grosso bastone come tutti i mediatori di campagna. Siamo, infatti, in un ricco paese agricolo. I tre discutono seduti intorno alla scri­vania. E" una bella mattina piena di sole.

Marta                            - (a Rocco) Allora, che decidete?

Rocco                            - (è intento a scrivere in un libretto e non ri­sponde).

Marta                            - Insomma, rispondete: sì o no?

Vincenzo                       - (le fa cenno di attendere che Rocco abbia finito di scrivere).

Rocco                            - (ha finito. A Marta) Ecco. Io lo trovo un po' giù di fianchi il vostro «Michele».

Marta                            - Giù di fianchi? Ma se in tutto il paese non ce n'è un altro come lui! Forse l'avete visto solo di profilo.

Rocco                            - Di profilo e di spalle. Gli ho girato intorno mezz'ora. E' inutile. L'impressione è quella. Mal nutrito.

Marta                            - Be', allora lasciatelo lì... C'è chi ci fa l'amore da un mese e sarà felice d'averlo.

Rocco                            - Perché non gliel'avete dato?

Marta                            - Per un riguardo a voi. Mi diceste di darvi la preferenza. Ma con voi le gentilezze son sprecate!

Vincenzo                       - Calma, signori, calma!

Marta                            - Devo sentire insultare il mio « Michele » e star zitta?

Vincenzo                       - Infine non vi ha detto che è da buttar via...

Marta                            - Vorrei vedere!

Vincenzo                       - Solo lo trova un po' denutrito. Che c'è di male? Non sono magro anch'io?

Marta                            - A voi può dirlo. Ma al mio « Michele » no. Perché è bello grasso, lui!

Rocco                            - (cocciuto) E’ magro.

Vincenzo                       - (conciliante) Diciamo che è un falso ma­gro e siete contenti tutti e due. Allora facciamo così. (A Rocco) Voi invece d'ammazzarlo oggi «Michele», l'am­mazzate fra quindici giorni. E il danaro lo versate a Marta fra un mese. Vi va?

Marta                            - Per me..

Rocco                            - Ci sto.

Vincenzo                       - Allora possiamo stendere il contratto?

Rocco                            - Sono pronto.

Marta                            - Anch'io.

                                      - (I tre si alzano in piedi contemporaneamente. E in piedi con lenta gravità ripetono quanto segue).

Marta                            - Io, Marta Pinelli, di condizione vedova, vendo a voi, Rocco Mantegna...

Rocco                            - A me, Rocco Mantegna, che accetto di com­prare...

Marta                            - Il porco di mia proprietà dal nome «Mi­chele », di colorito bruno

Rocco                            - Di colorito bruno...

Marta                            - Del peso di chilogrammi duecentodieci..

Rocco                            - Di chilogrammi duecentodieci...

Marta                            - Al prezzo di lire milletrecento..

Rocco                            - Di lire milletrecento.

Marta                            - Il pagamento avrà luogo ad un mese da oggi.

Rocco                            - Ad un mese da oggi.

Marta                            - Ripetuto e approvato.

Rocco                            - Ripetuto e approvato.

Marta                            - In fede di che noi abbiamo stipulato il sud­detto contratto a viva voce, senza testimoni, secondo l'uso secolare del nostro paese. Malanno a chi manca alla parola data e la maledizione sui suoi figli e i figli dei figli sino alla settima generazione.

Rocco                            - E la maledizione sui suoi figli e i figli dei figli sino alla settima generazione. (Marta e Rocco tendono la mano destra e se la stringono tre volte le­vando e abbassando il braccio).

Vincenzo                       - E anche questo è fatto. A me la media­zione secondo l'uso.

Marta                            - S'intende.

Rocco                            - E' sottinteso. (I tre si rimettono a sedere).

Marta                            - Vincenzo, che c'è di nuovo in paese? Voi siete sempre così informato!

Vincenzo                       - Niente d'importante. C'è stata solo la questione della cavalla di Padron Tonio.

Rocco                            - Che è successo?

Vincenzo                       - Come, non lo sapete? Tre giorni fa a Tonio hanno rubato la cavalla. Ieri gli è parso di ri­conoscerla per la strada. Ma quello che la conduceva, un certo Ferdinando, ha dichiarato invece che la cavalla era sua. Nata e cresciuta nella propria stalla. La que­stione si metteva male, quando la gente che s'era riunita intorno ai due che già litigavano, ha suggerito di lasciar libera la cavalla a mezza strada fra la stalla di Tonio e quella di Ferdinando. E cosi hanno fatto. La cavalla è tornata alla stalla di Tonio. Ferdinando è fuggito fra i fischi di tutti.

Marta                            - Ben gli sta. Pensate se quei due avessero iniziato una causa. La cavalla sarebbe morta prima che si fosse saputo a chi apparteneva.

Rocco                            - Causa? E chi ha mai fatto cause nel nostro paese?

Silvia                             - Viene giù per il Corso. Cammina svelto e dietro a lui viene un carro pieno zeppo di libri.

Marta                            - Ancora?

Rocco                            - Scappa, scappa!

Vincenzo                       - Arrivederci, Marta. Ma fuori di qui.

Marta                            - Perché?

Vincenzo                       - Eh, capirete... finché avrete un avvocato per casa...

Rocco                            - E' giusto. Anch'io sarà difficile che venga. Non vi dovete offendere, ma su questo argomento la penso come tutto il paese.

Vincenzo                       - E tutti vi diranno che dovevate scegliervi un altro inquilino.

Silvia                             - (irritata) Perché, non è un uomo come gli altri?

Marta                            - Zitta, tu.

Vincenzo                       - Che ne sai tu di queste cose?

Rocco                            - Quando sarai più grande capirai... Buon­ giorno. (Rocco e Vincenzo escono in fretta).

Silvia                             - Che intendevano dire?

Marta                            - Smettila di fare domande sciocche.

Silvia                             - (si avvicina ai libri e ne prende uno).

Marta                            - Posa lì. Non son libri per te.

Silvia                             - (lasciando il libro) Dio, quanti misteri!

Marta                            - Troppi libri. Forse ho fatto male a mettere in casa un uomo di legge. (Marta e Silvia restano im­mobili a contemplare i libri e non s'accorgono dell’ingresso quasi silenzioso di Pedigò. Pedigò è un uomo ancora giovane. Ma l'austerità della persona e la se­ vera eleganza del vestito lo fanno apparire quasi an­ziano. I gesti rapidi e la nervosità della dizione tradi­scono la sua età. E’ un uomo di scienza che non sor­ ride quasi mai. Si direbbe che sia dominato da un'idea fissa. Nel complesso incute rispetto (e quasi soggezione. Reca un involto sotto il braccio).

Pedigò                           - Buongiorno.

Marta                            - (scuotendosi)  Oh, siete voi. Scusateci per non esservi venute incontro. Buongiorno.

Pedicò                           - Ogni volta che mi salutate, vi prego di aggiungere sempre: avvocato.

Marta                            - Buongiorno, avvocato.

Pedigò                           - Benissimo. E anche fuori, quando mi no­minate, non omettete mai il titolo. L'avvocato ha detto... L'avvocato ha fatto...

Marta                            - Benissimo...

Silvia                             - ...avvocato.

Pedigò                           - Grazie. Giù è ancora qualche altra cassa di libri. Provvederete più tardi al trasporto. .

Marta                            - (a malincuore) Come volete.

Pedicò                           - (non badandole) Avete pregato, come vi scrissi, l'ufficiale giudiziario di venire qui oggi?

Marta                            - Sì. Non potrà tardare,

Pedicò                           - Benissimo. Attendo anche l'avvocato... l'avvo­cato (leggendo su di un biglietto) Martinotti... Gli ho la­sciato un biglietto. Appena arriva, vi prego d'introdurlo. (Accorgendosi che Silvia sta mettendo in sesto dei libri che pencolano su di una sedia) No. Lasciate stare quei libri. Li metterò in ordine io. Voi non dovete mai toc­carli.

Marta                            - Gliel'ho detto anch'io.

Pedicò                           - Ma solo considerarli con infinito rispetto.

Marta                            - Siamo gente semplice noi.

Pedicò                           - Appunto per questo. (Disfa lentamente l'in­volto che ha sotto il braccio, seguito attentamente dagli sguardi delle due donne e ne trae con precauzione una toga che mostra come un oggetto sacro).

Silvia                             - Cos'è?

Pedicò                           - In che mondo vivete? (Se la getta sulle spalle con maestà. Le due donne ora lo guardano in­timidite). Avete capito ora?

Silvia                             - Sì.

Pedicò                           - D'ora innanzi, anche quando non l'indosso, voi dovrete vedermi così... Questo vostro sforzo imma­ginativo faciliterà i nostri rapporti. (Si toglie la toga. La dà a Silvia) Ve l'affido.

Silvia                             - (la prende con circospezione).

Pedicò                           - Starà sempre appesa a quel chiodo lì (in­dica una parete). Bene in vista. Ma sarà vostra cura particolare spazzolarla due volte al giorno. Al mattino e alla sera, con una spazzola di pelo tenero, dall'alto in basso. Siamo intesi?

Silvia                             - Sissignore.

Pedigò                           - Sì, avvocato.

Silvia                             - Sì, avvocato.

Pedicò                           - Nel passare per la piazza ho visto due con­tadini accanto ad una vacca che si stringevano tre volte le mani. Si tratta d'una setta segreta?

Marta                            - Oh, no. E’ il nostro modo di fare i contratti.

Pedicò                           - E non litigate mai dopo?

Silvia                             - Come potremmo? Una volta strette le mani...

Pedicò                           - Capisco. Ma se uno nega poi che il prezzo è quello? Testimoni non ce ne sono...

Marta                            - Non è mai avvenuto.

Pedicò                           - Ma se avvenisse?

Marta                            - (stringendosi nelle spalle) Siam gente sem­plice, noi.

Pedicò                           - Me l'avete già detto. Potete andare. (Marta e Silvia escono. Pedigò comincia a riordinare alcuni li­bri. Silvia si riaffaccia dalla porta da cui è uscita).

Silvia                             - Avvocato, vorrei chiedervi un favore.

Pedicò                           - Di che genere?

Silvia                             - Vorrei leggere uno di quei vostri libri.

Pedicò                           - (lusingato) V'interessa il Diritto?

Silvia                             - Oh, non so nemmeno che sia. Ma quando mia madre mi proibisce un libro, vuol dire che il libro è bello... e allora...

Pedicò                           - (offeso) Questi non sono libri erotici.

Silvia                             - Ah, scusate... (Fa per ritirarsi).

Pedicò                           - Aspettate! (Prende un libro) Provate a leg­gere questo (glielo dà).

Silvia                             - (leggendo il titolo) «Trattato del matri­monio ».

Pedicò                           - Però quando giungerete al capitolo degli im­pedimenti, saltatelo...

Silvia                             - (con malizia) Ho capito. Grazie. (Esce, na­scondendo il libro. Pausa. Pedigò riprende a riordinare i libri. Si bussa alla porta).

Pedicò                           - Avanti. (Entra Mininni, ufficiale giudi­ziario. E' vestito piuttosto male).

Mininni                         - Riverisco.

Pedicò                           - Siete l'ufficiale giudiziario del paese?

Mininni                         - Si vede ancora? Credevo d'averne per­duto l'aspetto.

Pedicò                           - Perché?

Mininni                         - Son così fuori esercizio.

Pedicò                           - Infatti ho sentito dire che non avete molto lavoro.

Mininni                         - Ahimè! Devo leggere i miei biglietti da visita per ricordarmi chi sono.

Pedicò                           - D'ora innanzi notificherete molti atti a mio nome.

Mininni                         - (scettico) Ogni nuovo avvocato che arriva me lo dice. Ma non passano quindici giorni che gli avvocati scappano perché non guadagnano una lira e io scendo sempre più giù nella stima del prossimo.

Pedicò                           - I vostri concittadini non hanno forse una alta opinione di voi?

Mininni                         - Nemmeno per sogno! Quando penso che i miei colleghi della città con la loro sola presenza in­cutono terrore ed invece qui io sono trattato da tutti come un amico, mi piange il cuore dalla rabbia!

Pedicò                           - E' una vera umiliazione.

Mininni                         - A chi lo dite! Quand'ero ufficiale giudi­ziario in città quelli sì che erano bei tempi! Allora la mia visita in una casa era accolta con musi duri, la­crime e persino grida di maledizione. Posso vantarmi di aver fatto svenire molte donne. Qui, invece, posso entrare e uscire da qualunque casa che nessuno ci bada. Anzi mi offrono persino da bere. A me, un ufficiale giu­diziario! A vedermi trattato così bene non so come non impazzisco dalla vergogna!

Pedicò                           - Capisco il vostro tormento... Riavrete la dignità cui avete diritto come braccio esecutivo della legge. Parola dell'avvocato Pedigò!

Mininni                         - Le vostre parole son rugiada sul mio cuore. (Si erge sulla persona) Da questo momento sono a vostra disposizione.

Pedicò                           - Ho bisogno d'informazioni sulle persone più ricche del paese. Ma informazioni come saprebbe compilarle una donna... Tizio fa questo... ha rapporti con Caio... vede Sempronio... Insomma, il pettegolezzo ele­vato a sistema. M'intendete?

Mininni                         - Lasciate fare a me.

Pedicò                           - Abbondate pure nei particolari. Sono i det­tagli che coloriscono la vita.

Mininni                         - Mi farò aiutare da mia moglie. Per queste cose ha un fiuto da bracco. (Si sente bussare alla porta).

Pedicò                           - Non ho altro da dirvi. (Entra Silvia).

Silvia                             - C'è l'avvocato Martinotti.

Pedicò                           - Un minuto, prego. (Silvia esce).

Mininni                         - Ecco un avvocato che in dodici anni che è qui non è riuscito a trovare un solo cliente.

Pedicò                           - I clienti non si trovano, si scoprono.

Mininni                         - E' una bella teoria.

Pedicò                           - Ve ne accorgerete in pratica.

Mininni                         - (esce salutando. Subito dopo entra l’avvocato Martinotti. E' un tipo cordiale, pieno di salute).

Martinotti                      - (presentandosi) Martinotti.

Pedicò                           - Pedigò.

Martinotti                      - So che siete venuto due volte a casa a cercarmi.

Pedicò                           - Ma non vi ho trovato. Perciò vi ho pregato di passare dai me.

Martinotti                      - In che cosa posso esservi utile, caro collega?

Pedigò                           - Grazie. M'hanno detto che siete qui da molti anni.

Martinotti                                - Dodici.

Pedicò                           - Potete, dunque, darmi qualche informazione sul paese.

Martinotti                      - E' presto detto: aria salubre, abitanti cordiali, sito ideale per villeggiare.

Pedicò                           - Non sono venuto per villeggiare.

Mariinotti                      - No? Di solito si vien qui per riposare... Lo raccomandano tutte le guide turistiche.

Pedicò                           - Ho scelto questo paese non per il suo clima, ma per esercitarvi la professione.

Martinotti                      - Quale professione?

Pebicò                           - Diamine, la nostra. Quella d'avvocato.

Martinotti                      - Dite sul serio?

Pedicò                           - Non vedo che «osa ci sia di strano.

Martinotti                      - E avete intenzione per caso di aprirvi uno studio?

Pedicò                           - L'ho già aperto. Questo (indica intorno i libri).

Martinotti                      - Vedo... vedo...

Pedicò                           - Giù non avete visto la mia targa perché gli operai non sono venuti ancora a metterla. Ma è pronta. (Trae di sotto alcuni libri una grande targa in metallo e la mostra. Sulla targa è scritto in caratteri ben visibili: «Avvocato Marco Pedigò - Orario: 9-12; 15-17 »).

Martinotti                      - (imbarazzato) C'è anche l'orario.

Pedicò                           - Perché? Vi sembra preferibile un altro orario? Non conosco le abitudini del paese.

Martinotti                      - Oh, no... Per quello che serve...

Pedicò                           - Se voleste darmi qualche consiglio nella vostra qualità di decano...

Martinotti                      - Decano? Ma se sono l'unico avvocato del paese?

Pedicò                           - Ebbene, adesso che ci sono io, voi diven­tate il decano degli avvocati locali.

Martinotti                      - (ride).

Pedicò                           - Perché ridete?

Martinotti                      - (serio) Caro collega, vi dò un solo con­siglio. Fuggite!

Pedicò                           - Eh?

Martinotti                      - Siete ancora in tempo. Raccogliete i vostri libri, prendete la vostra toga e abbandonate al più presto questo maledetto paese. Altrimenti farete la fine mia.

Pedicò                           - Quale, se è lecito?

Martinotti                      - Coltivar cavoli.

Pedicò                           - Non siete riuscito ad aver clienti, vero?

Martinotti                      - E non ci riuscirete neppur voi. Come non è riuscito nessuno prima di me. Qui non si va mai dall'avvocato per regolare le proprie questioni.

Pedicò                           - Eppur ricorrono al medico, al farmacista, no? Perché ignorano la nostra funzione?

Martinotti                      - Non l'ignorano. Ma sanno camminare da se nei limiti della legge. O almeno lo credono. Co­munque se ne vantano.

Pedicò                           - Ed è stato sempre così?

Martinotti                      - A memoria d'uomo.

Pedicò                           - Incredibile. Quanti abitanti ha il paese?

Martinotti                      - Più di diecimila.

Pedicò                           - Ho letto sull’ Informatore agricolo » che la popolazione è agiata.

Martinotti                      - Esatto. Quasi tutti posseggono fattorie o poderi. Gli altri commerciano in prodotti della terra.

Pedicò                           - Negli affari chi li assiste?

Martinotti                      - Il buon senso.

Pedicò                           - E i contratti chi li redige?

Martinotti                      - La consuetudine.

Pedicò                           - Ma se un contraente imbroglia l'altro, la questione come si regola?

Martinotti                      - Con due pugni.

Pedicò                           - Dunque, causa penale.

Martinotti                      - No. Vanno a darseli lontano e colui che li riceve, non si querela.

Pedicò                           - E il danno chi Io risarcisce?

Martinotti                      - Il pubblico disprezzo per colui che ha imbrogliato.

Pedicò                           - Ogni tanto accadrà pure qualche rissa.

Martinotti                      - Sono d'indole pacifica.

Pedicò                           - Quando si ubriacano volerà almeno qualche pugno.

Martinotti                      - Il vino li mette in allegria.

Pedicò                           - Furti?

Martinotti                      - Quasi tutti sono proprietari o sperano di diventarlo. Perciò rispettano la proprietà.

Pedicò                           - E se contraggono un debito chi li spinge a pagare?

Martinotti                      - La loro parola.

Pedicò                           - Così (si stringe tre volte la mano sinistra con la destra).

Martinotti                      - Vedo che siete informato.

Pedicò                           - Già... E se qualcuno muore lasciando un podere indiviso, gli credi dovranno pur litigare. Ac­cade quasi sempre.

Martinotti                      - No. Coltivano il podere tutti insieme. L'istituto familiare qui è sentito come una religione.

Pedicò                           - E nei rapporti con lo Stato?

Martinotti                      - Pagano regolarmente le tasse.

Pedicò                           - Ci sarà pure chi insidia la moglie dell'a­mico. Questo accade in ogni parte del mondo.

Martinott                       - La donna d'altri è tabù. Non si tocca.

Pedicò                           - Dunque, a parer vostro, questo paese non offrirebbe alcuna risorsa ad uno di noi.

Martinotti                      - Sotto nessun aspetto.

Pedicò                           - Non resterebbe che far le valige.

Martinotti                      - E' quello che vi sto dicendo da mezz'ora.

Pedigò                           - Eppure io ho scelto apposta questo paese per iniziare la professione.

Martinotti                      - Come? Siete laureato da poco?

Pedicò                           - No. Son quindici anni ormai. Ma non ho mai potuto aprire uno studio per mio conto perché sono povero. Da mio padre che fu un giudice non ho ereditato altro che l'amore del diritto, l'unico amore che ha alimentato sino ad oggi la mia vita.

Martinotti                      - (si allontana preoccupato).

Pedicò                           - Oh, non sono mica pazzo. Tranquillizza­tevi. Solo che nel mondo per me nulla ha valore se non ha un'espressione giuridica. E' come se non esistesse. Il culto della legge in me è - al tempo stesso  voca­zione e fanatismo. Sin da piccolo, nell'età in cui gli altri bimbi giocano ai soldati, io radunavo i miei coetanei e - issato su uno scanno - mi atteggiavo a giudice delle loro contese. Ero felice solo quando potevo pronunciare immaginarie sentenze, imitando mio padre che andavo ad ammirare di nascosto ;in Tribunale.

Martinotti                      - Perché ' non avete; fatto il giudice, allora?

Pedicò                           - Mio padre in punto di morte me lo proibì. Disse che ero troppo impulsivo per essere imparziale. « Se anche tu - mi disse non puoi vivere senza respirare carta bollata, fa l'avvocato ». Ma sino ad oggi non ho potuto avere uno studio mio. L'unico zio ricco che avrebbe potuto aiutarmi, pretendeva che lasciassi i co­dici per il suo commercio di legumi. Quando s'è accorto che non tollero i legumi nemmeno a tavola, ha prefe­rito lasciare tutto il suo patrimonio all'Istituto dei deficienti psichici.

Martinotti                      - Ma in questi anni almeno avete eser­citato?

Pedicò                           - Ho fatto il sostituto nello studio d'un grande avvocato civilista. Oso dire che ero io a mandare avanti lo studio. Il mio principale si limitava a firmare le mie comparse e incassare gli onorari dai clienti. Avanti ieri quando gli ho comunicato la mia decisione di abbandonarlo, per poco non è svenuto.

Martinotti                      - Non vi pagava abbastanza bene?

Pedicò                           - Malissimo. Ma non l'ho lasciato per questo. Il danaro è l'ultima cosa cui penso. Ciò che m'interessa è l'uomo con tutto il groviglio di situazioni giuridiche che ognuno di noi si trascina dietro per il solo fatto di nascere, di vivere, di agire. Se vedo due persone in­sieme non posso fare a meno di pensare ai loro rap­porti e alle liti che possono nascerne.

Martinotti                      - Confesso che è un criterio abbastanza originale d'intendere la professione.

Pedicò                           - Non è un criterio meschino, ecco tutto. Evidentemente se qualcuno viene da voi a chiedervi un parere o ad affidarvi una difesa, voi vi fermate al caso che colui vi espone. Pensate invece quante altre situa­zioni fanno capo a lui e un incidente banalissimo può mettere in luce. Non dirò che sta a noi provocare quell'incidente. Forse sarebbe eccessivo. Ma bisogna augu­rarsi che si verifichi per il bene del nostro cliente, per la sua determinazione giuridica. Un uomo che in tutta la vita non fa nemmeno una causa per me è un non senso.

Martinotti                      - E contate d'applicare qui le vostre teorie?

Pedicò                           - Sono anni che sogno d'avere una clientela mia per operare su vasta scala.

Martinotti                      - Temo che tutta la vostra clientela qui si ridurrà a qualche cacciatore di frodo che impallina un passante o a un contadino che annacqua il latte. Avreste fatto meglio a restare in città.

Pedicò                           - No. Troppi avvocati. Io ho bisogno d'un terreno vergine. Perciò appena lessi sull'Annuario giu­diziario che questo paese ha l'indice di litigiosità più basso di tutta la nazione, mi dissi: Ecco quel che fa al caso mio!

Martinotti                      - Oh, questo paese non passerà davvero alla storia come un esempio di litigiosità. La sua litigiosità è zero. Più basso di così...

Pedicò                           - Correggeremo quest'insufficienza. Non per­metteremo che si perpetui quest'affronto alla maestà della legge. Quando l'idea del diritto avrà permeato di sé tutti gli strati sociali di questa popolazione, non credo che sarà esagerato contare su un minimo di una cauta ogni cinque persone. (Col tempo miglioreremo questa percentuale.

Martinotti                      - Stento a credervi.

Pedicò                           - Naturalmente non potrò assistere entrambe le parti. Benché l'ideale sarebbe questo per un giurista.,. Dunque una delle parti dovrà rivolgersi a voi. Vi rifa­rete così dell'offesa che v'hanno fatta costringendovi all'agricoltura. Rivestirete la toga, simbolo della più no­bile professione che io conosca. E con me terrete alto in questo paese il prestigio d'una missione antica come la stessa umanità. Poiché il primo uomo che difese il suo simile contro l'ingiustizia, la violenza, la frode, quello fu il primo avvocato.

Martinotti                      - (vinto dall'entusiasmo di Pedigò) Ecco delle parole ben dette... sono con voi... Qual è il vostro metodo?

Pedicò                           - Non ho né un metodo né un programma. Preferisco ispirarmi alle circostanze. Del resto, mi ve­drete in azione.

Martinotti                      - Quando comincerete?

Pedicò                           - Subito. Io son sempre per l'azione imme­diata. (Passeggia su e giù pensieroso. Improvvisamente fermandosi dinanzi a Martinotti) Chi è il più povero del paese?

Martinotti                      - Povero?

Pedicò                           - Sì, ci sarà pure qualcuno che vive d'ele­mosine. Pensateci bene.

Martinotti                      - L'accattonaggio qui non è tollerato. Lavorano tutti.

Pedicò                           - Ci sarà pure; chi non possiede proprio nulla.

Martinotti                      - Ecco... c'è un vagabondo che è la ver­gogna del paese. Lo chiamano Pillacchera.

Pedicò                           - Pillacchera? Macchia di fango. Debbono disprezzarlo molto.

Martinotti                      - Sfido. Nessuno ricorda d'averlo mai visto lavorare. E' tutto il giorno in piazza a pancia all'aria. Mangia quando può e dorme da moltissimi anni in una capanna del signor Calogero, uno dei più ricchi del paese.

Pedicò                           - E" vecchio?

Martinotti                      - Anzi, è ancor giovane e valido.

Pedicò                           - Meglio così. Permettete un momento? (Chiamando nell'interno) Signora...

Marta                            - (comparendo) Desiderate?

Pedicò                           - Per favore, mandate giù qualcuno a chia­mare Pillacchera.

Marta                            - Pillacchera? Ah, no in casa mia non lo voglio.

Pedicò                           - Sono vostro inquilino? Dunque, qui ricevo chi voglio... Via.

Marta                            - (esce brontolando).

Pedicò                           - Incredibile. Non conoscono neppure i di­ritti dell'inquilino. E' tutto da rifare.

Martinotti                      - Non capisco in che possa esservi utile Pillacchera. V'ho pur detto che è un buono a nulla.

Pedicò                           - Ancora non lo so bene. Ma sento che un'i­dea germoglia in me... Qui occorre un esempio clamo­roso. Me l'offrirà Pillacchera? Devo prima interrogarlo. Ma sarebbe bello cominciare da lui... L'importante è che non sia un farabutto...

Martinotti                      - Oh, per questo... incapace di far male ad una mosca...

Pedicò                           - Un uomo che non gode di nessun credito si presta magnificamente ad iniziare l'esperimento. Se fosse un uomo ricco cui tutti danno volentieri la loro stima, l'esperimento sarebbe meno persuasivo.

Martinotti                      - Badate, se vi alleate a un vagabondo la vostra azione sarà sin dall'inizio votata all'insuccesso.

Pedicò                           - Caro collega, comincio a capire perché non avete sfruttato le magnifiche possibilità che questo paese vi offriva. Voi avete scarsa fede nella forza di penetrazione del Diritto. (S’affaccia Silvia).

Pedigò                           - Desiderate?

Silvia                             - Vorrei dirvi una parola.

Pedicò                           - (a Martinotti) Permettete?... (A Silvia, in disparte) Perché mi disturbate? Il mio libro non vi piace? '.

Silvia                             - Tutt'altro... Voleva mettervi in guardia... Ho sentito che avete chiamato Pillacchera.

Pedicò                           - Cara signorina, io non sono ancora affidato alla vostra tutela. Perciò credo d'esser libero delle mie azioni.

Silvia                             - Voi non conoscete Pillacchera...

Pedicò                           - E' proprio per conoscerlo che l'ho chiamato. Il fatto che ne diciate tutti tanto male ha destato la mia curiosità. (Si bussa d. d.). Avanti.

Martinotti                      - Eccolo. (Sulla soglia appare Pillacchera, timidissimo, stracciato. E' il tipico vagabondo. Ha i modi di chi è abituato ad essere scacciato da tutti). Sarà forse meglio che io vada.

Pedicò                           - Se volete restare, per Ime è lo stesso. Sono abituato a giocare a carte scoperte.

Martinotti                      - Oh, no... preferisco lasciarvi soli, il segreto professionale... Arrivederci... (Esce girando al largo di Pillacchera).

Pedicò                           - (a Silvia) Signorina, e voi che aspettate per uscire?

Silvia                             - Ma...

Pedicò                           - Insomma, c'è un limite anche alla curio­sità...

Silvia                             - Se doveste scrivere, io potrei aiutarvi. Ho una bella calligrafia.

Pedicò                           - Grazie. Faccio da me. (Silvia mortificata esce girando anch'essa al largo di Pillacchera). Caro Pil­lacchera, eccomi a te.

Pillacchera                     - Mi conoscete?

Pedicò                           - Chi non ti conosce? La prima persona di cui si sente parlare arrivando qui, sei tu.

Pillacchera                     - Immagino quel che dicono!

Pedicò                           - Be', lasciamo andare... Tengo, però, a dichia­rarti che è precisamente quel che ho sentito dire di te che m'ha spinto a conoscerti. E' questione di punti di vista. Ma io non solo non condivido la cattiva opinione che di te hanno i tuoi concittadini, ma se c'è qualcuno che stimo fra te e loro, sei proprio tu. Tant'è vero che voglio es­serti amico.

Pillacchera                     - Questo, poi!

Pedicò                           - Sì. E te lo proverò. Quali accuse infatti possono formularsi contro di te? Rubi forse?

Pillacchera                     - (con orrore) Mai.

Pedicò                           - Ti procuri con mezzi violenti il tuo nutri­mento?

Pillacchera                     - Prendo quello che mi danno.

Pedicò                           - Perché non lavori, forse? Ma c'è tanta gente che non lavora e se la passa meglio di te che a giudi­care dall'aspetto...

Pillacchera                     - (si rovescia le tasche vuote).

Pedicò                           - Ecco. E allora perché farti la morale?

Pillacchera                     - E' quel che dico anch'io.

Pedicò                           - Perché stai tutto il giorno a goderti il sole? Ma questo significa avere il culto romantico della vita pigra. Non è forse questa la saggezza millenaria dei cinesi? Evidentemente c'è in te un senso di nobile di­stacco dal dramma dell'esistenza, che tanto preoccupa gli altri. Dovrebbero renderti omaggio come al più saggio del paese. Credimi.

Pillacchera                     - Tutti mi scacciano. Neppure ai bimbi posso accostarmi.

Pedicò                           - Ti piacerebbe rifarti delle umiliazioni di tanti anni? Provare agli altri che anche tu sei qualcuno?

Pillacchera                     - Sembra un sogno!

Pedicò                           - Se un uomo ti venisse incontro, un uomo che ha un grande potere perché ha letto tanti libri e ti dicesse, prendendoti sotto braccio (esegue): Che ne diresti, Pillacchera, di far insieme una bella beffa a questo paese e dimostrare che tu sei più forte di loro tutti messi insieme? Costringere tutti a farti d'ora in­nanzi tanto di cappello e aver paura di te... Ci staresti?

Pillacchera                     - Se ci sto... Me ne hanno fatto inghiot­tire tante!

Pedicò                           - Bene. Tu per un verso, io per un altro sì mostrerà a questa gente chi siamo noi.

Pillacchera                     - Che devo fare?

Pedicò                           - Quello che hai sempre fatto. Niente.

Pillacchera                     - (sollevato) Meno male.

Pedicò                           - Penso io a tutto. Tu devi solo raccontarmi di te, della tua vita, delle persone che avvicini. Perché, vedi, tu non sei nulla. Ma se io trasfondo in te, ultimo della terra, il concetto augusto del Diritto, ti trasformo.

Pillacchera                     - (impressionato) Siete uno stregone?

Pedicò                           - Pensa di me quel che vuoi. Quel che importa è il risultato. Vedrai tu stesso se mentisco.

Pillacchera                     - Oh, per me... il fatto è che non ho nemmeno un soldo da darvi.

Pedicò                           - Non cerco danaro, io...

Pillacchera                     - E perché lo fate allora?

Pedicò                           - Questo riguarda me. A te basti sapere che non rischi nulla.

Pillacchera                     - Ma come potrò io?... Valgo così poco.

Pedigò                           - Non lo dire. Così povero e disprezzato, sei potentissimo. Perché sei ancora un uomo e come tale, soggetto di diritti. Se questi tuoi diritti cominci a manovrarli, vedrai che succede!

Pillacchera                     - Be', mi affido a voi... Tanto... peggio di così... Sono pronto.

Pedicò                           - Benissimo. (Apre un cassetto. Tira fuori un foglio) Ecco un foglio di carta bollata. Ne hai visti mai? Non hai che da scrivere quello che ti detterò. Vedi come è semplice?... Mettiti lì (gli fa cenno di se­dersi). Sai scrivere?

Pillacchera                     - (con dignità) Ho avuto un'istruzione. (Siede).

Pedicò                           - Di bene in meglio. Eccoti la penna. Qual è il tuo nome?

Pillacchera                     - Pillacchera.

Pedicò                           - Ma no. Il tuo nome di battesimo.

Pillacchera                     - Ah... (Ci pensa un po') Filippo.

Pedicò                           - Filippo. E poi?

Pillacchera                     - Fumo.

Pedicò                           - Allora scrivi... (Dettando) Io sottoscritto Filippo Fumo, detto Pillacchera, nato a...

Pillacchera                     - (con orgoglio) A Chiaravalle. (Scrive).

Pedicò                           - (continuando a dettare)... e quivi residente, delego a rappresentarmi e difendermi in tutte le mie cause...

Pillacchera                     - Cause?... Non ne ho.

Pedicò                           - Ne avrai... ne avrai... in tutte le mie cause l'avvocato Marco Pedigò, eleggendo a tutti gli effetti di legge il mio domicilio presso il suo studio. Conferisco pertanto al suddetto avvocato ogni più ampia facoltà compresa quella di transigere e conciliare... (Mentre Pillacchera scrive, cala la tela).

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

Due giorni dopo. La stessa scena del primo atto. La stanca è però in ordine e i libri sono negli scaffali. I mobili sono gli stessi. Di nuovo c'è solo una macchina da scrivere su di un tavolinetto.

Pedigò è seduto dietro la scrivania e scrive veloce­mente. Dopo qualche minuto entra Silvia. Pedigò non se ne accorge e continua a scrivere. Silvia sta ferma un pò sulla soglia a guardarlo. Pedigò alza la testa e s'ac­corge della sua presenza.

Pedicò                           - Signorina, preferirei che bussaste prima d'entrare.

Silvia                             -  Fra noi...

Pedicò                           - E vi prego di abbandonare questo tono d'intimità assolutamente fuori posto. Altrimenti sarò costretto a dire a vostra madre che non ho più bisogno dei vostri servizi di segretaria.

Silvia                             - Scusate... credevo che prestandomi quel libro, voi...

Pedicò                           - Quale libro?

Silvia                             - Quello sul matrimonio...

Pedicò                           - Ebbène?

Silvia                             - Ci aveste messo dell'intenzione.

Pedicò                           - E' il colmo! Vi presto un trattato per formare la vostra cultura giuridica e voi subito galoppate con la fantasia!

Silvia                             - Sono una ragazza!

Pedicò                           - E con questo? Forse che le donne non pos­sono intendersi di leggi?

Silvia                             -Io non Io so.

Pedicò                           - Ed io vi dico che se c'è un sesso che sembra destinato dalla natura a valersi dei cavilli più sottili questo è proprio il vostro.

Silvia                             - Approfitterò del consiglio.

Pedicò                           - E ora basta con le chiacchiere. Occupia­moci dello studio. Chi c'è di là?

Silvia                             - L'anticamera è piena di gente.

Pedicò                           - Bene. Lasciateli aspettare.

Silvia                             - Sono già irritati per l'attesa.

Pedigò                           - Dal medico non fanno la fila? Dunque, aspettino anche me. Capisco che non sono abituati a salire le scale d'uno studio d'avvocato. Vuol dire che la lezione sarà più efficace.

Silvla                             - Il più impaziente è il signor Calogero. Smania, sbuffa e son già tre volte che mi domanda: « Insomma questo avvocato mi riceve o no? Ditegli chi sono io ».

Pedicò                           - Tutti gli uomini sono uguali di fronte alla legge.

Silvia                             - Oh, ma lui è il più ricco del paese.

Pedicò                           - Non m'interessa affatto. (Si sente un ani­mato vocìo giungere di dentro). Guardate un po' che succede. (Silvia esce un momento e subito rientra).

Silvia                             - Gridano tutti contro Pillacchera e agitano dei logli.

Pedicò                           - Benissimo. Comincia il ballo. Fate entrare il signor Calogero, per favore.

Silvia                             - Subito. (Esce. Entra Calogero come una fu­riti. Tutta la sua persona spira opulenza. E' fuori di sì per la lunga attesa).

Calogero                       - Finalmente! E' più facile parlare con un ministro che con voi.

Pedicò                           - (calmo, offrendogli una sedia) Prego.

Calogero                       - (restando in piedi) Grazie. Ma resterò solo il tempo necessario per sapere che significa questo scherzo. (Mostra un foglietto).

Pedicò                           - (c. s.)  Se lo credete uno scherzo, perché vi agitate così?

Calogero                       - Insomma, volete spiegarmi?

Pedicò                           - (prendendo il foglietto) Mi pare che sia abbastanza chiaro. (Legge) «Egregio signor Calogero, il mio cliente signor Pillacchera m'incarica di comuni­carvi che non gradisce più la vostra presenza nelle im­mediate vicinanze della capanna di sua proprietà in cui ha stabile domicilio. Qualora non ottempererete al pre­sente invito, il signor Pillacchera si vedrà costretto a costruire un muro per tutto il raggio d'accesso a detta capanna, oltre tutte le altre azioni che la legge gli offre contro chi turba il libero godimento della proprietà. Di­stinti saluti. Firmato: avvocato Pedigò »... che sarei io! (Gli restituisce la lettera).

Calogero                       - E' impazzito Pillacchera? La capanna è mia come tutto il fondo.

Pedicò                           - Era vostra.

Calogero                       - Ma c'è l'atto d'acquisto che parla. Se ho permesso che quel vagabondo ci dormisse per tutti questi anni è solo per pietà. Lo sanno tutti. Ed ora ha l'impudenza di scrivermi in questi termini! (Straccia la lettera) Ma io lo butto fuori a calci lui e i suoi sporchi stracci. Diteglielo.

Pedicò                           - (c. s.) I calci non sono un argomento giu­ridico. Guardatevi dal farlo. La legge è contro di voi. « Chiunque turba con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione sino a due anni ». Due anni. E non ve li toglie nessuno.

Calogero                       - Così, secondo voi, la mia capanna sarebbe ora di Pillacchera.

Pedicò                           - Non sarebbe. 

Calogero                       - (ironico) Guarda... guarda...

Pedigò                           - Vi siete mai chiesto da quanti anni vive Pillacchera in quella capanna? No? Ebbene ve lo dirò io. Più di trenta. Possiamo provarlo. Dunque, la ca­panna non è più vostra.

Calogero                       - Ma chi lo dice?

Pedicò                           - (prendendo dalla scrivania il Codice e mo­strandolo) Questo libro.

Calogero                       - Cos'è?

Pedicò                           - Il Codice.

Calogero                       - Non lo conosco.

Pedicò                           - Male. Perché, a non leggerlo, vedete che succede? Un brutto giorno un Pillacchera qualunque viene da me e dice:        «Avvocato, vogliamo vedere insieme se troviamo qui dentro qualche paroletta che metta a posto il signor Calogero? ». lo gli rispondo: «Perché no, figliuolo? ». E così - cerca... cerca... troviamo una paroletta piccola così, una cosuccia da niente che a sentirla fa quasi ridere : « usucapione ». Ma appena Pil­lacchera la conosce si chiude nella capanna e quando voi vi affacciate per sloggiarlo, vi risponde: «Mi di­spiace, ma questa parola m'ha fatto padrone della ca­panna e dell'orto. E se mi seccate, chiamo le guardie ». (Chiude il Codice).

Calogero                       - (perplesso) Come si chiama quella parola?

Pedicò                           - «Usucapione». Non ve lo dico in latino per non impressionarvi. Ma vuol dire che chi possiede per trent'anni una cosa altrui, ne diventa proprietario.

Calogero                       - Ma ci vorrà pure qualche atto.

Pedicò                           - No. Bastano cinque requisiti. (Contando sulla punta delle dita) Il possesso deve essere continuo. E Pillacchera ci ha dormito ogni notte. Non interrotto. E voi non gli avete impedito di dormirci. Pacifico. E Pillacchera ci dormiva col vostro consenso. Pubblico. E lo sanno tutti in paese che per trovar Pillacchera basta andar lì. Non equivoco. E lui s'è comportato come proprietario, tanto che ha coltivato l'orticello. Dunque, ricorrono gli estremi richiesti dalla legge. Perciò la vostra capanna è ormai... (soffia sul palmo aperto della mano). E l'orto anche.

Calogero                       - (è smontato. S'asciuga il sudore).

Pedicò                           - Se volete sedere.

Calogero                       - Grazie. (Siede). Non c'è nulla da fare?

Pedicò                           - No. (Pausa. Ora lo domina, in piedi) Consi­derate che in quel libro (indico il Codice) ci sono ancora migliaia di parolette a disposizione di chiunque voglia servirsene contro di voi che siete così ricco.

Calogero                       - (rabbrividendo) Per carità!

Pedicò                           - Mi fate pena, così nudo.

Calogero                       - (che non capisce) Nudo?

Pedicò                           - Ma sì, esposto ai colpi del primo venuto. Come avete fatto a vivere sin ora? Avete visto? Man­giate, dormite, fate i vostri affari, credete di stare a posto. E invece il semplice trascorrere del tempo lavora contro di voi. E vi porta via la proprietà... Mentre state lì seduto che cosa prepara contro di voi il tempo che pur continua a correre?

Calogero                       - Tacete!

Pedicò                           - Tacere?... A proposito non avete mai pen­sato che anche il silenzio può portare a conseguenze giu­ridiche?

Calogero                       - Il silenzio?

Pedicò                           - Ma sì... Qualcuno vi scrive, proponendovi un affare... Ci sono dei termini... voi non rispondete... Domani il vostro silenzio è interpretato come un con­senso. Vi si chiedono i danni.

Calogero                       - Ma è terribile!

Pedicò                           - (si allontana, poi improvvisamente avvicinan­dosi a Calogero col dito puntato come se lo accusasse) E le radici? Per esempio, avete mai pensato alle ra­dici, voi che ne avete tante?

Calogero                       - Che radici?

Pedicò                           - Quelle dei vostri alberi dì confine con i fondi dei vicini. Camminano sotto terra. Voi non le ve­dete. Ma dove vanno?

Calogero                       - Che volete che ne sappia?

Pedicò                           - Ma è importante saperlo. A seconda che si addentrano di più nel vostro fondo o in quello del vi­cino, la cosa cambia da così a così.

Calogero                       - Possibile?

Pedicò                           - Se il vostro vicino s'intende di legge, un giorno o l'altro sapete che fa? Scava nel suo fondo, vede che le vostre radici giungono sin lì e vi pianta una bella causa.

Calogero                       - Povero me!

Pedicò                           - E i rami? Spero che almeno per quelli sa­rete in regola.

Calogero                       - (che comincia a tremare) Perché,, anche per i rami c'è pericolo?

Pedicò                           - Ma certo! Un ramo d'albero che entra nel fondo altrui, in mano ad un attaccalite sapete che di­venta? Una bella questione legale.

Calogero                       - Ahimè...

Pedicò                           - Quanti alberi avete?

Calogero                       - Chi può contarli? Sono migliaia...

Pedicò                           - Bene. Moltiplicate un po' il numero dei vostri alberi per il numero dei rami e vedrete...

Calogero                       - Oh, c'è da impazzire!

Pedicò                           - E i fusti? A seconda dell'altezza del fusto di un albero deve variare la distanza a cui si deve pian­tare l'albero dal confine del vicino. Tre metri per gli alberi di alto fusto: noci, castagni, querce, pini, olmi, pioppi, platani...

Calogero                       - (turandosi le orecchie) Basta! Basta!

Pedicò                           - (inesorabile) Un metro e mezzo per gli al­beri di non alto fusto: peri, meli, ciliegi...

Calogero                       - V'ho pregato: basta!

Pedicò                           - Come volete. Se credete di aver sempre ri­spettato la distanza che il Codice prescrive...

Calogero                       - Che ne so io? In paese nessuno ha mai piantato alberi col metro in mano.

Pbdicò                           - Male. Perché in ogni uomo che Oggi vi sa­luta e vi rispetta si nasconde un Pillacchera. Un giorno o l'altro il Pillacchera salta fuori e vi rovina.

Calogero                       - Povero me! Sono rovinato! Io dormivo tranquillo e intanto le radici... i rami...

Pedicò                           - (suggerendo) Il bestiame...

Calogero                       - (lamentosamente) Anche il bestiame... Ed io che ne ho tanto...

Pedicò                           - Se fossi in voi non starei ad aspettare che i vicini mi muovessero causa. Alberi avete voi... alberi hanno anche loro. E anche le loro radici camminano. Mi capite?

Calogero                       - (illuminandosi in viso) E' vero. Non ci avevo pensato. Alberi ho io... ma alberi hanno anche loro... E chissà quanti dei loro rami e delle loro ma­ledette radici... (Mostrando il pugno) Ma - giuraddio - se scopro che una sola delle loro radici si permette di entrare in un mio fondo gli faccio una causa così grossa che piangeranno per un pezzo! Vedranno chi è Calogero Migliorino. E come sa far rispettare i suoi diritti!

Pedicò                           - E' sempre meglio essere i primi ad agire.

Calogero                       - E dove c'è da agire, agiremo. Accettate di difendermi, avvocato ?

Pedicò                           -  Non sono il solo avvocato del paese. C'è anche Martinotti.

Calogero                       - Martinotti? Mi fate ridere. In dodici anni che è qui non ha mai fatto per me ciò che voi avete fatto in soli dieci minuti. No. Dovete assistermi voi. Tanto chi ve lo impedisce? La partita di Pillacchera è liquidata.

Pedicò                           - Gli riconoscete la capanna?

Calogero                       - Visto che non c'è niente da fare.

Pedicò                           - Niente.

Calogero                       - Avvocato, io corro a casa a fare un elenco di tutti i miei rapporti d'affari con la gente del paese e torno qui. Vedrete quante cause! Ci divertiremo, avvo­cato. Ci divertiremo. (Esce di corsa. Subito dopo entra Silvia).

Silvia                             - Ebbene?

Pedicò                           - L'ho sistemato io il vostro Creso.

Silvia                             - Nell'andarsene m'ha salutato gentilmente. Che gli avete detto per ridurlo cosi?

Pedicò                           - Segreto professionale.

Silvia                             - Di là è venuta ancora altra gente.

Pedicò                           - Uno per volta, li sistemeremo tutti i vostri concittadini. Fate passare il secondo.

Silvia                             - E' una donna. Una delle più ricche del paese. Piena di boria.

Pedicò                           - Troverà pane per i suoi denti. (Silvia esce e quasi subito entra Angelica Zummo, irritante e ciar­liera).

Angelica                        - (appena varcata la soglia, comincia a gridare) Sono la vedova Zummo. Ma è un sopruso. Un vero sopruso!

Pedicò                           - (calmo) Non siete l'unica vedova al mondo.

Angelica                        - Che c'entra mio marito? Dio l'abbia in pace. Parlo di Pillacchera, io. Quello che m'ha fatto Pillacchera è un sopruso. Querelare me, la vedova Zummo.

Pedicò                           - Ah, siete voi la signora che abbiamo querelato per ingiuria.

Angelica                        - Ingiurie? Ma il paese m'è testimone che non ho mai insultato nessuno, io. Sono un temperamento mite, checché ne pensasse mio marito.

Pedicò                           - Cara signora, i fatti sono fatti. E' vero o non è vero che siete proprietaria di un pappagallo di color verde, dell'apparente età di centocinquanta anni, che risponde - quando risponde - al nome di Cocò?

Angelica                        - Sì.

Pedicò                           - E' vero o non è vero che alle ore diciotto di ieri questo animale stava alla finestra della vostra abi­tazione situata in via del Gelsomino, 25?

Angelica                        - Sì.

Pedicò                           - E' vero o non è vero che al passaggio del signor Pillacchera codesta vostra bestia ha proferito pa­rola vituperevole al suo indirizzo e precisamente la parola: « porco »?

Angelica                        - Sì. Ma c'è un equivoco.

Pedicò                           - Signora, la giustizia tien conto dei fatti non degli equivoci. Fin ora i testi zoologici sono concordi nel non riconoscere ai pappagalli la facoltà d'intendere e volere. Pertanto il vostro Cocò deve considerarsi null'altro che uno strumento della vostra volontà. Strumento fatto da voi agire dolosamente in danno del mio cliente Pillacchera. E poiché, sino a prova contraria, la parola « porco » è un'attribuzione lesiva dell'onore di un cit­tadino, comunque si voglia considerare l'epiteto, sia sotto il profitto morale sia sotto il profilo sociale, abbiamo sporto contro di voi querela per ingiuria ai sensi dell'articolo 594 del Codice penale.

Angelica                        - Ma, avvocato, è questo l'equivoco. Sono vent'anni che Cocò ripete quella parolaccia. Nessuno se n'è mai offeso.

Pedicò                           - Cara signora, tutto il paese è padronissimo di farsi chiamare porco da voi a qualunque ora del giorno. L'ingiuria è un reato punibile solo a querela di parte. Perciò se nessuno protesta, voi siete a posto. Ma se qualcuno - Dio liberi! - vede nell'insulto non più una valutazione generica del genere umano, ma un'of­fesa specifica al suo onore e si rivolge al magistrato, voi siete condannata.

Angelica                        - Allora, avvocato, devo dirvi la verità. Sotto quella parola che Cocò ha l'abitudine di ripetere c'è tutta una storia.

Pedicò                           - Che volete darmi ad intendere?

Angelica                        - Ascoltatemi, per favore. Mio nonno non fu uno stinco di santo.

Pedicò                           - Che c'entra vostro nonno?

Angelica                        - Adesso capirete. Mio nonno condusse una vita galante che fu lo scandalo della nostra famiglia. Ri­dottosi vecchio e mezzo accidentato, non trovò di meglio per consolarsi della sua solitudine che prendersi in casa un pappagallo e insegnargli alcune canzoni che furo­reggiavano sui varietà dei suoi tempi.

Pedicò                           - Cocò?

Angelica                        - Cocò... E così finché la morte non lo colse.

Pedicò                           - Interessante. Ma non vedo ancora la rela­zione.

Angelica                        - La morte di mio nonno ebbe un brutto effetto sulla memoria di Cocò. Cominciò a dimenticare tutte le canzoni. Più gli anni passavano, più il suo repertorio si riduceva. Finché quando lo ereditai io, non ricordava che una sola canzone. Una vecchia canzone scollacciata che cominciava appunto con quella parola-Poi ha finito col dimenticare anche quella e s'è ridotto a ripeterne solo la prima parola.

Pedicò                           - Cara signora, in un solo caso potreste essere assolta. Evocando al processo l'anima di vostro nonno perché deponga in vostro favore.

Angelica                        - Così che io dovrei sedere sul banco degli imputati?

Pedicò                           - Senza dubbio, signora. Angelica   - Oh, che vergogna! Ma ci sarà pure un mezzo per evitare...

Pedicò                           - Certamente. Se Pillacchera vi ritira la que­rela.

Angelica                        - Inducetelo a farlo. Ve ne sarò grata.

Pedicò                           - (con sdegno) Signora, la mia opera è di­sinteressata. Voglio solo mostrare ai vostri concittadini a quali conseguenze può condurre l'ignoranza dei più elementari principi di diritto. E i pericoli ai quali tutti dico: tutti  siete esposti.

Angelica                        - Oh, per mio conto vi assicuro che non sarò più un passo senza consultare un avvocato. Se vo­lete curare i miei interessi...

Pedicò                           - Dopo il processo. Quando non sarete più mia avversaria.

Angelica                        - Siete proprio cattivo. Volete per forza che io sia condannata.

Pedicò                           - Non cerco la vostra condanna. Tant'è vero che indurrò Pillacchera a rimettervi la querela. Ma solo a dibattimento iniziato. Non posso rinunziare alla ma­gnifica occasione di mostrarvi a tutto il paese seduta, sia pure per cinque minuti, sul banco degli imputati.

Angelica                        - Ma io sono molto conosciuta. Sono una delle migliori signore del paese!

Pedicò                           - Appunto per questo. Che esempio, che le­zione per i vostri concittadini!

Angelica                        - Volete, dunque, rovinarmi?

Pedicò                           - Non vi ho detto che la querela vi verrà ri­messa? Dunque, che temete? Io faccio un favore a voi e voi ne fate uno a me. Cinque minuti a sedere.

Angelica                        - Siete sicuro che non sarò condannata?

Pedicò                           - Sicurissimo, (accompagnandolo) State tran­quilla. Soltanto non dite a nessuno che la cosa finirà bene per voi. Ma assumete un viso grave e compunto. E a chi vi interroga, rispondete: Ecco quel che succede a fare a meno degli avvocati.

Angelica                        - Ecco quel che succede a fare a meno degli avvocati.

Pedicò                           - Brava. Arrivederci.

Angelica                        - (mentre esce ripete ancora) Ecco quel che succede... (Via).

Pedicò                           - (affacciandosi nell'anticamera, grida) Chi viene appresso?

Rocco                            - (d. d.) Presente.

Pedicò                           - Avanti. (Entra Rocco. E' molto agitato).

Rocco                            - Avvocato, vengo a chiedervi giustizia.

Pedicò                           - Ve la farò dare.

Rocco                            - E' stato Pillacchera ad indirizzarmi qui.

Pedicò                           - Volete iniziare un giudizio? (Gli offre una sedia) Prego, come cliente avete diritto a tutti i riguardi. Esponetemi il vostro caso.

Rocco                            - No. E' contro Pillacchera che reclamo giu­stizia.

Pedicò                           - Ah! (Ritira la sedia) La questione cambia aspetto.

Rocco                            - Pillacchera m'ha rubato la più bella coppia di colombi che avevo. L'invidia di tutti.

Pedicò                           -  Rubati? Attento alle parole!

Rocco                            - Eppure non ci sono altre parole. Li ha rubati. E poi se li è mangiati. Sotto i miei occhi. Arrostiti a fuoco lento.

Pedicò                           - Aveva fame probabilmente.

Rocco                            - E si mangia proprio i miei? poi, per aggiun­gere le beffe al danno, a me che protestavo, ha detto: «Io sto a posto. Se non mi credi, rivolgiti al mio avvocato ». E m'ha dato il vostro indirizzo.

Pedicò                           - Un momento. Precisiamo. Avete una co­lombaia?

Rocco                            - Certamente.

Pedicò                           - E di lì i vostri colombi sono fuggiti?

Rocco                            - Sì.

Pedicò                           - A quel che so, anche Pillacchera possiede una colombaia.

Rocco                            - Sì. Ma non ha nulla a che fare con la mia. Possiede un solo colombo magro, striminzito e per di più cieco da un occhio.

Pedicò                           - Non importa. Potete affermare che Pillac­chera abbia attratto nella sua colombaia quella coppia di pennuti con arti o frodi?

Rocco                            - Io non l'ho visto, ma lo ritengo capace di tutto.

Pedicò                           - Finché non potete provarlo, Pillacchera è a posto. I colombi che passano da una colombaia ad una altra si acquistano dal proprietario di quest'ultima se non sono stati attirati con arte o frode. Le stesse norme val­gono per i conigli e per i pesci che passano da una co­nigliera o una peschiera ad altre.

Rocco                            - Ma, a memoria d'uomo, in questo paese quando i colombi o i conigli passano da un fondo all'altro, al proprietario che lì richiede si son sempre restituiti.

Pedicò                           - Hanno fatto male. Ignoravano il loro diritto. Pillacchera, per sua fortuna, non l'ignora e ne usa.

Rocco                            - Ma io stesso quando il cane da caccia del mio vicino, non più tardi di un mese fa, si rifugiò da me, a lui che lo chiedeva, lo restituii.

Pedicò                           - E faceste bene. Perché tutti gli animali man­sueti - cani, gatti, galline - sono rivendicabili nel ter­mine stabilito per le cose mobili e cioè due anni.

Rocco                            - (sempre più confuso) I colombi sì, i cani no.

Pedicò                           - E i pavoni entro venti giorni. I pavoni sono mansuefatti, non mansueti. Mentre i canarini apparten­gono a chi li trova.

Rocco                            - (prendendosi la testa fra le mani) Che guazzabuglio! Come si fa a raccapezzarsi?

Pedigò                           - Semplicissimo. Consultando un avvocato.

Rocco                            - Ma così anche prima di muovere un passo bisognerebbe chiamare l’avvocato! 

Pedigò                           - L’ideale sarebbe questo.

Rocco                            - Ma io so da me quello che posso fare e quello che non posso fare.

Pedigò                           - Credete di saperlo. E per provarvelo sceglierò un esempio fra mille. Possedete vacche?

Rocco                            - Naturalmente. Tutti ne abbiamo in questo paese.

Pedigò                           - Ebbene se una vostra vacca condotta da un  vostro contadino dà un bel morso nel di dietro di un vostro compaesano, voi che fate? Risarcite subito il danno, vero? Sborsate, cioè, la somma necessaria alla reintegrazione delle parti basse del vostro compaesano?

Rocco                            - Certo. La vacca è mia.

Pedicò                           - Piano, amico mio. A pagare e a morire c'è sempre tempo. Ammettiamo che il contadino conducesse la vostra vacca al pascolo per una via diversa dalla nor­male. E ciò per passare dinanzi alla propria fattoria e mungere un litro di latte in favore della propria fami­gliuola. Ebbene, amico mio, quel litro di latte vi salva.

Rocco                            - Mi salva? E come?

Pedicò                           - Sì. La vacca ha cagionato il danno nel per­correre una strada che serviva all'utilità personale del vostro contadino e non vostra. E poiché ognuno è re­sponsabile del danno cagionato da un animale per il tempo in cui se ne serve, vedete che spetta al conta­dino pagare e non più a voi che pur ne siete proprie­tario.

Rocco                            - Magnifico! Ed io, stupido, avrei pagato... Adesso che lo so, vorrei proprio che una mia vacca co­minciasse a dar cornate a destra e a manca... Rideremmo! Caro avvocato, dite a Pillacchera che si tenga quei co­lombi. (Allegro) E noi probabilmente ci rivedremo fra non molto... Ho un certo progetto... Basta. Per ora non posso dirvi altro. Arrivederci, avvocato. (Esce).

Pedicò                           - (affacciandosi nell'anticamera, grida) Sotto a chi tocca! (Entra Vincenzo il mediatore),

Vincenzo                       - Avvocato, io sono qui per un chiodo.

Pedicò                           - Un chiodo? Volete dire un debito?

Vincenzo                       - Ma no! Un vero chiodo. Di ferro. Che cos'è un chiodo? Niente... eppure... Oh, povero me!

Pedicò                           - Un momento. Procediamo con ordine. A chi appartiene questo chiodo?

Vincenzo                       - A Pillacchera.

Pedicò                           - (che ha capito) Ah, ma forse voi volete parlare di un rampino che è infisso nella parete esterna della capanna di Pillacchera? E al quale voi avete la deplorevole abitudine di legare la vostra mula?

Vincenzo                       - Chiamatelo rampino. Ma per me è un chiodo. Per di più arrugginito.

Pedicò                           - Questo non influisce sulla questione. Potete provare con un documento che Pillacchera vi abbia con­cesso l'uso di quel rampino nella quotidiana sosta della vostra mula prima di entrare in paese?

Vincenzo                       - Provarlo? Ma se ho sempre legato lì la mula. A che servirebbe altrimenti quel chiodo così in vista?

Pedicò                           -  Ogni proprietario pianta i suoi chiodi dove più gli piace.

Vincenzo                       - Ma il signor Calogero...

Pedicò                           - (interrompendolo) Alt. La capanna non ap­partiene più al signor Calogero. Quindi se Pillacchera ora vi chiede un canone per l'uso di quel chiodo, è nel suo pieno diritto.

Vincenzo                       - Ahimè, sono così povero!

Pedicò                           - Povero? Lo credete voi... (Prende dalla scri­vania un blocco per appunti e legge) Vent'anni fa morì, senza fare testamento, un vostro zio che lasciò un'eredità a voi e ad altri parenti. Voi eravate in America. Al vostro ritorno, due anni fa, i vostri parenti si rifiutarono di cedervi i beni di cui erano in possesso, affermando che voi non avevate più diritto alla successione per non aver mai accettato l'eredità.

Vincenzo                       - Infatti. Non lo feci. E quando ritornai, mi spiegarono che se una eredità non si accetta, non li può più reclamarla.

Pedicò                           - E vi rassegnaste.

Vincenzo                       - Che altro potevo fare?

Pedicò                           - La facoltà di accettare un'eredità dura trent'anni. Potete ancora agire.

Vincenzo                       -  Come?... Trent'anni? Trent'anni? (Sempre più allegro) Ma allora i miei cugini dovranno sputar fuori la mia roba!

Pedicò                           - S'intende.

Vincenzo                       - Ah, che notizia mi date! Io non sono più povero. Sono ricco. Ricco!

Pedicò                           - Però bisogna fargli prima causa.

Vincenzo                       - Ma cento cause faccio, se le cose stanno così. Se sapeste come mi rodevo il fegato quando pas­savo dinanzi ai loro poderi con la mia vecchia mula! Voglio godermi la faccia che faranno quando gli man­deremo l'ufficiale giudiziario... Perché bisogna far presto, avvocato. Presto, che son già tanto vecchio.

Pedigò                           - Faremo prestissimo. Ma prima bisogna met­tere a posto il chiodo di Pillacchera.

Vincenzo                       - (sempre allegro) Il chiodo? Ma ditegli che glielo faccio d'oro. Sì, d'oro. E anche la mula gli dò, se la vuole. Che m'importa ormai?

Pedicò                           - In questo caso sono a vostra disposizione.

Vincenzo                       - Domani son qui con i documenti. Biso­gna far presto. Son vecchio e voglio godermi la roba. Pazzie voglio fare. Pazzie. (Esce, sulla soglia s'imbatte in Silvia che sta entrando e le grida ancora) Pazzie!

Silvia                             - Che è accaduto a Vincenzo?

Pedicò                           -  Quasi niente. Credeva d'esser povero e in­vece è ricco.

Silvia                             - (sta un po' a considerarlo) Avvocato io non so che diciate a questa gente per trasformarla così, ma una volta ho letto un romanzo in cui c'era un uomo come voi.

Pedicò                           - Come me?

Silvia                             - Sì, forte, dominatore... Bastava che lui appa­risse e tutti si piegavano alla sua volontà. Questo uomo io l'immaginavo alto, nerboruto, con due braccia capaci di abbattere un toro. Adesso mi accorgo che si può avere il vostro aspetto e dominare tutti.

Pedicò                           - Non so se debbo ringraziarvi od offendermi. Comunque, per disincantarvi, vi dirò che la mia forza è come la luce della luna.

Silvia                             - Non vi capisco.

Pedicò                           - La luna illumina, ma la sua luce è rubata al sole. Il mio potere è attinto a quei libri (indica i libri).

Silvia                             - Lasciate allora che anch'io diventi forte. Pre­statemi un po' di quei libri.

Pedicò                           - Perché?

Silvia                             - Vorrei capire perché fra tutti gli inquilini Che hanno alloggiato qui voi siete l'unico che ancora non m'abbia fatto la corte.

Pedicò                           - Cara signorina, tutto ciò che è impegnativo ripugna al mio spirito. E io non vedo nulla di più terribilmente impegnativo di codesta specie d'assedio che voi chiamate « corte ».

Silvia                             - Mi meraviglio di voi. Dite d'essere esperto di leggi e poi finirete d'ignorare che persino la promessa scambievole di futuro matrimonio non produce obbliga­zione legale di contrarlo.

Pedicò                           - Santo cielo! Dove l'avete imparato?

Silvia                             - Nel libro sul matrimonio che m'avete prestato.

Pedicò                           - Non perdete tempo!

Silvia                             - Non vi nascondo che sono rimasta sorpresa Dell'apprendere che si può giungere ad illudere una ra­gazza sino a quel punto, senza essere punito. Ma poi ho capito la lacuna della legge. Sfido! Siete stati voi uomini a tarla.

Pedicò                           - Codesta interpretazione della legislazione vi­gente è veramente originale.

Silvia                             - Non m'importa se è originale o meno. Il fatto è che è così. E allora che aspettate ad approfittarne? Qualunque cosa mi diciate, siete al sicuro. La legge è con voi.

Pedicò                           - Signorina, voi certo non ne avete sentito mai parlare. Ma c'è anche un Foro interno.

Silvia                             - Dov'è?

Pedicò                           - E' un Foro metafisico, non reale. Foro in­terno, cioè coscienza, che vieta quello che SI Foro esterno, cioè la legge, spesso permette. Questa distin­zione accompagna tutti gli atti dell'uomo e ad essa vo­glio mantenermi costantemente fedele.

Silvia                             - (deluso) Buon prò vi faccia! (Si sente bus­sare di dentro).

Pedicò                           - Chi è?

Pillacchera                     - (d. id.) Sono io, Pillacchera.

Pedicò                           - Avanti. (Entra Pillacchera. Indossa un abito nuovo. Anche le scarpe sono nuove, lucidissime. Perciò fa maggior contrasto la sua camicia sfilacciata, priva di cravatta. Regge un grosso libro con la mano destra). Dove hai preso quel vestito? Restituiscilo subito.

Pillacchera                     - Perché? Non si tratta di quello che pensate, ma di una spontanea offerta del sarto locale.

Pedicò                           - A che titolo?

Pillacchera                     - E che ne so? Ha tanto insistito perché lo prendessi.

Pedicò                           - Come farai a pagarlo?

Pillacchera                     - E' quel che gli ho detto anch'io. Ma lui m'ha risposto che danari non ne vuole. S'accontenta della mia amicizia.

Pedicò                           - La tua amicizia?

Pillacchera                     - Sì. M'ha fatto giurare che non gli tarò mai causa.

Pedicò                           - (scoppia a ridere).

Pillacchera                     - Già. E pare che non sia il solo ad aver paura di me. Perché anche queste scarpe le ho avute allo stesso prezzo. Per là camicia e la cravatta non mi è stato possibile giungere ad un accordo. Ma non è detta l'ultima parola. Ripasserò.

Pedicò                           - Ma chi credi d'essere diventato?

Pillacchera                     - Io non lo so. Domandatelo ai miei compaesani che adesso mi salutano e fan largo quando passo, manco fossi la statua del Santo Patrono.

Pedicò                           - Bada, Pillacchera, non esagerare.

Pillacchera                     - Io mi diverto. E se altra roba ha da venire, l'aspetto a pie fermo. (Batte con una mano sul libro).

Pedigò                           - Dove hai preso quel libro?

Pillacchera                     - Acquisto rateale. In due giorni e due notti me lo son letto tutto. (Barcolla).

Pedicò                           - Tu hai bevuto.

Pillacchera                     - Non lo nego. Come si fa a dir di no quando tutti vogliono pagarti da bere?... Bevi, com­pare... Bevi, compare... E il compare (indica se stesso) beve... (Ride). Permettete? (Siede) E adesso ditemi perché mi avete chiamato...

Pedicò                           - Devi firmare un atto. Ecco. (Gli porge un foglio in bollo) E' la rinunzia alla querela contro la vedova Angelica Zummo. (Porgendogli una penna) Devi firmare qua (gli indica la fine del foglio). Firma!

Pillacchera                     - Un momento, avvocato. Fatemi prima leggere quello che c'è scritto.

Pedicò                           - (sbalordito) Come? Vuoi leggere? E' inau­dito. Non ti fidi più di me dopo quello che ho fatto per te?

Pillacchera                     - Non è che non mi fido. Son pronto a firmare, si capisce. Ma gli è che - vedete - prima Pil­lacchera non sapeva quello che valeva e adesso in­vece... Insomma, ho o non ho il diritto di leggere quello che devo firmare?

Pedicò                           - (c. s.)  Hai il diritto.

Pillacchera                     - E allora se è un mio diritto, lascia­temi leggere. (Comincia a leggere, fra lo stupore di Pedigò e di Silvia. Irrompe in iscena Calogero, fuori di sé, agitando un foglietto).

Calogero                       - Avvocato, avvocato. Questo è troppo.

                                      - (Scorgendo Pillacchera) Ah, sei qui? cercavo proprio te.

Pedicò                           - (a Calogero) Un momento. La questione della capanna è già regolata. Non potete tornare sulle vostre decisioni.

Calogero ,                     - Si tratta di ben altro. Ascoltate. (Leg­gendo il foglio 'che 'ha tra le mani) « Caro Calogero... Vi invito a cambiar colore alla facciata del vostro stabile su cui guarda la mia capanna. Il grigio topo è un colore troppo deprimente per il mio spirito. Potete scegliere fra il rosa pallido e l'azzurro. Non escludo il carnicino leggermente sfumato. Avete ventiquattr'ore di tempo. Altrimenti vi farò causa. Il non più vostro devotissimo Pillacchera ».

Pedicò                           - (guardo interrogativamente Pillacchera).

Pillacchera                     - (indica il libro che stringe sempre fra le mani, strizzando l’occhio).

Pedicò                           - (sorride, poiché ha capito. E siede alla scri­vania, godendosi lo spettacolo di Calogero e Pillacchera che litigano).

Calogero                       - (non si è accorto di nulla. A Pillacchera)  Cos'è, credi di farmi paura? Ma la casa almeno è mia e la dipingo come voglio.

Pillacchera                     - (sicuro) No. Perché mi danneggiate.

Calogero                       - Ti danneggio? E come?

Pillacchera                     - Impedendomi di lavorare.

Calogero                       - Che c'entro io col fatto che tu sei un vagabondo?

Pillacchera                     - Bravo. Un vagabondo. Ma la colpa di chi è? Vostra.

Calogero                       - Mia?

Pillacchera                     - Sì. Perché la mattina, quando io sono ancora a letto, mi sento pieno di energia, di slancio, di iniziative. La vita mi sorride e io sorrido alla vita. Ma basta che mi alzi e dia una sola occhiata a quel vostro sporco muro perché i progetti più belli sfumino e la voglia di lavorare vada a farsi benedire. E non mi resta che tornarmene a letto. Ora se non lavoro, non guadagno. Dunque pagatemi quello che perdo.

Calogero                       - Io non ti dò un centesimo.

Pillacchera                     -E io vi faccio causa.

Calogero                       - Perderai.

Pillacchera                     - No.

Calogero                       - Sì.

Pillacchera                     - Vi sbagliate.

Calogero                       - E che ne sai tu?

Pillacchera                     - (con fina risatina) Aah! Un mo­mento. (Apre il libro ad un punto già indicato da un segnalibro) Eccolo! (Legge) «Articolo 1151. Qualunque fatto dell'uomo che arreca danno ad un altro, obbliga quello per colpa del ;quale il danno è avvenuto... ».

Pedicò                           - (dal suo posto, completando) ...a risar­cire il danno.

Pillacchera                     - Benissimo. (Richiude il libro con un colpo secco).

Calogero                       - Ah, te ne approfitti perché in questo momento non ho anch'io a disposizione un libro così grosso. Ma per fortuna c'è qui l'avvocato e lui ti dirà che hai torto. (A Pedigò) E' vero, avvocato?

Pedicò                           - (levandosi, solenne)Signori, sin dal Di­ritto romano si discute se un proprietario può fare sulla sua proprietà tutto quello che vuole. Molti di­cono di sì.

Calogero                       - (trionfalmente, a Pillacchera)  Hai sen­tito?

Pedigò                           - E molti dicono di no.

Pillacchera                     - (trionfante, rifacendo il verso a Calo­gero)  Hai sentito?

Pedicò                           - (c. s.) La giurisprudenza è oscillante. (Si rimette a sedere).

Calogero                       - La giur... la giur... sì, insomma, quella cosa lì può oscillare fin che le pare. Ma noi no, non oscillo io.

Pillacchera                     - E cosa credete? Che sia tipo da oscillare io?

Calogero                       - Comunque tu non t'ingrasserai più alle mie spalle.

Pillacchera                     - Se c'è qualcuno tra noi due che s'è ingrassato alle spalle dei poveri quello siete proprio voi. Del resto basta guardare voi e me:

Calogero                       - La mia proprietà è frutto del mio la­voro.

Pillacchera                     - E la mia dei miei sacrifici.

Calogero                       - Sacrifici? E quali?

Pillacchera                     - (lirico) Trent'anni di attesa. Vi par poco?

Calogero                       - Ah, la prendi su questo tono? Ebbene allora t'avverto che dipingerò tutta la casa di nero.

Pillacchera                     - Guardatevi dal farlo. Vi diffido.

Calogero                       - Tu hai il coraggio di diffidare me?

Pillacchera                     - Sì.

Calogero                       - E con qual diritto?

Pillacchera                     - (battendo un pugno sul libro che ora stringe al petto) La legge. Che è dalla mia parte. (Lirico) Perché io ho già delle crisi di malinconia a causa di quel muro. Se il grigio topo diventerà nero, è probabile che giunga ad una concezione pessimistica del mondo e commetta qualche sproposito del quale fin da ora vi tengo responsabile.

Calogero                       - (a Pedigò) Ma avvocato, quest'uomo non ragiona. S'è mai sentito nulla di simile? Diteglielo voi.

Pedicò                           - (alzandosi, sempre solenne) Nella sua igno­ranza Pillacchera ha toccato una questione molto di­battuta. Sono risarcibili i danni morali? Molti dicono di no.

Calogero                       - (a Pillacchera) Hai visto?

Pedicò                           - E molti dicono di sì.

Pillacchera                     - (a Calogero) Hai visto?

Calogero                       - Ebbene, io sosterrò che quel nero serve ad impedire il riflesso del sole nel mio appartamento e perderai.

Pillacchera                     - Ed io sosterrò che toglie luce alla mia capanna e vincerò.

Calogero                       - Ed io troverò altri argomenti.

Pillacchera                     - Anch'io.

Calogero                       - Porterò testimoni.

Pillacchera                     - Non li troverete.

Calogero                       - Li pagherò.

Pillacchera                     - Ed io li denuncerò.

Calogero                       - (sempre più in collera) Senti, a costo di mangiarmi in carta bollata tutta la mia proprietà. questa volta non te la dò vinta.

Pillacchera                     - A costo di rimetterci l'intero mio stabile, vi darò del filo da torcere.

Calogero                       - Ti sbagli. Perché io litigherò fin che vivo e vedrò la tua fine.

Pillacchera                     - E io litigherò finché vivrete voi e siccome siete più vecchio di me, sarò io che vedrò la vostra fine.

Calogero                       - (esplodendo) Ah, questo è troppo! (Bran­dendo una sedia) Non so chi mi tenga dal farmi giu­stizia da me.

Pillacchera                     - (correndogli incontro, allegro) Percuotetemi. Percuotetemi pure. Così invece di una vi faccio due cause.

Calogero                       - (c. s.) Ah, basta! (Minaccioso) Ci rive­dremo! (Corre per uscire).

Pedicò                           - (suggerendo forte a Calogero) In Pretura!

Calogero                       - (cogliendo a volo la finse) Ecco: in Pretura!

Pillacchera                     - Ed io... (Si rivolge a Pedigò come attendendo l'imbeccata).

Pedicò                           - (a Pillacchera) In Tribunale!

Pillacchera                     - In Tribunale!

Calogero                       - Ed io...

Pedicò                           - In Corte d'Appello!

Calogero                       -  In Corte d'Appello!

Pillacchera                     - Ed io...

Pedicò                           - In, Cassazione!

Pillacchera                     - (che fraintende) Alla stazione!

Calogero                       - Alla stazio... macché stazione! (Esce furibondo dalla porta opposta a quella da cui esce Pillacchera)

Silvia                             - (è rimasta stupita dall’uscita improvvisa dei due).

Pedigò                           - (allegro, in piedi, accanto alla toga appesa al muro, rivolto al pubblico) Vedete? Questi due buoni villici si sono già permeati di spirito giuridico! (a Silvia, indicando la porta dalla quale entrano i clienti) Sotto a chi tocca!

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

Sono passati due anni. La stessa scena del primo e secondo atto, ma i mobili sono tutti cambiati. Lo studio è divenuto elegantissimo e moderno. Due scrivanie. Telefoni. Ad una di queste scrivanie è seduta Silvia, intenta a scrivere. Sull’altra, dell’Avvocato Pedigò, è un vaso con dei garofani rossi. Di dentro si ode a tratti il ticchettio delle macchine da scrivere.

(Squilla un telefono e Silvia risponde)

Silvia                             - Studio dell’avvocato Pedigò…. No, l’avvocato è in udienza…. Un congresso con l’avvocato? L’avvocato ha tutta la settimana impegnata…. Potrei fissarvi un appuntamento solo nella prossima settimana…. Se non volete aspettare, rivolgetevi a qualche altro avvocato del paese. Ce ne sono tanti…. No? Volete parlare proprio con l’avvocato Pedigò?.. allora guardo subito. (Consultando un’agenda) Ecco, martedì no… mercoledì nemmeno… avrei libero venerdì… sì alle cinque. Sta bene. (segna sull’agenda) Buongiorno. (Depone il ricevitore. Entra la dattilografa. Indossa un grembiule nero. Porta dei fogli dattilografati)

La prima dattilografa    - Ho finito di copiare la comparsa della causa Altovetti-Bandini.

Silvia                             - (esaminando i fogli) Signorina, vi ho già detto che le copie in velina debbono essere cinque.

La prima dattilografa    - Credevo che quattro bastassero.

Silvia                             - No. Perché in questa causa gli avversari sono due. Dunque, una per ogni avvocato di parte avversa. Una copia per i giudici, una copia per noi. E un’altra per il cliente. Ne manca una.

La prima dattilografa    - Non ho pensato al cliente.

Silvia                             - Male. Il cliente innanzi tutto. Fate subito un’altra copia. L’originale l’avete voi?

La prima dattilografa    - Si.

Silvia                             - Andate e mandatemi la vostra collega. (la dattilografa esce. Squilla il telefono. Rispondendo) Pronto? Studio Avvocato Pedigò. No, con la segretaria…. L’avvocato ha già presentato i motivi d’appello…. Si state tranquillo…. Sta bene. Riferirò. (depone il ricevitore. Entra la seconda dattilografa)

La seconda dattilografa                                      - Avete bisogno di me?

Silvia                             - Avete finito di copiare il ricorso Cioccolini?

La seconda dattilografa                                      - Non ancora.

Silvia                             - Affrettatevi, perché c’è altro lavoro per voi. (le da dei fascicoli)

La seconda dattilografa                                      - (sta per uscire)

Silvia                             - Aspettate. Dove avete messo il fascicolo Sinibaldi?

La seconda dattilografa                                      - E’ qui. (apre un cassetto della scrivania, tira fuori un fascicolo e lo da a Silvia)

Silvia                             - (esaminando il fascicolo) Signorina, è questo il modo di cucire i fascicoli? Guardate! I punti sono così lenti che i fogli ballano. Quante volte devo ripetervi che i fascicoli di causa vanno compilato con estrema precisione? Spesso l’esito di un giudizio dipende dal modo come si presenta un fascicolo. Abbiate la bontà di rifarlo. (glielo da. Si ode un rombo di automobile che si arresta) Guardate, per favore, se è l’avvocato.

La seconda dattilografa                                      - (affacciandosi alla finestra) No. È l’automobile dell’ufficiale giudiziario.

Sivia                              - Grazie. Potete andare. Chi c’è di là?

La seconda dattilografa                                      - Sei o sette clienti.

Silvia                             - Dite loro che l’avvocato sarà qui a momenti.

La seconda dattilografa                                      - Sta bene. (esce. Pausa. Entra l’ufficiale giudiziario Mininni. Non è più l’uomo avvilito del primo atto. Veste bene ed è allegro. Porta molti fogli in bollo che minacciano di cadere da ogni parte).

Mininni                         - (rovesciando i fogli sulla scrivania)Buongiorno signorina. Ecco le citazioni notificate nel primo giro. Adesso compio il secondo.

Silvia                             - Smistatele, per favore.

Mininni                         - (esegue parlando) Se il lavoro prosegue con questo ritmo non c’è davvero tempo da arrugginire.

Silvia                             - Siete soddisfatto?

Mininni                         - Amo il mio mestiere e provo piacere nel vedermi valorizzato. Perciò sono grato all’avvocato Pedigò. Del resto tutti qui gli sono grati. Quello che ha fatto in due anno per lo sviluppo del nostro paese salta agli occhi di ognuno.

Silvia                             - L’avvocato Pedigò è un uomo eccezionale.

Mininni                         - Dite pure “unico”. A chi dobbiamo se il nostro paese è diventato prima sede di Pretura, poi di Tribunale e ora sta per diventare sede di Corte d’Appello?

Silvia                             - E’ stata dunque approvata la proposta?

Mininni                         - Con procedura d’urgenza. Quando alla Capitale si sono accorti che qui passiamo tutto l’anno a litigare, volevano darci subito la Corte d’Appello. Bisognerà invece attendere ancora un po’ per lo sviluppo della pratica. Ma state tranquilla che ci arriveremo. Nessun altro paese la merita più di noi.

Silvia                             - Senza dubbio. Nessun paese contribuisce come il nostro allo sviluppo della giurisprudenza.

Mininni                         - Dite pure che di nessun altro paese si parla tanto frequentemente nelle cronache giudiziarie dei giornali. È passato quel tempo in cui nessuno ci nominava. In tutta la Nazione ormai devono aver capito che se vogliono una bella questione di diritto, una causa elegante, un cavillo sottile devono venir qui da noi. Possiamo dar lezioni a chiunque, ormai. (di dentro si ode la voce di Marta)

Marta                            - (d.d.) Permesso? (e senza aspettare la risposta, entra)

Silvia                             - Mamma, t'ho già detto di non disturbarmi nelle ore d'ufficio.

Marta                            - Hai ragione. Ma si tratta di una novità che ti farà piacere. L'ho saputa appena ora.

Silvia                             - T'ascolto.

Marta                            - Giovanni il bovaro e Michele Muffa final­mente hanno litigato.

Silvia                             - Davvero? Questa sì che è una bella novità.

Mininni                         - Si sono decisi! Era insopportabile la loro mancanza di aggressività giudiziaria. Era una vergogna per il paese.

Marta                            - E sapete perché? Per un cavallo. E' andata così. Michele Muffa vendette tre giorni fa a Giovanni un cavallo. Giovanni oggi s'è accorto che il cavallo è bolso e voleva restituirlo a Muffa e riprendersi i soldi. Ma Muffa ha rifiutato dicendo che Giovanni sapeva be­nissimo il difetto del cavallo.

Mininni                         - Si tratta d'un vizio occulto. E il venditore risponde sempre del vizio occulto.

Silvia                             -  Piano! Bisogna accertare se il venditore ignorava il vizio.

Marta                            - Ma no! Anche in tal caso risponde.

Silvia                             -  In ogni caso è tenuto a riprendersi il ca­vallo.

Marta                            - Ma sì. Il compratore può pretenderlo.

Mininni                         -  Nemmeno per idea! Solo la restituzione del prezzo.

Marta                            - Bravo, E il danno? Il danno chi lo risarcisce?

Mininni                         - Insomma, volete saperlo meglio di me? Vi leggerò l'articolo del Codice.

Marta                            - Leggetelo. Vedrete che ho ragione io.

Mininni                         - (trae un Codice dalla tasca e legge)  « Ar­ticolo 1498. Il venditore è tenuto a garantire la cosa venduta dai vizi o difetti occulti che la rendono non atta all'uso cui è destinata o che ne diminuiscono l'uso in modo che se il compratore... ».

Silvia                             - (che intanto ha tratto un altro Codice dalla tasca, continua a leggere) « ...li avesse conosciuti o non l'avrebbe comprata o avrebbe offerto un prezzo mi­nore.

Marta,                           - (che a sua volta ha tratto un Codice dalla tasca del grembiule) Perché non leggete appresso? «Se il venditore conosceva i vizi della cosa venduta, è tenuto oltre alla restituzione del prezzo ricevuto, al risarci­mento dei danni verso il compratore... ».

Calogero                       - (d. d.) Permesso?... Permesso?... (s'affaccia. Entrando) Ho chiesto due volte permesso. Nessuno m'ha risposto.

Marta                            - Si discuteva il caso di Michele Muffa. Che ne pensate?

Calogero                       - E' una questione un po' complessa, perché l'articolo 1498... (Caccia dalla tasca un Codice, lo apre, sta per leggerlo, ma si ferma vedendo che gli altri tre stanno in ascolto con i Codici in mano. Subito il suo aspetto si fa grave) Ah, io non mi pronunzio. Ci sono testimoni. Non vorrei che domani Michele Muffa inter­pretasse le mie parole come un apprezzamento poco lu­singhiero della sua condotta... Ci vuole così poco a co­stituire il reato di diffamazione. (Chiude il Codice e lo ripone in tasca. Silvia, Marta e Mininni intascano frettolosamente i Codici).

Mininni ---------------- - Che diavolo, siamo fra amici.

Calogero                       - Si dice sempre così. (Guardandosi in­torno) Non è per diffidenza, ma io ora procedo con i piedi di piombo.

Marta                            - Fate bene. Chi è più ricco è più esposto.

Calogero                       - (pronto) Tutti siamo esposti. Anche voi.

Mininni                         - Calma, signori. Si discuteva del caso Muffa...

Calogero                       - E' cosa che non mi riguarda. (A Silvia) Tarderà molto l'avvocato?

Silvia                             - No.

Calogero                       - Se permettete, vorrei attenderlo qui. L'an­ticamera è piena di gente.

Silvia                             - Sono clienti come voi.

Calogero                       - Come me? Signorina, la vita giuridica di questo paese comincia da me.

Marita                           - Perché, se è lecito?

Calogero                       - Per la mia capanna sorse la prima que-stione legale. E' dunque ad essa che dovranno rifarsi gli storici futuri se vorranno capire qualche cosa del pro­gresso raggiunto poi dal paese.

Silvia                             - Nessuno contesta questo vostro privilegio.

Calogero                       - Oggi. Ma in avvenire? Perciò - per ga­rantirmi - domani farò murare, col permesso di Pil­lacchera, una lapide sulla capanna.

Silvia                             - Una lapide? E che ci scrivete?

Calogero                       - Tutto latino. Si capisce poco. Ma in italiano suona così (trae un biglietto dalla tasca e legge): «Fa in questa capanna - per il cui possesso combatterono Calogero e Pillacchera - che questo paese aprì gli occhi alla luce del Diritto. A futura memoria Calogero pose. Passante, scopriti e medita».

Mininni                         - Magnifico.

Calogero                       - Grazie. Non c'è male. (Ripone il biglietto con cura nel portafogli. Entra la prima dattilografa).

La prima Dattilografa   - (a Silvia) Scusate, c'è il signor Fumo.

Marta                            - Fumo? E chi è?

Mininni                         - Aspettate. Questo nome non mi è nuovo.

La prima Dattilografa   - Dice di esser stato convo­cato qui dall'avvocato per una questione urgente.

Silvia                             - Fumo? Un tempo abbiamo avuto un cliente che si chiamava così. Ma adesso non mi riesce di ri­cordare.

Marta                            - Fallo passare e vediamo chi è.

Silvia                             - (alla dattilografa) Sì. Lasciatelo entrare. (La prima dattilografa esce).

Calogero                       - Con questo Fumo io devo aver trattato una volta.

Mininni                         - Il paese ormai ha assunto un tale svi­luppo che non ci si conosce più. (Entra Pillacchera. E' elegantissimo, disinvolto, sicuro di sé. E' così trasfor­mato che intimidisce).

Pillacchera                     -  Buongiorno a tutti.

Calogero                       - Ma è Pillacchera.

Pillacchera                     - Prego. Io sono il signor Filippo Fumo.

Calogero                       - Scusate. L'abitudine...

Pillacchera                     - Abitudine? Non credo che i nostri rapporti del passato, del resto pienamente definiti e re­golati, vi autorizzino ad assumere codesto tono confi­denziale che mi annoia prima di offendermi.

Marta                            - (con ammirazione) Ma sentitelo come parla. Non sembra più lui.


Piluccherà                     - Infatti, signora. Col vostro buon senso tutto femminile, avete intuito una realtà che il signore (indica Calogero) stenta ancora a capire.

Silvia                             - Siete proprio voi... signor Fumo.

Piluccherà                     - Precisamente, signorina. Se per con­vincervi avete bisogno d'un documento, eccovi la mia carta (porge un biglietto da visita).

Silvia                             - (leggendo) Filippo Fumo. Uomo d'affari.

Mminni                         - Che genere d'affari?

Piluccherà                     - Tutti i generi. Purché nell'ambito della legge. Perché io ho il feticismo della legge. E non faccio nulla che non sia strettamente legale.

Silvia                             - Ma di che vi occupate particolarmente?

Pillacchera                     - Non faccio discriminazioni. Lo sfrut­tamento di un brevetto, il lancio di un dentifricio, la vendita di una casa, il collocamento di un'idea sono per me sullo stesso piano. Accetto tutto perché l'esperienza m'ha dimostrato che da ogni cosa si può trarre un utile. (Dà un'occhiata di disprezzo a Calogero).

Silvia                             - Ed avete fatto fortuna a quel che vedo.

Pillacchera                     - Non posso lamentarmi.

Marta                            - E pensare che qui nessuno vi stimava.

Pillacchera                     - « Nemo propheta in patria».

Calogero                       - Anche il latino?

Piluccherà                     - Oh, appena una verniciatura. Quel tanto che basta per gettare una massima nel mezzo di una conversazione d'affari e disorientare gli avversari.

Silvia                             - Come l'avete imparato?

Piluccherà                     - Oggi la cultura è a buon mercato. Ci sono manualetti accessibili a tutti. L'importante non è sapere, ma dare l'impressione di sapere.

Marta                            - Straordinario!

Pillacchera                     - Oggi si dice che l'abito non fa il monaco. Mentre duemila anni fa sì diceva: «Barba non facit philosophum ». La barba non fa il filosofo. Questo che prova? Che la gente oggi è stupida tale quale due­mila anni fa. Perché se c'è qualche cosa che influisce sull'opinione che di noi si formano gli altri, è proprio il nostro aspetto. Tant'è vero che finché ero vestito di stracci tutti mi trattavano a calci (rivolto a Calogero), mentre oggi, che una sei cilindri fuori serie porta in giro le mie ben ricoperte membra, tutti mi fanno tanto di cappello.

Mininni                         - Giustissimo.

Marta                            - Come parlate bene.

Piluccherà                     - Per me ci voleva la grande città. Solo a contatto della tumultuosa vita della metropoli è venuta fuori la mia vera personalità. (Consultando l'o­rologio da polso) Ma... « ruit hora ». Il tempo passa. E l'avvocato è in ritardo di sette minuti. Per il mio carattere ho già atteso abbastanza. Mi farete il favore di dirgli che se vuol parlarmi venga lui da me. Alloggio all'albergo Splendido. L'attenderò dalle otto alle otto e mezzo. Dopo di che riprenderò il rapido per la ca­pitale. Signori, buongiorno a tutti. (S'avvia, ma sulla soglia si ferma) E se venite in città non dimenticate di farmi una visita. Potrei avere l'appartamento, l'impiego, l'auto, la radio, l'azienda o il socio che fanno al caso vostro. (Esce).

Marta                            - Pillacchera! Chi l'avrebbe mai creduto!

Calogero                       - Io ho sempre pensato che in lui c'era della stoffa.

Marta                            - Voi? Fatemi il piacere.

Calogero                       - Certo. Quello che fece a me bastò ad aprirmi gli occhi.

Marta                            - Io piuttosto ho sempre detto che era un ragazzo intelligente e mi dispiaceva che frequentasse poco la nostra casa.

Silvia                             - Mamma, tu proprio no.

Mininni                         - E' meglio ammettere che ci siamo sba­gliati tutti sul suo conto. (Entro Pedigò).

Tutti                              - (lo salutano a soggetto).

Pedigò                           - Buongiorno, signori. (A Silvia) Signorina, vi prego di licenziare la gente che è di là.

Silvia                             - Sono tutti clienti che hanno l'appuntamento già fissato.

Pedicò                           - Differiteli. Oggi non ho tempo. Attendo la visita del direttore della Rivista giudiziaria che viene apposta dalla capitale per studiare da vicino il prodi­gioso sviluppo della litigiosità nel nostro paese. W un grande onore per noi. E bisogna accoglierlo come merita.

Marta                            - Vi lasciamo subito. (A Mininni) Venite?

Mininni                         - Sì.

Calogero                       - Io devo parlare con l'avvocato. (Marta e Mininni escono).

Pedicò                           - (a Calogero) Che dovete dirmi?

Calogero                       - Vorrei parlarvi un po' delle mie cause.

Pedicò                           - Ci vorrebbero tre giorni. Avete quaran­totto giudizi in piedi!

Calogero                       - Ho trovato materia per arrivare a cin­quanta. Cifra tonda.

Pedicò                           - Domani. Domani. Le cause sono come il vino. Più invecchiano e migliori si fanno.

Calogero                       - Come credete. Tornerò domani. (Esce).

Pedicò                           - (a Silvia) Novità?

Silvia                             - Ecco l'elenco delle telefonate. (Glielo dà).

Pedicò                           - Grazie. (Lo legge).

Silvia                             - Di veramente nuovo c'è stata la visita di Pillacchera.

Pedicò                           - (smettendo di leggere) L'aspettavo. Gli ho dato appuntamento perché il direttore della Rivista ha espresso il desiderio di conoscere il primo cliente che ho avuto in questo paese.

Silvia                             - Non contate più su Pillacchera. Ha messo su un'aria dacché ha fatto fortuna! Figuratevi che ha detto di andar voi da lui.

Pedicò                           - Perché vi stupite? Il diritto spesso è come il «boomerang», l'arma di legno usata dai popoli selvaggi dell'Australia. Una volta scagliato ritorna contro di noi.

Silvia                             - Oh, per questo Pillacchera non vi è affatto grato.

Pedicò                           - Perché dovrebbe esserlo? Io non ho fatto che trarre alla luce quello che già era potenzialmente in lui. Sono stato  se le vostre orecchie me lo con­sentono - l'ostetrico della sua personalità giuridica. Se questa personalità, una volta cresciuta, mi ha discono­sciuto come padre, non c'è che da rassegnarsi. E nell'ordine fatale degli eventi.

Silvia                             - Voi siete un po' stanco. Non avete mai par­lato così. (Si bussa alla porta).

Pedicò                           - Avanti. (Entra la prima dattilografa).

La prima Dattilografa   - E' venuto l'avvocato Sistetti.

Pedicò                           - Fatelo passare. (La prima dattilografa esce). E' il direttore della Rivista giudiziaria.

Silvia                             - Vi lascio. Questo è un gran momento per voi.

Pedicò                           - Tenete proprio che mi faccia onore?

Silvia                             - Sì. Se non volete farlo per Voi fatelo almeno...

Pedicò                           - Per chi?

Silvia                             - Per me. (Esce).

Pedicò                           - (resta a guardare sorridendo verso la porta da cui è uscita Silvia, ma sente avvicinarsi qualcuno e si ricompone. Entra Sistetti. E' un vecchio signore dall’aspetto molto fine).

Sistetti                           - (presentandosi) Avvocato Sistetti, direttore della Rivista giudiziaria.

Pedicò                           - Sono molto sensibile all'onore che mi fate venendo da me.

Sistetti                           - Era necessario. L'eccezionale sviluppo li­tigioso di questo paese ha sollevato ormai la curiosità di tutta la Nazione. Migliaia di avvocati guardano a voi come a .un campione della classe forense e attendono da questa nostra intervista la rivelazione di un segreto tattico.

Pedicò                           - Nessun segreto. Nessuna strategia. Ho vinto perché ho avuto fede nella forza del Diritto.

Sistetti                           - Questa vostra spiegazione mi sembra un po' troppo semplicista. Tutti crediamo nel Diritto.

Pedicò                           - Certo. Ma secondo un principio utilitari­stico. Si bada solo al fine economico, al bene indivi­duale. Perciò chi perde la ,causa si ritiene danneggiato. Tutto ciò è meschino, gretto, indegno di uomini civili.

Sistetti                           - E' la prima volta che ascolto parole si­mili. Permettete che prenda degli appunti. (Scrive).

Pedigò                           - Per me fra due uomini che litigano c'è un interesse prevalente l'interesse dell'una o dell'altra parte.

Sistetti                           - Quale?

Pedicò                           - L'interesse superiore della giurisprudenza, diamine. Gli uomini passano, la giurisprudenza resta. Perciò anche chi perde la causa, invece di lamentarsi, dev'essere fiero di aver contribuito allo sviluppo della giurisprudenza. Un uomo che muore senza aver liti­gato nemmeno una volta in tutta la vita per me è un essere senza personalità. Solo mettendo in movimento quella meravigliosa macchina che è l'organizzazione giu­diziaria, l'uomo si manifesta veramente uomo. Codici, giudici, avvocati, uscieri son lì a disposizione di ogni cittadino che vuol servirsene. Perché rinunziare a valersene se è proprio questo che differenzia l'uomo dagli altri animali?

Sistetti                           - Nientemeno!

Pedicò                           - Portatemi l'esempio di altri animali che per le loro liti si rimettano al giudizio di terzi... Non ce n'è. Dunque l'uomo è l'unico animale giuridico della terra. Perciò tutte le volte che qualcuno, credendolo un titolo di merito, mi dice: «Io non ho mai avuto a che fare con la giustizia! », a me vien subito da gridargli: «Bravo, bestia! Perché allora cammini diritto? But­tati giù a quattro zampe che ci fai migliore figura ».

Sistetti                           - Straordinario. (Scrive).

Pedicò                           - Ecco perché in questo paese litigano tutti.

Sistetti                           - Quando veniste qui, su che numero di cause si poteva contare?

Pedicò                           - Zero. Questa cifra negativa s'era mante­nuta costante sin dal 1372 quando un ufficiale di giu­stizia stese l'ultima sentenza che potete consultare nell'archivio del Comune. Oggi siamo a novantanove cause ogni mille abitanti.

Sistetti                           - Allora possiamo dire cento (Scrive). Cento cause ogni mille abitanti. Una ogni dieci. E poiché bi­sogna essere in due per litigare, ne consegne che in cinque persone qui ce n'è una che litiga. E’ impres­sionante.

Pedicò                           - Non tanto. Perché ci sono quattro che non litigano. Potremo parlare di vero successo quando anche quei quattro litigheranno.

Sistetti                           - Spero che non siate solo nella lotta.

Pedicò                           - Cominciai da solo. Ma ora siamo già in ventidue avvocati. E altri hanno annunziato il loro tra­sferimento.

Sistetti                           - Credete che lo spirito giuridico li abbia già conquistati?

Pedicò                           - Definitivamente. Per convincervi non avete che da guardar giù da quella finestra.

Sistetti                           - (esegue).

Pedicò                           - Vedete tutti quei cartelli con le scritte: « Divieto di caccia » - « Divieto di pesca » - « E' proibito cogliere i fiori » - « E' proibito calpestare le aiuole »...

Sistetti                           - (continuando a leggere)... «E' proibito at­tingere acqua » - « E' proibito appoggiarsi al muro ».

Pedicò                           - Ebbene, quando venni non c'era nessun cartello. Tutto era lecito. Oggi, invece, grazie a me, tutto è proibito.

Sistetti                           - Un bel progresso.

Pedicò                           - (risale verso il fondo e s'accosta alla finestra) Vedete li, in fondo, quel contadino che attraversa la piazza trascinandosi dietro una vacca?

Sistetti                           - Sì.

Pedicò                           - Non vi sarà difficile scorgere anche due uomini che gli tengono dietro come due angeli custodi.

Sistetti                           - Sì. Uno a destra, l'altro a sinistra dell'animale.

Pedicò                           - Ebbene. Quel contadino va a vendere la sua vacca e si fa accompagnare da due testimoni. Perché  dacché ci sono io - nessuno penserebbe di comprare o vendere uno. spillo se non alla presenza di testi idonei... Ora volgete il vostro sguardo più a destra, dove quei bimbi giocano... Sì, laggiù (indica). Voi vi domanderete che razza di gioco sia mai quello che vede dei bimbi cosi seri e composti... Ebbene, giocano al processo.

Sistetti                           - Al processo?

Pedigò                           - . Sì. E' il gioco più diffuso tra i bimbi del paese. Quello lì in mezzo tutto avvilito è l'imputato. Come vedete, si sono costituiti in Corte di giustizia. C'è l'avvocato di difesa... l'avvocato di accusa... tutto in regola. Se voi poteste avvicinarvi a quei bimbi e chie­dere agli ultimi nati i loro nomi, vi risponderebbero di chiamarsi: Ulpiano... Giustiniano... Triboniano... tutti nomi dei maggiori giureconsulti di ogni tempo. Adesso portate il vostro sguardo a sinistra su quei tre uomini che discutono animatamente. Li vedete?

Sistetti                           - Sì.

Pedicò                           - Fate attenzione. Non distinguete qualcosa di bianco affacciarsi dalla tasca esterna della loro giacca?

Sistetti                           - (scrutando, poi indicando la tasca della propria giacca) Questa, vero?

Pedigò,                          - Sì.

Sistetti                           - Sembra un fazzoletto.

Pedicò                           - No, Sono fogli di carta bollata. Discutono, ma, a buon bisogno, ognuno tiene a portata di mano il suo bravo foglio. Perché qui ogni rapporto della vita appena importante viene fissato su carta da bollo. S'è dato il caso di un innamorato che ha scritto la dichiarazione d'amore alla sua bella su, carta da lire dodici.

Sistetti                           - Ma allora la carta da bollo andrà via a chili!

Pedicò                           - A quintali, per essere precisi. Del resto, anche di codici c'è un grande smercio. Possiamo contare su una media di duecento al mese. Codici di tutti i formati e per tutte le borse.

Sistetti                           - E che ne fanno? Li mangiano?

Pedigò                           - In un certo senso si. Perché questi bravi paesani debbono rifarsi di tanti secoli di astinenza giu­ridica.

Sistetti                           - Ma tante cause non impoveriscono il paese?

Pedicò                           - Affatto. Contribuiscono solo ad una ridistri­buzione della ricchezza. Del resto, il vincitore di oggi forse sarà lo sconfitto di domani.

Sistetti                           - Sembra di vivere in una città dell'antica Grecia, al tempo delle accademie peripatiche.

Pedicò                           - Sì. Qui i giudici sono onorati come divinità e gli avvocati come ministri di un culto. Perciò ogni causa diventa agli occhi di      questa gente un tributo alla maestà della legge. Ecco perché tutti, anche i poveri, sono fieri di portare la loro offerta litigiosa a questa divinità immensa e onnipresente che è il diritto.

Sistetti                           - Sento che le vostre parole aprono orizzonti nuovi alla nostra professione. Scriverò un articolo sen­sazionale. Dirò di voi quello che non ho mai detto di nessuno. Lo meritate.

Pedicò                           - Vi ringrazio.

Sistetti                           - E se mi capiterà una causa disperata, vi assocerò nella difesa. Con voi non si può che vincere. Arrivederci. (Esce).

Pedicò                           - (rimasto solo, si siede come stanco su di una sedia, poi ripete piano) Con voi non si può che vincere. (Entra Silvio.).

Silvia                             - Ebbene? Come è andata?

Pedicò                           - (serio) Benissimo.

Silvia                             - E avete quella faccia? Mi pare che dovreste essere allegro. Questa intervista è stata il coronamento della vostra vittoria.

Pedicò                           - Anche voi? Credete, dunque, che io abbia veramente vinto?

Silvia                             - Come? Ma io non vi riconosco più. Sapete cosa avete? Siete stanco. Dovreste prendervi un po' di riposo. Sono due anni che non vi concedete un giorno di vacanza.

Pedicò                           - Avete ragione. Sono stanco. Ma non come voi credete. La mia stanchezza è dentro. Non fisica.

Silvia                             - Non siete soddisfatto dell'opera vostra? In paese tutto celebra il vostro trionfo. Finiranno coll'erigervi un monumento.

Pedicò                           - Ebbene, forse è proprio questo... l'imbat­termi dovunque nei segni della mia opera, che mi rat­trista. Stamane mentre passavo per il Parco, appena ho  visto il cartello «Vietato calpestare i fiori», m'ha preso un desiderio matto. Calpestarli tutti, uno per uno. E se non mi allontanavo" in fretta, avrei finito per farlo.

Silvia                             - Voi?

Pedicò                           -  Sì. E non è tutto. Faccio cento passi e trovo un altro cartello: «Vietato sporcare i muri». Ho dovuto lottare per non cedere alla tentazione di disegnare proprio lì - bene in vista - la mia caricatura con sotto scritto: Pedigò fece.

Silvia                             - Dio mio, pensate se vi avessero visto. Voi, l'avvocato Pedigò'. Lo spirito della legge.

Pedicò                           - Da qualche giorno questo diavoletto che è entrato in me non mi abbandona più. E sento che una ; volta o l'altra finirà col farmi commettere qualche grosso sproposito.

Silvia                             - Ma come è possibile? Voi violare la legge?

Pedicò                           - Eppure dovrò farlo. Magari una volta. Ma non posso sottrarmi a questo impulso irresistibile. Tanti anni di ossequio cieco e fedele alla legge hanno maturato in me una reazione che un giorno o l'altro scoppierà.

Silvia                             - Voi siete stanco. Avete avuto il torto di credere per tanti anni che tutta la vita fosse nei libri e ora scontate l'errore.

Pedicò                           - Credete; che il male sia senza rimedio?

Silvia                             - Oh, un rimedio ci sarebbe, Ma non credo che voi l'adotterete.

Pedicò                           - Perché?

Silvia                             - Non siete il tipo.

Pedicò                           - Fuori questa toccasana.

Silvia                             - (ispirata) L'amore.

Pedicò                           - (deluso) L'amore? Siete sempre la stessa.

Silvia                             -  Eppure è così. Al vostro fianco ci vorrebbe una donna. Solo in essa trovereste quell'equilibrio che oggi vi manca. ((Prende un garofano dal vasetto che è sulla scrivania e l'infila all'occhiello della giacca dì Pedigò).

Pedicò                           - Di dove vi viene questa sicurezza? Espe­rienza?

Silvia                             - Non posso averne. Intuizione. Che per una donna vai ' più dell'esperienza. Mi spiegherò con un esempio giuridico, visto che non capite nient'altro. La legge applicata rigidamente è qualche volta ingiusta. Se invece viene corretta con la pietà, che viene fuori?

Pedicò                           - L'equità.

Silvia                             - Perfettamente. Così la vita. Presa in sé spesso è dura. Ma per fortuna interviene l'amore ed è accet­tabile.

Pedicò                           - Siete diventata più logica di me, che è tutto dire. (Lo guarda come se la vedesse per la prima volta) Forse avete ragione. A me manca una donna. Ma siete ancora una donna voi? Un'autentica donna è prima di ogni altra cosa: impulso, istinto, irriflessione. Voi invece siete ormai un'enciclopedia legale in gonnella. Tanto è vero che se vi dicessi: Sposiamoci, voi pensate subito all'obbligazione reciproca della fedeltà, della coabita­zione, dell'assistenza, alla somministrazione degli ali­menti... insomma mi parrebbe di andare a letto col titolo quinto, capo primo delle disposizioni del Codice civile.

Silvia                             - Come siete ingenuo. Credete che una donna si formalizzi sino al punto di rinnegare se stessa? Questo è uno stupido privilegio di voialtri uomini. Una donna, qualunque essa sia, sarà sempre disposta a dar via tutta la collezione giustinianea per un solo bacio d'amore.

Pedigò                           - (avvicinandosi) E' una constatazione o un invito?

Silvia                             - Chiedetelo al vostro cuore. Ammesso che voi l'abbiate un cuore.

Pedicò                           - Non provocatemi. Credete che sia insensi­bile fino al punto di lasciarvi condurre con me un gioco così pericoloso?

Silvia                             - In due anni che vi conosco ho imparato a non temervi come uomo. Come avvocato non c'è chi possa tenervi testa, ma come... maschio, permettetemi di dirvelo, l'ultimo della strada può darvi lezione.

Pedicò                           - Siete di una sfrontatezza unica. Dove avete appreso codesto linguaggio?

Silvia                             - Ogni donna ha le sue riserve dalle quali at­tinge nei momenti di bisogno.

Pedigò                           - Incredibile.

Silvia                             - ' E questo è niente.

Pedicò                           - Vi par niente?

Silvia                             - E' appena un piccolo saggio delle infinite possibilità femminili. Ci sono mille altre sorprese in serbo per gli uomini che come voi si vantano di cono­scerci. Per dirvela col diritto bancario, il nostro capi­tale versato anche quando sembra rilevante è di gran lunga inferiore al patrimonio di riserva.

Pedicò                           - Di bene in meglio. Continuate.

Silvia                             - No. Per ora basta. Ho già sottratto troppo tempo al vostro lavoro. Chiudiamo la parentesi sentimen­tale. (Con voce diversa) Domani scadono i termini per il ricorso Giordani. Devo presentare la memoria difen­siva o attendere la notifica?

Pedicò                           -  Che volete m'importi in questo momento del ricorso Giordani?

Silvia                             - Mi meraviglio. L'avvocato Pedigò se ne in­fischia dei clienti.

Pedicò                           - L'avvocato Pedigò non vi permette di aprire nel mezzo di una conversazione una parentesi sentimen­tale per poi chiuderla quando più vi fa comodo. No, cara signorina, adesso si va fino in fondo.

Silvia                             - Non temete di compromettervi?

Pedicò                           - Questo è troppo. (Fa due passi verso Silvia che non si muove. L'attira a sé quasi con violenza e la bacia) Ecco.

Silvia                             - (ridendo) Avvocato mio, che hai fatto!

Pedicò                           - (trattenendola tra le braccia) Smettila di chiamarmi avvocato o ricomincio.

Silvia                             - (porgendogli le labbra) Avvocato.

Pedicò                           - (la bacia ancora).

Silvia                             - (svincolandosi)  Adesso basta.

Pedicò                           - Hai paura?

Silvia                             - Non si sa mai.

Pedicò                           - Dov'è la tua bella sicurezza di poco fa?

Silvia                             - Sarei più tranquilla se sapessi se questi baci sono nell'ambito del titolo quinto, capo primo delle di­sposizioni civili oppure debbo considerarli extra Codice.

Pedicò                           - Piccola volpe, la sai lunga.

Silvia                             - Ma intanto non rispondi alla mia domanda.

Pedicò                           - E' proprio indispensabile?

Silvia                             - Certo sono una ragazza.

Pedicò ----------------- - E allora ti dirò che siamo nell'orbita del titolo quinto, capo primo.

Silvia                             - Quand'è così, tutto va a posto.

Pedicò                           - Un momento.

Silvia                             - Che c'è?

Pedicò                           - Un'idea magnifica.

Silvia                             - Mi spaventi.

Pedicò                           - Ho trovato il modo di violare almeno una volta la legge.

Silvia                             - Calpesterai i fiori?

Pedicò                           - No.

Silvia                             - Percuoterai qualcuno?

Pedicò                           - No. No. La violerò con te.

Silvia                             - Con me?

Pedicò                           - Non capisci?

Silvia                             - No.

Pedicò                           - Domani ci sposeremo con tutte le formalità prescritte dal Codice, ma oggi ci sposiamo noi due in barba a tutte le leggi.

Silvia                             - Avvocato, che dici?

Pedicò                           - (prendendole le mani) Eh, lascia che almeno una volta mi prenda questa soddisfazione. Tu ed io. Si può immaginare una violazione più bella e meno peri­colosa? (La prende fra le braccia).

Silvia                             - (gli sorride. Mentre i due si abbracciano cade rapida la tela).

FINE