Il viaggiatore ridicolo

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IL VIAGGIATORE RIDICOLO

Carlo Goldoni

Dramma Giocoso da rappresentarsi nel Teatro Giustinian di S. Moisè il Carnovale dell'Anno .

ATTORI

LA MARCHESA FORIERA

Sig. Clementina Baglioni.
DONNA EMILIA figliuola di Don Fabrizio.

Sig. Domenica Lambertini. LIVIETTA sua cameriera.

Sig. Anna Giorgi. IL CAVALIER GANDOLFO

Sig. Filippo Laschi, Virtuoso di Camera di S. A. R. il Duca di Lorena e di

Bar ecc.
IL CONTE DEGLI ANSELMI

Sig. Giovanni Delpini. DON FABRIZIO gentiluomo vecchio.

Sig. Lodovico Felloni. GIACINTO servitor di Don Fabrizio.

Sig. Vincenzo Moratti. Segretario di Don Fabrizio Servitori di Don Fabrizio        }  che non parlano Servitori della Marchesa

La Musica del Sig. Maestro Salvador Perillo Napolitano. Il Vestiario sarà di ricca e vaga invenzione del Sig. Gio. Battista Costa Veneto.

Li Balli sono d'invenzione e direzione del Sig. Gio. Battista Galantini,

eseguiti dalli seguenti:

Mademoiselle Teresa Vismar,               Sig. N. N.

Virtuosa di S. A. S. Duchessa              Sig. Geltrude Ghisetti.

di Massa e di Carrara ecc.                     Sig. Gio. Bortolotti.

Principessa Ereditaria di Modena         Sig. Gio. Battista Galantini

ecc.                                                        Sig. Gio. Jucchi.

Sig. Anna Goresi.                                  Sig. N. N.

Sig. Aurora Grazzini e                          Sig. Gasparo Bonucci.


MUTAZIONI DI SCENE

ATTO PRIMO Camera in casa di Fabrizio, con varie sedie e tavolino.

Cortile.

Camera. Per il primo Ballo.

Stanze.

ATTO SECONDO

Cortile.

Camera nell'appartamento del Cavaliere.

Saletta con credenze per il pranzo.

Per il secondo Ballo.

Piazza con varie Botteghe.

ATTO TERZO

Camera in casa di Fabrizio.

Sala.

Le suddette Scene sono d'invenzione e direzione

delli Sigg. Girolamo e cugini Mauri, Veneti.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera in casa di don Fabrizio, con varie sedie e tavolino.

Don Fabrizio, Donna Emilia, il Conte a sedere bevendo la cioccolata, Livietta in piedi, e

Giacinto che serve.


TUTTI

Quanto è buono il cioccolato

Che si beve in compagnia!

La salute e l'allegria

Fa più bella in tutto il dì.

FABR.

Venga pur, non mi confondo,

Ne vuò dare a tutto il mondo;

Beva ognun fin che ce n'è.

GIAC.

LIV.          } a due           La mia parte ancor per me.

CON.

Se qui resto a incomodarvi,

Perdonate, don Fabrizio.

FABR.

O che grazia, o che servizio

Che ci fate a restar qui!

Figlia mia, non è così? (a donna Emilia)

EMIL.

Signor Conte, son gli amici

Li padroni in casa nostra.

CON.

Bontà vostra, e nostro onor.

CON.

Bontà vostra, e nostro onor.

GIAC.

} atre

LIV.

(Chi mi ferma è il dio d'amor). (da sé)

CON.

FABR.

Ho che far col segretario: Ci vedremo all'ordinario.

EMIL.

Vostra serva. (al Conte)

CON.

Servitor. (a donna Emilia e a don Fabrizio)

TUTTI

Bel piacere, bel diletto, Ch'è la buona società! Ah, maggior d'ogn'altro affetto È l'amor dell'amistà. (Partono tutti fuorché don Fabrizio)


FABR.


SCENA SECONDA

Don Fabrizio, il Segretario e poi Giacinto

Segretario, venite: (viene il Segretario) Rispondiamo alle lettere. Oggi s'ha a far della fatica tanta; Scrivere ne dobbiam trenta o quaranta. Principiamo da questa.



Un cavalier mio amico

Mi dirige una dama.

Vediam come si chiama:

La marchesa Foriera (leggendo la lettera)

Colla sua cameriera,

Con quattro servitori e due lacchè,

E con quattro cavalli al suo copè.

Fosser anche di più, ne avrei diletto:

Cederò, se bisogna, anche il mio letto.

Via, scrivete: Monsieur,    (dettando)

È un onor che mi fate,

Ora che m'addrizzate

Questa Dama, Monsieur, che vien a voi...
GIAC.                   Senta, signor padron...

FABR.                                                       Che cosa vuoi?

GIAC.                   Il cavalier Gandolfo,

Terminato il suo giro,

Torna dopo due anni a questa volta.

Per avvisar ch'ei viene,

Spedito ha il suo lacchè.
FABR.                   Sì, venga anch'egli ad alloggiar da me.

Venga pure la Dama (dettando)

Da voi raccomandata,

Che sarà con piacer da me alloggiata.
GIAC.                   Caro signor padron, ci pensi un poco:

In casa non c'è loco.
FABR.                                                  Ci sarà.

GIAC.                   Io le dico di no, con sua licenza.

FABR.                   Ed io dico di sì; che impertinenza!

Son padrone in casa mia

D'alloggiar chi pare a me;

E se loco più non c'è... (a Giacinto)

Via, scrivete - concludete... (al Segretario)

L'esibisco di buon cor. (dettando)

Non mi fate più il dottor. (a Giacinto)

Non mi resta che gloriarmi (dettando)

Vostro amico e servitor.

Insolente seccator. (a Giacinto)

Date qui, leggerò, (prende il foglio dal Segretario)

E doppoi scriverò.

Che faceste? che scriveste? (al Segretario, leggendo quel che ha scritto)

L'esibisco di buon cor. (legge barbottando piano, accompagnato dalli

stromenti)

Non mi fate più il dottor.

Non mi resta che gloriarmi

Vostro amico e servitor,

Insolente seccator. (a Giacinto)

Ignorante, via di là. (al Segretario)

Insolente, via di qua. (a Giacinto che ride)

Via di qua, via di là. (a tutti due)

Che ignoranti, - che birbanti,

Che mi tocca sopportar!

Non li posso tollerar.


Via di qua, via di là. (li due partono) Non li posso tollerar. (parte)

SCENA TERZA Donna Emilia ed il Conte degli Anselmi

CON.                     Donna Emilia, possibile

Che siate sì tiranna

Con chi solo per voi piange e s'affanna?
EMIL.                    Oh, chi volete mai

Che si perda per me?
CON.                                                       Sì, la fortuna

Vi vuol felicitar. Il più famoso

Cavalier generoso, il più gentile

Trionfator de' cuori,

Per voi prova nel sen teneri amori.
EMIL.                    E chi è questi, signor?

CON.                                                         Nol conoscete?

Rivolgete lo sguardo al volto mio.

Del vostro bello adorator son io.
EMIL.                    Voi? Mi spiace, signor; se prevenuto

È questo fido cor da un altro oggetto,

Anche il vostro dovria cangiar d'affetto.
CON.                     Un amante lontano,

Che per due anni si scordò di voi,

Che forse a queste mura

Più non farà ritorno...
EMIL.                    Anzi deve tornare in questo giorno.

CON.                     Il cavalier Gandolfo

Oggi torna?
EMIL.                                       Sì certo.

Preceduto ha l'avviso,

Perciò più lieta or mi vedete in viso.
CON.                     Quando è così, signora,

Quando poco vi cal dell'amor mio,

Farò lo stesso anch'io. Fatemi grazia

Di donarmi per sempre il mio congedo.
EMIL.                    Volentieri, signor, ve lo concedo. (ridendo)

CON.                     Grazie a tanta bontà. Per ricompensa (con ironia)

Del vostro amabil tratto,

Vi prometto di voi scordarmi affatto.

Tutte le femmine Sono così: Braman l'amante Nuovo ogni dì; E per averlo che non si fa? Poi lo corbellano, Poi lo deridono, Ed alle femmine crediamo ancor?


Che? Non è vero? Non è così? Sento che dicono tutti di sì. (parte)

SCENA QUARTA

Donna Emilia sola.

Oh, pazzo da catena!

Odio le sue maniere ed il suo volto,

E l'inutile amor di questo stolto.

Oggi il mio sposo, il Cavalier s'aspetta,

E tu l'accoglierai

Amante ancor dopo due anni interi,

Che lontano da te non scrisse un foglio?

Della sua fedeltà temer non voglio.

SCENA QUINTA Giacinto e detta.

GIAC.                   Signora, in questo punto

Dopo due anni il Cavaliere è giunto.

EMIL.                    Domandato ha di me?

GIAC.                                                     Per prima cosa,

Dal carrozzin smontato, Se vi son forestieri ha ricercato. Si vede che per voi Non ha sì grande affetto.

EMIL.                    Vanne, insolente, e di' che qui l'aspetto.

GIAC.                   È nell'appartamento,

Che si veste, si liscia e si profuma. Ha seco un arsenale D'astucci, scatolette ed altre cose, Ed un mezzo baul d'acque odorose.

EMIL.                    (M'aspetto di vederlo

Pur troppo ritornato

Viaggiator vanarello e caricato). (da sé) Vanne, di' che solleciti. (a Giacinto) Son de' mesi che aspetto il suo ritorno!

GIAC.                    Oh, vogliamo star bene in questo giorno!

La casa è piena, ma non è niente; Dell'altra gente - si aspetta ancor. Che confusione, - che indiscrezione! Quel che mi faccia certo non so. Venisse almeno qualche ragazza, Che mi facesse godere un po'. (parte)


SCENA SESTA Donna Emilia, poi Livietta, indi il Cavalier Gandolfo

EMIL.

S'egli mi amasse ancora

Come un tempo mi amò, doveva subito

Venir, qual si conviene...

LIV.

Il cavalier Gandolfo ecco che viene. (a donna Emilia)

CAV.

Madama, riverente. (a donna Emilia)

EMIL.

Cavalier, ben venuto.

CAV.

All'una e all'altra il mio dover tributo.

Permettete, madama... (donna Emilia gli offre la mano)

È ceremonia antica

Il bacio della mano:

Facciamo il complimento oltramontano.

EMIL.

No, Cavalier, codesto (ritirandosi)

Non è lecito ancor.

CAV.

Io, che ho viaggiato,

A vivere ho imparato,

E spero in men d'un mese

Il costume cambiar del mio paese.

Questa dama chi è?

LIV.

Oh, questa è bella! (ridendo)

EMIL.

(Vuò provar la sua fede). Ella è sorella

D'un cavalier mio amico.

LIV.

Vostra serva, signor.

CAV.

Troppa bontà. (vuol baciarle la mano)

LIV.

Di sì grande finezza

Degna non ne son io.

CAV.

Permettete ch'io faccia il dover mio. (le bacia la mano, e donna Emilia

freme)

È ospite la dama?

EMIL.

È qualche tempo

Che la casa da lei viene onorata.

CAV.

Fanciulla, o maritata?

LIV.

Sono ancora zitella.

CAV.

Non perdete così l'età più bella. (a Livietta)

Ha nessun che la serva?

EMIL.

Signor no.

CAV.

Finché state con noi, vi servirò. (a Livietta)

LIV.

(E non sa che son io la cameriera!) (da sé)

EMIL.

Signor, dopo due anni,

A un'amante, a una sposa,

Trattamento miglior far non sapete?

CAV.

Ma di che vi dolete?

Se mi offerisco di servir la dama,

Non manco alla mia sposa:

Non è amare e servir la stessa cosa.

EMIL.

Questo sistema nuovo

Dove avete imparato?

CAV.

Dappertutto, madama, or che ho viaggiato.

LIV.

Certo, signor, si vede


Che avete fatto del profitto assai.

CAV.

Un altr'uomo, un altr'uomo io diventai. (pavoneggiandosi)

EMIL.

Se tornaste un altr'uomo, avrete in petto

Adunque un altro cor forse men fido.

CAV.

Un corsaro son io che torna al lido.

EMIL.

Non capisco, signor.

CAV.

Ditemi un poco,

Ma con sincerità:

Da che io manco di qua, quanti amoretti

Vi volano d'intorno al vago ciglio? (a donna Emilia)

EMIL.

Di voi mi maraviglio;

Fui costante mai sempre al primo affetto.

CAV.

Voi mi fate arrossire a mio dispetto.

EMIL.

Perché?

LIV.

Non intendete?

Il Cavalier, viaggiando

Con allegria di core,

Il corsaro finor fece in amore.

CAV.

Bravissima! A Parigi

Voi sareste adorata.

EMIL.

Signor, s'ella più grata

Vi par di quel ch'io sono,

Servitevi con lei.

CAV.

Chiedo perdono.

Non s'usano a Parigi

Questi tra sposi e amanti aspri litigi.

EMIL.

Tollerar più non posso.

Un signor sì compito e sì galante:

Alla serva di casa fa l'amante.

CAV.

Voi serva?

LIV.

Sì signore.

CAV.

Non siete dama?

LIV.

Oibò!

CAV.

Che diceste finor?

EMIL.

Vel spiegherò.

Quella cui di servir voi destinaste,

È la mia cameriera.

CAV.

Sposa, voi mi burlate!

EMIL.

A amoreggiar la cameriera andate.

CAV.

Quale sdegno è cotesto?

Sospetto e gelosia

Chiamasi in Inghilterra una pazzia.

Divertitevi, cara, un poco più,

Finché dura bellezza e gioventù.

Quel labbro vermiglio,

Quel ciglio vivace,

D'amore la face

Accende nel sen.

Godete, sposina,

Allegri, madama;

Lo sposo che v'ama

Vi parla così.


Voi siete bellina, V'ammiro, vi lodo; Via, fate a mio modo, Via, dite di sì. (parte)

SCENA SETTIMA

Donna Emilia e Livietta

EMIL.                    Misera me! il bel frutto

Che ha tratto il Cavalier da' viaggi suoi!
LIV.                       Lo stesso ch'egli fa, fate anche voi.

EMIL.                    Lo farei, se l'amassi

Meno di quel ch'io l'amo.
LIV.                                                                E avrete core

Di tollerarlo ancor?
EMIL.                                                   Spero; chi sa?

Sento che dice il cor: si cangerà.

Ad un mio sguardo, Ad un mio vezzo, Quel core ingrato Si cangerà. Son galantina, Son graziosina, E un cor sì barbaro Ei non avrà. Un'occhiatina tenera, Che a tempo si darà; Un sospiretto, un riso Contenta mi farà. Così lo credo, - così lo spero, E un tal pensiero - pace mi dà. (parte)

SCENA OTTAVA

Livietta sola.

Il modo di pensar di donna Emilia

È contrario del mio:

Se mi sprezza talun, lo sprezzo anch'io.

Per dir la verità,

Giacinto non mi spiace,

Ma finor dei serventi

Ne ho avuti cento, e non ne ho amato alcuno,

Ed or con questo saran cento e uno:

Per la bella ragione

Che da questa imparai gentil canzone:


Delle donne il cor è fatto Come appunto un limoncello: Una fetta a questo, a quello, Per usanza se ne dà.

Come è sciocco, come è matto Chi pretende averlo tutto; Il mio core è un dolce frutto, Ma nessun non l'averà. (parte)

SCENA NONA

Cortile.

Don Fabrizio ed il Cavaliere

CAV.                     Oibò, questo cortile

È male architettato.

Tutto il vostro palazzo è mal piantato:

Gli appartamenti incomodi,

Le scale mal cavate,

Le porte anguste e le finestre antiche.

Il vero confessar deesi addrittura:

In Italia non san l'architettura.
FABR.                   In Italia, signore,

Fabbriche non vi sono?
CAV.                     Niente, niente di buono.

FABR.                   Per esempio, a Venezia?

CAV.                                                            Eh, niente.

FABR.                                                                          A Roma?

CAV.                     Niente vi dico, niente.

FABR.                   Genova, padron mio, veduto avete?

CAV.                     Fuori, fuori d'Italia, e stupirete.

SCENA DECIMA Giacinto e detti.

GIAC.                    Signore, in questo punto (a don Fabrizio)

Arriva il carrozzin con la Marchesa.
FABR.                   A riceverla andiamo. (a Giacinto)

CAV.                     Questa dama chi è? (a Fabrizio)

FABR.                                                   Raccomandata

Mi vien da un cavaliere.
CAV.                     A riceverla andiam: so il mio dovere.

FABR.                   Tocca a me.

CAV.                                         Maraviglio.

FABR.                                                          Eh no, signore.

CAV.                     Vivere non s'insegna a un viaggiatore. (il Cavaliere s'incammina correndo

verso la porta)


FABR.                   Oh, cospetto di Bacco,

Ci voglio esser anch'io. (lo seguita, correndo con fatica)
GIAC.                   L'ultimo in questa casa è il padron mio.

Tanto co' forestieri

Il pover'uom sopporta,

Che lo cacciano un dì fuor della porta. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Dalla porta in fondo al cortile vedesi arrivare la Marchesa con Servitori e Lacchè. Il Cavaliere la serve di braccio, e Don Fabrizio la seguita, offerendosi servirla dall'altra parte, ed ella non gli bada, facendosi tutto questo con un poco di sinfonia. Giacinto fa portar li bauli, complimentando

la servitù della Marchesa.

MAR.

Sono stanca dal viaggio;

Bisogno ho di riposo.

CAV.

Sì, madama:

Subito, servitori,

Ova fresche, tè lungo e il cioccolato.

MAR.

Signor, troppo gentile. (al Cavaliere)

FABR.

La signora Marchesa

Comandi pur, sarà servita, andiamo.

MAR.

Chi è quest'uom sgarbato? (al Cavaliere, accennando don Fabrizio)

CAV.

Povero galantuom, non ha viaggiato.

FABR.

Son io quel che ha l'onore

Di riceverla in casa, e di servirla.

MAR.

Questi è il padron di casa? (al Cavaliere)

CAV.

Così è;

Ma lasciatevi pur servir da me.

MAR.

Datemi il samparelie. (al Cameriere)

CAV.

Io, io, madama.

Ecco, scegliete il più gradito odore. (le offre varie boccette di odori)

MAR.

Troppo gentile.

CAV.

Vostro servitore.

FABR.

Si sente mal? vuol che le diamo un brodo? (alla Marchesa; la Marchesa

guarda don Fabrizio, poi ridendo si volta al Cavaliere)

CAV.

Vi ho capito, madama; anch'io lo godo.

MAR.

Oimè l'aria colata

Mi piomba in su la testa.

S'ha da star qui? che ceremonia è questa?

CAV.

Eccomi, madamina, andiam di volo. (le dà la mano)

FABR.

Favorisca anche me. (le offre la mano)

MAR.

Bastami un solo.

No, signor, bene obbligata; (Ha la mano un po' sudata, Non mi voglio insudiciar). (da sé) Mio signor, le son tenuta Dell'onore, - del favore (al Cavaliere) Di volermi accompagnar. Presto presto; - se più resto,


Qualche male mi verrà. (parte servita dal Cavaliere, senza badare a
don Fabrizio)
FABR.                              Madamina - graziosina

Non mi bada, e se ne va. (parte)

SCENA DODICESIMA

Camera con sedie.

Il Conte solo.

Eh, cospetto di Bacco!

Un uom della mia sorte

Dee trovar porta aperta in ogni loco;

Vuò sostenermi e insuperbirmi un poco.

Che pretensione è questa?

Donna Emilia un mio pari

Rifiuta per consorte in questo dì?

A me si deve dir sempre di sì...

Ma che veggio? Ella vien; sto sussiegato. (passeggia)

SCENA TREDICESIMA Detto, Donna Emilia, Don Fabrizio, la Marchesa, poi il Cavaliere

EMIL.

(Ecco il Conte, che meco fa l'irato). (da sé)

FABR.

Figlia, questa è la dama

Di cui vi ho già parlato,

Da cui l'albergo mio viene onorato.

EMIL.

Alla dama gentil, che ben mi è nota,

Offro l'ossequio mio.

MAR.

Serva divota. (affettatamente)

CON.

Io pur, che in questa casa

Per favor del padron sono venuto,

Della mia servitù v'offro il tributo.

MAR.

Signor, serva obbligata. (come sopra)

FABR.

Favorisca, s'accomodi, (siedono tutti)

Si serva come fosse

Nella sua propria casa;

Glielo dico di cor.

MAR.

Son persuasa. (come sopra)

EMIL.

Tutto quel che le occorre

Domandi pur con libertade amplissima,

Che servita sarà.

MAR.

Serva umilissima.

CON.

Una casa simil a' giorni miei

Non ho veduta più.

MAR.

Lo credo a lei.

FABR.

Vien di lontan?


MAR.

Lontano.

EMIL.

Ha patito nel viaggio?

MAR.

Certamente.

CON.

Vorrebbe riposar?

MAR.

Probabilmente.

CAV.

Bella conversazione! (siede)

Dite, signora mia, donde venite? (alla Marchesa)

MAR.

D'Inghilterra, signore.

CAV.

Ah! che ne dite?

Vi sono in Londra dei costumi strani?

Eh, non san niente i poveri Italiani.

MAR.

La serietà è curiosa.

CAV.

E quel disprezzo

Che hanno di tutto il mondo?

MAR.

E quel pretendere

Una donna obbligar sol collo spendere?

FABR.

Il danaro, per altro...

CAV.

Vi prego perdonare:

Chi viaggiato non ha, non può parlare. (a don Fabrizio)

Siete stata a Parigi? (alla Marchesa)

MAR.

Oh sì, signore.

CAV.

Fatemi voi giustizia:

Chi ha veduto e gustato

Le delizie francesi,

Come mai può soffrir questi paesi?

EMIL.

Voi sprezzate così?...

CAV.

No, vi prego umilmente: (a donna Emilia)

Chi viaggiato non ha, non può dir niente.

EMIL.

È ver, non ho viaggiato;

Ma persuasa son non vi sia loco

Dove l'usanza insegni

Le figlie oneste a rispettar sì poco.

FABR.

Ha ragione mia figlia. (s'alza)

CON.

E dice bene. (s'alza)

CAV.

Chi viaggiato non ha, soffrir conviene. (s'alza)

FABR.

Compatisca, mio signore, (al Cavaliere)

Necessaria è al viaggiatore

Un po' più di civiltà.

CAV.

In Olanda siete stata? (alla Marchesa)

MAR.

Sì signor, l'ho praticata.

CAV.

Che vi par di quel paese?

MAR.

Una gran docilità.

EMIL.

Ma signora, favorisca, (alla Marchesa)

Dell'ardir mi compatisca:

Un po' più di proprietà.

MAR.

In Germania siete stato? (al Cavaliere)

CAV.

Sì signora, ci ho passato.

MAR.

Che trovaste? che vedeste?

CAV.

Dei soldati in quantità.

MAR.

} adue        BÈelidlivleiattgog,ibaerldpiiqaucaereedilà!

CAV.

CON.

E a me voi non abbadate? (al Cavaliere e alla Marchesa)


CAV.

Di Versaglies raccontate. (alla Marchesa)

FABR. EMIL.

} adue

Fra di voi ve la godete.

MAR.

Vienna d'Austria descrivete. (al Cavaliere)

MAR. CAV.

} adue

Vi dirò... venite qua.

(Il Cavaliere prende per mano don Fabrizio, Emilia)

FABR.

Non vuò sentire. (in collera)

CAV.

Vi voglio dire...

MAR.

Vi vuò narrare...

EMIL.

Non vuò ascoltare.

MAR.

Vienna è un paese Ricco e fecondo.

CAV.

Francia è il giardino Di tutto il mondo.

FABR.

Vi rispondiamo,

} atre

Non ci pensiamo;

CON.

Vi dispensiamo Dal faticar.

MAR. CAV.

} adue

Vi vuò narrar.

FABR.

EMIL.

} atre

Non vuò sentir.

CON.

MAR. CAV.

} adue

Vi voglio dir.

FABR.

I viaggiatori

EMIL. CON.

} atre

Son seccatori. No, che con loro

Non si può star.

Di Francia e Spagna,

MAR.

} adue

Dell'Alemagna,

CAV.

Dell'Inghilterra,

Voglio parlar.

FABR. EMIL. CON.

} atre

I viaggiatori Son seccatori.

a cinque

No, non ci state Più a tormentar. (partono)


e la Marchesa donna



ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Cortile.

Livietta e Giacinto

GIAC.                   Venite qui, Livietta;

Se cercanci i padroni, Ci troveranno poi. Facciam conversazione fra di noi.

LIV.                       Oh, che sono pur sazia

Di servire una donna stravagante,

Ch'altro in mente non ha che il proprio amante.

GIAC.                   Anch'io, per dir il vero,

Stanco son d'impazzire, e giorno e notte, Con codesto novello don Chisciotte.

LIV.                       Questa ragazza al certo

Mi vuol far disperare... Basta, basta, non voglio mormorare.

GIAC.                   Fate bene, vi lodo.

Anch'io servo un padron ch'è un animale, Ma vuò tacere e non ne vuò dir male.

LIV.                       S'io fossi una di quelle...

Oh, vi assicuro, ne direi di belle.

GIAC.                   Anch'io mi sfogherei, che n'ho ragione,

Ma non vuò mormorar del mio padrone.

LIV.                       Mormorar dei padroni,

Sì, fa brutto sentire, Ma qualche cosa si potrebbe dire.

GIAC.                   Certo, fin che si dica

Ch'egli fa il generoso, E non paga il salario al servitore, E fa strillare i creditori suoi, È cosa che si può dir fra di noi.

LIV.                       Per esempio, s'io dico

Della padrona mia Che un'altra pazza come lei non c'è, Questo lo posso dir fra voi e me.

GIAC.                   Il mio padron vecchiaccio

Sempre qualche bellezza ha che l'incanta: Fa il grazioso con tutte, e son settanta.

LIV.                       La cara mia padrona

Volubile ora par, ora costante, Ora si fa nemica, ed ora amante.

GIAC.                   E il mio... ma la prudenza

Tutto non vuol ch'io dica.


LIV.

Anch'io del mormorar sono inimica.

GIAC.

Facciam così, Livietta;

Lasciam codesti pazzi,

E pensiamo a trovar miglior fortuna.

LIV.

Per me non ho difficoltade alcuna.

GIAC.

Livietta, a quel ch'io vedo,

Noi pensiamo ugualmente;

Staremo in fra di noi perfettamente.

LIV.

Così pare anche a me.

GIAC.

La bella cosa

Ch'io vi fossi marito, e voi mia sposa.

LIV.

Chi sa? dar si potria.

GIAC.

Consigliatevi ben, Livietta mia.

Io sono un uomo docile,

Che tollerar saprà.

LIV.

Io non sarò difficile

Con chi mi sposerà.

GIAC.

Sarò un marito amabile.

LIV.

Sarò una moglie tenera.

a due

Carissima - dolcissima

La cosa riuscirà.

LIV.

Facciamo i patti chiari:

A modo mio vuò far.

GIAC.

Non voglio far lunari,

Non voglio sospettar.

LIV.

Oh, che gentil marito!

GIAC.

Oh, che gentil consorte!

a due

Per me più bella sorte,

No, non potrei sperar. (partono)

SCENA SECONDA

Camera nell'appartamento del Cavaliere.

Il Conte e Donna Emilia

CON.

Vi domando perdono,

Se ritornato a incomodarvi io sono.

EMIL.

Fa grazia il signor Conte.

(Bella caricatura!)

CON.

Che vuol dire, madama?

Siete sola così senz'un amante

Che vi serva e vi onori?

EMIL.

Io non merto, signor, questi favori.

CON.

Anzi voi meritate,

Senza far torto al merto delle belle,

D'esser sempre adorata

Da chi conosce il buon.

EMIL.

Bene obbligata.

CON.

S'io fossi il Cavaliere,


Saprei far, come deesi, il mio dovere;

Ma i viaggiatori sono tutti quanti,

Come nel piè, così in amor vaganti.

EMIL.

A me che cosa importa?

Posso dir francamente

Che libera ancor sono,

Che d'ogni cor posso accettar il dono.

CON.

Se diceste davvero,

Volentieri il mio cor vi donerei.

EMIL.

Il mio core, signor, non è per lei.

CON.

Scherzate, o pur volete

Che a disperarmi io vada?

EMIL.

Ve ne volete andar? quella è la strada.

CON.

Ah crudel! (in atto di partire)

EMIL.

Dove andate?

CON.

A morir.

EMIL.

A morir? Eh via, restate.

CON.

Mi vorrete voi ben?

EMIL.

Potrebbe darsi.

CON.

Cara, sì, lo conosco:

Vi prendeste di me spasso e sollazzo.

Sì, mi volete ben.

EMIL.

(Oh che bel pazzo!) (da sé)

E chi è che vi vuol ben?

CON.

Voi; già lo so.

EMIL.

Ho paura di no.

CON.

Ma perché mai?

EMIL.

Perché ancora nessuno io non amai.

CON.

Me l'avete pur detto,

Che mi volete ben.

EMIL.

L'ho detto, è vero,

Ma la donna talor cangia pensiero.

CON.

Bella lezion per noi!

Cangiarvi ognor così,

Ora il no pronunziando, ed ora il sì.

Conte, Conte, impazzisci?

Ritorna in te. Rifletti

Che d'oggidì l'usanza

In donna corteggiata è l'incostanza.

Non son sì stolido,

Giacché non trovasi

Fede in amore,

A conservare

La fedeltà.

Ora con questa,

Ora con quella,

Sia brutta o bella,

Voglio trattare

Con libertà. (parte)


SCENA TERZA Donna Emilia, indi il Cavaliere, e poi Livietta

EMIL.

Con costui mi diverto:

Ma il povero mio core

Pel Cavalier ingrato arde d'amore.

CAV.

Vostro padre, signora,

Se si mette a viaggiar, corre pericolo

Di farsi reputar un uom ridicolo.

EMIL.

Che si dirà di voi,

Che ridicol vi fate or fra di noi?

CAV.

Dalla mia cara Emilia

Posso tutto soffrir. Sì, mio tesoro,

Son costante e vi adoro;

L'amor mio, la mia fede io vi protesto.

EMIL.

Qual novità? qual entusiasmo è questo?

Che volubile siete,

Anche da ciò si vede.

CAV.

Eccomi al vostro piede, (s'inginocchia)

Pietà di me... (le bacia la mano)

LIV.

La Marchesa vorrebbe

Venir, se è a lei permesso.

CAV.

Venga pure, è padrona. (s'alza)

(Con dama viaggiatrice

Parmi d'esser più lieto e più felice).

EMIL.

Qual gradita sorpresa!

CAV.

Servitore divoto alla Marchesa. (impetuosamente corre a baciar la mano

alla Marchesa)

SCENA QUARTA

Detti e la Marchesa

MAR.

Grazie, signor, vi rendo.

EMIL.

(Il suo labbro, il suo cor più non intendo). (da sé)

CAV.

Ben venga la Marchesa.

EMIL.

Cavaliere,

Vi prendete di me ridevol gioco?

CAV.

Son per voi tutto foco.

MAR.

Compatite, di grazia, (a donna Emilia)

Sola non posso star.

CAV.

Colla ragione

Di lasciar le persone in libertà,

S'usa da noi sì fatto complimento.

Ah! che dite? in Olanda

Sola non lascierebbonvi un momento.

EMIL.

Ma, signor, non sprezzate

Così il vostro paese;

Una simil viltà chi mai l'intese?

CAV.

Giacché venute siete


A favorir le stanze

Destinate per me,

Voglio fare un regalo a tutte tre.
EMIL.                    (Vuò soffrir fin ch'io posso). (da sé)

LIV.                       (Mi pare un pazzarello). (da sé)

MAR.                     (Cavaliere gentil, grazioso e bello). (da sé)

CAV.                     Ecco: mi si conceda

Che la sposa alla dama ora preceda.

Eccovi, donna Emilia,

Una cuffia francese. Madama la Marchesa,

Uno stucchietto d'Inghilterra accetti.

E voi, cara Livietta,

Aggradirete questi bei fioretti.
MAR.                     Si vede ben che siete

Nella galanteria

Perfettamente istrutto.
CAV.                     Ho delle dame da servir per tutto.

Compro, mando, spedisco:

Le mie corrispondenze

Coltivo ogni ordinario,

E i nomi registrati ho nel mio diario. (Caccia di tasca un libro di memorie)

A Lion la Contessa la Cra. A Paris la Marchesa la Gru. A Madrid la Duchessa del Bos. In Inghilterra Miledi la Stos. In Germania ho le mie Baronesse. In Italia le mie Principesse. E conosco le femmine ancor Nel Serraglio del Turco Signor. Vuò scrivere nel diario Madama la Marchesa, Livietta modestina; E voi siete regina (a donna Emilia) Di questo ardente cor. (parte)

SCENA QUINTA Donna Emilia, la Marchesa e Livietta

EMIL.                    Non ho più tolleranza;

Parmi troppa baldanza.
MAR.                    Che avete, donna Emilia?

EMIL.                    Vantarsi in faccia mia...

Vi domando perdon, deggio andar via.

Che smania, che caldo, Che fumi alla testa, Che cosa è mai questa! Di me che sarà?

Sospiro, deliro,


D'amore m'affanno. Quel core tiranno Languire mi fa.(parte)

SCENA SESTA

Livietta e la Marchesa

LIV.                       L'intende, o mia signora?

MAR.                                                             Io non so niente.

LIV.                       La misera è furente

Sol per cagion d'amore:

È il Cavalier che le martella il core.
MAR.                    Cara, la gelosia

Non so che cosa sia.

Ho sempre amato in pace;

Lascio fare, e fo anch'io quel che mi piace.
LIV.                       Brava, quest'è il costume

Che piace ancora a me.

S'ha da penar? da sospirar? perché?

Se al mondo fossevi Un uomo solo, Per fiero duolo Vorrei languir.

Ma sono tanti Codesti amanti, Ch'io non vuò piangere, Non vuò morir. (parte)

SCENA SETTIMA La Marchesa e poi Don Fabrizio

MAR.

Anch'io così diceva,

Pria che andasse lo sposo all'altro mondo;

Ma trovato finor non ho il secondo.

Ecco il padron di casa.

Povero galantuomo!

Si vede ch'è inclinato a favorirmi.

FABR.

Posso venir?

MAR.

Padrone.

FABR.

In queste stanze

Trova forse miglior appartamento.

MAR.

Sola a star nel mio quarto non mi sento.

FABR.

Se potessi sperare...

Se non sdegnasse la persona mia...

A servirla verrei di compagnia.

MAR.

Anzi mi farà grazia


Il signor don Fabrizio. Favorisca. (siede, ed accenna che si ponga a sedere)

FABR.

Tenuto io mi professo

Alla sua gentilezza.

MAR.

Un po' più appresso.

FABR.

Obbedisco, signora. (s'accosta un poco)

MAR.

Perché sì di lontan? s'accosti ancora.

FABR.

Eccomi da vicino. (si accosta)

MAR.

Alfin son vedova,

E posso con un uom di questa età

Prendermi un poco più di libertà.

FABR.

Sono vedovo anch'io.

MAR.

Mah! che ne dite?

Non è un dolor ch'ogni dolore avanza,

Perdere i nostri giorni in vedovanza?

FABR.

Ella è ancor giovinetta,

Io sono un po' avanzato.

MAR.

Siete ancora in istato

D'aver dieci figlioli,

E una sposa trovar che vi consoli.

FABR.

E pur, se la trovassi...

Che a me piacesse e ch'io piacessi a lei...

Quasi quasi davver la prenderei.

MAR.

Son due anni ch'io giro

Di un nuovo sposo in traccia,

Né trovo un uom che più di voi mi piaccia.

FABR.

Ora poi mi burlate.

MAR.

No davvero.

Io vi parlo così, con cuor sincero.

FABR.

Che vi par di vedere

Di buono in me?

MAR.

Vi trovo

Della galanteria.

FABR.

Così e così.

MAR.

Voi avete un bel cor.

FABR.

Questo poi sì.

MAR.

Parete un gelsomin.

FABR.

Son ben tenuto.

MAR.

E sano ancor.

FABR.

Con il celeste aiuto.

MAR.

Veramente si danno

Delle costellazioni,

Delle combinazioni,

Dei colpi inaspettati,

Degl'incontri felici e fortunati.

FABR.

Tutto questo, Marchesa,

Cosa vuol dir?

MAR.

Vuol dire,

Che prima di morire

Non si sa il suo destino,

E che il cuore talvolta è un indovino.

FABR.

Non vi capisco ancor.

MAR.

Dirò più chiaro:

Son due anni ch'io son senza marito.


Non mi capite ancor?
FABR.                                                     Sì, vi ho capito. (consolandosi)

MAR.                     (Il povero baggiano,

Quando crede capir, va più lontano). (da sé)
FABR.                   Dalla costellazione

Vien la combinazione

Del caso inaspettato,

Che mi rende felice e fortunato.
MAR.                     Bravo, bravo davvero.

FABR.                   Via, spiegatevi. (s'alzano)

MAR.                                             Oimè!

Un certo non so che

Mi batte in sen.
FABR.                                           Batter mi sento anch'io.

MAR.                    Non vi dico di più. Per ora addio. (va per partire, poi si ferma)

Ehi, signor, una parola. (Poverin, mi fa pietà). Mi sapreste dir cos'è, Quel che in seno il cor mi fa? Quando siete a me vicino, Pare appunto un martellino Che dei colpi ognor mi dà. Ehi, sentite come va. Ticche tocche, tatatà. (Me la godo, me la rido, Della sua semplicità). (parte)

SCENA OTTAVA

Don Fabrizio solo.

Sono appunto restato,

Come sarebbe a dir, mezzo insensato.

Il martellin nel core

Ticche tocche le fa?

Se dicesse davver... forse... chi sa?

Il desiderio mio

È una sposa trovar di buon umore,

Che per me senta il martellin d'amore.

Ma pian, Fabrizio, piano:

Pria che il ferro si scaldi a sì gran foco,

Fra noi pensiamo, e discorriamo un poco.

Quanti son gli anni ch'hai sulle spalle? Sono settanta, se non di più. Hai più lo spirito di gioventù? Credo di no; - sento ch'io vo Di mal in peggio sempre così. La robustezza cala ogni dì! Le gambe tremano, le forze mancano.


Povero vecchio, cosa vuoi far?

Sono ancor vivo, voglio sperar. (parte)

SCENA NONA

Saletta con credenza e tavola.

Giacinto, Livietta ed altri Servitori; indi il Cavaliere, poi la Marchesa

GIAC.

La tavola avanzate. (ai Servitori)

In tavola portate.

(I Servitori portano innanzi la tavola, e si prepara il pranzo)

LIV.

Frattanto che siam soli,

Parliam del nostro amore.

GIAC.

Sì, Livietta;

Anzi un pensier mi viene

Per spiegarvi davver se vi vuò bene.

Sento nel cor...

CAV.

Giacinto,

Il pranzo è preparato?

GIAC.

Sì signore, è già lesto. (al Cavaliere)

(Un'altra volta, poi, ti dirò il resto). (a Livietta)

CAV.

Eh venite, Marchesa; (verso la scena)

Lasciam che fra di loro

Facciano i complimenti.

Questo perpetuo seccamento usato

Non lo posso soffrir da che ho viaggiato.

MAR.

Anch'io ne son nemica.

CAV.

Don Fabrizio

Non la finisce mai:

Vada lei, passi lei, lei, mio signore...

Don Fabrizio è un buon uom, ma è un seccatore.

MAR.

Via, lasciatelo stare;

Egli è mio cavalier.

CAV.

Quanto ne godo,

Che scoperto mi abbiate il di lui foco!

Ciò servirà per divertirci un poco.

MAR.

Eccolo.

SCENA DECIMA

Don Fabrizio, il Conte, Donna Emilia e li suddetti.

FABR.

Siamo qui. Siedan, padroni,

Sieda lei. (alla Marchesa)

MAR.

Prima lei. (a don Fabrizio)

FABR.

Oh, mi perdoni.

CAV.

Qua il signor don Fabrizio,

Di qua il signor Contino,


FABR. CAV. FABR. CAV.

FABR. CAV.


Qui donna Emilia, e la Marchesa qui, Ed io presso di lei: va ben così? Non mi par. La Marchesa Dovrebbe un po' più in qua...

No no; ho imparato Le tavole a dispor dacché ho viaggiato. Via dunque, presentate La zuppa a queste dame.

Piano un poco: Vuò che si metta in pratica Una nuova invenzion ch'è tutta mia, Per mettere gli spirti in allegria. Animo, una bottiglia. (ai Servitori) A tutti il suo bicchiere: Principiamo dal bere. Questo mio ritrovato

Ebbe in Londra fortuna, e fu lodato. (I Servitori danno da bere a tutti) Affé, non mi dispiace.

E perché sia Più bella l'allegria, Prima ancor di mangiare, Col bicchiere alla man si ha da cantare. Ecco due strofe sole (dispensa alcune carte di musica) Con musica e parole: Cantin meco le dame, Almeno una di loro, Poi gli altri tutti canteranno il coro.



CAV. MAR.

TUTTI

CAV. MAR.

TUTTI


}

}


Che dolce licore, Che amabile frutto! Beviamolo tutto,

Che buono sarà.

a due

Che venga il piacere,

Che fuggasi il lutto:

Beviamolo tutto,

Che bene ci fa.

Beviamolo tutto, Che buono sarà. Beviamolo tutto, Che bene ci fa.

Di Bacco il liquore Fa lieti e felici: Beviamolo, amici,

Che gusto ci dà.

a due

Dal nume del vino

Prendiamo gli auspici.

Beviamolo, amici,

Che meglio si sta.

Beviamolo, amici, Che gusto ci dà. Beviamolo, amici,



Che meglio si sta.

CAV.

Si è cantato e bevuto, son contento.

Or divido la zuppa, e la presento. (dà la zuppa)

GIAC.

Questo caro signor fa da padrone. (a Livietta)

LIV.

E il padrone di casa è un bel minchione. (a Giacinto)

CAV.

Oh, che cattiva zuppa! (assaggiandola)

MAR.

Parmi di buon sapore.

CAV.

Non ho mangiato mai zuppa peggiore.

CON.

Chi sente voi, signore,

Tutto vi par cattivo.

CAV.

Due anni or son che nel gran mondo io vivo.

Che piatto è questo? Permettete: oibò! (assaggiandolo)

Dolce, grasso, malfatto.

EMIL.

Se qui tutto vi spiace,

Vi consiglio d'andarvene a drittura.

FABR.

(Non ho inteso maggior caricatura). (da sé)

CAV.

Per dir la verità, dacché ho viaggiato,

Ho il gusto delicato.

Se voglia di mangiar or non mi sento,

Farò qualcosa per divertimento.

Mi ricordo in Olanda, ad una tavola

In cui vi erano donne

Brutte come demoni,

Mi divertivo a far de' matrimoni.

Qui pur vuò far lo stesso:

Per ischerzo così, per allegria,

Tutta vuò maritar la compagnia.

Donna Emilia col Conte

(Già don Fabrizio non vuol moglie), ed io

Colla Marchesa, e poi

Servitor, cameriera, ancora voi. (a Giacinto e Livietta)

EMIL.

Questa è un'impertinenza (s'alza)

Che soffrir non si può.

So quel che deggio far, risolverò.

CAV.

Oh, si sdegna per poco!

CON.

Con dame non convien prendersi gioco. (s'alza)

Parlaste mal, signore,

E ve lo sosterrò da cavaliero.

(Da incontro tal la mia fortuna io spero). (da sé)

CAV.

Gente che non uscì dal suo paese,

Non distingue gli scherzi dalle offese.

FABR.

Eh, sono i scherzi vostri (s'alza)

Un po' troppo avanzati.

CAV.

Io soglio rispettar le donne tutte.

EMIL.

Andate a maritar le donne brutte.

MAR.

Capite or la ragion perché è sdegnosa?

CAV.

Peggio d'una tedesca è pontigliosa.

FABR.

Cavalier, non vorrei

Foste venuto qui

A inquietarmi così la compagnia.

CAV.

Tutto s'aggiusterà, la cura è mia.

GIAC.

Signore, in quanto a noi,


Non ce n'abbiamo a mal per niente affatto.

LIV.

Per me son pronta.

CAV.

Ed il negozio è fatto.

Povero don Fabrizio,

Mi dispiace che sol restato sia.

FABR.

Vi è la Marchesa.

CAV.

Eh, la Marchesa è mia.

FABR.

Come? non siete voi

Destinato a mia figlia?

CAV.

Sì, è verissimo.

Don Fabrizio carissimo,

Lasciatemi ch'io possa

Questa dama servir per questo giorno,

E poi domani a donna Emilia io torno.

EMIL.

Signor no, non conviene, io vi rispondo.

CAV.

Voi non sapete ancor cosa sia mondo.


MAR.

FABR.

EMIL.

CON.

CAV.

MAR.

GIAC.

LIV.

EMIL.

CON.

FABR.

CAV.

FABR.

CAV.

GIAC.

LIV.

CAV.

EMIL.

CON.

MAR.

EMIL. CON.


} }

}

} } }


Domandate alla cara Marchesa,

Che ha viaggiato e che l'uso lo sa.

Non è insulto, non chiamasi offesa

Il servir che la donna si fa. Favorire mi può don Fabrizio,

Favorire mi può il Cavalier.

Una donna che sia di giudizio,

L'uno e l'altro gradire saprà. Questa cosa per or non mi piace.

No signore, con sua buona pace

a due

Che quest'uso fra noi non vedrà.

Tutto il mondo l'approva e lo vede,

E la donna servir si concede, a quattro

Con rispetto e con bella onestà

Quest'usanza piacer non mi dà. a tre

Don Fabrizio, perdonate, (piano a don Fabrizio)

Confidate il vostro cor.

Vi ha colpito, - vi ha ferito,

Per la dama il dio d'Amor? Non mi celo, - ve lo svelo,

Io mi sento un fiero ardor. (piano al Cavaliere) Attendete, - voi vedrete

Se vi son buon servitor. (piano a don Fabrizio)

Poverello - il vecchiarello,

a due

Gli si vede il pizzicor. (piano, a parte)

Si è svelato - innamorato.

Secondate il pazzo umor. (piano alla Marchesa)

Ah che il core - pel dolore

a due

Mi si spezza, e per amor.

Lo godremo, - lo vedremo

Più brillante farsi ognor. (piano al Cavaliere)

La speranza, - la costanza,

a due

M'abbandona al mio dolor. (partono)


CAV.

La Marchesa - già s'è resa (piano a don Fabrizio) Tutta vostra di buon cuor.

FABR.

Io mi sento - dal contento Giovinetto farmi ancor.

CAV.

Ei lo crede, - non si avvede. (piano alla Marchesa) Tutta vostra - già si mostra. (piano a don Fabrizio)

TUTTI

Viva, viva il dio d'Amor!

FABR.

Marchesina...

MAR.

Fabrizino...

GIAC. LIV.

} adue

Che grazina! che amorino!

FABR.

Io mi sento...

MAR.

Provo anch'io...

FABR. MAR.

} adue

Nel mio cor sì dolce ardor.

TUTTI

Viva, viva il dio d'Amor!

CAV.

Leghi Amor i cuor sinceri, E di Bacco coi bicchieri L'allegria si accresca ognor. (Si porta a tutti un bicchiere)

TUTTI

Viva Cupido, Caro bambino! Viva il buon vino, Dolce licor!

FABR.

Cara sposina.

MAR.

Caro sposino.

CAV.

} atre

GIAC.

Bell'amorino, - tenero ancor.

LIV.

TUTTI

Viva Cupido Caro amorino! Viva il buon vino, Dolce licor! (partono)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA.

Camera di Don Fabrizio.

Donna Emilia, il Conte e Livietta

EMIL.                    Lo confesso, è un ingrato.

CON.                     Il torto ch'ei vi fece

Merita che una dama si risenta,

Ma... sarà cura mia far ch'ei si penta.

(Parla per me, Livietta). (piano a Livietta)
LIV.                       Volete ch'io v'insegni

La via di vendicarvi?

Senza tanto scaldarvi

Date al Conte la mano,

E così resterà come un baggiano.
CON.                     Donna Emilia che dice?

A me Livietta

Pare che dica bene.
EMIL.                    Pria di risolver, ponderar conviene.

LIV.                       Animo, in sul momento

Fatelo e risolvete:

Quali riguardi avete?

L'amor del Conte vuol da voi pietà;

Parto, e voglio lasciarvi in libertà.

Signora, pensate Che il tempo sen vola; Che il core consola Un tenero amor. (a donna Emilia) Contino, parlate, (al Conte) La bella pregate, A poco per volta Piegate quel cor. (parte)

SCENA SECONDA Donna Emilia e il Conte

CON.                     Donna Emilia, che dite? Il pianto, il sangue

Impiegherò, se occorre, Per ottener la bella mano in dono.

EMIL.                    Oimè, confusa io sono,

E risolver non so.


CON.

Basta per or che non mi dite no.

EMIL.

Non merta il vostro affetto

Che un'ingrata io sia.

CON.

Pietade avete?

EMIL.

Ma... vi basti così, più non chiedete.

CON.

Posso almeno sperar d'esser gradito?

EMIL.

Avete un fondamento

Per sperarlo davver.

CON.

Sì, mi lusingo

In quel bel volto ed in quel core umano.

EMIL.

Qualche volta, signor, si spera invano.

CON.

Ecco il sospetto mio. Speranze vane,

Ite pur dal mio sen, ite lontane. (si scosta)

EMIL.

Conte.

CON.

Ingrata!

EMIL.

Perché?

CON.

Mi struggo invano.

EMIL.

Che vorreste?

CON.

La mano.

EMIL.

Ecco la mano.

CON.

Bella man che mi consola,

Sei la pace del mio cor.

EMIL.

Questa mano che ti dono,

Ha pietà del tuo dolor.

CON.

Cara, addio.

EMIL.

Non mi lasciate.

CON.

Tornerò.

EMIL.

Non vi scordate.

a due

Tutto vostro è questo cor.

Ah! felice amor novello,

Sei pur caro, sei pur bello.

Cresci pur a poco a poco,

Dolce foco, - amato ardor.(partono)

SCENA TERZA

Giacinto e Livietta

GIAC.

Hai veduto, Livietta?

LIV.

Sì, ho veduto.

GIAC.

Quelli si son sposati:

Per quattro o cinque dì saran beati.

LIV.

Niente di più?

GIAC.

Si dice

Che arrivan presto al matrimonio i guai.

LIV.

A chi ha giudizio, non arrivan mai.

GIAC.

Ma pure il maritarsi

Mi dicono che sia

Un sproposito vero, una pazzia.

LIV.

Dunque il signor Giacinto


Non si vuol maritar?

GIAC.

Credo di no.

LIV.

Possibile?

GIAC.

Sicuro.

LIV.

Eh via.

GIAC.

No certo.

LIV.

E se io mi esibissi

Dargli la destra mia?

GIAC.

Prova, e vedrai.

LIV.

Eccola.

GIAC.

Cosa fai?

LIV.

Col più sincero affetto

T'esibisco la destra.

GIAC.

Ed io l'accetto.

Ah, furbetta, maliziosa,

Mi vorresti corbellar.

No, la man non ti vuò dar.

Sì, mia cara, a te la dono;

Tu sei mia, di te già sono.

Maritarsi è uno sproposito,

Ma lo fa chi lo può far. (parte)

SCENA QUARTA

Livietta sola.

Intanto questa è fatta.

Ormai potrò godere

D'ogni divertimento:

Esser fatta la sposa è il mio contento.

Una cuffia ben fatta, un bel vestito,

Un abito guarnito,

Dei bei pizzetti e delle belle gonne

Son le cose che piacciono alle donne. (parte)

SCENA QUINTA

Sala.

La Marchesa ed il Cavaliere

CAV.                     Cara Marchesa, vi confesso il vero,

Sono annoiato e stanco

Di restar qui. Vi sto con mio dispetto.

Trovo solo in viaggiando il mio diletto.
MAR.                    Anch'io, per verità,

Trovo che del viaggiare

Più bel piacer non c'è.


CAV.

Si starebbe pur ben tra voi e me.

MAR.

Parrebbe che il destino

Ci avesse uniti apposta

Per variar cielo e correre la posta.

CAV.

Ho un impegno; per altro

Mi esibirei, vi pregherei, madama.

MAR.

Donna Emilia, signor, molto non vi ama.

CAV.

Sia qual esser si voglia

Di donna Emilia il core,

Dee serbar la parola un uom d'onore.

MAR.

Voi sarete infelice

Con una sposa unito

Che non conosce i pregi del marito.

CAV.

Peggio sarà per lei;

Io farò i viaggi miei,

Ella resterà qui;

Starem lontani, e ci godrem così.

SCENA SESTA

Livietta e detti.

LIV.

Ho da darle, signora,

Una nuova curiosa:

Donna Emilia testé si è fatta sposa.

MAR.

Mi rallegro con lei, padrone mio. (al Cavaliere)

CAV.

Se fosse ver, dovrei saperlo anch'io.

LIV.

Oh, credetelo pure;

Di dire una bugia

A lor, padroni miei, non avrei fronte.

CAV.

Ma lo sposo chi fu?

LIV.

Fu il signor Conte.

CAV.

A me codesto inganno?

MAR.

Ne ho piacer: vostro danno.

L'avete meritata.

CAV.

Non andrà quest'ingiuria invendicata.

LIV.

E un'altra novità le voglio dire:

Sappia vossignoria

Ch'ho fatto anch'io la mia;

Che il servitor di casa mi ha pigliata,

E all'improvviso mi ha testé sposata. (parte)

SCENA SETTIMA

La Marchesa ed il Cavaliere, poi Don Fabrizio

MAR.                    Tutto il mondo si sposa, ed io sto senza?

Qualche cosa sarà... basta... pazienza.
CAV.                     Marchesa, il vendicarmi a voi s'aspetta.


MAR.

Mi volete sposar?

CAV.

Sì, per vendetta.

MAR.

Non per amor?

CAV.

Facciamo

Le nozze fra di noi,

Che col tempo l'amor verrà dappoi.

MAR.

Ecco qui don Fabrizio.

CAV.

A suo dispetto

Facciamo il matrimonio,

E ci serva costui da testimonio.

MAR.

Ma sarete con me discreto e saggio?

CAV.

Il resto poi discorrerem per viaggio.

FABR.

Marchesa, che vuol dire

Che non vi ho più veduta?

Lo dico in faccia al galantuom ch'è qui:

Non dovreste con me trattar così.

CAV.

Ella appunto, signore,

Meco parlava, e mi dicea che ha fretta,

Che le nozze vuol fare.

FABR.

Oh benedetta!

MAR.

Son due anni che aspetto, e tempo egli è

Che la sposa io mi sia.

FABR.

Preme anche a me.

CAV.

Siete dunque contento

Del piacer che destina alla signora

Un sì nobile amor?

FABR.

Non vedo l'ora.

MAR.

Quando vi piaccia d'accordar voi stesso,

Adunque si farà.

FABR.

Facciamlo adesso...

CAV.

Subito immantinente, in sul momento.

MAR.

Don Fabrizio il consente?

FABR.

Oh che contento!

CAV.

Spiritelli, che intorno volate,

Voi la face - d'Amore destate,

Che introduce la pace - nel sen.

MAR.

Aure liete, che intorno spirate,

Quell'ardor che m'accende temprate,

Ché d'affetto - il mio petto - è ripien.

FABR.

Farfallette, che il lume cercate,

Al mio fuoco dintorno girate,

Ch'un inferno - il mio interno - contien.

CAV.

Imeneo, ch'è fratello d'Amore, } atre             Nelformardiduecoriunsolcore,

GIAC.

LIV.

Faccia quello che far si convien.

CAV.

Il tempo passa,

Facciamo presto.

FABR.

Per me son lesto.

MAR.

Per me son qui.

CAV.

Pegno d'amore,

Pegno di fé,

Dunque porgete


FABR.

MAR.

FABR.

MAR.

CAV.

FABR.

MAR. CAV. FABR. CAV.

FABR. MAR.

FABR.

CAV. MAR.

FABR.

CAV. MAR.


La mano a me. (alla Marchesa) La mano a me. (alla Marchesa) Ecco la mano. (la porge al Cavaliere) La mano a me. (alla Marchesa) Questo è mio sposo. Questa è mia sposa. Come? Signori,

Questo cos'è?

} adue        Presaholamano.

La mano a me.

Voi spazzatevi la bocca,

Che di ciò non ve ne tocca;

Più stagion per voi non è. Come! come! che cos'è? Don Fabrizio, poverino,

Voi sareste un bel sposino,

Ma non fate più per me. Ah traditora! (alla Marchesa)

Ah scellerato! (al Cavaliere)

Ah son burlato,

Povero me!

È già fatto il matrimonio,
} adue   DonFabrizioètestimonio,

E per altro buon non è.

Ah, l'avrete a far con me. Presto fuori, - servitori, Schioppi, spade Ed un cannone. Quell'ingrata, Quel briccone, L'averanno a far con me.

} adue        Poverino,pazzoegliè.(partono)



LIV.

EMIL. CON.

GIAC. LIV.


SCENA OTTAVA

Donna Emilia, il Conte, Giacinto e Livietta

Godo che seguitato

Abbiate il mio consiglio.

Temo ancor di passar qualche periglio.

Spero che il padre vostro

Non sia mal soddisfatto.

Sarà contento.

E quel ch'è fatto, è fatto.


SCENA ULTIMA


Detti, la Marchesa, il Cavaliere e Don Fabrizio

FABR.

Figlia, povera figlia!

Colui vi ha assassinata:

La Marchesa ha sposata.

Ma se ha promesso a voi,

Si troncheranno gli sponsali suoi.

CAV.

Donna Emilia che dice?

EMIL.

Non rispondo, signor.

CON.

Parlerò io:

Donna Emilia ha premiato l'amor mio.

FABR.

Come? povero me!

CAV.

Vedete adunque

Colle spade, coi schioppi e col cannone,

Se di far quel che ho fatto ebbi ragione.

FABR.

Non so dove mi sia.

EMIL.

Padre, perdono.

CON.

Il padre ci consoli.

FABR.

Andate tutti due, buoni figlioli.

CAV.

Qui non v'è più rimedio;

Godiamo, se si può, lieti e felici,

E la pace e l'amor ci renda amici.

Delle finezze vostre

Vi ringrazio, signor, con tutto il cuore:

Torno a far colla sposa il Viaggiatore.

TUTTI

Che si può dire,

Che si può fare?

Convien pigliare

Quel che si può.

Con il destino

Che vuol così,

S'ha da rispondere

Sempre di sì.

FABR.

Andate pure,

Mie creature,

Lungi di qui.

TUTTI

Con il destino

Che vuol così,

S'ha da rispondere

Sempre di sì.

Fine del Dramma