Il viaggiatore senza bagaglio

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IL VIAGGIATORE SENZA BAGAGLIO

IL VIAGGIATORE SENZA BAGAGLI

Cinque quadri

Di JEAN ANOUILH

Titolo originale: LE VOYAGEUR SANS BAGAGE

Versione italiana di Cesare Vico Lodivici

PERSONAGGI

GASTONE

GIORGIO RENAUD

L'AVVOCATO LUCIANO HUSPAR

L'AVVOCATO PICWICK

UN RAGAZZO

IL MAGGIORDOMO

UN CAMERIERE

LO CHAFFEUR

LA DUCHESSA DUPONT

DUFORT

LA SIGNORA RENAUD

VALENTINA RENAUD

GIU­LIETTA

LA CUOCA

Commedia formattata da

PRIMO QUADRO

La sala di una casa di provincia molto sfarzo­sa, con vasta veduta su un parco alla francese.

Il maggiordomo fa entrare la Duchessa Dupont-Dufort, l'Avvocato e Gastone.

Il Maggiordomo            - Chi devo annunciare, signora?

La Duchessa                 - La Duchessa Dupont-Dufort, il Signor Avvocato Huspar e il signor... (esita) Gasto­ne. (A Huspar) Dobbiamo pur chiamarlo così, fino a nuovo ordine.

II. Maggiordomo          - (aria d'informato) Ah, la si­gnora Duchessa vorrà scusare il signore e la signo­ra, ma la signora Duchessa non era attesa dal signo­re e signora, prima del treno delle 11,50. Vado subito ad avvertire il signore e signora dell'arrivo del-«la signora Duchessa.

La Duchessa                 - (lo segue con lo sguardo) Bravis­simo, questo maggiordomo. Caro Gastone sono fel­icissima. Ero sicura che eravate di un'ottima famiglia.

Huspar                          - Non vi abbandonate ad eccessivi entu­siasmi; non dimenticate che oltre ai Renaud, qui abbiamo altre cinque famiglie eventuali.

La Duchessa                 - Ah no, avvocato!... Il cuore mi dice che Gastone riconoscerà per sua questa fami­glia Renaud; che in questa casa ritroverà l'atmosfera del suo passato. Il cuore mi dice che-proprio qui ritroverà la memoria. E' un istinto di donna che mi 'ha raramente ingannato. (Huspar s'inchina davanti a tanto argomento),

Huspar                          - Quand'è cosi... (Gastone si è messo a guardare i quadri senza far caso ai due, come un ragazzo in visitai).

La Duchessa                 - (rivolgendosi a lui) E così, Gastone, spero che sarete commosso.

Gastone                         - Non troppo.

La Duchessa                 - (sospira) Oh, non troppo! Amico mio, mi domando a volte se vi rendete .conto della 'specialità del vostro caso.

Gastone                         - Ma, Duchessa...

La Duchessa                 - No, no, no. Niente di quello che potrete dirmi varrà a togliermi la mia convinzione dalla testa. Voi non vi rendete conto, ecco. Confes­sate che non vi rendete conto.

Gastone                         - Proprio del tutto, forse, no, Duchessa.

La Duchessa                 - (soddisfatta) Ah, siete per lo meno un simpatico ragazzo che riconosce il suo torto; lo dico sempre, io. Ma ciò non toglie che la vostra non­curanza, la vostra indolenza, siano estremamente biasimevoli. Non è vero Huspar?

Huspar                          - Oh Dio, per me...

La Duchessa                 - Sì, sì. Bisogna darmi man for­te, andiamo, e fargli capire che ha il dovere di es­sere commosso. (Gastone si è rimesso a guardare i quadri) Gastone!

Gastone                         - Duchessa?

La Duchessa                 - Siete di pietra?

Gastone                         - Di pietra?

La Duchessa                 - Sì. Avete voi un cuore di sasso? Più duro?

Gastone                         - No, non direi, Duchessa.

La Duchessa                 - Una veramente buona risposta. Non lo credo neanch'io. E tuttavia a un osservatore meno perspicace di noi, la vostra condotta potrebbe far credere che voi siate un uomo di marmo.

 Gastone                        - Ah!

La Duchessa                 - Gastone, voi forse non capite tutta la serietà delle mie parole. Ma certe volte io j dimentico di parlare con uno che ha perduto la me- i moria; e che ci sono parole che forse in questi di­ciotto anni non avete potuto ri-imparare. Sapete cos'è il porfido?

Gastone                         - Una pietra.

La Duchessa                 - Bravo. Ma che sorta di pietra, lo sapete? La pietra più dura, Gastone. Mi capite?

Gastone                         - Sì.

La Duchessa                 - E non vi fa niente che io paragoni il vostro cuore .alla pietra più dura?

Gastone                         - (in imbarazzo) Beh, no! Mi farebbe, se mai, crepar dal ridere.

La Duchessa                 - Avete sentito, Huspar?

Huspar                          - (accomodante) E' un bambino.

La Duchessa                 - (perentoria) Non ci sono più bambini; è un ingrato. (A Gastone) E così voi siete uno dei casi più inquietanti della psichiatria; uno degli enigmi più angosciosi della grande guerra, e questo, se ben traduco il vostro grossolano linguaggio, vi fa ridere? Voi come diceva giustissimamente un giornalista d'ingegno, siete il milite ignoto vivente -            - e questo vi fa ridere? Siete dunque così refrattario al rispetto, Gastone?

Gastone                         - Ma, poiché si tratta soltanto di me...

La Duchessa                 - Non importa. In nome di quello che rappresentate dovreste proibirvi di ridere di voi stesso. Non è un modo di dire, è l'espressione a fon­do del mio pensiero: quando vi trovate dinnanzi al­la vostra immagine nello specchio, vi dovreste levare tanto di cappello, Gastone.

Gastone                         - Io? A me?

La Duchessa                 - Sicuro. A voi. Lo facciamo tutti, noialtri, pensando a quello che rappresentate. Pensa­te di essere dispensato voi solo? Chi vi credete di essere?

Gastone                         - Nessuno, Duchessa.

La Duchessa                 - Una pessima risposta. Voi vi cre­dete un uomo di grande importanza. Il chiasso che hanno fatto i giornali intorno al vostro caso, vi ha montato la testa, ecco! (la interrompe prima che parli) E non insistete, mi dareste sui nervi. (Gastone abbassa il capo e torna ai quadri) Come vi sembra Huspar?

Huspar                          - Quello è un distaccato.

La Duchessa                 - Distaccato. E' la parola. Otto gior­ni che l'avevo sulla punta della lingua e non riusci­vo a dirla. Un distaccato             - proprio così. Eppure c'è la sua sorte in gioco, che diamine! Non siamo noi che abbiamo perduto la memoria; non siamo noi che cerchiamo di ritrovare la nostra famiglia. Non è vero Huspar?

Huspar                          - Vangelo, Duchessa.

La Duchessa                 - E allora?

Huspar                          - (alza le. spalle, disincantato) Voi ser­bate ancora le illusioni dei primi giorni E sono an­ni ormai che oppone questa sua inerzia a tutti i no­stri tentativi.

La Duchessa                 - E' comunque imperdonabile non riconoscere quanta pena si prende per lui mio nipote. Se sapeste con che ammirevole dedizione lo cura, e con quanto cuore. Prima di partire vi avrà, spero, confidato la cosa.

Huspar                          - Vostro nipote il dottor Gibelin non era al lavoro quando sono passato a prendere i certificati di Gastone. E purtroppo non 'l'ho potuto aspet­tare.

La Duchessa                 - Che mi dite, avvocato? Non ave­te visto il mio Albertino prima di partire? Allora non sapete la notizia?

Huspar                          - Che notizia?

La Duchessa                 - In occasione dell'ultimo accesso di fissazione è riuscito a farlo parlare nel delirio. Oh, non ha detto gran che. Ha detto « Baffardello».

Huspar                          - Baffardello?

La Duchessa                 - Baffardello, sì. Ma l'importante è che, da sveglio, presumo, non ha mai sentito dire questa parola, una parola che nessuno si ricorda di avere pronunciato davanti a lui; una parola che con tutta probabilità appartiene al suo passato.

Huspar                          - Baffardello?

La Duchessa                 - Baffardello. E' un indice indub­biamente impercettibile, ma qualche cosa; il suo passato non è più un antro nero,. Chi sa che quel Baffardello non ci metta sulla buona via? (assorta) « Baffardello »: il soprannome di un amico, forse. U­na invettiva familiare, che so io. Però adesso abbia­mo almeno un piccolo punto d'appoggio.

Huspar                          - (assorto) Baffardello...

La Duchessa                 - (ripete, entusiasta) Baffardello! Quando è venuto Alberto ad annunziarmi questo ri­sultato inatteso, entrando mi ha gridato: «Zia, il mio malato ha detto una parola del suo passato, u-na bestemmia! » Io tremavo, mio caro. Pensavo di dover ascoltare una bassezza: un così simpatico ra­gazzo    - sarebbe stato per me un dolore enorme se si scopriva che era di bassa origine. Bel costrutto, passare le notti a interrogarlo. S'è smagrito, povero il mio caro Alberto! a interrogarlo e a fargli le inie­zioni sul sedere, se quello avesse dovuto recuperare la memoria solo, per comunicarci che prima della guerra faceva il muratore. Ma il cuore mi dice il contrario, caro avvocato. Io sono un temperamento romantico. Il cuore mi dice che il malato di mio nipote doveva essere un uomo molto conosciuto, un autore drammatico.

Husipar                         - Molto conosciuto, sarà un po' diffi­cile. L'avrebbero riconosciuto.

La Duchessa                 - Le fotografie sono tutte mediocri. E poi la guerra è una tale prova...

Huspar                          - D'altra parte, non ricordo di aver mai sentito di autori drammatici noti, dati dispersi in combattimenti. E' gente che dà grande pubblicità su giornali e riviste, ad ogni minima variazione di in­dirizzo; figurarsi poi alla loro scomparsa...

La Duchessa                 - Ah avvocato, voi siete un maligno. Mi distruggete il mio bel sogno. Ma è .comunque un uomo di razza, di questo sono certissima. Guarda­telo che figura, con quel vestito. Gliel'ho fatto fare dal sarto di Alberto.

Huspar                          - (sbirciandolo attraverso il monocolo) In realtà mi pareva di non riconoscere l'abito dell'ospizio.

La Duchessa                 - Eh già, non vorrete credere, mio caro, che avendo deciso di ospitarlo al castello e di accompagnarlo io stessa nelle famiglie che lo recla­mano, potessi sopportarmelo vestito di fustagno pe­pe e sale.

Huspar                          - Questi confronti a domicilio sono stati un'eccellente idea.

La Duchessa                 - Vero? Il mio Albertino me l'ha detto appena l'ha preso nelle mani. Perché ritrovi il suo passato occorre riimmergerlo in questo pas­sato. Da qui alla decisione di accompagnarlo pres­so le quattro o cinque famiglie che hanno portato le prove più serie, non c'era che un passo. Ma Albertino non ha in cura soltanto Gastone; non c'era neanche da pensare che egli potesse lasciare l'ospi­zio durante i vari confronti. Domandare un credito al Ministero per congegnare un serio controllo? Si sa quant'è spilorcia quella gente. Allora, che avreste fatto voi al posto mio? Ho risposto «Presente», co­me nel 1914.

Huspar                          - Raro esempio ed ammirevole.

Duchessa                       - Quando penso che. al tempo del dot­tor Bonfant le famiglie venivano in branco tutti i lunedì all'ospizio, lo vedevano ognuna per qualche minuto e se ne tornavano via col primo treno!... Chi riuscirebbe a ritrovare padre e madre in tali condi­zioni? domando io. Oh no, no. Il Dr. Bonfant, va be­ne che è morto e noi abbiamo il dovere di non dir­ne male, ma il meno che si potrebbe dire, se il si­lenzio su di una tomba non fosse sacro, è che era uno schiappino e un delinquente !

Huspar                          - Delinquente, poi...

La Duchessa                 - Non mi esasperate! Vorrei che non fosse morto per dirglielo in faccia. Un delin­quente! E' colpa sua se quel disgraziato si trascina di ricovero in ricovero dal 1918! Quando penso che se l'è tenuto a Pontobronc per quindici anni senza riuscire a cavargli di bocca una parola del suo passa­to che il mio Albertino, solo dopo tre mesi, gli ha già fatto dire: « Baffardello », io resto di sasso. E' un gran psichiatra, avvocato, il mio Albertino!

Huspar                          - E' un simpatico giovanotto!

La Duchessa                 - Che caro! Con lui è tutt'altra mu­sica, per fortuna. Confronti, perizie grafologiche, analisi chimiche, inchieste poliziesche, niente di quel­lo che è umanamente possibile sarà, tralasciato perché ritrovi i suoi. E anche dal lato clinico, Alberto è de­ciso a usare i metodi più moderni. Pensate che gli ha già provocato diciassette accessi di fissazione.

Huspar                          - Diciassette? Ma è inaudito!

La Duchessa                 - Inaudito. (Entusiasta) E' corag­giosissimo da parte del mio Albertino. Perché - possiamo ben dirlo - è un gran rischiò.

Huspar                          - E Gastone?

La Duchessa                 - Di che dovrebbe lamentarsi? Tut­to per il suo bene. Avrà magari il sedere come un colabrodo, questo sì: ma ritroverà il suo passato. E il nostro passato è meglio di noi. Quale uomo di stoc­co esiterebbe tra il suo passato e la pelle del suo se­dere?

Huspar                          - Pacifico!

La Duchessa                 - (si accorge di Gastone che le pas­sa vicino) Non è vero Gastone, che siete infinita­mente grato al dottor Gibelin di aver fatto di tut­to, dopo tanti anni sperperati dal dottor Bonfant, per restituirvi al vostro passato?

Gastone                         - Infinitamente grato, Duchessa.

La Duchessa                 - Visto? Lo dice da sé. (a Gastone) Ah, Gastone, amico mio, è tanto commovente, vero? pensare che dietro quella porta lì batte un cuore di madre e c'è un vecchio padre che si prepara ad ac­cogliervi tra le sue braccia!

Gastone                         - Sapete, Duchessa: ne ho già viste tal­mente tante di care vecchiette che, illuse, mi bacia­vano, con quei loro nasi umidicci; e vegliardi che, illusi, mi strofinavano la barba in faccia. Figura­tevi un uomo con circa quattrocento famiglie, Du­chessa. Quattrocento famiglie che si accaniscono ad amarlo. E' molto.

La Duchessa                 - Ma dei bambini... dei bamboccini che aspettano il loro papà... Avreste il coraggio di negare che morite di voglia di abbracciarveli quei tesorucci, di farveli saltare sulle ginocchia?

Gastone                         - Sarebbe un po' scomodo, Duchessa. I più giovani devono avere una ventina d'anni.

La Duchessa                 - Ahi Huspar... Ah, ha sempre bi­sogno di profanare gli affetti più sacri, lui...

Gastone                         - (d'un tratto, assorto) Bambini... ne a-vrei, a quest'ora... piccoli... veri... se mi avessero lasciato vivere in pace.

La Duchessa                 - > Sapete bene che era impossibile.

Gastone                         - Perché? Perché io non mi ricordavo più nulla della mia vita antecedente a quel-la sera di primavera del 1918 quando mi scoprirono in una stazione di smistamento?

Huspar                          - Eh, sì, purtroppo!

Gastone                         - Ha senza dubbio intimidito la gente, vedere come uno possa vivere senza passato. Già i trovatelli sono malvisti... e si che a quelli c'è stato il tempo di propinare almeno qualche nozione ele­mentare. Ma un uomo, un uomo fatto, con appena la sua nazione, e senza città natale, senza tradizioni, senza nome. Cavolo! Uno scandalo!

La Duchessa                 - Caro Gastone, tutto ci prova, co­munque, che avevate bisogno di un po' d'educazio­ne. Vi ho già detto di non usare quella parola.

Gastone                         - Scandalo?

La Duchessa                 - No  - (esita) quell'altra.

Gastone                         - (seguita assorto) ... e anche: senza fe­dina penale; pensate un po', duchessa. Voi mi af­fidate la vostra argenteria a tavola, al castello la mia camera è a due passi dalla vostra... E se io avessi un po' già ammazzato tre uomini?...

La Duchessa                 - Escludo; i vostri occhi mi dico­no di no.

Gastone                         - Siete; fortunata che i miei occhi vi onorano delle loro confidenze, lo a voite me li guar­do tino allo stordimento per cercarvi dentro un po' di quel che hanno veduto e che non vogliono resti­tuirei. Non ci vedo nulla.

La Duchessa                 - (sorride) Ma voi non avete ucci­so tre uomini. Rinfrancatevi. Non c'è bisogno di co­noscere il vostro passato per saperlo.

Gastone                         - Mi hanno trovato in un treno di pri­gionieri di ritorno dalla Germania. Vuol dire che sono stato al fronte: e che ho spedito anch'io di quelle cose tanto tremende da ricevere suda nostra povera pelle che una spina di rosa fa sanguinare. Uh, mi conosco: sono una schiappa. Ma in guerra lo stato maggiore contava più su una massa di fuoco che sull'abilità del tiratore. Speriamo che io non abbia colpito nemmeno tre uomini.

La Duchessa                 - Ma che cosa mi venite a con­tare? lo voglio credere, invece, che voi siate stato un eroe, in guerra, lo parlavo di uomini uccisi in borghese.

Gastone                         - Eroe, è un concetto vago anche in tempo di guerra. Il maldicente, l'avaro, l'invidioso e persino il vigliacco erano condannati dal regolamen­to a essere tutti eroi, gomito a gomito quasi tutti allo stesso modo.

La Duchessa                 - Non dubitate: qualcosa che non mi può ingannare mi dice - a me - che dovevate essere un ragazzo mollo a posto.

Gastone                         - Magra referenza, per stabilire se non ho fatto niente di male. Sarò anche andato a cac­cia, tutti i ragazzi di buona famiglia vanno a cac­cia; spero di essere stato un cacciatore da ridere e di non aver ammazzato neanche tre bestie».

La Duchessa                 - Ah, mio caro, bisogna volervi molto bene per starvi a sentire senza ridere. I vostri scrupoli sono eccessivi.

Gastone                         - Stavo così quieto all'ospizio. Mi ero abituato a me stesso, mi conoscevo bene; e adesso, ecco, mi tocca separarmi da me, e trovare un al­tro me stesso e mettermelo su come un vestito vec­chio. Mi riconoscerò domani - io che bevo solo ac­qua - nel figlio del lumaio al quale non bastavano quattro litri di Chianti al giorno? Oppure, io che non ho pazienza, nel figlio della merciaia che aveva fat­to una collezione con classifica per famiglie, di mil­le e duecento specie di bottoni?

La Duchessa                 - Se io ho voluto cominciare pro­prio da questi Renauid, è perché sono gente molto a modo.

Gastone                         - Cioè gente che ha una bella casa, un bel maggiordomo: ma il loro figlio com'era?

La Duchessa                 - (vedendo entrare il maggiordomo) Lo sapremo subito. (Si avvicina al maggiordomo) Un momento, prego, avanti di far entrare i vostri padroni, (torna vicino a Gastone) Gastone, fatemi la cortesia di andare un momento in giardino; vi faremo chiamare noi.

Gastone                         - Va bene signora Duchessa.

La Duchessa                 - (lo prende a parte) E poi, senti­te un po', non mi chiamate più « signora Duchessa », Andava bene quando voi non eravate che il degente di mio nipote.

Gastone                         - Senz'altro, signora.

La Duchessa                 - Andate. E non vi mettete a guar­dare per il buco della serratura.

Gastone                         - (allontanandosi) Non ho fretta dì co­noscerli. Ne ho già visti 387.

La Duchessa                 - (guardandolo uscire) Simpaticis­simo ragazzo! Ah, avvocato, quando penso che il si­gnor Bonfant lo metteva a sarchiare l'insalata, mi sento fremere. (Al maggiordomo) Fate pure entrare i padroni, caro, (tornio vicino a Huspar) Sono emozionatissima, mio caro. Ho l'impressione di intraprendere una lotta senza quartiere contro la fatali­tà, contro la morte, contro tutte le forze occulte del mondo. E mi sono vestita di nero. Ho pensato che fosse più in carattere.

(tinirano i Henaud. Alla borghesia di provincia).

Signora Renaud            - (sulla soglia) Ecco. Va l'avevo detto. Non c'è.

Huspar                          - Gli abbiamo detto di allontanarsi un momento, signora.

Giorgio                          - Permettete (si presenta) Giorgio Re­naud. (Presenta le due donne) Mia madre, mia moglie.

Huspar                          - Luciano Huspar. Sono l'avvocato inca­ricato degli affari del malato. La signora Duchessa! Dupont-Dufort, presidente delle varie opere assistenziali di Pontobronc, la quale, nell'assenza dei Sig. Gibelin suo nipote, si è compiaciuta di accompagnare il malato, (convenevoli).

La Duchessa                 - Si, mi sono affiancata, nella modesta misura delle mie forze, all'opera cu imo nipote, che si è dedicato a questo compito con tanto slancio e tanta fede.

Signora Renaud            - Gli serberemo gratitudine eterna per le cure che ha praticato al nostro Giacomino, signora. E la mia più grande gioia sarebbe stata di potergliela esprimere personalmente.

La Duchessa                 - Grazie, signora.

Signora Renaud            - Ma vi prego di scusarmi... Accomodatevi. E' un momento così emozionante...

La Duchessa                 - Oh, se vi capisco, signora!

Signora Renaud            - Pensate, signora, al nostro orgasmo, oggi, a due anni di distanza dalla nostra prima visita all'ospedale.

Giorgio                          - E nonostante i nostri reclami ripetu-1 ti, abbiamo dovuto aspettare fino ad oggi per ottenere un secondo colloquio.

Huspar                          - C'erano tante pratiche, signora. Pensate! che in Francia i dispersi ammontano a 400.000. Quattrocentomila famiglie: e pochissime, credete a me, si rassegnano a rinunziare alla speranza.

Signora Renaud            - Ma due anni, avvocato... E poi, se sapeste in che condizioni ce l'hanno fatto vedere allora. Non dico per voi, Duchessa né peri il dottore vostro nipote perché non dirigeva lui l'ospizio a quel tempo. Ci siamo visti passare davanti I il malato in mezzo alla calca, e spintoni, senza neanche poterlo avvicinare. Eravamo più di quaranta,I tutti in una volta.

La Duchessa                 - I confronti del dott. Bonfant era­no veri scandali.

Signora Renaud            - Scandali. Ma noi non ci sia­mo perduti d'animo. Mio tigao ha dovuto ripartire par i suoi affari, ma noi siamo rimasti là, all'alber­go con Valentina (a Valentina) eh? con la speranza di avvicinarlo. A forza di mance un custode ci ha combinato un colloquio di qualche minuto, disgraziatamente senza risultato. Ma una seconda volta Valentina, (a Valentina) vero?-ha potuto sostituir si ad una guardarobiera che si è data malata. Ed è rimasta tutto il pomeriggio, ma senza potergli direi nuda, non essendo mai riuscita a restare sola coni lui, vero?

La Duchessa                 - Un romanzo, (a Valentina) E se mi avessero scoperta? Sapete almeno cucire?

Valentina                      - Sì, signora.

La Duchessa                 - E non avete potuto restare un I momento sola con lui.

Valentina                      - No, signora.

La Duchessa                 - Ah, quel dottor Bonfant, quel dot­tor Bonfant è un delinquente!

Giorgio                          - Quel che proprio non riesco a capire, I dato le prove che abbiamo fornite, è che abbiano I potuto esitare tra la nostra e le altre famiglie.

Huspar                          - E' davvero inaudito ma pensate che, dopo le ultime eliminatorie restano ancora, con la vostra, cinque famiglie con un grado di probabilità! sensibilmente uguale.

La Duchessa                 - (leggendo nel suo taccuino) Lei famiglie Brigaud, Bougran, Grigou, Legropatre e Madensale. Ma vi dico subito che se ho cominciato dal voi il mio giro è perché tutta la mia simpatia è per! voi.

Signora Renaud            - Grazie, Duchessa.

La Duchessa                 - No, no, non mi ringraziate. Vi! dirò come» la penso. Fin dal principio la vostra lettera mi ha fatto l'impressione che foste persone simpatiche; impressione che il vostro incontro con; ferma in tutto e per tutto. D'altra parte, dopo di voi si va a finirei tra chi sa che gente. Una lattivendola, un lumaio...

Signora Renaud            - Un lumaio?

La Duchessa                 - Un lumaio, sì, signora: un lu­maio. Viviamo in un'epoca favolosa. Quella gente oggi ha certe pretesa! Oh, ma non temete! Me viva, Gastone non sarà mai. assegnato a un lumaio!

Huspar                          - Già! (a Giorgio) Era stato annunziato che queste visite si sarebbero fatte per ordine d'i­scrizione - come era logico - ma siccome a questa stregua sareste rimasti gli ultimi, la Duchessa Dupont-Dufort ha voluto, senza dubbio con una certa imprudenza, scavalcando tutti, venire prima da voi.

Signora Renaud            - Perché, imprudenza? Suppon­go che quelli i quali si prendono cura del malato, siano liberi di...

Huspar                          - Liberi, sì, forse: ma voi non potete fi­gurarvi, signora, la ridda di passioni - spesso, pur­troppo, interessate - che è intorno a Gastone. La sua pensione di grande mutilato, che non ha mai potuto ritirare, lo mette in possesso di un vero pic­colo patrimonio. Pensate che con gli arretrati e inte­ressi composti e aggiunte dovrebbe liquidare circa 250 mila franchi.

Signora Renaud            - Come può, una questione di danaro, incidere su una così tragica alternativa?

Huspar                          - Eh, lo può, signora: disgraziatamente lo può. Anzi a questo proposito permettetemi di dire una parola sulla condizione giuridica dell'infermo.

Signora Renaud            - Dopo, avvocato, dopo, vi prego.

La Duchessa                 - L'avvocato Huspar ha il codice a! posto del cuore. Ma siccome è tanto cortese (gli dà un pizzico sul braccio con tutta la sua forza) an­drà a chiamarci subito Gastone.

Huspar                          - (non tenta più di insistere) Obbedisco. Vi chiedo soltanto di non gridare, di non precipi­tarvi addosso a lui. Questi, confronti che si ripetono ormai da tanto tempo lo mettono in uno stato di nervi estremamente teso (esce).

La Duchessa                 - Dovete stare sulle spine, signora...

Signora Renaud            - Una madre non potrebbe stare altrimenti, signora.

La Duchessa                 - Sono commossa per voi (a Valen­tina) Anche voi avete conosciuto il nostro malato, o almeno quello che crediamo il nostro malato, si­gnora?

Valentina                      - Oh, sì, Duchessa. Vi ho detto che so no stata all'ospizio in sostituzione di quella guarda­robiera.

La Duchessa                 - Ah, già, che smemorata! (si batte la fronte).

Signora Renaud            - Giorgio, il mio primogenito, qui, ha sposato Valentina giovanissima, questi due ragazzi erano dei veri camerati. E si vogliono molto bene, vero Giorgio?

Giorgio                          - (freddo) Molto, mamma.

Duchessa                       - La sposa di un fratello, è quasi una sorella, vero, signora? 

Valentina                      - (con uno strano sorriso) Certamen­te, duchessa.

La Duchessa                 - Dovete essere estremamente felice di rivederlo.

Valentina                      - (a disagio, guarda Giorgio che rispon­de per lei).

Giorgio                          - Molto felice. Come una sorella.

La Duchessa                 - Io sono decisamente una vera ro­mantica. Ve lo devo dire? Avevo immaginato che qui a riconoscerlo ci sarebbe stata una donna che egli aveva amato alla follia e avrebbe scambiato con lui il bacio d'amore: il primo della resurrezione dalla sua tomba. Vedo che non sarà così.

Giorgio                          - No, duchessa, non sarà così.

La Duchessa                 - Pazienza, per il mio bel sogno. (Si avvicina alla finestra) Ma quanto ci mette l'av­vocato Huspar! Avete un parco molto esteso, e lui è un po' miope. Scommetto che si è smarrito.

Valentina                      - (a Giorgio) Che hai da guardarmi così? Non andrai a rinvangare tutte le vecchie sto­rie,, adesso.

 Giorgio                         - Perdonandoti, ho cancellato tutto.

Valentina                      - Allora non mi lanciare un'occhiata ad ogni frase di quella vecchia scimunita.

Signora Renaud            - (che non ha sentito e che pro­babilmente è all'oscuro di questa storia) Cara pic­cola Valentina. Guarda Giorgio, è tutta commossa. Bello, serbare un ricordo così del nostro Giacomino, eh, Giorgio?

Giorgio                          - Sì, mamma.

La Duchessa                 - Oh, eccolo! (entra Huspar solo) Lo sapevo. Non l'avete trovato.

Huspar                          - Sì. Ma non ho osato disturbarlo.

La Duchessa                 - Che vuol dire? Che stava facendo?

Huspar                          - Era fermo in contemplazione di una statua.

Valentina                      - (quasi con un grido) Una Diana cacci atri ce con una banchina a semicerchio, in fon­do al parco?

Huspar                          - Sì. Eccolo laggiù. Si vede da qui. (tutti guardano).

Giorgio                          - (secco) Ebbene, che cosa prova?

La Duchessa                 - (a Huspar) E' una cosa che ap­passiona, cari miei!

Valentina                      - (sommessa) Non so. Mi par di ricor­dare che: gli piaceva molto quella statua e la ban­china...

La Duchessa                 - Qui si sta sui carboni accesi (a Huspar) cari miei, sui carboni accesi...

Signora Renaud            - Mi stupisce, cara Valentina. Quell'angolo del parco faceva parte dell'antica pro­prietà Dubanton. Noi avevamo già comprato, è vero, quel lotto fin dal tempo di Giacomo; però non ab­biamo buttato giù il muro che dopo la guerra.

Valentina                      - Sì, forse. Non so.

Huspar                          - Aveva un'aria così assorta, lì, davanti a quella statua, che non ho voluto disturbarlo pri­ma di aver sentito da voi se quello poteva essere un particolare di qualche peso. Poiché non sembra, vado a chiamarlo (esce).

Giorgio                          - (a Valentina) Su quella panchina vi da­vate appuntamento?

Valentina                      - Non so che vuoi dire.

La Duchessa                 - Signora, nonostante la vostra le­gittima commozione vi scongiuro di restare impas­sibile.

Signora Renaud            - Contate su di me, signora. (Huspar entra con Gastone) E' lui, proprio lui.

Duchessa                       - (avvicinandosi a lui e cercando di na­scondergli gli altri con le sue mani) Gastone, cer­cate di non pensare a niente; lasciatevi andare sen za reazione, senza sforzo. Guardate bene le facce, una per una. (Pausa. Tutti fermi. Passa e guarda Giorgio e la S'ignora Renaud. Davanti a Valentina si ferma un attimo).

Valentina                      - (mormora) Caro!

Gastone                         - (la guarda sorpreso, ma passa oltre, si volge aite duchessa, cortese, allargando h braccia con un gesto di impotenza) Molto spiacente...

TELA

SECONDO QUADRO

Una porta Luigi XV. Davanti ai battenti chiusi so­no riuniti, bisbigliando, i domestici dei Renaud.

La Cuoca                      - (appiccicata alla porta guarda per il buco della serratura) (Agli altri) Stanno tutti lì a guardarselo, come una bestia rara quel pove­raccio non sa più dove mettersi.

Lo Chaffeur                  - Lascia vedere.

La Cuoca                      - Aspetta. S'è alzato di colpo. Ha rove­sciato la sua tazza. Ha l'aria di essere stufo delle loro domande. Ecco, ora il signor Giorgio lo prende a parte nel vano della finestra,. Lo tiene per il brac­cio, gentilmente, come se non ci fosse stato mai nulla.

Lo Chaffeur                  - Ebbe...

Giulietta                        - Oh, avreste dovuto sentirlo, il signor Giorgio, quando ha scoperto tutte le sue lettere do­po la guerra. Con tutta quella sua aria di pecora mor­ta. Eh, faceva faville, ve lo dico io.

Cameriere                      - Ei morti non comincino loro a far­ci le corna.

Giulietta                        - Ah, tu, da quando ci siamo sposati non pensi ad altro. Non sono i morti che vi fan le corna: ci vuol altro! Sono i vivi. E i morti non han­no niente da spartire colle storie dei vivi.

Cameriere                      - Già! Troppo comodo. Tu fai le cor­na a uno, oplà. Chi s'è visto si è visto, i cocci agli altri. Basta essere morti !

Giulietta                        - Già, .perché è una cosa da niente essere morti!

Cameriere                      - E essere cornuto, allora?

Giulietta                        - Tu ci pensi troppo: ti capiterà.

La Cuoca                      - (che lo chaffeur tenta di scassare la  porta) Aspetta, aspetta. Adesso vanno tutti giù in fondo. Gli mostrano le fotografie, (cede il posto allo chaffeur) Bah, attraverso alle serrature di una volta ci si vedeva bene; ma con queste serrature moder­ne... bell'affare... ci si consumano gli occhi.

Lo Chaffeur                  - (Curva a sua valla al buco della ser­ratura) E' lui, è lui! Riconosco il suo grugno di maiale.

Giulietta                        - Ohe, guarda come parli, sporcac­cione!

Cameriere                      - E perché lo difendi? Sempre specia­le, deve essere lei!

Giulietta                        - Perché io gli volevo bene, al signor Giacomino. Tu ci avresti per caso da ridere? Non l'hai neanche conosciuto. Io gli volevo bene.

Cameriere                      - E poi? Era il tuo padrone. Gli lu­stravi le scarpe.

Giulietta                        - E poi gli volevo bene. E questa è tutta un'altra amministrazione.

Cameriere                      - Puah - come suo fratello - un bell'arnese...

Lo Chaffeur                  - (cede il posto a Giulietta) Peggio. caro mio, peggio. Erano più le volte che mi teneva lì a candire fino alle quattro del mattino; davanti alle taverne. E all'alba quando tu eri gelato, se ne usci­va lui. rosso come un tacchino, un tanfo di zozza a un tiro di schioppo, e veniva a vomitare sui cu­scini della macchina. Un bel maiale, sì, sì.

La Cuoca                      - Puoi ben dirlo! E le volte che io mi son dovuta difendere con la mano. E non aveva an­cora diciotto anni.

Lo Chaffeur                  - E per mancia, gran cicchetti!

La Cuoca                      - E maltrattamenti. Mi ricordo che a quei tempi in cucina c'era uno sguatteretto; tutte le volte .che vedeva quel disgraziato, erano schiaf­fi e calci.

Lo Chaffeur                  - E senza motivo. Era una canaglia, era. E oliando si seppe che si era fatto bucare la ghir­ba nel 1918. noi. senza essere più maligni degli altri, abbiamo detto tutti che gli stava bene.

Il Maggiordomo            - Beh, beh, andiamo, leviamoci di qui. Io ce ne avrei da dine: e più di voi. Io ho assistito alle scene a tavola. Ero presente anche quando alzò la mano sulla signora.

La Cuoca                      - Sua madre! A diciottenni!

Il Maggiordomo            - E i pasticcetti con la signora Valentina - li conosco - potrei dire - dall'A al­la Z.

Lo Chaffeur                  - E allora permettetemi di dire che sei stato molto buono, a chiudere un occhio, signor Giulio.

Il Maggiordomo            - I pasticci dei padroni sono dei padroni

Lo Otaffeur                  - Sì. ma con un tipo simile... (a Giu­lietta) Fatti un po' in là che me ne voglio ripren­dere un'occhiata.

Giulietta                        - (cedendo il polito) E' lui. E' lui! So­no sicura... Il signor Giacomino. Era un bel ragaz­zo, sai. a quel tempo. Proprio un bel tocco di ra­gazzo.

Cameriere                      - Non ti scaldare tanto, che di bei ra­gadi ce ne sono degli altri e più giovani...

Giulietta -                      - Onesto sì. Quasi vent'anni, non è u» no scherzo. E credi che mi troverà molto cambiata?

Cameriere                      - E che ti fa, se mai?

Giulietta                        - Oh, niente...

Cameriere                      - (dopo un momento di riflessione, men­tre gli altri si fanno un cenno d'intesa dietro le sue spatite) Di' un po' tu, che hai da sospirare da quan­do si vocifera che forse è lui?

Giulietta                        - Io, niente (e gli  altri ridono).

Cameriere                      - Stai sempre davanti allo specchio e domandi sempre se sei molto cambiata. Quanti an­ni avevi allora?

Giuletta                         - Io? Quindici.

Cameriere                      - Allora, il primo è stato il portalettere.

Giulietta                        - Te l'ho pur detto che mi aveva imba­vagliata e fatto prendere dei sonniferi, (gli altri ri­dono).

Cameriere                      - Sei sicura che era il. primo?

Giulietta                        - Eh, che domanda son cose che una ragazza non le scorda; e aveva avuto il tem­po, quel bestione, di posare la busta; e le lettere, dopo, tutte sparpagliale per la cucina.

Lo Chaffeur                  - (sempre al buco detta serratura) La Valentina... se io mangia con gli occhi. Scom­metto che, se quello resta qui, il buon Giorgio ci ri­media un altro bel paio di corna con frangia e tutto.

Il Maggiordomo            - E' uno schifo... (prendendo il suo posto).

Lo Chaffeur                  - Per fortuna che quello lì (il mag­giordomo) era il più affezionato! (Ridono).

Cameriere                      - Mi fanno scoppiar dal ridere con la loro amnesia, a me! Ma figurati; se quello fosse proprio di famiglia, se non lo riconoscevano subi­to stamattina, Non c'è amnesia che tenga.

La Cuoca                      - Non si è mai sicuri, caro mio. Mai sicuri di niente. Io che ti parlo, per esempio, non mi ricordo mai se ho .messo o no il sale nella salsa.

Cameriere                      - Ma tutta una famiglia!...

La Cuoca                      - Oh, per quello che ci stava in fami­glia, quel disoccupato lì...

Il Maggiordomo            - (al buco della serratura) Ma per essere lui è lui. Ci scommetto la testa.

Lo Chaffeur                  - Ve l'ho da dire io la conclusione di questo pasticcio? Non .c'è da augurare né a noi né a nessun altro che quella canaglietta non sia morto.

La Cuoca                      - Ah, questo no, eh!

Giulietta                        - Vorrei vedervi morti, voialtri...

Il Maggiordomo            - Eh no. Non è da augurare. Neanche a lui, certo. Perché la gente che comincia così non va mai a finir bene.

Lo Chaffeur                  - E poi, adesso, s'è messo a far vita tranquilla e senza pasticci nel suo ospizio. Che cosa troverebbe qui il compare? La storia del ragaz­zo Grandchanxps, la storia con Valentina, la storia delle 500.000 cocuzze e tutte quelle che non sappia­mo noi.

Il Maggiordomo            - Ah certo non vorrei essere nei suoi panni.

Cameriere                      - (che guarda per il buco della serratura) Attenzione! Si sono alzati. Vanno verso la porta del corridoio per uscire.

(7 domestici se la squagliano).

Giulietta                        - (uscendo) Eppure, il signor Giaco­mino...

Cameriere                      - (seguendola, sospettoso) Il signor Giacomino? Che cosa?

Giulietta                        - Già. Niente. (Sono usciti).

TELA

TERZO QUADRO

La camera di Giacomo Renaud, ed i lunghi corri­doi oscuri détta vecchia casa borghese che vi danno accesso Da un lato un vestibolo con pavimento di pietra che mette su una larga scala di pietra con rin­ghiera di ferro battuto. La signora Renaud, Giorgio e Gastone appaiono dallo scalone e traversano il vestibolo.

Signora Renaud            - Scusate, vi faccio la strada. Allora, vedi, questo è il corridoio che (prendevi per andare in camera tua. (apre la porta) E questa è la tua camera. (Entrano tutti e tre nella camera) Oh, che sventati! Avevo pur detto di aprire le persiane. (Esegue. La .camera si inonda di luce; è in puro stile 1910).

Gastone                         - (guardandosi intorno) La mia camera...

Signor Renaud              - Tu la volesti decorata secondo i tuoi disegni. Eri un po' futurista.

Gastone                         - Sembra che mi dovessero piacere in modo esclusivo i convolvoli e i ranuncoli.

Giorgio                          - Eri già un audace.

Gastone                         - Si vede (fissa un mobile) E questo che è? Un albero sotto la tempesta?

Giorgio                          - No. E' un leggio di musica.

Gastone                         - Ero musicista?

Signora Renaud            - Volevamo farti imparare il vio­lino, ma tu non ne hai mai voluto sapere. Quando ti si mandava a studiare diventavi un ossesso. Spac­cavi a calci gli strumenti. Soltanto questo leggio ha resistito.

Gastone                         - E ha fatto male, (sì avvicina a una fo­tografia). E' lui?

Signora Renaud            - Sì, sei tu: a dodici anni

Gastone                         - Mi immaginavo timido e biondo.

Giorgio                          - Eri castano scuro: quasi nero. Tutto il giorno facevi il foot-ball e fracassavi ogni cosa.

Signora Renaud            - (mostrandogli una grossa valigia) Guarda che cosa ti ho fatto portare giù, dalla sof­fitta.

Gastone                         - Che è? La mia vecchia valigia? Fini­rete col farmi credere che sono vissuto sotto la Re­staurazione...

Signora Renaud            - Ma no, sciocco. E' la valigia dello zio Gustavo e dentro ci. sono i tuoi giocattoli.

Gastone                         - (accorre) Oh, i miei giocattoli! Ho avuto anch'io i miei giocattoli? E' vero. Non sapevo più di aver avuto dei giocattoli.

Signora Renaud            - Ecco la tua fionda.

Gastone                         - Una fionda? Non sembra uno scherzo (mesta fionda.

Signora Renaud            - Uno sterminio d'uccelletti hai fatto con questa. Eri un vero flagello. E sai, non ti contentavi di quelli all'aria libera. Io avevo una vo­liera di pregio: una volta ci sei entrato dentro e li hai ammazzati tutti.

Gastone                         - Gli uccelli? Gli uccelletti?

Signora Renaud            - Eh sì, sì.

Gastone                         - Quanti anni avevo allora?

Signora Renaud            - Sette o nove, forse.

Gastone                         - (scuote il capo) Non sono io.

Signora Renaud            - Ma sì, ma sì!

Gastone                         - No. A sette anni, io, se mai, sarò an­dato in giardino con delle briciole di pane a ri­chiamare i passerotti che me le venissero a beccare in mano.

Giorgio                          - Oh, avresti schiacciato il capo a quegli imo rudenti !

Signora Renaud            - E quel! povero cane a cui rup­pe una gamba con una sassata?

Giorgio                          - E i topi che attaccava a una corda?

Signora Renaud            - E gli scoiattoli, e più tarda, le donnole, le puzzole. Ne hai ammazzate, di queste be­stiole. E le più belle le faceva impagliare. Ce n'è una collezione in soffitta; bisognerà che le faccia portar giù. (fruga nenia valigia) Ecco: i tuoi coltelli., le pri­me carabine...

Gastone                         - (frugando anche lui) Non ci sono dei burattini, delle arche di Noè?

Signora Renaud            - Eri piccolo così, e non volevi già più che giocattoli scientifici: ecco qua: girosco­pi, provette, elettrocalamite, storte e la gru mec­canica.

Giorgio                          - Si pensava di fare di te un provetto in­gegnere.

Gastone                         - (ride, stupito) Di me?

Signora Renaud            - Ma la tua passione erano i libri di geografia. Eri sempre il primo in geografia.

Giorgio                          - A dieci ani sapevi ripetere a memoria, a rovescio, le Province di Francia.

Gastone                         - A rovescio... Già. Ho perduto la me­moria. Però all'ospizio ho tentato di riacquistarla. Ma lasciamo questa valigia delle meraviglie. Non credo ci porti a nessun risultato. Non mi vedo af­fatto così, da fanciullo. (Chiude la valigia, vaga un po' per la scena, tocca gli oggetti, siede sulle poltro­ne, pai futta un tratto) L'aveva un amico, un ra­gazzo? Un altro ragazzo che stava sempre con lui e col quale scambiava campati e francobolli?

Signora Renaud            - (voìlufiik) Ma certo, certo. Avevi tanti compagni di. scuola! Puoi figurarti, tra collegio e patronato!

Gastone                         - Sì, ma non .condiscepoli. Un amico. Questo vi domando. Anche prima di chiedervi quali sono state le mie donne, poi.

Signora Renaud            - (colpita) Oh, eri così giovane, Giacomino, quando partisti...

Gastone                         - Vi domanderò anche questo... Ma prima, mi pare molto urgente domandarvi se avevo un amico.

Signora Renaud            - Ebbene, potrai ritrovarli tutti in una fotografia nei gruppi di collegio. Dopo sono venuti quelli che ci uscivi insieme la sera...

Gastone                         - Ma quello col quale preferivo uscire, quello a cui raccontavo tutto?

Signora Renaud            - Tu non avevi preferenze per nessuno, sai.

Gastone                         - Ah... (pausa) picchè vostro figlio non aveva un amico. Peccato! Voglio dire: peccato, se scopriremo che sono io. Credo che quando uno si è fatto uomo, non ci possa essere per lui maggior con­solazione che un riflesso della sua infanzia negli occhi di un coetano d'allora. Peccato. Vi confesso, anzi, che proprio da quell'amico immaginario spe­ravo di riavere la mia memoria, come, per un natu­rale favore.

Giorgio                          - (dopo un momento di titubanza) Cioè, un amico sì, l'avevi, e ti era anche molto caro. Te lo sei conservato fino ai diciassette anni. Non te ne par­lavamo perché è un caso molto triste.

Gastone                         - E' morto?

Giorgio                          - No, no. Non è morto. Ma avete tron­cato, vi siete lasciati in rancore. Definitivamente.

Gastone                         - Definitivamente, a diciassette anni? (pausa) E avete saputo, voi, il motivo del dissenso?

Giorgio                          - Si, qualche cosa, ma...

Gastone                         - E non hanno cercato di rifar pace in seguito? Né vostro fratello né il suo amico?

Signora Renaud            - Tu non pensi che c'è stata la guerra, dopo. E poi, sai, avete leticato per un moti­vo tanto futile e vi eravate perfino presi a pugni, come tutti i ragazzi a quell'età. E, certo senza vo­lerlo, tu hai fatto un gesto brutale sopratutto un gesto sfortunato. L'hai fatto cadere dall'alto .della scala. Cadendo si è leso la colonna vertebrale. Han­no dovuto ingessarlo per molto tempo, e poi è rima­sto invalido, sempre. Tu capisci ora, come sarebbe stato difficile e penoso, per te, adesso, tentar di rivederlo.

Gastone                         - (dopo una pausa) Capisco. E dove è scoppiata la lite? in collegio o a casa sua?

Signora Renaud            - (presto) No, qui. Ma non par­liamo più di una cosa .così angosciosa; una cosa che sarebbe meglio scordarsi, Giacomo,

Gastone                         - Se ritrovo la memoria per una cosa, sarai per tutte, lo sapete bene. Un passato non si trat­ta così, a pezzi e bocconi. Qual'è la scala? Vorrei vederla.

Signora Renaud            - Qui. vicino alla tua camera, Giacomino. Ma a che scopo?

Gastone                         - Volete portarmici?

Giorgio                          - Se vuoi, ma io non capisco davvero perché vuoi rivederla (escono, vanno fino al vestibolo).

Signora Renaud            - Ecco. Qui.

Giorgio                          - Qui.

Gastone                         - (sì guarda attorno, si sporge dalla ntnghiem) Dove ci siamo picchiati?

Giorgio                          - Sai noi non abbiamo seguito la scena. Una delle domestiche ce l'ha raccontata.

Gastone                         - Non è una scena da niente. Immagino che l'avrà raccontata in tutti i suoi particolari. Que­sto pianerottolo è tanto largo...

Signora Renaud            - Dovevate essere sull'orlo, a pic­chiarvi. Ha messo un piede in fallo, chi sa. Tu, for­se, non l'hai neanche toccato.

Gastone                         - (volgendosi a lei) Allora, se non si è trattato che di una disgrazia, perché non andavo a fargli compagnia nella sua camera? A perdere con lui tutti i, miei giorni di vacanza, per non fargli sen­tire troppo l'ingiustizia della sorte, invece che an­dare al sole?

Giorgio                          - Sai, ognuno ha voluto dire la sua. Ci sì è messa di mezzo la malignità della gente.

Gastone                         - Qual'è la domestica che ci ha visti?

Signora Renaud            - Che te ne fai di certi partico­lari? Prima di tutto quella ragazza non è più da noi.

Gastone                         - Qualcuno sarà rimasto in servizio, di quelli di allora. Domanderò a loro.

Signora Renaud            - Spero che non vorrà dar fe­de ai chiacchiericci di cucina. Te ne racconteranno delle belle, se dai retta ai domestici, se vai a domandare a loro, vedrai. Tu sai che genie è...

Gastone                         - (rivolgendosi a Giorgio) Signore, io sono sicuro che mi capirete voi. Io non ho ancora riconosciuto nulla di questa casa. Quel che mi avete raccontato sull'infanzia di vostro fratello, mi sembra lontanissimo da quello che credo il mio tempera­mento. Ma forse è la stanchezza, forse è qualche co­sa d'altro: per la prima volta provo un certo tur­bamento a sentire della gente parlare del loro caro.

Signora Renaud            - Ah, Giacomino mio! Ne ero sicura.

Gastone                         - Sarà bene non commuoversi prima del tempo e non chiamarmi ancora Giacomino mio. Noi stiamo conducendo un'inchiesta come se fos­simo della polizia, con un rigore e, se possibile, con un'inesorabilità da gente della polizia. Quésta presa di contatto con un essere che mi è totalmente estra­neo e che io sarò forse tra poco obbligato ad accet­tare come una parte di me stesso: questo bizzarro sposalizio con un fantasma, è una cosa di per se stessa abbastanza penosa, senza obbligarmi a contra­stare anche con voi. Io accetto tutte le prove, sento tutti i particolari, ma qualche cosa mi dice che pri­ma devo sapere la verità su questa lite. La verità. Qualunque essa sia.

Signora Renaud            - Ebbene, ecco: per una scioc­chezza da ragazzi vi siete picchiati. Tu sai come si è vivaci a quell'età...

Gastone                         - No, non da voi. Quella domestica è ancora qui, vero? Non mi avete detto la verità, voi, dianzi.

Giorgio                          - (d'un tratto, dopo una pausa) Sì. E' ancora con noi.

Gastone                         - Chiamatela, per favore. Perché esita­re ancora quando sapete che la ritroverò un giorno o l'altro e che la interrogherò?

Giorgio                          - E' una sciocchezza, una tremenda scioc­chezza.

Gastone                         - Io non sono qui per sapere niente di allegro. E poi chi sa se questo particolare non mi renderà la memoria? Non avete il diritto di nascondermelo.

Giorgio                          - Se proprio vuoi così, la chiamo (suona).

Signora Renaud            - Tremi, Gastone. Non ti senti mica male?

Gastone                         - Tremo?

Signora Renaud            - Hai scoperto qualche primo barlume in te?

Gastone                         - No. Nient'altro che notte. La notte più buia.

Signora Renaud            - E allora, perché tremi?

Gastone                         - E' stupido. Ma tra mille possibili ri­cordi, era proprio il ricordo di un amico quello che più desideravo e con più commossa attesa. Ho co­struito tutta una impalcatura sul ricordo di questo amico eventuale: passeggiate entusiaste, scoperte di libri fate insieme, una ragazza amala contemporaneamente, e che io avevo lasciata a lui, con mio sa­crifizio; e perfino ora vi faccio ridere - che gli avevo salvato la vita un giorno, in barca. Allora     - pro? se io sono vostro figlio, bisognerà che mi abitui ad una realtà così     - (lontana dal mio sogno! (E' entrata Giulietta).

Giulietta                        - La signora ha chiamato?

Sionora Renaud            - II signor Giacomo ha da parlar­vi, Giulietta.

Giulietta                        - A me?

Giorgio                          - Sì. Vuole interrogarvi sull'increscioso caso di Marcello Grandchamps a cui vi trovaste pre­sente.

Signora Renaud            - Voi conoscete la verità, fi­gliola. E sapete che se il signor Giacomo era un po' violento, poi però era anche incapace di un'inten­zione delittuosa.

 Gastone                        - Non le dite niente, vi prego. Dove eravate signorina, quando si svolse l'incidente?

Giulietta                        - Sul pianerottolo, con questi signori, signor Giacomino.

Gastone                         - Non mi chiamate ancora signor Giacomo. Come cominciò la lite?

Giulietta                        - (un'occhiata a Renaud) Ecco veramente...

Gastone                         - (si avvicina a loro) Volete usarmi la cortesia di lasciarmi solo con lei? Sento che la mettele a disagio.

Signora Renaud            - Sono pronta a far tutto quello che vuoi, purché tu ci torni, Giacomino mio.

Gastone                         - (li accompagna alla porta) Vi richia­merò  (a Giulietta) Accomodatevi.

Giulietta                        - Col permesso del signore.

Gastone                         - (siede di fronte a lei) E lasciamo an­dare la terza persona, per favore. Non sarebbe che un intralcio. Quanti anni avete?

Giulietta                        - Trentatré. Lo sapete bene, signor Giacomino, perché io avevo quindici anni, quando partiste per il fronte. Perché me lo chiedete?

Gastone                         - Primo: perché non lo sapevo. Secon­do; vi ripeto che probabilmente io non sono il si­gnor Giacomo.

Giulietta                        - Oh, si! Io vi riconosco bene, signor Giacomo.

Gastone                         - Lo avete conosciuto davvero?'

Giulietta                        - (scoppia d'un fratto in singhiozzi) Com'è possibile dimenticare tutto così? Ma proprio non vi ricordate di nulla, signor Giacomino?

Gastone                         - Assolutamente nulla.

Giulietta                        - Sentirvi fare delle domande così, dopo quello che è successo... Ah che male al cuore, per una donna!

Gastone                         - (resta disorientato per un attimo, poi ca­pisce) Ah, scusate, ma allora il signor Giacomo...

Giulietta                        - (confusa) Si.

Gastone                         - Oh, vi prego proprio di scusarmi. Ma che età avevate allora?

Giulietta                        - Quindici anni. Era la prima volta.

Gastone                         - Quindici anni e lui diciassette. Ma graziosa questa storia. E' la prima cosa che sento di lui un po' simpatica. E ha durato molto?

Giulietta                        - Finché è partito.

Gastone                         - E io che ho tanto cercato di ricordar­mi il viso della mia buona amica. Va bene; era ca­rina.

Giulietta                        - Lei era forse carina: ma non era sola, andate là...

Gastone                         - Ah no?

Giulietta                        - Eh, no, no.

Gastone                         - Ebbene, anche questo non è propria­mente antipatico.

Giulietta                        - Per voi sarà magari divertente. Epperò riconoscerete che per una donna...

Gastone                         - Certo che per una donna...

Giulietta                        - E' amaro per una donna, sentirsi prendere in giro «nel suo dolente amore».

Gastone                         - (un po' disorientato) Nel suo dole... Ah si certo.

Giulietta                        - Non ero che una ragazzina proprio buona a niente, ma questo non mi ha impedito di berlo fino alla feccia l'amaro calice dell'amante ol­traggiata...

Gastone                         - L'amaro calice Eh si!

Giulietta                        - Avete mai letto « Violata la sera delle nozze »?

Gastone                         - No, mai.

Giulietta                        - Dovreste leggerlo. Vedreste. C'è un fatto quasi uguale. L'infame seduttore di Bertranda se ne va anche lui: ma in America, lui, chiamatovi da uno zio ricco sfondato e lei glielo dice, Bertranda, che ella l'ha bevuto fino alla feccia l'amaro calice dell'amante oltraggiata.

Gastone                         - (che ora vede lutto chiaro) Ah! era una frase del libro.

Giulietta                        - Già. Ma va così bene anche'per me...

Gastone                         - Eh si. (che si è alzato di colpo e do­manda un po' comico) E vi voleva molto bene il signor Giacomino?

Giulietta                        - Una passione. E poi, guardate: dice­va di volersi uccidere per me.

Gastone                         - Come siete diventata la sua amante?

Giulietta                        - Oh, il secondo giorno che ero nella casa. Stavo rifacendomi la camera, mi ha buttato sul letto. E ridevo come una stupida io. Per forza, a quell'età! E' successo, come a dire, a mio dispetto. Ma poi mi ha giurato di amarmi tutta la vita.

Gastone                         - (La guarda e sorride) Burlone di un Giacomino!

Giulietta                        - Perché burlone?

Gastone                         - Così. Comunque se il signor Giacomo sarò io vi prometto di riprendere in esame e molto seriamente, la vostra pratica.

Giulietta                        - Oh, sapete, io non chiedo riparazio­ne. Ora mi sono sposata.

Gastone                         - E tuttavia, tuttavia... (persa) Ma io mi perdo in trastulli e sarò boccialo all'esame. Tor­niamo a quell'orribile incidente, che sarebbe bene ignorare, e che invece io devo conoscere punto per punto.

Giulietta                        - Ah già! Quello scontro con il signor Marcello.

Gastone                         - Sicuro. Eravate presente?

Giulietta                        - Si sa che ero presente.

Gastone                         - Eravate lì quando è scoppiata la lite?

Giulietta                        - Ma certo!

Gastone                         - Allora mi porrete dire per che strana pazzia si sono picchiati con tanto furore.

Giulietta                        - (Tranquilla) Come? Una strana paz­zia? Si sono picchiati per me.

Gastone                         - (si alza) Per voi?

Giulietta                        - Sicuro! Per me. Vi pare strano?

Gastone                         - (Ripete sbalordito) Per voi?

Giulietta                        - Ma certo! Capirete, ero l'amante del Signor Giacomino a voi ve lo dico perché voi do­vete saperlo, ma, mi raccomando, eh? non fac­ciamo scherzi perché io non ho nessuna voglia di perdere il .posto per una storia di vent'anni fa. Io ero l'amante del signor Giacomino, e, bisogna rico­noscerlo, il signor Marcello mi stava un po' d'at­torno.

Gastone                         - E allora?

Giulietta                        - Allora, un giorno che tentò di ba­ciarmi dietro la porta... io non ci stavo, ma sapete come sono i ragazzi quando se lo mettono in testa... proprio in quel momento è uscito di camera sua il signor Giacomino e ci ha visto. E' saltato addosso al signor Marcellino che si è difeso. Si son picchiati, sono andati a finire per terra....

Gastone                         - In che punto si trovavano esattamente?

Giulietta                        - Sul pianerottolo grande del primo piano, lì di fianco.

Gastone                         - (gridando) Dove? Dove? Dove? Voglio vedere il punto preciso. Andiamo.

Giulietta                        - Oh  mi fate male!

Gastone                         - Dove? Dove?

Giulietta                        - (si libera da la stretta e si strofina £1 polso) Ecco. Qui, sono caduti qui in mezzo tra il vestibolo e il pianerottolo. Il Signor Marcello era sotto.

Gastone                         - Ma qui erano lontani dal margine: come han fatto a finire in fondo alla scala? Sono ruzzolati tutti e due nella lotta?

Giulietta                        - No. E' stato il signor Giacomo: è riuscito ad alzarsi e ha trascinato il signor Marcello per una gamba fino agli scalini....

Gastone                         - E poi?

Giulietta                        - E poi gli ha dato una spinta, per­bacco. Gridando: «Piglia, ragazzo, e impara a en­trare nel pollaio degli altri! » Ecco, (pausa) Ah, era un'uomo il signor Giacomino...

Gastone                         - (sordo) Ed era il suo amico!

Giulietta                        - Come no? Dall'età di sei anni erano stati sempre a scuola insieme.

Gastone                         - Dall'età di sei anni!

Giulietta                        - Ah, sicuro che è orribile. Ma che volete? L'amore fa far questo e altro.

Gastone                         - (la guarda e mormora) L'amore. Eh già... l'amore. Vi ringrazio signorina...

Giorgio                          - (Batte alla porla della camera poi viene fino al vestibolo) Mi son permesso di tornare. Voi non ci avete più 'chiamati: mamma stava in'pena. E così, avete saputo Quel che volevate sapere?

Gastone                         - Si, Grazie. So quello che volevo sa­pere. (GiuMella è uscita).

 Giorgio                         - Oh - non è certo una bella cosa ma voglio credere, nonostante quello che vi possono aver detto, che sia stato in fondo soltanto un caso, e - tu avevi diciassette anni, non ce lo scordiamo! una ragazzata, una ragazzata sinistra... (pausa) (è in imbarazzo) Che ti ha raccontato?

Gastone                         - Quel che ha veduto. Né più né meno.

Giorgio                          - Te l'ha detto che la lite è derivata da rivalità di squadre? Marcello era uscito dalla tua per motivi personali; ora faceva parte di squadre avversarie e, nonostante l'amicizia, vero? nel vo­stro ardore sportivo... (Gastone tace) Comunque, è la versione che io, per me, ho accettato volentieri. Perché da parte dei Grandchamps è stata messa in giro un'altra storia che io, personalmente e per par­te mia, non ho mai voluto accettare. Non cercar di saperla, quella, perché è soltanto stupida e malvagia.

Gastone                         - Voi gli volevate molto bene a Giacomo?

Giorgio                          - Era mio fratello minore, nonostante tutto. Nonostante tutto il resto. Perché poi ci sono tante altre cose. Oh - eri un demonio, tu.

Gastone                         - Finché non ne avrò perduto il diritto, vi prego di dire: Era un demonio, lui.

Giorgio                          - (Con uno squallido sorriso ai suoi ricordi) Si... oh- ci hai dati tanti dispiaceri. E se tu rientrerai in famiglia, con noi, dovrai venire a co­noscere cose molto più gravi di quel gesto disgra­ziato, sul quale, almeno, resta il beneficio del dubbio.

Gastone                         - C'è dell'altro?

Giorgio                          - Tu eri un ragazzo che vuoi? un ragazzo lasciato a se stesso, in un mondo disorganiz­zato. La mamma, coi suoi principi, veniva a urtane alla cieca contro di te senza altro risultato che di farti chiudere sempre più in te stesso. Io non ave­vo abbastanza autorità. Tu hai cominciato con una grossa sciocchezza che ci è costata molto cara. E sai, noi, gli anziani, eravamo al fronte. I ragazzi del tempo tuo si credevano permesso tutto. Ti sei voluto buttare in una speculazione. Ma ci .credevi davvero, tu a questo affare? O  non era che un pretesto per fare il tuo comodo? Soltanto tu ce lo potrai dire se recuperi del tutto la memoria. Sta però di fatto che tu hai stregato - è la parola - stregato, una vecchia amica di famiglia. E le hai fatto sborsare una grossa somma!: 500.000 franchi. Tu eri il se­ducente intermediario. Ti eri fatto fare un docu­mento con la falsa intestazione di una società - senz'altro immaginaria - Tu firmavi ricevute false. Un giorno tutto è venuto a galla     - ma era troppo tar­di. Non ti restavano più che poche migliaia di fran­chi. Il resto te l'eri speso in chi sa che bagordi, in che taverne, con donne e Gualche compagno di stra­vizi. Noi, naturalmente, abbiamo provveduto al rim­borso.

Gastone                         - La gioia con cui vi disponete ad accorrere vostro fratello, è considerevole.

Giorgio                          - Più di quanto tu possa immaginare, Giacomo.

Gastone                         - Perché, c'è dell'acro ancora?

Giorgio                          - Ne riparleremo. Un'altra volta.

Gastone                         - Perché un'altra volta?

Giorgio                          - E' meglio. Ora chiamo la mamma. Sta­rà in pensiero che non ci facciamo più vivi.

Gastone                         - ( lo ferma) Potete parlarmi; sono qua­si sicuro di non essere vostro fratello.

Giorgio                          - (lo guarda un momento senza dir nulla. Poi con voce sorda). Eppure gli rassomigliate molto. E' il suo viso, ma come se ci fosse passata su là tormenta.

Gastone                         - (sorride) Diciotto anni! Anche il vo­stro, senza dubbio, sebbene io non abbia la fortuna di ricordarmelo senza rughe.

Giorgio                          - Non sono rughe soltanto; è un'usura, ma un'usura che invece di guastare, indurire il vo­stro volto lo avesse fatto più dolce e levigato. Come se dopo là tormenta, vi fosse passato sopra un alito di purezza e di bontà.

Gastone                         - Si. Lo capisco ora: ci sono poche pro­babilità che il viso di vostro fratello portasse un segno di dolcezza.

Giorgio                          - Questo no. Era duro si: leggero e in; contante Ma oh, io gli volevo bene, con tutti i suoi difetti. Era più bello di me. Non più intelligente, forse, di quell'intelligenza utile in collegio e nei concorsi; ma più sensibile, più brillante certo (con voce sorda) più seducente. Anche lui, sapete, a modo suo, mi voleva molto bene. Ebbe perfino- almeno all'uscir dall'infanzia - una specie di tenera grati­tudine che mi commuoveva. Perciò è stato un col­po grave quando ho saputo, (abbassa il capo come se il torto fosse suo) E l'ho odiato, si, l'ho odiato. Poi, tutto a un tratto, non ho potuto più odiarlo. .

Gastone                         - Ma, di che?

Giorgio                          - E sei stato tu, Giacomo (Gesto di Ga­stone) Ho un bel dire a me stesso che era giovane e debole, in fondo, come tutti i violenti. Ho un bel considerare che nulla è difficile per uno che ha due belle labbra e in una sera d'estate parte per il fron­te. E che io ero lontano. E che anche lei era una bambina...

Gastone                         - Scusate... Non capisco bene. Vi ha portato via una donna?... (Pausa) Vostra moglie? (Giorgio afferma col capo) (Gastone con tona sordo) Quel mascalzone! ,

Giorgio                          - E forse siete voi.

Gastone                         - (Dopo una pausa, con voce rotta) Giorgio: Vi chiamate così?

Giorgio                          - Si.

Gastone                         - (Lo guarda un attimo e poi mormora) Giorgio.

Signora Renaud            - (Entra dall'anticamera) Oh, Già cornino, eri qui...

Giorgio                          - (Con gli occhi pieni di lacrime, per non mostrare la sua commozione, esce in fretta dall'altro lato) Scusatemi …. devo andare. (Esce).

Signora Renaud            - (Entrando nella camera) Gia­como.

Gastone                         - (Senza voltarsi) Si.

Signora Renaud            - Indovina chi viene. Ah, è un colpo d'audacia.

Gastone                         - (Stanco) Io già, sono senza memoria e gl'indovinelli...

Signora Renaud            - Ma la zia Luisa, caro. Sì, la zia Luisa.

Gastone                         - La zia Luisa. Un colpo d'audacia?

Signora Renaud            - Ah, puoi credermi. Dopo quel che è successo, spero bene che la metterai alla porta se tentasse di parlarti a dispetto nostro. Si è portata in un modo... e poi tu non la potevi soffrire. Ah, ma quello della famiglia che odiavi addirittura, caro, e non a torto, sai? è tuo cugino Giulio.

Gastone                         - (sempre senza voltarsi) Dunque, io covo un vero odio, a mia insaputa.

Signora Renaud            - Contro Giulio? Ma non sai che ti ha fatto quel disgraziato? Ti ha fatto la spia al concorso generale; che ti eri portato una tavola di logaritmi. Eh, sicuro, bisogna pure che te le rac­conti tutte queste miserie, che tu saresti capace di accoglierla bene tutta' questa gente, perché non hai più memoria. E Gerardo Dubuc, che verrà di certo a "salutarti con la bocca melata... per poter entrare all'Associazione Cotoniera, dove tu avevi molte più probabilità di lui per via di tuo zio, ti ha calunniato presso la Direzione. Abbiamo poi sa­puto che era stato lui. Oh, ma io spero che gli sbatterai la porta in faccia, come a certi altri che ti dirò e che ti hanno ignobilmente tradito.

Gastone                         - E' pieno di delizie, un passato.

Signora Renaud            - Mentre invece, sebbene ripu­gni un po' da quando è paralitica, bisognerà abbrac­ciare la buona signora Rouquon. Ti ha visto nascere, poverina!

Gastone                         - Non mi pare una ragione plausibile.

Signora Renaud            - E poi ti ha cubato lei quando hai avuto la polmonite, che ero malata anch'io a quel tempo. Ti ha salvato, mio caro.

Gastone                         - Già che c'è anche la gratitudine! Chi ci pensava? (Pausa) Obblighi, rancori, ferite. Come me li immaginavo i ricordi? (Si interrompe) (Ri­flette) Sicuro! Mi scordavo: i rimorsi. Ho un pas­sato in piena regola, adesso. (Pausa). Ma vedete un po' come sono esigente, io: avrei preferito un tipo di passato che avesse anche qualche gioia. E anche un filo d'entusiasmo, possibilmente. Non ne avete uno da offrirmi?

Signora Renaud            - Non ti capisco, Giacomino.

Gastone                         - Eppure è semplice. Vorrei che mi ri­cordaste una delle mie gioie d'allora. I miei rancori, i miei rimorsi non mi hanno illuminato per niente. Ditemi una gioia di vostro figlio, e vediamo che risonanza mi dà.

Signora Renaud            - Oh, non è difficile. Gioie ne hai avute tante, sai. Ti abbiamo talmente viziato...!

Gastone                         - E allora, almeno una.

Signora Renaud            - Mah, è difficile, così, alla sprovvista; come si fa a scegliere?

Gastone                         - A caso...

Signora Renaud            - (Dopo un'esitazione) Ecco, sì, Quando avevi dodici anni...

Gastone                         - No, una gioia di uomo. Le altre sono troppo lontane.

Signora Renaud            - (Subito iin imbarazzo) Eh, già, ma... delle tue gioie di uomo non me ne parlavi gran che... La tua vita era talmente fuori di casa... Come tutti i ragazzi grandi. In quei tempi i re era­vate voi: frequentavi i bar, le corse... Coi tuoi com­pagni ti davi alla pazza gioia; ma io..,

Gastone                         - Non sono mai stato allegro davanti a voi?

Signora Renaud            - Eh, diamine, come no? Per esempio, quando avesti il premio l'ultima volta...

Gastone                         - Ma no. Non al tempo dei premi. Più tardi. Tra il momento che ho posato i libri di scuola, e quello che mi hanno messo tra le mani il fu­cile; in quei pochi mesi che hanno dovuto essere, non ne dubito, tutta la mia vita d'uomo...

Signora Renaud            - Sto cercando. Ma, sai, tu eri sempre via. Ti davi tante arie d'uomo fatto...

Gastone                         - Ma insomma, a diciotto anni, per quante anie d'uomo fatto uno si dia, si è sempre ragazzi. Ci sarà pur stata, un giorno, una fuga d'ac­qua nella stanza da bagno e nessuno capace di fer­marla; un giorno che la cuoca avrà detto una for­midabile castroneria; un giorno che avremo trovato un fattorino del tram molto buffo, e allora avrò riso davanti a voi. Oppure per la gioia di un re­galo, di un raggio di sole. Non vi chiedo una gioia straripante, ma una gioia da niente, un filo di gioia. Non sarò mica stato nevrastenico?

Signora Renaud            - Ti dirò. Giacomino. Avrei do­vuto parlartene più tardi e più pacatamente. A quel tempo non eravamo in buoni rapporti, tu ed io. Oh. ragazzate! A tanta distanza forse, ti sembrerà più grave che non fosse allora. Ecco, proprio nel periodo tra la scuola e il reggimento noi non ci parlavamo.

Gastone                         - Ah!

Signora Renaud            - Sicuro. Oh, per delle sciocchezze, sai.

Gastone                         - E ha durato molto tempo?

Signora Renaud            - Quasi un anno.

Gastone                         - Perbacco! Eravamo piuttosto punti­gliosi, tutti e due. E chi l'ha cominciata?

Signora Renaud            - (A disagio) Oh io. forse. Ma per causa tua. Ti eri preso una stupida montatura.

Gastone                         - E per una impuntatura da ragazzo avete potuto stare un anno senza parlare al vostro figliolo?

Signora Renaud            - Ma tu non hai fatto niente per far cessare tale stato di cose; niente, sai.

Gastone                         - Comunque, alla mia partenza per il fronte ci saremo riconciliati, suppongo. Non mi avrete lasciato partire senza abbracciarmi.

Signora Renaud            - (dopo una pausa, tutto d'un trat­to) Sì. (Pausa) (Più presto) Colpa tua. Perché anche quel giorno io ti ho aspettato in camera mia. Tu volevi che il primo passo lo facessi io: io. tua madre che avevi offeso grandemente. Hanno avuto un bell'intromettersi gli altri: niente ti ha fatto ri­muovere, niente. E partivi per il fronte.

Gastone                         - Ma quanti anni avevo io?

Signora Renaud            - Diciotto.

Gastone                         - Io non sapevo, forse, dove andavo. A diciotto anni la guerra è una divertente avven­tura. Ma non -eravamo più nel 1914, quando le ma­dri infioravano i fucili: e dovevate saperlo, voi. dove andavo a finire.

Signora Renaud            - Oh, io credevo che la guerra sarebbe terminata prima che tu lasciassi la caserma e che ti avrei rivisto nella licenza di partenza per il fronte. E poi tu eri sempre così aspro e duro con me.

 Gastone                        - Ma non potevate scendere e dirmi: « Vieni qua, matto. Dammi un bacio».

Signora Renaud            - Ho avuto paura. Dei tuoi oc­chi. Della smorfia d'orgoglio che tu certo avresti fatto. Saresti stato anche capace di cacciarmi fuori, lo sai?

Gastone                         - E allora sareste tornata, avreste pianto davanti alla mia porta, mi avreste pregato, suppli­cato, vi sareste messa in ginocchio, per farvi dare un bacio prima di partire. Avete fatto male a non mettervi in ginocchio.

Signora Renaud            - Ma Giacomo, una madre?

Gastone                         - Avevo diciotto anni e mi mandavano a morire. Mi vergogno un po' a dirvi questo, ma, per quanto io fossi bestiale a .chiudermi in quel mio orgoglio imbecille, tutti avreste dovuto mettervi in ginocchio e chiedermi perdono.

Signora Renaud            - Perdono di che? Non avevo fatto niente di male, io.

Gastone                         - E io che avevo mai fatto perché tra noi si aprisse un fossato insuperabile?

Signora Renaud            - Oh, tu ti eri ficcato in testa di sposare una sartinetta che avevi trovato Dio sa dove, a diciotto anni, e che doveva essersi rifiutata di diventare la tua amante. Il matrimonio non è un capriccio. Avremmo dovuto, noialtri, lasciarti rovi­nare e metterci in casa quella ragazza? Non dirmi che l'amavi. Si ama forse a diciotto anni: voglio dire, in modo così saldo, da doversela sposare, una sartinetta incontrata in una sala da ballo qualche settimana prima?

Gastone                         - Si capisce che era una sciocchezza. Ma la mia classe doveva essere chiamata tra pochi mesi, lo sapevate. E quella sciocchezza era la sola che potessi fare allora. E chi voleva quell'amore, certo effimero, non aveva davanti a sé che pochi mesi, meno di quanto ne occorrevano per veder­selo finire.

Signora Renaud            - Ma chi ci pensava neanche, che tu andassi a morire! E poi non ti ho detto tutto. Lo sai che m'hai gridato in piena faccia con la bocca tutta contorta, e la mano alzata su di me? tua madre? «Ti odio, ti odio!». Questo mi hai gri­dato in faccia. (Pausa). Capisci ora perché ero ri­masta in casa mia, col cuore sospeso, colla spe­ranza che tu saresti venuto da me, finché non ho sentito il tonfo della porta di strada?

Gastone                         - (Con dolcezza, dopa una pausa) E io sono morto a diciotto anni, senza avere avuto un poco di gioia per me, perché, si diceva, sarebbe stata una sciocchezza, e senza che voi mi aveste più rivolta la parola. Sono rimasto tutta una notte lungo e disteso supino per terra, con la mia ferita alla spalla, due volte più solo degli altri, che al­meno potevano invocarla, la mamma. (Pausa. Poi, subito, come per se). E' vero. Vi odio.

Signora Renaud            - (Grida spaventata) Giacomino, Giacomino!

Gastone                         - (Come tornando a sé) Come? Scusate. Vi domando scusa. (Pausa). Io non sono Giacomo Renaud. Non riconosco niente, qui, di quel che era suo. Per un attimo, sì, ascoltandovi, mi sono con­fuso con lui. Vi domando scusa. Ma, vedete, per un uomo privato della memoria, un intiero passato, a addossarselo tutto in una volta, è troppo peso. Se volete farmi un gran piacere - non soltanto un piacere - ma un bene, dovete lasciarmi tornare al mio ospizio. Seminavo insalata, lucidavo pavimenti... i giorni passavano... e neanche questi diciotto anni- esattamente la metà della mia vita - a tutt'oggi non erano arrivati uno dopo l'altro, a comporre quella desolazione che chiamate un passato.

Signora Renaud            - Ma, Giacomo... (Nel corridoio è apparsa Valentina che ascolta).

Gastone                         - E poi, non chiamatemi più Giacomo. Ha fatto troppe cose quel Giacomo. Gastone, va be­ne; anche se non è nessuno, io so chi è. Ma quel Giacomo il cui nome è già circondalo da tanti ca­daveri di povere bestiole, quel Giacomo che ha in­gannato, martoriato, che se n'è andato alla guerra solo come un cane, senza nessuno dietro di sé, quel Giacomo che non ha mai neanche amato, mi fa paura.

Signora Renaud            - Ma insomma, Giacomo!

 Gastone                        - Andate via, andate via.

Signora Renaud            - Ecco! Tu mi parli come al­lora !

Gastone                         - Non ho « allora » io. Vi parlo come ora. Andate via!

Signora Renaud            - (Risollevandosi) Sta bene. Ma quando gli altri ti avranno provato che io sono tua madre, dovrai venirci allora, e domandarmi scusa. (Esce senza vedere Valentina che viene verso la camera di Gastone. Entra: e avanza di gualche passo).

Valentina                      - Voi dite che non ha mai amato. Che ne sapete voi, che non sapete niente?

Gastone                         - E anche voi, andate via!

Valentina                      - Perché mi parlate così? perché?

Gastone                         - Andatevene. Io non sono Giacomo Renaud.

Valentina                      - Lo gridate .come se vi facesse paura!

Gastone                         - E un po' è vero.

Valentina                      - Paura, sì: l'ombra di Giacomo gio­vane fa paura a mettersela addosso; ma perché tutto quest'odio? e contro di me?

Gastone                         - Non mi piace vedervi venire avanti con quel sorriso che mi fate da quando sono ar­rivato qui: siete stata la sua amante, lo so.

Valentina                      - Chi ha osato?

Gastone                         - Vostro marito. (Pausa).

Valentina                      - Ebbene, e se voi siete il mio amante, se vi ritrovo e voglio riprendervi... sareste .cosi ri­dicolo da vederci del male?

Gastone                         - Voi parlate ad una specie di contadino del Danubio. D'un curioso Danubio, però, dalle acque nere e dalle rive senza nome. Io sono un uomo, e d'una certa età, ma arrivo al mondo nuovo di zecca. Pare che in fondo non ci sia poi tutto questo gran male a prendersi la moglie del fratello, d'un fratello che .ci ha adorato e beneficato!

Valentina                      - (con dolcezza) Quando ci siamo co­nosciuti in villeggiatura a Dinard, io venivo a gio­care a tennis, a nuotare, più spesso con voi che con vostro fratello Giorgio. Con voi, con voi solo ci siamo baciati. E sono venuta da vostra madre, in seguito, a qualche ricevimento di camerati, e vostro fratello si è messo a farmi la corte... ma io venivo per vedere voi.

Gastone                         - Però avete sposato lui.

Valentina                      - Voi eravate un ragazzo. Io ero or­fana, minorenne, senza un soldo, con una zia be­nefattrice che mi aveva fatto già pagar molto caro i rifiuti dei primi partiti. Dovevo vendermi ad un altro piuttosto che a quello che più mi avvicinava a voi?

Gastone                         - C'è una rubrica in tutte le riviste di mode, che risponde a questo tipo 'di domande.

Valentina                      - Al ritorno dal viaggio di nozze sono diventata la vostra amante.

Gastone                         - Ah, un pochino, allora, abbiamo aspet­tato?

Valentina                      - Un pochino? Due mesi, due mesi tremendi. Poi abbiamo avuto tre anni tutti per noi, perché la guerra è scoppiata subito e Giorgio è partito il 4 agosto. E dopo questi diciassette anni, Giacomo... (una pausa Una mano sul braccio. Egli in­dietreggia).

Gastone                         - Io non sono Giacomo Renaud.

Valentina                      - E quand'anche, lasciatemi contem­plare il fantasma del solo uomo che ho amato. (Ha un breve sorriso). Ecco la tua piega sulla bocca. (Lo guarda in faccia intensamente. Egli è turbato). Non c'è niente che richiami la mia immagine, in quel vostro ripostiglio di accessori? Uno sguardo, una inflessione 'di voce?

Gastone                         - Niente.

Valentina                      - Non siate così aspro, qualunque sia il Danubio infernale da cui provenite. E' grave, ca­pite, che una donna innamorata, ritrovi, un giorno almeno, da un'impercettibile piega delle labbra, il fantasma di lui scrupolosamente esatto.

Gastone                         - Posso essere magari un fantasma di scrupolosa esattezza, ma non sono Giacomo Renaud.

Valentina                      - Guardatemi bene.

Gastone                         - Vi guardo benissimo. Siete bella. Ma io non sono Giacomo Renaud.

Valentina                      - E io non sono niente per voi? Ne siete sicuro?

Gastone                         - Niente.

Valentina                      - Allora voi non riacquisterete mai più la memoria.

Gastone                         - Arrivo ad augurarmelo. (Pausa. Egli è però turbato). Perché non riacquisterò mai più la memoria?

Valentina                      - Perché non vi ricordate neanche della gente che avete visto due anni fa.

Gastone                         - Due anni fa?

Valentina                      - Una guardarobiera... una guarda­robiera in sostituzione... di quella autentica...

Gastone                         - In sostituzione... (Pausa). (Poi, di col­po) Chi ve l'ha raccontato?

Valentina                      - Nessuno. Ero ricorsa a quel trucco per potervi avvicinare liberamente. Con l'approva­zione di mia suocera, del resto. E ora guardatemi bene, uomo senza memoria...

Gastone                         - (Attirandola a sé, suo malgrado) Era vate voi?

Valentina                      - Sì.

Gastone                         - Ma quel giorno, voi non mi avete detto nulla.

Valentina                      - Non volevo dire niente, prima. Spe­ravo - vedete che fede ho io nell'amore - che avreste ritrovata la memoria con me.

Gastone                         - E dopo?

Valentina                      - Dopo, quando stavo per dirvelo, ri­cordate?, è venuta gente.

Gastone                         - Ah l'economo dell'istituto?

Valentina                      - L'economo, sì.

Gastone                         - E, voi non avete gridato ai quattro venti dà avermi riconosciuto?

Valentina                      - L'ho gridato. Ma eravamo cinquanta famiglie a gridare la stessa cosa.

Gastone                         - Ma sì che è vero - che bestia - tutti mi riconoscono. Questo non prova affatto che io sia Giacomo Renaud.

Valentina                      - Ci avete ripensato poi alla vostra guardarobiera, e al suo gran fagotto di biancheria?

Gastone                         - Ma certo che ci ho ripensato. A parte la mia amnesia io ho buona memoria.

Valentina                      - Volete stringerla ancora, la vostra guardarobiera, tra le braccia?

Gastone                         - (La respinge) Aspettiamo di sapere se io sono davvero Giacomo Renaud.

Valentina                      - E se siete Giacomo Renaud?

Gastone                         - Se io sono Giacomo Renaud, io non la riprenderò mai tra le mie braccia. Non voglio essere l'amante della moglie di mio fratello.

Valentina                      - Lo siete già stato.

Gastone                         - Tanto tempo fa, e, dopo, sono stato tanto infelice: ho riscattato la mia gioventù.

Valentina                      - Vi dimenticate già della vostra guar­darobiera. Se siete Giacomo Renaud, due anni fa siete stato l'amante della moglie di vostro fratello. Voi, proprio voi, e- non il giovinetto di quel tempo lontano.

Gastone                         - Io non sono Giacomo Renaud.

Valentina                      - Ascolta, Giacomo: bisognerà pure che tu rinunci alla meravigliosa semplicità della tua vita d'amnesiaco. Ascolta, Giacomo: bisognerà pure che tu accetti te stesso. Tutta la nostra vita con la nostra bella morale e la nostra cara libertà consiste in fine dei conti nell'accettare noi stessi tali e quali siamo. Questi diciassette anni d'ospizio nei quali tu ti sei conservato così puro, è l'esatta durata di una adolescenza che arriva, fino ad oggi. Tu stai per ri­diventare uomo, con tutto quello che comporta di doveri, di sconfitte, anche di gioie. Accetta te stesso, e accettami, Giacomo.

Gastone                         - Se ci sarò obbligato dall'evidenza di qualche prova, bisognerà che io mi accetti: ma voi no, non vi accetterò.

Valentina                      - Ma perché, se, senza volerlo, Io hai già fatto da due anni?

Gastone                         - Io non porterò via la moglie a mio fratello.

Valentina                      - Ma lascia andare le parole grosse! Ora che ridiventi un uomo vedrai che nessuno dei tuoi nuovi problemi sarà così semplice da poterlo riassumere in una formula. Tu mi hai preso a lui sì, ma, prima, lui mi aveva preso a te; solo perché lui era stato un uomo, padrone dei suoi atti, prima» di te.

Gastone                         - E poi. non è solo per voi. Io non sono niente lusingato di aver fatto Io sfruttatore di vecchie dame, e di aver violato delle cameriere.

Valentina                      - Che cameriere?

Gastone                         - E' un altro particolare... non mi piace! di aver alzato la mano su mia madre, non mi piace nessuna delle eccentricità di quel mio tremendo sosia in piccolo.

Valentina                      - Perché gridi così? Ma, mi pare che! stavi facendo su per giù lo stesso poco fa.

Gastone                         - Poco fa ho detto ad una vecchia signora inumana che la odiavo: ma quella vecchia! signora non era mia madre.

Valentina                      - Sì, Giacomo. E proprio per questo glielo hai gridato con tanta veemenza. Lo vedi? Ti! è bastato, anzi, di sfiorare per un'ora i personaggi I del tuo passato per riprendere inconsciamente coni loro le tue attitudini d'allora. Ascolta, Giacomo: io salgo in camera mia, perché ora andrai in collera. Tra dieci minuti mi richiamerai perché la tua collera è terribile, ma non dura più di dieci minuti,!

Gastone                         - Che ne sapete voi? Mi seccate, alla fine. Vorreste forse insinuare che mi conoscete meglio di me?

Valentina                      - Ma certo. Ascolta, Giacomo. C'è una! prova decisiva, che non ho mai potuto rivelare agli! altri.

Gastone                         - Non è vero, non vi credo!

Valentina                      - Aspetta: non l'ho ancora detta.

Gastone                         - (Grida) Non ti credo e non ti voglio! credere. Né a te né a nessun altro. Non voglio! più che nessuno mi parli del mio passato.

(Arriva in tromba la Duchessa seguita dall’avvocato Huspar. Valentina si nasconde nella sala dal baglio).

Duchessa                       - Gastone! Gastone! E' spaventoso. E' arrivata gente: furibonda, urlando, tonando. E' una! delle solite famiglie. Sono stata costretta a riceverli. Mi hanno coperto d'insulti. Capisco ora che imprudenza ho commesso, a non seguire l'ordine d'iscrizione come avevamo annunciato per mezzo della) stampa. Quelli si credono beffati. Vogliono fare unoscandalo. Accusarci di chi sa che cosa.

Huspar                          - Sono sicuro, Duchessa, che lei è superiore ad ogni sospetto.

Duchessa                       - Ma non capite che li abbagliano quei 250.000 franchi? Parlano di favoritismi, di ca­morra. Da questo a credere che il mio Albertino si metterà in tasca la forte somma della famiglia a cui sarà attribuito Gastone, non c'è che un passo.

Maggiordomo               - (entrando) Signora, chiedo mil­le scuse alla signora Duchessa, ma c'è altra gente che domanda dell'avvocato Huspar e della signora Du­chessa.

Duchessa                       - Nomi?

Maggiordomo               - Mi hanno dato questo foglio che io non mi permettevo di consegnare senz'altro alla signora Duchessa, considerato che era commerciale. (Legge) Ditta Bougran - Uova - Formaggi e burro..

Duchessa                       - (Cerca nel taccuino) Bougran? Avete detto Bougran? E' la lattaia.

Cameriere                      - (Picchia ed entra) Domando scusa a madama, ma c'è un signore - o piuttosto un uomo - che chiede della signora Duchessa. Visto il suo vestito, devo dire a madama che non ho avuto il coraggio di farlo passare.

Duchessa                       - (Legge nel taccuino) Nome? Legro­patre o Madensale?

Cameriere                      - Legropatre, signora Duchessa.

Duchessa                       - Legropatre, è il lumaio. Fatelo pas­sare e con tutti i riguardi. Sono arrivati tutti con lo stesso treno. Scommetto che i Madensale li sei guono. Ho chiamato a telefono Pontobronc. Cercherò di farli aspettare. (Esce svelta seguita da Huspar. Rientra Valentina),

Gastone                         - (Mormora spossato) Voialtri avete tutti delle prove, delle fotografie rassomiglianti, dei ri­cordi precisi come delitti. Io vi sto ad ascoltare e intanto mi sento sorgere a poco a poco alle spalle un essere ibrido in cui è un po' di ognuno dei vo­stri figliuoli, e niente di me, perché i vostri figli non hanno niente di me. (Ripete) Me! Me! Esisto io, nonostante tutte queste vostre storie. Voi par­lavate dianzi, della meravigliosa semplicità della mia vita d'amnesiaco. Volete scherzare. Tentate di pren­dere tutte le virtù, tutti i vizi e di attaccarveli die­tro la schiena.

Valentina                      - La tua parte - se mi vuoi dar retta un momento, Giacomo - può diventare molto più semplice. Ti offro una successione un po' grave, senza dubbio, ma che ti sembrerà leggera, quando pensi che ti libera da tutte le altre. Vuoi ascoltarmi?

Gastone                         - Dite.

Valentina                      - Io non ti ho visto, come sei ora. Ebbene: hai una cicatrice, una cicatrice piccolis­sima che nessuno dei medici che ti hanno esplo­rato ti hanno mai visto, ne sono certa. E' due cen­timetri sotto la scapola sinistra. E' un copo di spil­lone da cappello - ne avevamo di .cianfrusaglie addosso nel 1915- che ti ho dato io un giorno che credevo tu mi avessi tradito. (Esce. Gastone resta sbalordito un attimo, poi comincia, lentamente, a svestirsi).

TELA

QUARTO QUADRO

Lo chaffeur e il cameriere davanti atta solita porta.

Cameriere;                     - (Guardando dal buco deità serratura) Oh, guarda, si spoglia.

Chaffeur                       - (Lo spinge per vedere) Sul serio? Ma è addirittura toccato qui (la fronte) il giovinolo! Che fa? Si cerca le pulci? Aspetta, aspetta! Eccolo: monta su una seggiola per guardarsi nello specchio del caminetto.

Cameriere                      - Tu scherzi! Monta su una seggiola?

Chaffeur                       - Te lo dico io!

Cameriere                      - (Prendendo il suo posto) Fa ve­dere. Ma guarda un po'. Tutto questo armeggio per guardarsi la schiena!... Ti dico che è toccato qui Ita fronte). Bene. Ora scende giù. Ha vis.'o quel che voleva. Si rimette la camicia. Siede, Oh! Guarda! Caspita, dico...

Chaffeur                       - Che fa?

Cameriere                      - (Si volta sbalordito) Piange...

TELA

QUINTO QUADRO

La camera di Giacomo. Le persiane sono chiuse. L'ombra fulva è striata di luce. Gastone è coricalo sul letto e dorme. Il maggiordomo .& il cameriere stanino portando nella camera certi animali impa­gliati che dispongono intorno al letto. La Duchessa e la Signora Renaud dirigono l'operazione dal cor­ridoio. Tutto a sussurri e in punta di piedi.

Maggiordomo               - Anche intorno al letto, signora Duchessa?

Duchessa                       - Si, sì. Intorno al letto: che aprendo gli occhi le veda tutte in una volta.

Signora Renaud            - Ah, se la vista di quelle be­stiole lo potesse far tornare in sé:

Duchessa                       - Dovrebbe essere una scossa forte.

Signora Renaud            - Gli piaceva tanto catturarle. Saliva sugli alberi ad altezze vertiginose per met­tere il vischio sui rami.

Duchessa                       - (al maggiordomo) Mettine una sul guanciale, vicinissima a lui. Sul guanciale, sì, sul guanciale.

Maggiordomo               - La signora Duchessa non teme che si prenda spavento a svegliarsi e trovarsi questa bestia così vicina al suo viso?

Duchessa                       - Eccellente, lo spavento, nel suo»caso, mio caro. (Sì avvicina alla signora Renaud). Oh, non vi nascondo che io sono divorata d'orgasmo. Sono riuscita a calmar quella gente, ieri sera, dicendo a loro che Huspar e il mio Albertino sarebbero stati qui stamattina per tempo, ma chi sa se arriveremo a liberacene senza guasti.

Cameriere                      - (Entrando) Le presunte famiglie del signor Gastone stanno arrivando, signora Duchessa.

Duchessa                       - Vedete? Avevo detto a loro per le nove, e sono qui alle nove meno cinque. E' gente che niente riesce a placare,

Signora Renaud            - Dove li avete fatti passare, Victor?

Cameriere                      - Nel salotto grande, signora.

La Duchessa                 - Sono tanti quanti ieri? E' proprio da gente di campagna di venire in gruppo per difen­dersi, meglio!

Cameriere                      - Sono di più, signora Duchessa.

La Duchessa                 - Di più? Come mai?

Cameriere                      - Si, signora Duchessa, tre di più, ma in gruppo unico. Un signore di buona presenza, con un ragazzino e la governante.

La Duchessa                 - Una Governante? Che tipo di Go­vernante?

Cameriere                      - Inglese, signora Duchessa.

La Duchessa                 - Ah… sono i Madensale.. Gente simpatica, mi figuro. E' il ramo inglese della fami­glia che reclama Gastone. E' commovente no? Venuti da tanto lontano a cercare uno dei loro. Pregate quei bravi signori di aver pazienza qualche minuto, amico mio.

Signora Renaud            - Ma quella gente non ce lo vor­rà mica riprendere prima che abbia parlato, no, Duchessa?

La Duchessa                 - Non temete. La prova è comin­ciata qui, converrà, lo vogliano o non lo vogliano, che qui abbia termine - regolarmente. Il mio Al­bertino mi ha promesso di tener duro su questo pun­to. Ma d'altro lato dobbiamo spiegare molta diplo­mazia per evitare anche il minimo scandalo.

Signora Renaud            - Uno scandalo di cui ho l'im­pressione che esageriate un po' il pericolo, Duchessa.

La Duchessa                 - Non vi fate illusioni, signora. La stampa. di sinistra tiene d'occhio il mio Albertino, lo so. Ho la mia Gestapo, io. Quella gente si gette­rebbe a corpo morto su quella calunnia, come mo­lossi su una carogna. E questo, con tutto il mio de­siderio di veder entrare Gastone in una famiglia che è un amore, non posso proprio permettervelo. Come voi siete madre, io sono zia, prima di tutto. (Le stringe il braccio) Ma, credetemi, non meno che a voi mi si spezza il cuore a seguire questa prova che è una pena e una tortura. (// cameriere le passa vi­cina portando degli scoiattoli impagliati. Ella lo se­gue con gli occhi). Ma è deliziosa, una pelle di scoiat­tolo. Come va che nessuno ha mai pensato a farne delle pellicce?

Signora Renaud            - (con spavento) Non so, io.

Cameriere                      - E' roba troppo minuta.

Il Maggiordomo            - Attenzione, il signore sì è mosso.

La Duchessa                 - (Trattenendo la signora Renaud) Sopratutto, non farsi vedere; (al Maggiordomo) Le persiane (Luce piena nella camera. Gastone ha aperto gli occhi. Si vede qualche cosa vicinissima ai viso, si scosta, balza a sedere sul letto).

Gastone                         - Che cos'è? (si trova circondato di don­nole, puzzole, scoiattoli impagliati e grida con gli occhi fuori delle orbite) Ma che cosa sono tutte que­ste bestie? Che vogliono da me?

Maggiordomo               - (si fa avanti) Sono impagliate, si­gnore. Sono le care bestiole che il signorino si di­vertiva ad ammazzare. Il signore non le riconosce?

Gastone                         - (grida con voce rauca) Io non ho mai ammazzato nessuna bestia. (S'è alzato. Il cameriere si precipita con la veste da camera per lui. Passano entrambi nella sala da bagno. Ma Gastone ne esce subito e torna agli animali impagliati.) Come faceva a prenderle?

Maggiordomo               - Cerchi di ricordarsi, il signore. Le trappole d'acciaio che sceglieva minuziosamente sul catalogo della manifattura d'armi e cicli di Saint-Etienne. Per certi animali il Signore preferiva ado­perare il vischio.

 Gastone                        - E le trovava morte?

Il Maggiordomo            - Di solito no, signore. Il signo­re le finiva col suo coltello da caccia. Il signore era molto bravo, in questo.

Gastone                         - (Dopo una pausa) Che si può fare per delle bestie morte? (Tentativo timido dì carezza, rien­trato) Come carezzare queste pelli tese, secche? An­drò a gettare nocciole e pezzetti di pane ad altri scoiattoli, vivi, ogni giorno. Proibirò, dovunque ab­bia un pezzo di terra mia, che si infastidiscano le donnole. Ma come consolare queste, della lunga not­te di paura e di sofferenza, senza capire, con la 'loro zampina imprigionata in una inesorabile mascella di ferro?

Maggiordomo               - Oh, i] signore non se ne accori tanto, non è poi un disastro! Bestiole! E poi, insom­ma, è tutto passato, ormai.

Gastone                         - (Ripete) Passato. E adesso anche se avessi il potere di rendere felice per sempre la raz­za degli animaletti dei boschi,.. Passato. Proprio così. Passato (Si avvia alla saia da bagno) Perché non ho la mia veste da camera di ieri sera?

Il Maggiordomo            - Anche questa è del signore. La signora mi ha raccomandato di farle provare tutte al signore, nella speranza che il signore ne ricono­sca una.

Gastone                         - (Allontanandosi) Che c'è nelle tasche di questa? Altri oggettini ricordo, come ieri?

Il Maggiordomo            - (seguendolo e aiutandolo) No, signore. Questa volta sono pallette di naftalina. (La porta della stanza da bagno si richiude. Il maggiordomo sii rivolge alla, signora Renaud). La signora ha sentito. Non .credo che il signore abbia riconosciuto nulla. (Si allontana).

Signora Renaud            - (Indispettita) Si direbbe, dav­vero, che lo faccia apposta.

La Duchessa                 - Se fosse così, vi dico io che glie­la canterei per le rime. Ma ho paura che sia, disgraziatamente, una cosa più grave.

Giorgio                          - (Entrando) E così, s'è svegliato?

La Duchessa                 - Si, ma la nostra piccola congiura non ha dato frutto.

Signora Renaud            - E' parso tristemente colpito alla vista di queste spoglie morte: e niente altro.

Giorgio                          - Volete lasciarmi un momento qui, che gli vorrei parlare?

Signora Renaud            - (Allontanandosi) Possa riusci­re,, tu, Giorgio. Io comincio a perdere la speranza-

Giorgio                          - Non bisogna, via mamma: non biso­gna. Anzi bisogna sperare fino alla fine. Sperare anche contro l'evidenza.

Signora Renaud            - Ha un atteggiamento che dav­vero stanca. Vuoi che te lo dica? Mi pare che mi tenga il muso come una volta.

Giorgio                          - Ma se non ti ha nemmeno riconosciuta?

Signora Renaud            - Oh, aveva un così cattivo ca­rattere! Amnesiaco o no, come vuoi che l'abbia per­duto?

La Duchessa                 - (Uscendocon lei) Credo che esa­geriate il suo risentimento contro di voi. Comunque non per darvi un consiglio, che non mi starebbe, ma volevo dirvi che trovo un po' troppo freddo il vo­stro modo di fare con lui. Siete madre, diavolo. Sia­te ardente - gettatevi ai suoi piedi, gridate.

Signora Renaud            - No, veder Giacomo riprende­re qui il suo posto è il mio più vivo desiderio: ma fino a questo punto non ci arrivo. Sopratutto dopo quello che ci è stato fra noi.

La Duchessa                 - Peccato. Sono certa che questo lo scuoterebbe in pieno. Io, se mi volessero prendere il mio Albertino, sento che diventerei una belva, Vi ho raccontato che quando lo bocciarono alla lau­rea, io mi sono attaccata alla barba del decano del­la facoltà? (Sono uscite. Frattanto Giorgio ha pic­chiato alla porta della camera, poi è entrato timido. Ora, picchia alla porta de-l bagno).

Giorgio                          - Permetti una parola, Giacomo?

Gastone                         - (di dentro grida) Che c'è ancora? A-vevo detto che non venisse nessuno. Non posso nean­che lavarmi senza essere soffocato di domande? Sen­za che mi schiaffino dei ricordi sotto il naso?

 Cameriere                     - (Socchiudendo la porta) Il signore è in bagno, signore. (A Gastone) ; E' il signore, signore.

Gastone                         - (ancora burbero ma raddolcito) Ahi siete voi?

Giorgio                          - (Al cameriere) Lasciateci un momento, Victor. (// cameriere esce) Ti domando scusa. Già corno, capisco bene che a lungo andare noi ti sec chiamo con le nostre storie... ma quello che ho di dirti è importante... e se non ti dà troppa noia vorrei che tu mi permettessi...

Gastone                         - (Lentamente, di dentro) Che altra brut­tura avete dissepolto dal passato di vostro fratello, da scaricarmi sulle spalle?

Giorgio                          - Nessuna bruttura, Giacomo; anzi, tratta di una riflessione che ti vorrei comunicare, se permetti. (Esita un attimo, poi comincia) Capisci, col pretesto che uno è galantuomo, che lo è sempre stato, che non ha fatto mai niente di male (e questo per certuni è piuttosto facile, dopo tutto) uno si ere de permesso tutto... e di parlare agli altri dall'alto della sua serenità... si fanno rimproveri, si muovono lamentele. (Domanda d'i colpo) Tu non mi serbi rancore per ieri? (La risposta viene burbera, come la precedente, e come a malincuore, in ritardo di un secondo).

Gastone                         - Di che?

Giorgio                          - Ma di tutto quello che ti ho raccontato, esagerando, facendo la vittima. Di quella specie di pubblicità che mi sono fatta con la storia dei miei poveri casi. (Si sente un rumore nella sala da bagno. Giorgio balza in piedi spaventato). Aspetta, aspetta, non uscire ancora dalla sala da bagno, lasciami fini­re, preferisco da qui. Se ti vedo davanti a me ripren­do le mie arie di fratello e non ne esco più. Capi­sci, Giacomo, questa notte io ho riflettuto molto; quel che è successo è stato molto brutto, è vero. Ma tu eri un ragazzo tanto giovane e anche lei, non è vero? E poi, a Dinard, prima del matrimonio, lei preferiva venire a passeggio con te, vi amavate forse da prima, voi due, come due ragazzi che non pos­sono concludere nulla di pratico. Io, mi sono messo tra voi con i miei mezzi, la mia posizione sociale, la mia età... Ho fatto il gioco di buon partito... serio... la sua zia l'ha 'dovuta spingere ad accettare la mia domanda... insomma quel che ho pensato tutta notte è che io non avevo il diritto di farteli, quei rim­proveri... e li ritiro tutti. Ecco... (Casca a sedete, non nei può più., Gastone esce dal bagno).

Gastone                         - (Gli si avvicina e posandogli la mano su Ma spalla, con dolcezza) Come avete potuto vo­ler tanto bene a quel piccolo mascalzone, a quell'a­nimale?

Giorgio                          - Che volete - era mio fratello.

Gastone                         - Non ha fatto niente, da fratello. Vi ha rubato, vi ha tradito... Avreste odiato qualunque al­tro, anche il vostro migliore amico, se vi avesse trat­tato così.

Giorgio                          - Un amico, non è la stessa cosa. Era mio fratello.

Gastone                         - E poi, come potete augurarvi di vederlo tornare, magari più vecchio, magari diverso, tra voi e vostra moglie?

Giorgio                          - Che vuoi, anche se fosse un assassino, fa parte 'della famiglia, il suo posto è nella famiglia.

Gastone                         - (Ripete) Il suo posto è nella famiglia. Fa parte della famiglia. Com'è semplice! (A se stes­so) si credeva buono e non è; onesto e non è affatto. Solo al mondo e, anche tra le mura dell'asilo, libero; e il mondo è pieno di gente colla quale si è impe­gnato e l'aspettano al varco. Ogni suo più umile ge­sto non può essere che il prolungamento dei gesti antichi. Come è semplice! (Afferra Giorgio brutal­mente) Perché, oltre a tutto, siete venuti anche voi a raccontarmi la vostra storia? Perché siete venuti a buttarmi in faccia il vostro affetto? Perché tutto fos­se anche più semplice, vero? (Si butta asedere sul suo letto) Avete vinto voi.

Giorgio                          - (Smarrito) Ma, Giacomo, non capisco questo tuo risentimento. Con tanta pena, credilo, sono venuto a parlarti, per riscaldare la solitudine che devi esserti sentita intorno da ieri.

Gastone                         - Non era quella solitudine il male peggiore, per me.

Giorgio                          - Tu hai forse scoperto sguardi d'intesa tra i domestici, un certo imbarazzo intorno a te. Ma non bisogna credere poi che nessuno ti vuol bene. La mamma... (Gastone lo guarda, egli resta interdetto) E poi, insomma, io, ti ho voluto molto bene davve­ro...

Gastone                         - Voi si, e gli altri?

Giorgio                          - Ma... (è turbalo) Si, Valentina, certo.

Gastone                         - Lei è stata innamorata di me. E' di­verso. Ma amico, voi e basta.

Giorgio                          - Può darsi.

Gastone                         - E perché? Non riesco a capire: perché?

Giorgio                          - (Con dolcezza) Avete mai pensato ad un amico che fosse stato prima un bambinetto da por­tarselo per mano, a passeggio? Voi che siete tanto per l'amicizia, pensate che fortuna può essere, per l'amicizia di un amico tanto nuovo da aver imparato da voi il segreto delle prime lettere dell'alfabeto, delle prime pedalate in bicicletta, delle prime nozio­ni di nuoto, un amico tanto fragile da aver bisogno della vostra protezione sempre...

Gastone                         - Ero molto piccolo quando è morto vostro padre?

Giorgio                          - Avevi due anni.

Gastone                         - E voi?

Giorgio                          - Quattordici. La mamma non ha mai saputo prenderti per il tuo verso. Ho dovuto pensare io, a te. Eri tanto piccino. (Pausa) (Ora gli dice la sua vera scusa) Sei sempre stato così piccino per tutto. Per il denaro che ti abbiamo dato stupida­mente, troppo presto: per la severità della mamma; per la mia arrendevolezza e anche per la mia gof­faggine. Quell'orgoglio, quella violenza in cui già ti dibattevi a due anni erano come dei mostri davanti ai quali si trovava la tua innocenza, e da cui noi avremmo dovuto salvarti. E noi, non soltanto siamo stati incapaci di farlo, ma te ne abbiamo anche fatta una colpa... e ti abbiamo lasciato partire per il fron­te, solo come un derelitto. Col tuo fucile, col tuo zaino, colla tua maschera, con le tue due giberne, dovevi essere un soldato tanto piccino, sui marcia­piedi delle stazioni.

Gastone                         - (Alza le spalle) Credo che anche quel­li che avevano un paio di baffoni e l'aria terribile, fossero dei soldati piccini anche loro a cui si doman­dava qualche cosa che superava le loro forze.

Giorgio                          - (Quasi gridando di dolore) Si, ma tu avevi diciotto anni. E dopo le lingue classiche e la vita decorativa dei conquistatori, la prima cosa che gli uomini esigevano da te era di sgozzare i feriti con un coltello da cucina.

Gastone                         - (Tentando di sorridere) E con questo? Dare la morte, mi pare, per un giovane, una eccel­lente presa di contatto con la vita. (Entra il Maggiordomo).

Il Maggiordomo            - La signora Duchessa prega il signore di favorire di raggiungerla nella sala gran­de non appena il signore sarà in comodo.

Giorgio                          - Vi lascio. Ma, vi prego, nonostante tut­to quello che ve ne hanno detto, di non odiare trop­po quel Giacomo. Era un povero bambino. (Esce. Il Maggiordomo aiuta Gastone a vestirsi).

Gastone                         - (A bruciapelo) Maggiordomo.

Il Maggiordomo            - Signore.

Gastone                         - Avete mai ammazzato nessuno voi?

Il Maggiordomo            - Il signore vorrà scherzare. Il signore non crederà che se io avessi ammazzato qual­cuno, sarei ancora al servizio di madama.

Gastone                         - Ma durante la guerra, no? Un improv­viso corpo a corpo saltando in una ridotta con la seconda ondata …. no?

Il Maggiordomo            - Ho fatto la guerra come capo­rale di sussistenza e devo dire al signore che alla sussistenza certe occasioni sono piuttosto scarse...

Gastone                         - (Immobile, pallidissimo con molta dol­cezza) Beato voi, Maggiordomo. Perché è una spa­ventosa impressione, sentirsi in procinto di uccide­re per poter vivere.

Il Maggiordomo            - (Incerto se ridere o no) il si­gnore dice bene: spaventoso sopratutto per la vit­tima.

 Gastone                        - Errore! Maggiordomo. E' tutta que­stione d'immaginativa. E la vittima ne ha spesso meno dell'assassino. (Pausa) Qualche volta la vit­tima non è che un'ombra nella fantasia dell'assas­sino.

Il Maggiordomo            - In tal caso direi che soffre poco, signore.

Gastone                         - Ma, l'assassino, in compenso, lui, ha il privilegio di due sofferente. Vi piace vivere, mag­giordomo?

Il Maggiordomo            - Come qualsiasi altro, signore.

Gastone                         - Immaginate che, per vivere, dobbiate sprofondare per sempre nel nulla una giovane vita. Un giovane di diciotto anni... un piccolo vanaglorio­so, una canaglietta ma, comunque, un povero ragaz­zino. Voi potrete essere libero, maggiordomo, l'uo­mo più libero del mondo, ma, per essere libero, vi tocca lasciarvi alle spalle questo cadaverino d'inno­cente. Che farete?

Il Maggiordomo            - Confesso, signore, che non mi sono mai posto un problema così. Ma devo dire lo stesso che, a giudicare dai romanzi gialli, è sempre imprudente lasciarsi alle spalle i cadaveri.

Gastone                         - (Scoppia a ridere) Ma se nessuno, fuor­ché l'assassino, potesse vedere quel cadavere ? -(j0 si avvicina e amabilmente). Ecco fatto. Eccolo lì, ai vostri piedi. (Il maggiordomo fa un salto di lato, volge lo sguardo intorno e scappa spaventato, cor­rendo] quanto gli permette la sua dignità). (Valentina appare concitata nel corridoio e corre nella camera).

Valentina                      - Che mi dice Giorgio? Che non hai detto ancora nulla a loro. Non ho voluto essere io, stamani, la prima a entrare in camera tua, ma pen­savo che mi chiamassero loro, con la buona notizia. Perché non hai detto nulla? (Gastone la guarda sen­za dir niente). Ma insomma, vuoi farmi diventar paz­za? Il segno - sotto la scapola - te lo sei trovato ieri - ne sono sicura, nello specchio...

Gastone                         - (Piano, senza guardarla) Non ho tro­vato nessun segno di cicatrice.

Valentina                      - Che dici?

Gastone                         - Dico che mi sono guardato molto at­tentamente la scapola e non ho trovato nessun segno di cicatrice. Dovete aver visto male voi.

Valentina                      - (Lo guarda un attimo, sbalordita, poi capisce e grida a un tratto) Ti odio! Ti odio!

Gastone                         - Molto meglio così.

Valentina                      - Non ti rendi conto di quello che stai per fare?

Gastone                         - Sì. Sto per liberarmi del mio pas­sato e di tutti i suoi personaggi, me compreso. Voi siete forse la mia famiglia, coi suoi amori e la mia veridica storia. Sì, soltanto, ecco, voi non mi pia­cete, e vi respingo.

Valentina                      - Sei matto! Sei un mostro! Non si respinge il proprio passato. Non si può respingere se stesso.

Gastone                         - Io sono - è vero - probabilmente il solo a cui il destino abbia concesso di attuare quello che è il sogno di ognuno. Sono un uomo che può essere, se vuole, nuovo come un fanciullo. E' un privilegio che sarebbe un delitto non accettare. Vi ricuso. Già da ieri ho fin troppo da dimenticare di mio.

Valentina                      - E del mio amore, che è mio, che ne fai? Non ti importa di conoscere anche quello?

Gastone                         - (Non vedo di esso, in questo momento, che l'odio nei vostri occhi. E' senza dubbio un volto dell'amore di cui solo un amnesiaco può stupirsi. Co­munque mi fa comodo ora. Non voglio vederne altri; io sono un amante che non conosce l'amore della sua donna; un amante senza ricordo del primo ba­cio, della prima lacrima, un amante che non è pri­gioniero di nessun ricordo e che domani avrà; scor­dato tutto. E anche questa è una vaga fortuna. Me ne valgo.

Valentina                      - E se lo gridassi io, a tutti, di aver riconosciuto la cicatrice?

Gastone                         - Ipotesi prevista. Sul piano dell'amore credo che la Valentina d'allora l'avrebbe fatto già da un pezzo e che è un segno consolante che siate diventata più cauta. Sul piano della legalità, siete mia cognata, e volete passare per la mia amante... Che tribunale accetterebbe l'idea di prendere una decisione così grave su questo losco pasticcio d'al­cova di cui solo voi potete panare?

Valentina                      - (Parla, coi denti stretti) Bene. Puoi cantare vittoria, ma non credere che, a parte tutta questa montatura della tua amnesia, la tua condotta sia tanto eccezionale, per un uomo. Son anzi certa che, in tondo, devi essere tutto compiaciuto del tuo ge­sto. Deve lusingare molto respingere una donna che ci aspetta da tanto tempo. E allora ti chiedo scusa se ti do un dispiacere, ma, sai, io li ho avuti i miei amanti dopo la guerra. »

Gastone                         - (Sorride) Non è un dispiacere. Anzi vi ringrazio.

(Nel corridoio appaiono il maggiordomo e il ca­meriere. Il maggiordomo spinge il cameriere nella stanza attigua ed ascolta ancora).

Cameriere                      - (Entrando) La signora Duchessa Dupont uuiort mi prega di dire al signore di spic­ciarsi e di voler cortesemente raggiungerla nella sala grande perché le famiglie del signore danno segno di impazienza.

(Gastone fa un gesto, il cameriere si spaventa e scappa via).

Valentina                      - Le tue famiglie, Giacomo... Ah! è sciocco: ho voglia di ridere, perché di una cosa ti sei scordato, che se rifiuti di stare con noi, do­vrai andare per forza con quelli. Dovrai coricarti sulle lenzuola del loro morto, calzare le sue vecchie pantofole conservate con religione... Le tue famiglie danno segno d'impazienza. Su, vieni, tu che hai tanta paura del tuo passato, vieni a goderti le facce dei piccoli borghesi e campagnoli, vieni a doman­darti che passato di bassi e avari calcoli avranno da proporti loro. (Gli ha preso una mano).

Gastone                         - Non arriveranno mai a voialtri, in nessun caso.

Valentina                      - Davvero? Quei 500.000 franchi tra­fugali e sperperati in gioie e bagordi ti sembreranno forse una facezia a paragone di certe controversie di muri divisori e di calze di lana. Su, vieni, che se di noi non ne vuoi sapere, ti dovrai concedere a queste altre tue famiglie, adesso.

Gastone                         - (Si ferma) No. Non ci vengo.

Valentina                      - Ah, e che vuoi fare allora? Dove vuoi andare? Dove andrai?

Gastone                         - Che domanda! Dovunque.

Valentina                      - E' una parola d'amnesiaco. Noialtri che possediamo la memoria sappiamo che si è sem­pre costretti a scegliere, nelle stazioni, una linea o l'altra: Genova-Torino, o Bologna-Milano e che non si va mai oltre il prezzo del biglietto. S'intende che se tu fossi ricco si aprirebbe il mondo davanti a te. Ma tu, senza un soldo in tasca, che vuoi fare?

Gastone                         - Smontare i vostri calcoli. Partire a piedi, attraverso i campi, nella direzione che mi parrà.

Valentina                      - (Con un ghigno) Ti senti proprio così libero? Da quando ti sei sciolto da noi? Ma per le guardie tu sei un pazzo evaso dall'ospizio. Ti prenderanno.

Gastone                         - Sarò lontano, io cammino spedito. E molto.

Valentina                      - (Guardandolo in faccia) E credi che io non darò l'allarme se tu metti un piede fuori da questa camera? (Gastone si è avvicinato alla fi­nestra) Mi fai ridere: la finestra è troppo alta. Non è una soluzione. (Egli le si rivolta come una bestia , presa in trappola. Ella lo guarda e gli dice più dolce). Tu ti libererai di noi, forse, ma non dell'abitudine di mostrar negli occhi a uno a uno i tuoi pen­sieri. No, Giacomo anche se tu mi uccidessi per ac­quistare un'ora di fuga, saresti preso. (Egli abbassa la testa). E poi sai bene che non sono solo io a inseguirti e a volerti trattenere, ma tutti: tutte le donne e tutti gli uomini. Persino i morti benpen­santi che sentono vagamente la tua intenzione di scroccare la loro buona educazione. Non si scappa, con tanta gente addosso, Giacomo. E che tu voglia o no, bisognerà che tu appartenga a qualcuno o che torni all'ospizio.

Gastone                         - E va bene; tornerò all'ospizio.

Valentina                      - Ti sei scordato che io ho fatto la guardarobiera per un giorno intero, nel tuo ospizio. Che ti ho visto sarchiare bucolicamente l'insalata, ma anche vuotare i vasi e lavare i piatti, sballot­tato dagli infermieri da cui tu elemosinavi una pi­pata di tabacco. Tu, con noi, ti dai delle arie. Tu ci tratti male, ci prendi in giro, ma senza di noi non sei che un ragazzino incapace, che non hai neanche il diritto di uscir solo e che deve nascon­dersi nel bagno per fumare una sigaretta.

Gastone                         - (E' andato ad aprir la porta) Adesso potete andare. Non mi resta più neanche un bri­ciolo di speranza. Avete fatto la vostra parte.

(Valentina è uscita. Gastone resta solo, torna verso la. sua camera, stanco. Sì ferma davanti agl'armadio a specchio. Si guarda a lungo. D'un tratto prende un oggetto di sulla tavola, sottomano, senza fasciare degli occhi la sua immagine, e lo lancia a tutta forza contro lo specchio che vola in pezzi. Poi va a sedersi sul letto colla testa ira le mani. Pausa. Poi attacca la musica: prima piuttosto triste, poi a poco a poco, a suo, a nostro malgrado, sempre più al­legra. Un momento dopo un ragazzo, in uniforme di studente di Eton, apre la porta dell'anticamera, getta un'occhiata guardinga poi richiude accurata" mente la porta e si spinge nel corridoio in punta d'i piedi. Apre tutte le porte che trova e getta in ognuna di esse un'occhiata investigativa. Lo stesso fa alla camera di Gastone e si trova davanti a lai, che alza ili capo, stupito a questa apparizione).

Un Ragazzo                  - Domando scusa. Potreste forse darmi un'indicazione. Cercavo il posticino...

Gastone                         - (Come sveglialo da un sogno) Il po­sticino? Che posticino... ?

Ragazzo                        - Il posticino dove si sta tranquilli.

Gastone                         - (Che ha capito, lo guarda, e, involontariamente scoppia in una risata gioviale). Ah, figu­ratevi che anch'io lo cercavo, in questo momento, un posticino dove si sta tranquilli...

Ragazzo                        - Allora, non so a chi si potrebbe do­mandare...

Gastone                         - (Ridendo sempre) E neanche io.

Ragazzo                        - In ogni caso, se state lì, non avrete molta probabilità di trovarlo. (Vede i frammenti dello specchio). Oh, là là. Lo avete rotto voi?

Gastone                         - Sì. Io.

Ragazzo                        - Credo che ora sarete in un certo imbarazzo. Ma, credete a me, farete bene a dirlo apertamente. Voi siete grande, e non vi sgrideranno. Ma, sapete, dicono che porta male.

Gastone                         - Già. Lo dicono.

Ragazzo                        - (si avvia per andarsene) Andrò a vedere se per il corridoio trovo un domestico. Quando avrò avuto l'indicazione verrò a dirvi dove si trova... (Gastone lo guarda) Quel posticino tran­quillo che cerchiamo tutti e due.

Gastone                         - (Lo richiama sorridendo) Sentite... sentite... il posticino tranquillo... il vostro... è più facile da trovare che il mio... Ce n'è uno lì, nella stanza da bagno.

Ragazzo                        - Molte grazie, signore. (Entra nella stanza da bagno. La musica riattacca. In capo a qual­che secondo il ragazzo ritorna. Gastone non si è mosso). Ora devo tornare in sala. Si passa di lì?

Gastone                         - Sì. Di lì. Siete con le famiglie?

Ragazzo                        - Sì. C'è pieno di gente di ogni sorta venuti per riconoscere un amnesiaco di guerra. Anch'io sono venuto per questo. Abbiamo preso su­bito l'aereo perché pare che sotto ci sia una ma­novra, da quel che ho capito: ma, sapete, io nonho capito bene. Bisognerebbe parlarne allo zio Job. Siete mai stato in aeroplano?

Gastone                         - Di che famiglia fate parte?

Ragazzo                        - Madensale.

Gastone                         - Madensale... ah sì!... Madensale, gli inglesi. Ricordo i documenti. Molto bene. Grado di parentela: zio. Ho ricopiato proprio io la busta. Ci dev'essere uno zio tra i Madensale.

Ragazzo                        - Sì, signore.

Gastone                         - Lo zio Job, è vero. E allora: dovete dire allo zio Job che posso dargli un consiglio, non ci conti troppo su quel suo nipote.

Ragazzo                        - Perché mi dite questo, signore?

Gastone                         - Perché ci sono molte probabilità che il nipote in questione non riconosca mai lo zio Job.

Ragazzo                        - Ma non c'è nessuna ragione che lo riconosca. Ma non è lo zio Job che cerca suo nipote.

Gastone                         - Ah' c'è un altro zio Madensale?

Ragazzo                        - Sicuro che c'è. Ed è anche un po' buffo, in fondo. Lo zio Madensale sono io.

Gastone                         - (Sbalordito) Come, voi? Vorrete dire vostro padre!

Ragazzo                        - No, no. Proprio io. E' magari una bella seccatura per un ragazzo essere lo zio di un grande. Anch'io ci ho messo molto tempo a capire e a convincermi. Ma il mio nonno ha avuto figli fino a molto tardi, e allora, ecco, è capitato que­sto. Io sono nato venti anni dopo mio nipote.

Gastone                         - (Scoppia in una aperta risata e metter dosalo sulle ginocchia) Sicché, siete voi lo zio Ma­densale?

Ragazzo                        - Sì, sono io. Ma non bisogna prendermi in giro ,per questo. Io non ci posso far niente.

Gastone                         - Ma allora quello zio Job di cui mi avete parlato...

Ragazzo                        - Oh, è un vecchio amico di. papà, un avvocato che mi sbroglia tutte le beghe di suc­cessione. Allora, vero, siccome mi resta tremenda­mente difficile chiamarlo signor avvocato, lo chia­mo zio Job.

Gastone                         - Ma com'è che siete voi solo a rap­presentare i Madensale?

Ragazzo                        - Per via di una grossa catastrofe. Avrete probabilmente sentito parlare del naufragio del « Neptunia ».

Gastone                         - Sì, molto tempo fa.

Ragazzo                        - Ecco: c'era tutta la mia famiglia in crociera.

Gastone                         - (Lo guarda stupito) Allora, i vostri sono tutti morti?

Ragazzo                        - (con gentilezza) Oh, ma sapete, non è il caso di guardarmi così. Non è poi così dispera­to. All'epoca della catastrofe ero appena un bambino. Per dire la verità non me ne sono neanche ac­corto.

Gastone                         - (L'ha messo giù, lo contempla, gli batte su una spalla) Piccolo zio Madensale, siete un gran personaggio senza saperlo.

Ragazzo                        - So già giocare bene a criket. Ci sapete giocare voi?

Gastone                         - Quel che non capisco è come mai lo zio Job viene fino dall'Inghilterra a cercare un ni­pote per il suo piccolo cliente, un nipote che gli creerà delle grane, immagino.

Ragazzo                        - Si vede che non v'intendete di successioni. E' un gran imbroglio, ma credo di aver capito che se noi non lo ritroviamo, questo nostro nipote, la più gran parte del nostro denaro ci viene soffiata di sotto il naso. E questo mi secca molto, perché, in quell'eredità, c'è anche una bella casa nel Sussex con dei superbi cavalli. Vi piace an­dare a cavallo?

Gastone                         - (Improvvisamente assorto) Sicché lo zio Job deve avere una gran voglia di ritrovare vostro nipote?

Ragazzo                        - Come no? Per me... e per sé... Perché, lui non me l'ha mai detto, ma la mia go­vernante me l'ha spesso ripetuto, che lui si prende una percentuale su tutti i miei affari.

Gastone                         - Ah! E che tipo d'uomo è questo mio zio Job?

Ragazzo                        - (Con sguardo molto chiaro) Un signo­re rotondetto. coi capelli bianchi.

Gastone                         - No. Non volevo dir questo. E poi è un particolare che voi non potreste fornirmi. Dov'è in questo momento?

Ragazzo                        - In giardino. A fumarsi la sua pipa. Non ha voluto restare con gli altri ad aspettare in sala.

Gastone                         - Bene. Volete portarmi da lui?

 Ragazzo                       - Se volete.

Gastone                         - (Suona. Emina & cameriera) Fatemi il favore di avvertire la signora Duchessa Dupont-Dufort che ho da farle una comunicazione d'inte­resse capitale: avete capito bene? «Capitale». Che voglia cortesemente venire qui.

Cameriere                      - Una comunicazione capitale. Bene, il signore può contare su di me. (Esce sovraeccitato e ripetendo tra se) Capitale.

Gastone                         - (Conducendo il ragazzo verso la porta opposta) Passiamo di qua. (Arrivato) alla porta si ferma e gii domanda) Dite un po', siete proprio sicuro che sono tutti morti quelli della vostra fami­glia?

Un Ragazzo                  - Tutti, anche gli amici intimi, in­vitati in massa a questa crociera.

Gastone                         - Benissimo. (Gli dà il passa ed esce. La musica riattacca. La scena resta' vuota un mo­mento poi entra la Duchessa seguita dal cameriere).

La Duchessa                 - Come, vuol vedermi? Ma lo sa pure che io lo sto aspettando da un quarto d'ora. Una comunicazione, avete detto...

Cameriere                      - Capitale. (Esce).

La Duchessa;                - (Nella camera vuota) E allora, Dov'è?

Gastone                         - (Seguito dal ragazzo e dallo zio Job fa il suo ingresso solenne nella camera. Tremulo in orchestra o qualche cosa di simile) Signora Du­chessa, vi presento l'avvocato Picwick procuratore della famiglia Madensale di cui questo è l'unico rap­presentante. L'avvocato Picwick mi ha fatto una co­municazione estremamente interessante: egli affer­ma che il nipote del suo cliente presentava, due centimetri sotto la scapola sinistra, una leggera ci­catrice che nessuno ha mai visto. Una lettera, tro­vata per caso in un libro, gliene ha recentemente rivelata l'esistenza.

Picwick                         - Lettera che tengo d'altra parte a di­sposizione dei dirigenti dell'istituto, signora, fin dalla mia venuta dall'Inghilterra.

Duchessa                       - Ma quella cicatrice, Gastone, non l'avevate mai vista, voi? Nessuno l'ha mai vista, vero?

Gastone                         - Nessuno.

Picwick                         - Ma è così piccola, che io pensavo fosse passata inosservata fino ad oggi.

Gastone                         - Si fa presto a saperlo. Volete consta­tare? (si toglie la camicia La Duchessa impugna il suo occhialetto, l'avvocato Picwick inforca i suoi grossi occhiali. Dando le spalle a loro Gastone si curva verso il ragazzo).

Ragazzo                        - Ce l'avete almeno, la cicatrice? Mi dispiacerebbe molto che non foste voi.

Gastone                         - Non ci pensate... Sono io... Sicché è vero che non vi ricordate nulla della vostra fami­glia? Neanche una faccia? Neanche il più piccolo episodio?

Ragazzo                        - Niente. Ma se vi dispiace, potrei for­se cercare d'informarmi.

Gastone                         - Per carità!

La Duchessa                 - (Grida) Eccola qui! Eccola qui! Ah, mio Dio, eccola qui!

Picwick                         - Esattamente. Eccola qui.

La Duchessa                 - Ah, abbracciatemi, Gastone. Do­vete abbracciarmi. E' una meravigliosa avventura.

Picwick                         - E così inaspettata!

La Duchessa                 - (cadendo a sedere) E' troppo forte! Forse svengo.

Gastone                         - (La rialza) Non credo.

La Duchessa                 - Neanch'io. Piuttosto vado a te­lefonare a Pontobronch. Ma, ditemi Gastone, c'è una cosa che vorrei tanto sapere; nell'ultimo accesso di fissazione, il mio Albertino afferma che nel delirio voi avete detto: BaffardeTio. E' una parola che vi riallaccia ora alla vostra vita di prima?

Gastone                         - Zitta! Non lo dite a nessuno. Era il nome che gli davo io.

La Duchessa                 - (Orripilata) Oh, povero Alber­tino mio! (Esita un momento, poi si riprende). Ma non fa niente. Vi perdono. (Si avvicina a Picwick) Capisco, umorismo inglese.

Picwick                         - Esattamente.

La Duchessa                 - (improvviso pen­siero) Ma che colpo per questi Renaud! Chi glielo andrà a dire?

Gastone                         - (allegro) Ne lascio a voi l'incarico. Tra cinque minuti io avrò abbandonata questa casa senza rivedere nessuno.

La Duchessa                 - Non avete pro­prio niente da dire a loro?

Gastone                         - No. (Esita) Sì. Dire­te a Giorgio Renaud che l'ombra leg­gera di suo fratello dorme certo in una fossa comune in qualche punto della Germania. Che è sem­pre stato un fanciullo: degnissimo di perdono. Un fanciullo che ora egli può amare senza riserve, sen­za più il timore, adesso, di legge­re qualche cosa di brutto sul suo volto d'uomo. Ecco... E ora... (Spa­lanca la porta e mostra a loro la via. Stringe a sé il ragazzo) Lascia­temi solo con tutta la mia fami­glia. Abbiamo da confrontare i nostri ricordi...

(Musica. La Duchessa esce insie­me a Picwick).

FINE