In nome del figlio

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IN NOME DEL FIGLIO

IN NOME DEL FIGLIO

Dramma in tre sequenze

di Dario G. Martini

UNA PIETÀ CHE VIENE DA LONTANO

di Roberto Trovato*

Autore di lungo corso, operante da oltre mezzo secolo in vari

ambiti (teatro, poesia, saggistica e giornalismo), Dario G. Marti-ni,

che Cesare Viazzi ha definito “un poligrafo del nostro tempo”

(1) per la sua multiforme attività è noto da molti anni ai lettori di

Sipario. Proprio questa rivista, infatti, ha pubblicato tre dei suoi

testi di maggiore successo: Il latte e il sangue (Premio Pirandel-lo,

1977), Studio 13, messa in scena per la prima volta in inglese

all’Irish Art Center di New York nel 1989, e Colombo e la sab-bia,

che dopo il felice esordio al Fabbricone di Prato nel 1991

rappresentò l’Italia ad un Festival europeo. Oltre ad avere ospita-to

più volte interventi di Martini, Sipario ne ha seguito il percor-so

a partire da L’ultimo venuto (presentato a Genova nel 1957

dalla oramai mitica “Borsa d’Arlecchino”) a Qualcosa, comun-que

(premio Riccione 1962, che ha debuttato sul palcoscenico

del Piccolo Teatro Brandon Ave di Toronto nel 1965) sino a La

signora dell’acero rosso (parziali mises en espace a Genova, Mi-lano

e Piacenza nel 1999-2000).

Un autore poligrafo

Anche se ho indagato a fondo i molti copioni di questo scrittore

tradotto in dodici lingue (compreso il giapponese), forse mi riusci-rebbe

non facile provare la validità delle sue creazioni teatrali, se

non partissi da un fatto singolare del quale ho cercato di dare con-to

in un contributo comparso in una miscellanea universitaria (2).

Il fatto è costituito dalla necessità di capire come mai un autore

drammatico italiano non più giovane, anche se ancora nel pieno

fervore di una sempre robusta e ben sveglia ispirazione, stia susci-tando,

con i suoi testi, l’apprezzamento di molti ragazzi che gli ri-conoscono

non solo una quasi profetica capacità di anticipare temi

che si riveleranno poi decisivi, ma anche una sorprendente sintonia

con il loro modo di guardare ai problemi essenziali.

Vengo alle anticipazioni da me fatte, qualche tempo fa, nella po-stfazione

a La signora dell’acero rosso (3). In quella circostanza

ne notavo solo alcune. Adesso cercherò di essere più esaustivo.

Già con Bocca di lupo (1961) Martini si era espresso contro l’as-surdità

del carcere a vita. Con Qualcosa, comunque si era fatto

portavoce dell’esigenza di reagire agli allora non ancora deva-stanti

e non sempre facilmente prevedibili condizionamenti im-posti

dall’uso della droga. Con Fine dell’alibi (1964) aveva stig-matizzato

quella crescente attitudine alle personali autogiustifi-cazioni

che oggi è diventata una delle più insidiose vie di fuga

dall’assunzione di responsabilità. In Eppure sopravvive (1975) e

ne I latte e il sangue aveva esortato a capire i danni che sempre

più avremmo dovuto subire, e ancora subiamo, in seguito alle

mistificazioni del linguaggio. Con La congiura del Fiesco (1981)

aveva ammonito i giovani aspiranti rivoluzionari a non rendersi

inconsapevolmente complici della reazione (il che era accaduto a

Genova nel secolo di Andrea Doria e poi si verificò ancora, per

tempi più vicini a noi, negli anni “di piombo”). Ne La donna del-l’arcobaleno

(1985), di cui si sono avute sinora letture e mises en

espace a Genova e a Chiavari, era proclamata a gran voce l’ini-quità

delle feroci mutilazioni genitali inflitte a milioni di bambi-ne

e di adolescenti del terzo mondo. Con Studio 13 venivano irri-si,

tra omaggi a Shakespeare e folate di sarcasmo, i guasti che

avremmo dovuto patire, e sempre più patiamo, per l’uso distorto

della televisione. Con L’ammiraglio e le sette lune (1987) e Co-lombo

e la sabbia (1989) si prevedevano, e almeno in parte, si

confutavano molte delle polemiche suscitate dalle celebrazioni

del 1992. Ne L’uovo e le mine (1997) c’era una satira implacabi-le

del “parliamo d’altro” rispetto ai problemi posti dalla new eco-nomy

e dalla globalizzazione. Ne La signora dell’acero rosso,

infine, erano prese di mira l’ipocrisia e la falsa rispettabilità che

negano ai giovani disabili il conforto del sesso.

Sarà chiaro, a questo punto, che quella di Dario G. Martini è una

drammaturgia di puntiglioso impegno civile, che non ha dimenti-cato

una riflessione di Schopenhauer (“Non andare a teatro è come

lavarsi la faccia, al mattino, senza avere a disposizione uno spec-chio”).

Quello di Martini è un teatro che vuole farsi specchio, ap-punto,

per aiutarci a scoprire i nostri mali e, se possibile, a renderli

meno perniciosi.

Negli ultimi anni ho proposto ai miei allievi dell’Università di Ge-nova

lo studio di una raccolta di recensioni del critico, solitamente

severo, Martini (4) e una silloge di sette suoi copioni (5). Ho chie-sto

inoltre allo stesso Martini di collaborare con me per un semi-nario

di drammaturgia (6). Risultato? Anche quando, per valutare

le loro autentiche opinioni, tendo a far contestare dai miei allievi

questo autore, ponendo loro interrogativi volutamente capziosi, mi

sento rispondere: “Io concordo con Martini”. “Scrive come se ci

avesse letto nel pensiero”. Altri dicono: “Si sente che ci è vicino.

Conosce i nostri problemi”.

In linea di massima so che Martini piace ai giovani per almeno tre

ragioni: è uno scrittore che rifiuta il compromesso e l’ambiguità;

invita al coraggio, al dubbio in positivo e alla ricerca; dichiara i

suoi decisi no allo scetticismo assoluto. Relativamente alla sua più

recente produzione, mi ha sorpreso la prontezza di Mario Mattia

Giorgetti. Pur sapendo che il direttore di Sipario ha il teatro nel

sangue e che ha conosciuto Dario G. Martini molti anni prima di

me, non pensavo che egli sarebbe riuscito a percepire di colpo, a

primissima lettura, le ragioni che rendono opportuno, in questo fa-scicolo,

abbinare due copioni solo in apparenza diversi quali In

nome del figlio e L’uomo di San Vit. Ritengo che Giorgetti sappia

per istinto qual è il lievito della creatività di Martini (7).

I due testi qui affiancati hanno strutturalmente a sostegno idee co-muni

che sembrano fatte apposta per dimostrare quanto venga da

lontano quella pietà della condizione umana che è sempre ricono-scibile

nelle opere di Martini e che in queste due pièces appare an-cora

più evidente.

Da una parte sta un figlio che vuol far capire al padre quanto sia

ingiusto credere soltanto nella propria presunta integerrimità. Dal-l’altra

c’è un giovane il quale non può sopportare l’ipotesi che la

sorella sia stata vittima di una sorte crudele. Sullo sfondo si vede

l’infittirsi di argomentazioni molto polemiche, rispettivamente

contro l’indifferenza rispetto agli infortuni sul lavoro e contro la

guerra e i suoi orrori.

Il riscatto dalla disperazione

Sono qui pubblicati un testo regolare, articolato in tre sequenze, e

un monologo. Ciò che però più conta, in entrambi i copioni e che

maggiormente li apparenta, è la voglia di sfuggire a un destino tra-gico

ed umiliante per trovare scampo - paradossalmente, magari

con il suicidio - in un altrove non più dominato dalle leggi della

mutabilità e della morte. La prova che la pietà per la condizione

umana di Martini viene da lontano è fornita, credo in maniera

stringente, da alcune riflessioni di Mircea Eliade (8).

Scrivendo dei “gradini” di Julien Green, l’autorevole studioso di

Storia delle religioni ci ha a suo tempo insegnato come nell’India

antica all’officiante di ogni rituale bastassero una scala o un ponte

per ritenersi immortale. Il ponte de In nome del figlio è rapportabi-le,

sotto questo aspetto, a quello che si scorge dall’altopiano di

San Vit, il luogo per giungere al quale è necessario affrontare una

salita ardua e pericolosa, ma indispensabile affinché il dirigente di

una squadra omicidi risolva un caso difficile e il colpevole di sette

delitti possa sperare di giungere, ancorché con il proprio annienta-mento

fisico, ad una invocata “realtà” di ordine superiore; realtà

immutabile perché sottratta al divenire e quindi opposta alla condi-zione

umana.

Anche il ragazzo de In nome del figlio nella ricerca di una “realtà”

diversa deve annientarsi sia per raggiungerla e sia perché il padre

divenga consapevole delle proprie responsabilità.

Può sembrare strano che Martini, che ha sempre predicato nei suoi

testi, innanzitutto, la necessità di avere la “presa sulla realtà”, mi

abbia indotto qui a scrivere due volte la parola “realtà” tra virgo-lette,

riferendola ad un ipotetico “ordine superiore”. Martini sa che

dalle origini ad oggi miliardi di persone hanno creduto e ancora

credono in qualcosa che ci trascende. Ciò che senza dubbio ci tra-scende

è in ogni caso il mistero, di fronte al quale forse non è male

adottare quella “sospensione di incredulità” che, sia detto inciden-talmente,

è uno degli elementi utili a creare e a recepire il buon

teatro. Comunque sia Martini, anche se può non condividere una

fede sicura nel sopravvivere degli individui, sa che la sopravviven-za

è in ogni caso garantita (a lungo, se non eternamente) all’uma-nità.

Martini, anche in questo, concorda con uno degli autori a lui

più cari, Dostoevskij, da alcuni ritenuto a torto un nichilista. Il

grande scrittore russo, tra l’altro, osserva nei Taccuini: “Dicono

che l’uomo si dissolva e muoia per intero. Eppure noi sappiamo

che non è così: [...] Vediamo chiaramente, anzi, che il ricordo di

quanti hanno maggiormente contribuito alla crescita dell’uomo

continua a vivere”.

Per rendere più convincenti i suoi assunti l’autore usa anche qui,

in maniera disinvolta, la già più volte sperimentata tecnica del bri-colage.

Da un lato ci troviamo a fare i conti con Shakespeare,

Kierkegaard, Dostoevskij, Pessoa e dall’altro con Mozart, Thomas

Mann, Salvador Dalì, la Bibbia, Proust, Musil, ancora Dostoevskij

e Camus. Potrebbe fare capolino anche il Frazer de Il ramo d’oro

(9) per via della cosiddetta “magia contagiosa”, ovvero il “legame

simpatico” tra l’uomo e ogni cosa, evocato per i sortilegi dei quali

parla nel testo di Martini il monologante e che spiega tra l’altro la

predilezione per taluni oggetti (le forbici, ad esempio, che ricorda-no

il padre e la madre all’uomo di San Vit). E’ inoltre opportuno

sottolineare l’accorto uso che l’autore fa, nei due testi sopra segna-lati

dei richiami al mondo dell’inconscio, dove l’acqua (e la sete),

il cielo e gli alberi, l’erba e i simulacri tipo bambola affiorano (for-se

per via cromosomatica) da “quei ricordi immemorabili” che -mi

attengo ancora una volta ad Eliade - “giacciono nell’anima di

ogni essere umano”.

Citata l’estrema attenzione al ritmo, da parte di Martini, per en-trambi

i testi, dirò ancora che i versi richiamati in L’uomo di San

Vit sono di Paul Celan, il grande poeta romeno di lingua tedesca

che perse entrambi i genitori nella tragedia dell’olocausto e che,

dopo un’esistenza fatta di inaudite traversie, venne indotto dalle

eccessive sofferenze a togliersi la vita a Parigi, buttandosi nella

Senna.

Alla mia domanda perché vi sia l’ombra cupa di tre suicidi in due

pièces che vogliono rifiutare la disperazione esortandoci alla spe-ranza

Martini mi ha risposto: “Proprio dalla disperazione assoluta,

che sembra dover preludere all’annientamento, può, anzi deve ve-nirci

la motivazione del riscatto”.

Ho ricordato allora uno dei versi di Celan, parafrasati nell’Uomo

di San Vit. Rivolto a una bella fanciulla recita: “Ora sei giovane

come un uccello morto nella neve di marzo”.

Era atroce il pessimismo di Celan, come atroce, talvolta può appa-rire

l’esistenza. A mio avviso, autori come Dario G. Martini pos-sono

aiutarci a renderla meno insopportabile.

(* docente di Drammaturgia presso l’Università di Genova)

Note

(1) A. VENTURINI, Non possiamo più aspettare Godot, Genova, Erga,

1997, p. 91.

(2) R. TROVATO, Dario Guglielmo Martini: teatro per cambiare,in

“Filologia romanza e cultura medievale. Studi in onore di Elio Mel-li”,

Alessandria, Edizioni dell’Orso, l998, pp. 829-849.

(3) R. TROVATO, Da una donna (e dal mistero) un barlume di speran-za,

in Dario G. MARTINI, La signora dell’acero rosso, Genova,

Fratelli Frilli editori, 2000 , pp. 83-95.

(4) Dario G. MARTINI, La pulce nell’orecchio, Savona, E & L, 1994.

(5) Dario G. MARTINI, Eppure sopravvive, Savona, E & L, 1994.

(6) Gli interventi del commediografo sono stati pubblicati in un libro di

Martini dal titolo Le parole di Amleto, Savona, E&L, 1996.

(7) A proposito di istinto mi piace citare una riflessione di Peter Brook

tratta dalla sua recentissima antobiografia intitolata I fili del tempo

(Milano, Feltrinelli 2001, p. 69): “Quando cominciai a lavorare nel

teatro non avevo una preparazione specifica; le mie guide erano i

sentimenti e le intuizioni. Questo mi portava a disprezzare la ragio-ne,

anzi, ne rispettavo il valore considerandola uno strumento che

poteva discriminare, organizzare e chiarire, ma osservavo con stupo-re

che le decisioni prese per puro istinto sembravano riflettere un or-dine

nascosto che la mente cosciente era incapace di definire”.

(8) M. ELIADE, I gradini di Julien Green, in L’isola di Eutanasius, To-rino,

Bollati & Boringhieri, 2000, pp. 2 e seguenti.

(9) Citato in M. ELIADE, Il folclore come strumento di conoscenza, in

L’isola di Eutanasius, cit., pp. 31 e seguenti.

(10) P. CELAN, Poesie, Milano, Mondadori, 1998, p. 47. La lirica si in-titola

Raggio notturno.

Nota dell’autore

OGNI GIORNO IN ITALIA PIÙ DI TRE MORTI PER

INFORTUNI SUL LAVORO

Ogni giorno, in Italia, muoiono mediamente almeno tre persone

per infortuni sul lavoro. Nel 2000 gli incidenti denunciati sono

stati 988.702 rispetto ai 975.496 dell’anno precedente. In base

alle rilevazioni dell’INAIL sembrerebbe leggermente in calo,

invece, il trend degli infortuni mortali (erano 1.324 nel 1999 so-no

scesi ai 1310 nel 2000).

I settori di attività economica che hanno registrato un maggiore

incremento degli infortuni sono: la sanità (più 25% dei casi), i

trasporti (con una crescita del 10,5%), le costruzioni (con un

aumento del 3,1%) e il commercio con un più 5,4 per cento.

Le regioni in cui si registra il più forte incremento di infortuni

sono il Friuli Venezia Giulia (più 6,8%), l’Abruzzo (più 3,3 %)

e la Lombardia (più 2,9 %), mentre in Campania si assiste ad

una inversione di tendenza (con un meno 4,4%).

(dati raccolti da “Obiettivo tutela”, periodico dell’ANMIL, Asso-ciazione

Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro. Secondo le ri-levazioni

effettuate dall’INAIL, da gennaio a luglio del 2001, in

Italia il numero degli infortuni sul lavoro è cresciuto dello 0,7% ).

Personaggi

A, Vedova Anomala

B, L’uomo dei servizi

D, il Direttore di Giornale

C, il Cronista

Interno, illuminato da una grande finestra, della casa di A. Con-trapposta

alla finestra una porta.

Più o meno al centro, verso il fondo, un grande scrittoio. Di lato

un computer, con relativa stampante. A - giovane, molto attraente

- è in piedi presso una delle due poltrone davanti allo scrittoio.

Sull’altra poltrona è seduto B, un signore elegante, anche lui gio-vane,

ma meno, forse, di quanto non dimostri di essere.

I

A (pronunciando il nome in perfetto danese) — Kierkegaard.

B — Come ha detto, scusi?

A (c.s.) — Kierkegaard.

B — Non capisco.

A (paziente, sillabando il nome come scritto in italiano) —

Kierkegaard.

B — Il filosofo?

A — Appunto.

B — Il danese, se non sbaglio. Quello che odiava le donne.

A — No. Ne ha scritto male, qualche volta, ma poi anche bene.

Chi le odiava veramente, le donne, era un altro.

B — Cioè?

A (alza un foglietto dallo scrittoio e legge) — “Il vero peccato ori-ginale,

infinito, negli uomini, è nascere da donna. L’unico vi-zio

umano è amare la propria madre. Felice chi non la conob-be.

Grande chi la uccise”.

B — Di chi è questa mostruosità?

A — Di Pessoa, il poeta portoghese, anche se poi, più o meno, ret-tificava:

“Nessuno sa cosa vuole, nessuno conosce quale anima

possiede, - né cosa è male, né cosa è bene - (Quale ansia lonta-na

piange vicino?) - Tutto è incerto ed estremo - Tutto è di-sperso,

nulla è intero...”

B (con una punta di ironia) — Lo sa a memoria?

A — Ho imparato da mio marito. (altro tono) A differenza di Pes-soa,

ch’era anche (allude alle sue tendenze particolari) un po’

così, Kierkegaard non odiava le donne. Ce l’aveva a morte, in-vece,

con i giornalisti.

B — Perché?

A — Sosteneva che i giornali sono, nel mondo moderno, il princi-pio

del male. Lei è d’accordo?

B — Non saprei. La stampa non è sempre obiettiva, ma non è faci-le

contestarla. E inoltre, finché ci sarà una pluralità di testate.

A (interrompendolo) — Pioggia di chiacchiere. (altro tono, dopo

una pausa) Posso farle servire qualcosa? Whisky, cognac,

vodka?

B — No, grazie. Di solito bevo acqua tonica, ma adesso non ho

sete. (altro tono) Accennava alla stampa.

A (alza un altro foglio dallo scrittoio) — Questa è una nota tra-scritta

da mio marito poco prima... (esita) Poco prima del sal-to.

(legge) “Una sete di sangue di natura abominevole: aver se-te

di sangue umano non come un leone o una tigre, ma come

un pidocchio, o uno sciame di pidocchi! La più abietta di tutte

le tirannidi è quella dei pidocchi: e il più abominevole adulato-re

di tutti i tiranni sei tu, adulatore del tiranno dei pidocchi, sei

tu, giornalista!”

B — Un po’ forte, no? Forse chi s’esprimeva così si vendicava per

la stroncatura di qualche suo testo.

A — Non tenti di immiserirlo.

B — Non ci penso proprio. Piuttosto, come mai, da parte di suo

marito, tanto interesse per autori così lontani da noi?

A — Voleva scrivere un saggio intitolato “Soeren Kierkegaard

nonno di Pessoa e zio di Dostoevskij”. (come per rispondere a

un moto di sorpresa di B) Era convinto di avere scoperto molte

affinità tra i tre scrittori, pur tanto diversi nel linguaggio e nei

rapporti con la realtà e così, leggendone o rileggendone tutti i

testi, indagava sulla loro parentela.

B — Interessante.

A — Lo pensavo anch’io, benché, negli ultimi tempi, abbia dovuto

temere che nella sua smania di trovare collegamenti, mio mari-to

stesse rischiando di trasformare la sua ricerca in una osses-sione.

B — Sicché lei sarebbe disposta a concedere - in via d’ipotesi, na-turalmente

- che, in un certo senso, suo marito aveva perso, ul-timamente,

almeno una parte del suo equilibrio?

A — Cosa vuol farmi ammettere? Che stava per impazzire?

B — No, certo, ma… Quando si giunge a gesti così estremi... For-se

l’essersi dedicato con impegno ad un progetto tanto com-plesso

potrebbe averlo condizionato... So che in passato aveva

sofferto di disturbi nervosi... Non crede che lo stress delle fati-che

sui libri possa avere aggravato una situazione già critica,

influendo sulla sua decisione per... (esita)

A — Coraggio, lo dica: per il salto?

B — So che per lei è penoso parlarne, ma... (esita ancora)

A — Ho saputo reagire, anche se da quando mio marito non c’è

più, tutto, per me, è buio e desolazione... (dopo una pausa)

Forse, però, potremmo capirci meglio se lei giocasse a carte

scoperte... Sì, d’accordo, m’ha detto di essere qui per un’in-chiesta.

Non m’ha precisato, tuttavia, per conto di chi. Lavora

per un giornale?

B — No, per carità.

A — L’ha mandato l’ingegnere?

B — Suo suocero?

A — Non mi piace che si chiami così. Preferisco dire - come tutti

- l’ingegnere.

B — Va bene. Carte scoperte. Lei continua a sorprendermi.

A — Perché?

B — Dice che ha saputo reagire. Capisco e capisco anche che il

buio e la desolazione non si ostentano. Tuttavia... (altro tono)

Pensavo di trovare una vedova non dico proprio in lacrime, ma

ancora afflitta, in qualche modo, da un lutto recente.

A — E invece?

B — E invece incontro una signora che non sembra appena uscita

da una tragedia.

A — Lui è ancora qui, accanto a me.

B — Una presenza assente, che consola.

A — Niente affatto. Una presenza vera. L’assenza è di cose che

non contano, che perdiamo ogni giorno... (altro tono) Lui me

l’aveva promesso. Non ha mai smesso di starmi accanto.

B — Se è così... Perché la desolazione?

A — Perché, per quanto me l’aspetti sempre, non so mai rasse-gnarmi

alla perfidia.

B — Spero non alluda a me. Anche se ho voluto farle notare una

sua piccola contraddizione, io l’ammiro, l’ammiro molto.

A — Dovrei essergliene grata?

B — Ha citato filosofi e poeti con osservazioni dure, pungenti,

com’è pungente, credo, il suo non volersi riconoscere nuora

dell’ingegnere.

A — Non intendo parlare con lei del padre di mio marito.

B — Però poco fa mi ha chiesto se lavoro per lui.

A (categorica) — Tutti lavorano per lui.

B (ha udito un suono e trae di tasca un telefonino) — Mi scusi

(parlando al telefonino). Sì... (dopo una breve pausa) Me lo

passi (altra pausa). Sissignore... Certo, mi rendo conto... (nuo-va

pausa). Temo che non sarà facile... Un attimo (si è alzato ed

è evidente che vorrebbe isolarsi). Potrei... (s’allontana, per

quanto può, dallo scrittoio)

A — Stia comodo. Esco io.

B (trattenendola, con un gesto) — No, la prego... (al telefono).

Devo chiudere… Tra poco, sì... (ad A, dopo una ulteriore pau-sa,

durante la quale ha riposto il piccolo apparecchio) Scusi

ancora. Ho disattivato.

A — Pensavo che le persone come lei disponessero già di mezzi

più sofisticati per comunicare.

B — Come sarebbe a dire “le persone come lei”? Quali persone?

A — Chi esegue gli ordini.

B — Cosa le fa supporre che io…

A (interrompendolo) — Non è difficile.

B (vincendo il proprio imbarazzo) — Mi rammarico che ci abbia-no

interrotti e comunque... (altro tono) Sì, forse ha ragione lei.

È meglio essere sinceri.

A — E allora?

B — Lei sa che sono state avanzate varie ipotesi sulle vere ragio-ni...

(esita) A me tocca venirne a capo.

A — Per conto di chi?

B (elusivo) — Lei è una donna colta, intelligente.

A — Grazie.

B — Non è un complimento, è una constatazione. E dunque non

avrà difficoltà a capire come non sia opportuno lasciar circola-re

supposizioni infondate, anzi, come sia necessario approfon-dire

le motivazioni di un gesto che per molti versi è sembrato

incomprensibile.

A — C’è già stata un’inchiesta.

B — Formale, di “routine”. Ora la si vorrebbe completare, ovvia-mente

nel massimo riserbo.

A — Perché nel massimo riserbo?

B — Prima di tutto per riguardo verso lo scomparso, e poi anche

per un’esigenza di discrezione verso di lei.

A — E verso l’ingegnere.

B — Esattamente.

A — Riserbo significa segretezza. Devo quindi dedurne che lei è

un agente dei servizi.

B — Più o meno.

A (con un mezzo sorriso) — Spero che non somigli al capo della

CIA.

B — Vuole alludere al fatto che non ha saputo prevenire la trage-dia

delle due torri gemelle del World Trade Center?

A — No. Mi riferisco soltanto a una constatazione: gli eventi che

più colpiscono sono sempre improvvisi.

B — A quanto pare...

A — E allora mi chiedo: perché gli allarmi funzionano troppo o

non funzionano mai? Se lo chiedeva spesso anche mio marito:

“È una cosa - diceva - che dovrebbe farci riflettere”. È anche

per questo, credo, che agiva tanto su di lui l’influenza degli au-tori

che stava studiando.

B (ironico) — Ancora?

A — Perché no? (alza un altro foglio dallo scrittoio) Eccole un in-terrogativo

stralciato dalle carte del filosofo danese. (legge)

“Prima che scoppi un’epidemia di colera, compaiono di solito

certi moscerini che altrimenti non si vedono. Questi favolosi

pensatori puri non sarebbero il segno foriero di una sciagura

che sta per piombare sull’umanità?”

B (c.s.) — Moscerini da far scongiuri.

A — Anticipavano non solo il colera, ma anche la perdita del sen-so

morale e della religione.

B (c.s.) — Trattandosi di pensatori puri...

A — Lei ironizzi quanto vuole, ma oggi c’è di peggio dei mosceri-ni.

Qualche giorno prima del... del salto, mio marito aveva rita-

gliato il trafiletto di un quotidiano con la notizia dei leoni ucci-si

da sciami di mosconi affamati.

B — Dove?

A — In un parco naturale della Tanzania. Sei leoni letteralmente

sbranati dai feroci insetti divoratori di carne.

B (sempre ironico) — Sorte inattesa per i re della foresta.

A — Mio marito ha contrapposto i terribili mosconi africani alle

inermi mosche uccise dai monelli per divertimento, così come

per divertimento noi veniamo uccisi dagli dei.

B (c.s.) — È un’altra tesi del danese?

A — No. Una battuta del conte di Gloucester in “Re Lear”.

B (aspro) — Mi scusi, sa, ma suo marito era proprio fissato con i

filosofi e la letteratura. (altro tono) Ho l’impressione che lei

cerchi di fuorviarmi, di distogliermi dalla vera questione che

dobbiamo affrontare.

A (come se non l’avesse neanche ascoltato) — Le mosche.

B (sul filo dell’esasperazione) — Ah no, per favore.

A (decisa) — Le mosche come allarmi, come segnali.

B (sempre più aspro) — Voglio sapere di suo marito.

A (senza badargli) — Segnali, segnali, sì. Segnali mai ascoltati,

come l’Aids e le esplosioni di leucemia, come il clima stravol-to

in ogni continente e le contaminazioni da uranio o da onde

elettromagnetiche o da amianto e i muggiti delle mucche im-pazzite

e le snaturalezze tra figlie e madri e tra sorelle e fratelli

e la pastiglia che i ragazzi si fanno a scuola o in discoteca e gli

uomini che ogni giorno vengono massacrati per inutili evitabi-lissime

guerre o che ogni giorno muoiono o restano mutilati

per altrettanto evitabilissimi infortuni sul lavoro.

B (sempre ironico, sul filo del sarcasmo) — Per essere una tirata

retorica direi che è riuscita a recitarla piuttosto bene.

A — Io non recito.

B — Certo (accentuando il sarcasmo). Lei non recita. Vive.

A — È così.

B (c.s.) — Tra i suoi segnali ha dimenticato però le stragi sulle

strade, il doping e i cori razzisti negli stadi, le schiave della

prostituzione, la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta, la pedofilia

e, già che c’era, anche gli scioperi dei controllori di volo e de-gli

autoferrotranvieri. Tutti segnali, come i moscerini dell’Ot-tocento

e i mosconi killer del nuovo millennio?

A (aggressiva) — Trovo la sua ironia assolutamente fuori luogo.

B — Si calmi. Lei ha citato tutti i mali dell’universo, dall’Aids

agli infortuni sul lavoro. È di questi che suo marito s’occupa-va,

oltre che dei pensatori e delle mosche?

A — Esce allo scoperto, se Dio vuole. Prima mi limitavo a sospet-tarlo,

ma adesso ne sono sicura. Lei è venuto qui con lo scopo

d’insabbiare.

B — Cosa insinua? Come si permette?

A — Non si affanni a smentire. Lei è arrivato per con fondere, per

mistificare.

B (a sua volta aggressivo) — Non ha il diritto.

A (interrompendolo) — Chiedeva a me di calmarmi? Si calmi lei.

Perché s’inquieta? Insabbiare è il suo mestiere. Tipico dei ser-vizi.

Lo sanno tutti e lo dice anche il nome: servizi, da servire.

Essere soggetti a chi comanda: assicurare comunque e dovun-que

soggezione ed obbedienza. (altro tono) Le sta a cuore la

pratica infortuni.

B — Mi sta a cuore la verità, mi sta a cuore evitare speculazioni

sulla fine di una persona malata.

A — Mio marito non era malato.

B — E mi sta a cuore, anche, che non si attribuiscano responsabi-lità

umane ad avvenimenti dovuti, il più delle volte, all’impru-denza

delle vittime o alla fatalità o semplicemente al caso.

A — Oh, il caso… Il caso e la necessità. È vecchia questa storia.

Mio marito lo diceva: c’è sempre qualche scienziato disposto a

offrire alibi a chi non vuole ammettere le proprie responsabilità.

B — Vuole contestare la scienza?

A — Contesto lei, semmai, e la sua inchiesta… Altro che caso.

Tutto preordinato, scritto, stabilito in anticipo.

B — Signora, mi ascolti. Lei merita rispetto perché è stata molto

provata. Posso giustificare, sino a un certo punto, il suo risenti-mento

e anche la sua asprezza, ma non posso certo tollerare

che mi si accusi impunemente. Perché dovrei insabbiare? Qua-le

sarebbe il movente?

A (dura) — Il servilismo è il movente. Il servilismo dei più e l’op-portunismo

di chi non è servile sono più micidiali che i mosco-ni

killer della Tanzania. (altro tono) L’essenziale è fare in mo-do

che niente si sappia.

B — Sciocchezze.

A — Mio marito mi ha spiegato qual è il significato di “comunica-re”.

Viene da “mettere in comune”. Per voi, invece, la comunica-zione,

anziché dover funzionare al servizio della comunità,

dev’essere sempre e comunque a disposizione di chi comanda.

Lei, se fosse in buona fede, non potrebbe certo negare l’evidenza.

B — Di evidente, in questo caso, c’è solo il salto che suo marito

ha fatto inspiegabilmente da un ponte.

A — Se è inspiegabile, quel salto, perché avete tanta paura che

qualcuno possa spiegarlo?

B (si è avvicinato alla finestra e guarda l’esterno) — C’è una bel-la

vista da qui.

A — Sarebbe bella se non ci fosse la fabbrica.

B (polemico) — Per avere più disoccupati?

A (altrettanto polemica) — Quelli, almeno, non corrono il rischio

di cadere da una impalcatura o di lasciare una mano nell’ingra-naggio

di qualche macchina.

B — Le sembra di essere spiritosa?

A — Direi che spiritosi, in questi ultimi tempi, lo sono stati, molto

più di me, i dirigenti della fabbrica per come hanno cercato di

intimidire chi voleva denunciare lo scandalo degli infortuni do-vuti

agli appalti.

II

L’ufficio - tutto vetri - del direttore di un giornale di provincia. Il

direttore è anziano e collerico (non per vocazione). Il giovane cro-nista

può talvolta apparire timido, ma non manca di personalità.

Sul tavolo del direttore molte carte e qualche libro (compreso un

codice penale).

C (si affaccia) — Permesso?

D (alza gli occhi dalla bozza che sta correggendo) — Avanti.

(continuando ciò che stava facendo) Siediti. (mentre C siede e

si guarda attorno, il direttore, messa via la bozza, apre una

scatoletta porta-medicinali e ne trae due pasticche che masti-ca

lentamente) Il guaio è che devo mandarle giù senza acqua.

(altro tono) Tu hai mai avuto mal di stomaco?

C (quasi scusandosi) — No.

D — Beato te. (altro tono) Ho saputo che hai chiesto al capocroni-sta

come mai non è uscito il tuo pezzo. Adesso ti spiego. (altro

tono, mentre ha ripreso in mano la scatoletta delle pasticche)

Sono tredici giorni che vado avanti con queste. Domani comin-cia

la seconda settimana e dovrei continuare per altre tre. Un

mese e mezzo di cura, in totale. Il medico dice che così potrei

bloccare l’ulcera senza doverla operare. (dopo una pausa) Cre-di

che sia possibile?

C — Lo spero per lei.

D — Ah sì, lo speri? (sbottando repentinamente) E allora perché,

se speri che la mia ulcera guarisca, fai tutto il possibile per ag-gravarla?

Lo sai che da un momento all’altro potrebbe scate-narmi

un’emorragia?

C (sconcertato) — Io non…

D — Tu cosa “io non”? Possibile che qui vogliate tutti la mia pel-le?

(trilla il telefono) Chi è? (pausa) Vada al diavolo... (pausa)

Non ci sono, non ci sono per nessuno. (stacca e si rivolge nuo-vamente

a C) E quanto a te avrei voglia di... (dopo un attimo,

ricomponendosi) Scusami. Devo stare calmo.

C — Vuole che torni più tardi?

D (senza aver badato a C) — Stare calmo - ha detto il medico - e

camminare. Più le due pasticche al giorno per quarantacinque

giorni. (nuovamente in collera) Ma come si fa a stare calmi.

(placandosi, di colpo) Come si fa a stare calmi quando un croni-sta,

mandato a seguire una riunione sindacale, finisce in procura

sul registro degli indagati per violazione di domicilio? Sai cosa

rischi? Anzi, cosa rischiamo, perché anch’io verrò coinvolto.

C — Io non…

D (interrompendolo bruscamente) — Ancora “io non”. Non sai di-re

altro? (cambia tono) Ho telefonato all’avvocato e mi ha det-to

di leggere l’articolo 614 del codice penale. (apre il codice

alla pagina segnata) “Violazione di domicilio. Chiunque s’in-troduce

nell’abitazione altrui; o in altro luogo di privata dimo-ra

o nella appartenenza di essi, contro la volontà espressa o ta-cita

di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi s’intromette

clandestinamente, o con inganno, è punito con la reclusione fi-no

a tre anni”. Capito? Fino a tre anni.

C — Ma è assurdo. Il capocronista mi ha mandato là.

D (brusco) — Dovrà risponderne anche lui.

C — Ci hanno fatto entrare.

D — Con l’inganno, in maniera clandestina. Tre anni, ammesso

che escludano le aggravanti. Nella seconda parte l’articolo 614

parla chiaro: “Alla stessa pena soggiace chi s’intrattiene nei

detti luoghi contro l’espressa volontà di chi ha il diritto di

escluderlo”. (altro tono) È il caso tuo.

C — Ma no.

D (senza badargli) — “Ovvero vi si trattiene clandestinamente o

con inganno”. Nuovamente il caso tuo.

C — No, no.

D (c.s.) — “Il delitto è punibile a querela della persona offesa. La

pena è da uno a cinque anni, e si procede d’ufficio se il fatto è

commesso con violenza sulle cose, o alle persone, ovvero se il

colpevole è palesemente armato”. (altro tono) Tu sei armato?

C (costernato) — Io non…

D (cresce la collera) — Non dire più “io non” se no ti caccio a

calci.

C — Direttore, posso spiegarle...

D (con una vena di sarcasmo) — Come no? Certo che mi puoi

spiegare. Si trova sempre a tutto una spiegazione (altro tono)

Sai quante telefonate ho già ricevuto tra ieri e oggi per la tua

violazione di domicilio? Sei, e dicendo sei non trascuro la più

importante, la terza, che m’è addirittura arrivata, sai da chi?,

prova un po’ a indovinare, m’è addirittura arrivata dal segreta-rio

dell’ingegnere.

C — Le assicuro, non è stata colpa mia.

D (collera ancora in aumento) — No? E allora di chi? Chi s’è in-trodotto,

furtivamente, nella fabbrica, per assistere, non auto-rizzato,

a una riunione sindacale, anche quella non autorizzata?

C — Non è vero. Le cose non sono andate così.

D — Ah no, eh? Oh Dio! Ci risiamo. (si porta una mano allo sto-maco

che ha ripreso a fargli male) Ci vogliono due ore prima

che le pasticche siano assorbite, e nel frattempo... Ti dispiace-rebbe,

almeno per il momento, non contraddirmi?

C — No, ma...

D — Senti, non litighiamo. Non ho voglia di litigare e poi non

posso perché - lo vedi, no? - non appena mi agito un po’, il

male torna a mordere. (ancora una pausa) Credimi, non ce

l’ho con te e non voglio mettere in discussione il tuo pratican-

tato. Non solo perché sono stato grande amico di tuo padre,

prima che partisse per l’Irlanda, ma anche perché so che vivi

in una situazione non facile.

C — Mi spiace se ieri...

D — Sicuro che ti dispiace. E a chi non dispiacerebbe inguaiare,

in un colpo solo, il proprio giornale e dunque i propri colleghi

e il proprio capocronista e il proprio direttore? Quattro centri

tutti insieme: giornale, redattori, capocronista e direttore. Sei

riuscito a fare poker.

C — Sono desolato.

D — E pensare che ieri mattina avevo detto al capocronista: “Per

favore, dai una mano a questo ragazzo. Fagli fare qualcosa

d’importante”. Potrà rinfacciarmelo, si capisce, ma d’altronde

lo sapeva anche lui che sei appena arrivato dall’Irlanda per lau-rearti

nel paese dov’è nato tuo padre e quindi doveva pure

aspettarselo che nel cominciare ti saresti trovato a disagio co-me

a disagio, lo sarei anch’io, naturalmente, se solo da tre me-si

risiedessi a Belfast. (altro tono, dopo una pausa) Bisogna ra-gionare,

cercare di capire. L’ho detto anche al segretario del-l’ingegnere:

se c’è stato un errore vedremo di rimediare.

C — Vorrei poter chiarire.

D — Non avvilirti. Hai sbagliato? Pazienza. Sono cose che capita-no

(prevenendo C che vorrebbe reagire) Sei serio, ti impegni,

ricordi un po’ me quando avevo la tua età. E te lo dico anche se

non dovrei: sarei contento di avere un figlio come te.

C — Mi fa piacere. Però ieri mattina...

D (interrompendolo) — Un piccolo incidente di percorso. Ti sarà uti-le

(altro tono, forse il mal di stomaco sta passando) Mio figlio,

adesso, va in giro con un mantello e una pipa tipo indiani Gitk-san,

sai, quelli della costa nord-occidentale. Fa un corso accelera-to

per la pesca dei salmoni e quando non pensa alle isole dell’ar-cipelago

Alexander passa il suo tempo tra balere e discoteche.

(dopo una breve pausa) Mia figlia, invece, è in piena crisi misti-ca:

non ha più anellini, né alle orecchie, né al naso e sogna sol-tanto

di poter arrivare, prima o poi, al masso dorato in Birmania.

C — Che masso è?

D — In bilico, su una vetta, a milleduecento metri. Sembra sempre

che stia per cadere e invece è tenuto su dalle preghiere dei mo-naci

rasati a zero. Così anche mia figlia s’è fatta rasare a zero e

capirai con che gioia per me e per sua madre. Sua madre mi ha

chiesto: “Credi che ci potrebbe accoltellare?” Tu cos’avresti ri-sposto?

C — Non saprei.

D — Anch’io ho risposto a mia moglie: “Non saprei”. Psichiatri e

sociologi consigliano: “Bisogna ascoltare i figli e parlare con

loro”. Certo. Ma chi è che ne ha il tempo? È come per il cam-minare

del medico. Camminare, camminare. Lo ordina a tutti,

ma lui va in auto o in moto fuori serie... Parlare con i figli. Si-curo.

Ma poi chi lo dice che se noi parlassimo ci ascolterebbe-ro?

Quando ho chiesto a mio figlio il perché della sua simpatia

per gli indiani Gitksan ha detto: “È inutile che fai finta di inte-ressartene.

So benissimo che ci provi soltanto per sconnettere

l’intrico dei ruoli parentali”.

C — Dei ruoli?

D — Parentali, sì. E quando ho chiesto a mia figlia come mai, ap-pena

si sveglia, al mattino, ha preso l’abitudine di cantare, mi

ha liquidato con un quasi sorriso tra il compassionevole e lo

sprezzante: “Il canto - mi ha detto - è uno dei mezzi più incisi-vi

per l’alfabetizzazione emozionale delle situazioni clau-strofobiche”.

Ci vorrebbe un interprete con i figli.

C — Hanno voglia di nuovo.

D — Forse è giusto così. Io sopporto questa gabbia perché loro,

almeno, possano avere la speranza di uscirne... (altro tono)

Non so neanche perché ti ho raccontato queste cose. Forse per-ché,

tra l’altro, tu mi ricordi un ragazzo - qualche anno appena

più di te - che mi sembrava diverso dai soliti. Mi dispiace che

tu non abbia fatto in tempo a conoscerlo. Comunque ne avrai

certo sentito parlare: il figlio dell’ingegnere... Ho dovuto cor-rere

anch’io, là, quando l’hanno trovato ai piedi del ponte:

spiaccicato, poveretto, dopo un salto di quaranta metri.

C — Ma si è proprio buttato giù?

D — Sì, ma non è questa la domanda. La domanda è: perché lo ha

fatto? Era ricco, giovane, sano, innamoratissimo, a quanto pa-re,

della moglie che lo ricambiava. Aveva la mania dei libri, ma

chi è che non ha qualche mania? Un giorno è venuto qui a

chiedermi se avessimo in archivio qualcosa su non so più chi.

L’ho fatto parlare con il caposervizio allo sport, che si occupa

anche degli spettacoli e della cultura. Credo che qui non abbia

trovato niente. (altro tono) Ha fatto una fine orribile. Pensa che

l’impatto, dopo il salto, lo ha, come dire? fatto a pezzi, quasi

frantumato, ma la faccia è rimasta intatta, girata in su, ad occhi

aperti. Non riesco a dimenticarlo. (ancora cambiando tono,

dopo una pausa) Abbi pazienza, m’hai fatto divagare. Tornia-mo

alla violazione di domicilio.

C (deciso) — Non c’è stata.

D — Come non c’è stata?

C — No. È il portiere della fabbrica che ci ha fatti entrare. Me e i

due colleghi ch’erano con me.

D — Dice che lo avete ingannato lasciandogli supporre un’auto-rizzazione

che in effetti non esisteva.

C — Ma ci hanno invitato là i sindacalisti. Eravamo con loro

quando il portiere ha aperto il cancello.

D — Neanche i sindacalisti erano autorizzati. E poi, senti, co-munque

siano andate le cose, a quella riunione, legittima o no,

è certo che tu ne hai dato una versione non imparziale.

C — Perché non imparziale?

D — Meno male che il capocronista se n’è accorto. Non appena

ha avuto sott’occhio il tuo pezzo è venuto da me. “Qui - ha

detto - c’è qualcosa che non quadra”.

C — In che senso?

D — M’è bastato leggere tre righe per capire... Scusa, sai, io ho

sempre difeso a spada tratta i miei redattori e i miei cronisti. A

spada tratta, in qualsiasi circostanza… Però c’è modo e modo

di fare informazione.

C — Non ho inventato niente.

D — Inventato forse no, ma è il tono, mio caro. Tu hai messo giù,

nero su bianco, che la fabbrica, grazie agli appalti, fa lavorare

extracomunitari e altri irregolari in nero.

C — È così.

D — Sarà anche così, ma, detto tra noi, è una cosa che non fa più

notizia, perché in pratica è quello che succede un po’ ovunque

e lo sanno tutti. (al moto di reazione di C) Aspetta, fammi fini-re.

Tu hai scritto - cito solo un paragrafo - “gran parte degli ap-palti

sono concessi a ditte che figurano con residenza altrove”.

C — È vero.

D (non ha badato a quanto detto da C) — “Per far sì che chi lavora

risulti sempre in trasferta. Con questo espediente chi dirige l’ap-palto

non è tenuto a rispettare le norme sulla previdenza e la sicu-rezza

e neanche gli orari di lavoro”. (altro tono) Parole tue, no?

C — Sì, ma.

D (interrompendolo) — “Ci sono persone - leggo ancora - che in cer-ti

casi, sia pure limite” (bontà tua) “la vorano dieci o anche dodi-ci

ore al giorno, senza riposare mai, neppure alla domenica, il

che spiega - precisi - i molti infortuni, talora mortali, che si verifi-cano

e le malattie da stress che colpiscono molti degli sfruttati”.

(altro tono) Proprio così hai scritto: sfruttati. Ma ti rendi conto?

C — È la verità.

D (torna ad accalorarsi) — Quale verità? Prima di tutto, anche se

hai studiato a Belfast, dovrebbero averti insegnato che la verità

non esiste. O meglio, come dice anche la fisica, che dipende

sempre dai punti di vista. Tu ti sei attenuto solo all’opinione,

non autorizzata, dei sindacati. E gli appaltatori? E la direzione

della fabbrica che ha concesso l’appalto?

C — Ho trascritto dal rapporto letto durante la riunione.

D — Non autorizzata.

C — Lo era autorizzata. Solo dopo aver sentito quello che è stato

detto dai sindacalisti, i dirigenti della fabbrica hanno deciso di

smentire e di cancellare tutto.

D — Ma è naturale, mio caro, naturalissimo! Cosa pretendevi?

Che confermassero? Tu arrivi dall’Irlanda, ma ho l’impressio-ne

che ti abbiano fatto precipitare qui da un altro pianeta.

C (polemico) — Ci sono i fatti, gli infortuni, lo stress, le paghe ri-dotte

di un terzo e persino di due terzi ai trasfertisti.

D — Vedi che ti sbagli? I trasfertisti, rispetto a chi lavora in sede,

hanno sempre paghe più alte.

C — I regolari sì, ma gli altri…

D (interrompendolo ancora, brusco) — Veniamo al sodo. Sai co-s’è

un appalto?

C — Certo. Quando qualcuno fa un lavoro su ordine di un com-mittente.

D — E un subappalto?

C — Quando qualcuno appalta il lavoro ch’era già stato una prima

volta appaltato.

D — E il subsubappalto?

C — Quando qualcuno…

D (nuovamente interrompendolo) — Basta. Vedo che il meccani-smo

ti è abbastanza chiaro. Una serie di mediazioni sui lavori

o le prestazioni di servizi o la consegna di forniture. Il tutto a

scapito del lavoro da fare e della qualità del prodotto. In so-stanza

l’appalto è una vera calamità.

C — Perché allora lo si tollera?

D — Perché se in questo paese si mettessero in discussione gli ap-palti

in tre giorni saremmo tutti allo sfascio.

C — Perché allo sfascio?

D — Perché il nostro non è un paese fondato sul lavoro. È un paese

fondato sugli appalti. Non so a Belfast, ma da noi - qui lo dico e

qui lo nego (si guarda attorno), spero non ci siano microspie in

questo ufficio, lo faccio controllare ogni settimana - qui da noi

tutto vive, grazie agli appalti, su una fitta rete di connivenze in-crociate,

di reciproche omertà, di più o meno furbeschi ammic-camenti,

sul precario equilibrio di vicendevoli intrighi.

C — Non si può fare niente per...

D — Quando ero giovane, sui pali della luce c’era un cartello con

la scritta “Chi tocca i fili muore”. Adesso ce ne vorrebbe un’al-tra:

“Chi tocca gli appalti muore”. E se non muore viene per lo

meno punito, emarginato, se non proprio distrutto. Sai che ho

l’ulcera, no?

C — Sì.

D — Ricomincia a mordere (porta una mano allo stomaco). Fin-ché

non sono passate due ore... (altro tono) Da tempo frequen-to

l’ospedale. L’ultima l’ho saputa qualche giorno fa. C’è un

impiegato del sesto livello, negli uffici amministrativi, il quale,

a un certo punto, s’accorge che l’istituto spende, per i controlli

degli approvvigionamenti, una certa cifra. Quei controlli sono

dati in appalto. L’impiegato, trovandosi a parlare con un alto

dirigente, dice: “Ma quei controlli non potremmo farli noi?”.

“Sicuro - risponde il dirigente - è un’ottima idea” e i controlli

non vengono più appaltati, si fanno in sede e l’ospedale rispar-mia

un bel po’ di milioni. Dopo qualche mese c’è un concorso

per il passaggio al ruolo superiore. L’impiegato che ha avuto

l’iniziativa del risparmio partecipa. Ci sono ventisette posti di-sponibili

per la promozione. L’impiegato che ha fatto svanire

l’appalto dei controlli risulta ventottesimo, nonostante sia il

migliore in assoluto dei concorrenti e tale risulti per le prove

effettuate, i titoli, l’esperienza, la qualità delle sue prestazioni,

l’anzianità e l’impegno. Ventisette possibilità di promozione e

lui… Ventottesimo. Ti è chiaro il concetto?

C — Sì, ma nel caso dell’ospedale si tratta di questioni ammini-strative.

Non muore nessuno. Per gli appalti della fabbrica, in-vece,

ci possono essere rischi gravi. Lo dicono anche le stati-stiche.

Tante vittime.

D (sbottando ancora una volta) — E per le speculazioni sui far-maci,

no? Per i cibi quasi all’arsenico, no? Per le discariche

che seminano carcinomi, no? (si scuote per il male allo stoma-co)

Ecco, lo sapevo, torna la crisi... Stare calmo, dice il dotto-re,

stare calmo e camminare... Camminare non posso, ma a

stare calmo dovrei almeno provarci. (altro tono) Perché non

m’aiuti, invece di provocare?

C — Mi sono fidato dei sindacalisti.

D — Ce n’è qualcuno d’accordo con chi dirige la fabbrica. Non tut-ti,

naturalmente. Si vede che prima di ieri, qualche patto è salta-to

e allora... (ancora una smorfia per il mal di stomaco e poi

cenni di sollievo) Comunque non facciamone una tragedia. Da

parte tua c’è stato un errore. Grave, lo devi ammettere, perché

quando c’è di mezzo la fabbrica e telefona addirittura il segreta-rio

dell’ingegnere bisogna usare estrema cautela… Però niente

di irreparabile. Me l’ha detto anche l’avvocato. Potremo ottenere

il ritiro della denuncia. Basterà non parlare più degli appalti.

C — Ma io...

D — Lascia stare i “ma”. Fidati di me. Tuo padre lo farebbe, no?

E dunque… Tienilo sempre presente. Basta un po’ di adattabi-lità

- oggi dicono: un po’ di flessibilità - e a tutto c’è rimedio.

C (ostinato) — Ma io non voglio adattarmi. Sono convinto che per

essere onesti, con noi stessi e con gli altri, dovremmo ribellar-ci,

dovremmo denunciare tutto e tutti.

D (ironico) — Bravo! Così invece di una condanna da uno a cin-que

anni per violazione di domicilio, ce ne danno un’altra, da

trent’anni all’ergastolo per attentato alle istituzioni.

C — Io non ho paura delle condanne... Prima di mandarmi da lei,

mio padre mi ha detto che questo è un giornale senza padroni,

autogestito. Quindi non c’è un editore che ci possa condiziona-re.

Se siamo indipendenti, perché non possiamo combattere a

viso aperto le ingiustizie?

D (con sincera amarezza) — E la carta?

C — Vuol dire la “Magna Cartha” inglese? Quella dei diritti?

D — La carta per la rotativa. Chi ce la farebbe arrivare a prezzi

convenzionati, se non avessimo l’appoggio di qualche potere

forte? E gli appoggi - non ci metterai molto a impararlo - non

si hanno mai gratuitamente. Senza contare la pubblicità. Chi ce

la passa la pubblicità, se attacchiamo chi ce la offre o le fabbri-che

amiche di chi può farcela avere?

C — Ho sperato tanto di poter fare il giornalista, ma se le cose

stanno davvero così...

D — Non sempre e non ovunque, per fortuna. Tra chi scrive per i

giornali c’è stato e c’è ancora chi, per informare onestamente,

rischia ogni giorno la pelle, e questo non vale soltanto per i

bravi corrispondenti di guerra... Comunque, sapessi come ti

capisco... Scrivilo a tuo padre, con i miei saluti: se ieri non fos-se

stato bloccato il tuo pezzo, tu e io, a quest’ora, non sarem-mo

soltanto iscritti nel registro degli indagati, ma ci troverem-mo

entrambi non so dove, e la mia ulcera, stanne pur certo, do-vrei

curarla masticando non più solo pasticche, ma rospi tre

volte più grossi di quelli che ho dovuto ingoiare sino ad oggi.

III

Ancora l’interno, già visto, della casa di A. A è in piedi, accanto

alla finestra. B è seduto vicino allo scrittoio. Poi i due si muove-ranno

a seconda delle esigenze del dialogo.

A — Mi spiace che di qui non si veda il ponte.

B — Lei è davvero una vedova anomala... Come fa a essere sconten-ta

di non poter vedere il ponte dal quale si è buttato suo marito?

A — Sono corsa là, non appena ho saputo, ma l’ingegnere mi ave-va

preceduto, con i suoi uomini, ed era già tutto... Fatto, rimos-so.

M’hanno detto che mio marito era rimasto con gli occhi

aperti, come se guardasse in alto, sopra di sé. Ne aveva avuto il

presentimento.

B — Come?

A — Eravamo sdraiati accanto, sull’erba vicino al bosco, in quie-te,

anche perché avevamo appena fatto l’amore e lui di colpo

s’incupì: “Cos’hai?” - gli chiesi. Mi rispose con una voce che

non sembrava la sua: “Non vedeva nulla. Sopra di lui non c’era

più nulla se non il cielo: un cielo alto, non limpido, ma pure

infinitamente alto, con nuvole grigie posate appena sopra, dol-cemente…

Come mai non l’avevo visto prima quel cielo così

alto? E come sono felice di averlo finalmente conosciuto. Sì.

Tutto è vuoto, tutto è inganno, fuori che questo cielo infinito.

Non c’è niente… Non c’è niente all’infuori del silenzio”. Mi

spiegò più tardi perché aveva sentito il bisogno di citarmi quel-le

parole di un grande libro: “So che anch’io - commento -guarderò

il cielo così”.

B — Suggestioni letterarie, cielo e nuvole, poesia meteorologica.

A — Era un uomo melanconico, mio marito. Umile e orgoglioso.

Aveva imparato a coltivare una intelligenza ironica e spavalda,

ma l’ironia non bastava a consolarlo per il degrado che sentiva

crescere intorno a sé.

B — Quale degrado? Non esageriamo. Può esserci qualcosa che

non va, ma è più o meno nella norma.

A (non ha badato molto, o ha finto di non badare, alle parole di

B) — Sosteneva che noi siamo simili ad angeli sconfitti in cui

la memoria di salvezza convive con la nostalgia dell’inferno,

eppure gli sarebbe piaciuto essere ottimista.

B — Difficile da capire. È mai stato in terapia?

A — Non credo ne avesse bisogno, anche se “ci sono momenti -diceva

- in cui ho l’impressione di litigare con me stesso”. Al-lora

diventava scontroso. Ma presto si rasserenava.

B — So che non aveva un’occupazione precisa.

A — Poteva vivere con la rendita lasciatagli da sua madre. Gli pia-ceva

molto leggere e studiare. Gliel’ho già detto: alternava ore

opache ad altre luminose. Pativa le ingiustizie, soprattutto

quelle dovute a speculazioni e temeva che stessero per prevale-re,

in noi, gli istinti negativi. Gli ho sentito citare più volte un

verso: “Che grande felicità non essere me”.

B (con un pizzico di malignità) — Non molto gratificante per chi

gli stava accanto. (altro tono) Lei non gli bastava?

A (eludendo la domanda) — Mi piacerebbe vedere le foto dei suoi

occhi aperti, dopo il... salto, a guardare in su.

B (dopo essersi guardato attorno) — Non vedo ritratti di suo ma-rito.

Come mai?

A — Non amava essere ripreso. Comunque non ho bisogno di sue

immagini per sentirlo qui… Ma quegli occhi...

B — Perché continua a tormentarsi per la sua fine? Dovrebbe cer-care

di dimenticare, di prendere qualche distanza.

A — È vero. Dovrei, anche perché, almeno fisicamente, sono ancora

in grado di distanziarmi. Mio marito, quando non leggeva o stu-diava,

si occupava invece di chi dal suo male distanziarsi non può.

B — Cioè?

A — Dei disabili. Sa quante persone sono costrette a vivere peren-nemente

a letto o su una sedia a rotelle nel nostro paese? Oltre

un milione.

B — Vittime di malattie cronico-degenerative.

A — Circa la metà. Gran parte dell’altra metà sconta le conse-guenze

di infortuni sul lavoro.

B — O di incidenti stradali.

A — Schianti e morte, o lunghe degenze. E in molti casi invali-dità.

B — Ma c’è chi va a cercarseli gli incidenti. Se ci fosse più pru-denza...

A — Mio marito aveva raccolto alcuni dati. (è tornata ad avvici-narsi

allo scrittoio e alza alcuni fogli) Ogni giorno, nel nostro

paese, si registrano, in media, dai tre ai cinque morti per infor-tuni

sul lavoro. In un solo anno - l’ultimo - circa trentamila ad-detti

alle costruzioni edili sono caduti dalle impalcature.

B — Cifre, cifre, cifre. Che cosa dovrei farmene? Che rapporto

hanno con la mia inchiesta?

A — Dovrebbe saperlo lei.

B — Sono dati non molto rilevanti, di natura fisiologica direi. Suo

marito che cosa ne concludeva?

A — Che l’opinione pubblica saprebbe reagire, se non fosse sem-pre

fuorviata.

B — Da chi?

A — Dai giornali, per esempio, che fanno un titolo basso, a una

colonna, in quattordicesima pagina, per due giovani stritolati

nello scaricare un container, mentre, nella medesima pagina,

c’è un titolo a nove colonne, in alto, per annunciare l’elezione

di Miss Bagnasciuga e, a sette colonne, sempre nella stessa pa-gina,

ci viene fatto sapere che è ormai imminente lo show mu-sicale

dei Cavalli Trasognati.

B — È la gente che vuole così.

A (ironica) — Certo, la gente. (altro tono, dopo aver nuovamente

guardato uno dei fogli alzati dallo scrittoio) Un milione e più

di famiglie, nel nostro paese, vivono accanto a un invalido. Ha

mai provato a pensare ai problemi di chi non può alzarsi dal

letto o dalla carrozzella, di chi non è in grado di camminare, di

chi non riesce a chinarsi per raccogliere un oggetto da terra?.

Se tutti si distanziassero, come lei vorrebbe…

B (aspro) — Ma allora non è una cosa fortuita. Lei lo fa apposta a

fraintendermi. A cosa mira, adesso? A farmi apparire come un

nemico dei portatori d’handicap? Suo marito è da elogiare per

quanto faceva a loro favore, ma non era il solo a preoccuparsi

per la sorte dei disabili. Ci sono le leggi e, proprio a proposito

degli infortuni, posso assicurarle che, nell’ambito della preven-zione,

si sono fatti grandi passi avanti con norme ad hoc, come

il decreto 626 sulla sicurezza.

A — Che ben difficilmente sarà fatto rispettare.

B — Scusi, signora, ma non le sembra di essere un po’ troppo pre-sa

da una smania di socialità?

A — Non ho mai sofferto di smanie.

B — Se quello che adesso noi diciamo, qui, avesse voce sulle ta-vole

di un palcoscenico, anche il più sprovveduto dei critici

avrebbe ragione di scrivere che questo non è teatro, ma un co-mizio.

A — È uno dei tanti trucchi di chi dirige i giochi. “Comizio”, co-me

se non fosse vero, ad esempio, che anche Amleto, a suo

modo, teneva dei comizi.

B — Non è su questo che devo indagare.

A — “Comizio”. Guai a dire che l’esistenza potrebbe cambiare se

avessimo il coraggio di fare qualcosa per modificarla.

B — Utopie.

A (polemica) — Se non esistessero tanti tipi come lei, il futuro, per

i nove decimi dell’umanità, potrebbe avere un colore diverso.

B — Quando? Come? Dove?

A — Una giovane studiosa, amica di mio marito e anche amica

mia, occupandosi di teatro, circa un anno fa, si è ispirata ai te-sti

di un autore scomodo, controcorrente, per confutare, con

una tesi di laurea, i grandi nichilisti della scena.

B — Cioè?

A — Coloro secondo i quali l’uomo non ha e non deve avere speran-ze,

accontentandosi di aspettare qualcuno che non arriverà mai.

B — Che nesso ha, tutto questo, con il gesto di suo marito?

A — Non abbia fretta. Vedrà. A dire della giovane studiosa, il pes-simismo

a oltranza, sulla scena, era ed è funzionale agli inte-ressi

di chi non vuole che il mondo cambi. (altro tono) Cento-dieci

e lode per la tesi, che ha anche avuto l’auspicio di pubbli-cazione.

B — Congratulazioni.

A — Sa cos’è capitato alla neolaureata?

B — Dica.

A — Uscendo dall’università e cercando lavoro ha trovato muri di

gomma. Grande cervello, grande preparazione, grande attitudi-ne

alla ricerca e alla saggistica. Però…

B — Però...

A — Per non morire di fame ha dovuto occuparsi come inservien-te

in un canile. Poi le è andata meglio. È riuscita a sistemarsi

come vicecuoca in un ristorante. Adesso è emigrata in Nuova

Caledonia.

B (ironico) — Dove probabilmente farà la barista. Spero che mi

offrirà un cocktail, se un giorno mi troverò a Nouméa.

A — Ma lei non beve solo acqua tonica? Spero che a Nouméa non

arrivi da invalido.

B — Può starne certa. Io non forzo mai il motore. Neanche sui

motoscafi del Pacifico.

A — Mio marito.

B (aspro) — Mio marito, mio marito, mio marito. Mi scusi, sa, ma

sta diventando stucchevole nel ripetere sempre “Mio marito”.

Perché non ne dice mai il nome?

A — Era lui a non volerlo. Perché - mi chiariva - il nome è di uno,

mentre ciascuno di noi è fatto di molti.

B (sempre ironico) — Quindi anch’io non sono uno, neanche lei è

una, neanche suo suocero, pardon, il padre di suo marito è uno.

A — Lui non lo chiamava mai padre. Diceva che il padre è quello

riconoscibile in poesia, “padre che m’hai tenuto sui ginocchi”

o “quale uomo non si è chinato sul volto del figlio, - per pensa-re

a come quel volto guarderà il suo - allorché giacerà morto?”

B — Non era certo allegro suo marito. (altro tono) Sono sempre

più convinto che soffrisse di una grave sindrome depressiva.

A — Non credo.

B — Io invece ne sono sicuro. E, a quanto ne so, gli autori che stu-diava

non erano certo fatti per guarirlo.

A — Si riconosceva in loro. Diceva che ognuno dei tre, mentre

scriveva, si ascoltava cambiare. E poi hanno avuto tutti, come

lui, problemi con chi li ha chiamati all’esistenza.

B — Quali problemi?

A — Kierkagaard non perdonava al padre il fatto di averlo conce-pito

con una donna che non era ancora sua moglie, di averlo

concepito, quindi, fuori del matrimonio, un mese prima di ri-manere

vedovo.

B — E Dostoevskij?

A — Dostoevskij, secondo mio marito - e anche secondo Freud -rimproverava

al padre le misteriose ragioni che portarono al

suo assassinio.

B — E Pessoa?

A — Pessoa, quand’era piccolo, adorava il padre che morì, purtrop-po,

nello stesso giorno in cui il suo bambino compiva sei anni.

B — Il padre, il padre, il padre. Torna sempre alla ribalta (altro to-no)

Lei mi ha detto di non voler parlare dell’ingegnere. D’ac-cordo.

Tuttavia, se sapessi almeno le ragioni dei suoi dissapori

con il figlio.

A — Guardi, di una sola cosa sono convinta. Mio marito era giun-to

alla conclusione che per essere salvati dai peccati del padre

non ci sono che due modi: o ucciderlo.

B — Addirittura.

A — O farsi perdonare espiando per lui.

B — Suo marito era uscito di senno. Quali mai peccati avrebbe

potuto imputare all’ingegnere?

A — Il fatto, ad esempio, di apparire in un modo, mentre invece si

è tutt’altro.

B — Che vuol dire?

A — Mio marito sosteneva che suo padre si comportava, in parec-chie

circostanze, come due dei tre autori che lui stava studian-do,

abituati a firmare alcune delle proprie opere con un nome

che non era il loro. “Anche mio padre - precisava - fa qualcosa

di simile. Non cambia nome, ma è come se assumesse una

nuova identità a seconda dei diversi consigli di amministrazio-ne

che è chiamato a presiedere”.

B — Attitudine a diversificarsi. Dote tutto sommato positiva.

A (ironica) — Altroché. Consente di occuparsi, allo stesso tempo,

di produzione di armi e di attrezzature per gli ospedali da cam-po

di chi da quelle medesime armi sarà colpito. Mio marito di-ceva

“Dalla produzione al consumo”. E diceva anche che suo

padre, ogni tanto, gli ricordava Riccardo III: “La mia coscienza

ha mille diverse lingue e ogni lingua sa una sua diversa storia”.

B — Ha frainteso la molteplicità delle posizioni che un imprendi-tore

deve assumere per adeguarsi alle esigenze della globaliz-zazione.

(altro tono) C’era un fondo anarcoide in suo marito.

A — Pensava di avere imparato che dal dolore può nascere la spe-ranza.

“Mio padre - diceva - spende la sua intelligenza esclusi-vamente

per far fruttare al massimo l’adesso ed il qui. Invece

gli autori che studio hanno trovato una via d’uscita dall’adesso

e dal qui credendo nella parola e, in particolare, nella specifica

parola teatrale”.

B — Non so se l’ingegnere si sia mai occupato di teatro, ma non

vedo che rapporto ci possa essere tra tutto questo e il salto di

suo marito.

A — Ricorda Amleto?

B — Certo, l’uomo ucciso dal dubbio.

A — No. L’uomo che cede al niente e al silenzio solo quando si

accorge che non ha tempo per estirpare il marcio dal mondo:

“La sua fine - diceva mio marito - ci pone di fronte alla que-stione

essenziale”.

B (polemico) — Signora, voglio essere schietto con lei.

(Squilla il telefonino posato sullo scrittoio. A risponde dopo avere

alzato l’apparecchio)

A — Pronto. Chi è? (pausa) Io, sì… (pausa) Bene, d’accordo.

(pausa) Sì, come concordato (pausa) Grazie. Ci sentiamo do-mani.

(posa il telefonino e torna a rivolgersi a B) Diceva?

B — Dicevo che voglio essere schietto. Finora ho sopportato pa-zientemente

tutte le sue chiacchiere, le divagazioni sui disabili

e sul teatro e sulle poesie e sugli autori cari a suo marito,ma a

tutto c’è un limite. Adesso basta. Le ricordo per l’ennesima

volta, se mai l’avesse dimenticato, che sono qui per accertare il

movente di un suicidio.

A (decisa) — Non è stato un suicidio.

B (sinceramente sorpreso) — Cosa? Vuol forse insinuare… Che

qualcuno l’ha spinto giù?

A — È suicidio quando ci si toglie la vita per negarla, per perder-la.

Mio marito no. Ha giocato l’ultima carta per costringere il

padre a prendere coscienza delle proprie responsabilità.

B (d’impeto) — Falso, falso, falso. Non è accettabile. Lei non può

dire una cosa così.

A — Siamo al nervo scoperto, vero?

B — Se tutti i figli cui non garba ciò che fa il padre dovessero sui-cidarsi,

ogni giorno ci sarebbero ecatombi. (altro tono) Re-sponsabilità…

Quali responsabilità? E se pure… È finito il

tempo in cui le responsabilità dei padri ricadevano sui figli.

A — Però persino il padre più padre di tutti ha condannato il figlio

ad espiare.

B — Non per colpe sue.

A — Chissà.

B — Lei voleva giocare a carte scoperte. E le scopra una buona

volta.

A — Penso che quanto le dirò non sia molto in linea con le con-clusioni

che lei vorrebbe dalla sua inchiesta.

B — Venga ai fatti.

A — Eccoli i fatti. Tre giorni prima del… salto di mio marito,

un’impalcatura crollò in uno dei cantieri all’interno della fab-brica.

Un cantiere dato in appalto.

B — Vada avanti.

A — Caddero tre uomini. L’incidente si ebbe alle 10 del mattino.

Il capocantiere telefonò a chi dirigeva l’appalto e chi dirigeva

l’appalto ordinò che le autoambulanze non venissero chiamate

a intervenire, per i soccorsi, finché nel cantiere non fossero si-stemate

le attrezzature per garantire la sicurezza.

B — Non è possibile.

A — Anche a mio marito, quando lo riferirono, non sembrava pos-sibile.

Eppure… Le autoambulanze arrivarono tre ore e mezza

dopo l’incidente. Dei tre caduti dall’impalcatura uno era già

morto. Il secondo, dopo essere stato finalmente portato all’o-spedale,

dovette subire l’amputazione di una gamba. Il terzo è

ancora oggi in sala rianimazione…

B — Non è credibile. Sono cose da codice penale. Ma quand’anche

fosse… Che rapporto può avere, con tutto questo, l’ingegnere?

Suo figlio non ha certo potuto pensare che sia stato lui a...

A — Infatti non l’ha pensato.

B — Meno male.

A — L’ingegnere non era neanche in fabbrica quel giorno. C’era

però il suo vice ed era del vice la firma in calce alla “disposi-zione

di servizio”: “In caso di infortuni, prima di qualsiasi

contatto con l’esterno, curarsi che nell’eventualità di immedia-te

ispezioni tutto risulti in perfetto ordine in conformità alle

normative vigenti”.

B — È una calunnia.

A — Perfetto ordine, capito? Da tempo mio marito si tormentava

per la fredda impassibilità del padre rispetto a quanto poteva

accadere nella fabbrica: “Lui aleggia sopra l’esistenza di chi

lavora - diceva - come io aleggio sulla mia disperazione”.

B — Disperazione? Perché disperazione?

A — Perché nei disabili, nelle vittime degli infortuni sul lavoro, ve-deva

la colpa di chi non ha mai fatto niente, o ha fatto ben poco,

per attenuare, almeno, l’incidenza di uno dei mali più assurdi,

più crudeli e più ingiustamente rimossi del nostro tempo.

B — E non sapendo con chi prendersela, magari con la disatten-zione

di chi ha subito le disgrazie, ha fatto dell’ingegnere il ca-pro

espiatorio.

A — Ultimamente mi confidava di avere aperto tutti i ripostigli

della tristezza e il giorno precedente il... salto, mi disse: “Mi

sento come un passero a un ballo di cicogne”.

B (con sollievo) — Signora, ma come fa a non rendersene conto?

È qui la chiave di tutto. Ormai è chiaro. Suo marito aveva qual-che

disturbo o lesione al cervello. Se avesse fatto una Tac…

(altro tono) Come può uno sano di mente sentirsi un passero

tra le cicogne? Non ho più alcun dubbio ormai. La mia inchie-sta

può considerarsi chiusa.

A (come se non l’avesse ascoltato) — Chiese spiegazioni all’inge-gnere

sul ritardo delle ambulanze. Gli fu risposto: “Sono cose

che non ti riguardano”. Eppure lo riguardavano, eccome. Tanto

lo riguardavano che, proprio a causa di quel ritardo, non riuscì

più a sopportare la cecità del padre, sempre troppo indulgente

verso se stesso e costantemente convinto di essere in buona fe-de

per un’altera presunzione di integerrimità.

B — Meno male che riconosceva la buona fede del padre. Comun-que

suo marito era mentalmente out, gliel’ho già detto. (altro

tono, dopo una pausa) È sicura che non si drogasse?

A — L’unica sua droga erano i libri. Sa perché mi ha lasciata? Per

restare con me più a lungo. “Non voglio più un’esistenza - mi

ha detto - che trascorra in perdizione”. E ancora: “È assurdo ba-sare

la propria vita su qualcosa il cui senso è quello di svanire”.

B — Non si preoccupava del male che avrebbe fatto a lei?

A — “Credimi - mi diceva - ti sarò sempre accanto. Il futuro, se

non si deve più temere la fine, è pieno di cose. Guarda che an-che

loro - intendeva i suoi tre autori - erano convinti che ci sia

un oltre. Kierkegaard scherzava sui docenti universitari che,

cent’anni dopo la sua scomparsa, sarebbero stati costretti a oc-cuparsi

di lui. Pessoa ha dimenticato estraneità e spigolosità per

scrivere un ‘Magnificat’ e ha poi dedicato al presente e all’oltre

un verso stupendo ‘La vita è giovane e l’amore sorride’. Do-stoevskij,

infine, ha voluto che sotto il suo nome, là dove ripo-sa,

ci fosse la scritta ‘Solo il seme che muore può dare frutto’”

B — Ma non c’è logica. Se tutti la pensassero così...

A — Anche altre cose mi disse mio marito il giorno prima del

commiato: “Avremmo meno paura dell’andarcene, se qualche

volta ricordassimo che veniamo dall’eternità” e che all’eter-nità,

semplicemente, dobbiamo tornare.

B — Già che c’era avrebbe potuto chiederle di accompagnarlo.

A — Non l’avrei seguito, per due ragioni. Devo vivere, per farlo

continuare a esistere, in me, e anche perché è stato proprio lui

a farmi capire che siamo noi donne a comprendere meglio il fi-nito,

mentre l’uomo va sempre a caccia del dopo e dell’altrove.

B — Pure elucubrazioni.

A — L’altra ragione per cui non l’ho seguito è che, con il suo, de-vo

conservare il ricordo di una bambina, in una latteria di una

piccola strada, vicino ad un altoforno.

B — Chi era quella bambina?

A — Un brutto giorno - pioveva, anche se poi venne l’arcobaleno -qualcuno

arrivò a dire alla madre della bambina che il suo uo-mo,

un gruista, era piombato, con la cabina della sua gru, stac-catasi

improvvisamente dal supporto che la reggeva, nel cro-giuolo

dove rottami di ferro e di ghisa, ormai incandescenti,

stavano trasformandosi in acciaio, poco prima della colata. Non

restò nulla, né della cabina, né del gruista, tra i mattoni refratta-ri

del crogiuolo. Neppure una traccia. L’unica è quella di chi

quella bambina e sua madre e la latteria e la pioggia e l’arcoba-leno

li ha ancora in mente e riesce a richiamarli a un’esistenza

forse più pallida e labile, ma non tanto più precaria della nostra.

B — Sempre astrazioni e poi… (aspro) Ancora un infortunio sul

lavoro. È una fissazione.

A — Il solo sentirne parlare, una volta tanto, le dà fastidio, vero?

B — Lei è indisponente.

A — Può darsi, ma… (altro tono) È irrilevante, per le persone co-me

lei, che lo strazio di una perdita sofferta dai familiari e lo

strazio di un’invalidità, per chi l’ha subita e per i suoi congiun-ti,

durino tutta una vita. Cos’è una vita altrui per chi sa distan-ziarsi?

Per chi sa distanziarsi infastidisce anche un attimo da

dedicare a queste tragedie.

B — Lei ha la virtù di fraintendermi sempre.

A — Si dovrebbe fare qualcosa per le persone come lei. Per ren-derle

sensibili a certe questioni bisognerebbe far loro speri-mentare

la cura del crogiuolo.

B — Crede di essere divertente?

A — Lei voleva il movente del salto, no? Mio marito ha lasciato

due lettere.

B (vibrato) — Dove sono?

A — Una per me. Si apre con una citazione.

B — Tanto per cambiare.

A — “La morte è una notte precoce”, al che io rispondo, ogni se-ra,

non appena si fa buio, guardando verso il ponte che non ve-do:

“Buonanotte! Buonanotte! Lasciarti è un dolore così dolce

- che vorrei dir buonanotte finché fosse giorno”.

B (brutale) — Non ci sono più giorni per lui.

A — Eppure la lettera per me si chiude con un’affermazione di fi-ducia

nel domani.

B — Quale fiducia?

A — “T’amerò per sempre e un giorno”...

B — Fisime assurde… E la seconda lettera?

A — È per tutti e io dovrei farla conoscere.

B — Sarebbe un gravissimo errore.

A — Lei non è in grado di capire.

B — È lei, invece, che non connette più perché è stata plagiata. Si

renderà conto presto di quanto sia stato inutile e immotivato il

suicidio di suo marito.

A — Lei avrebbe ragione se non esistessero le parole.

B — Quali parole?

A (ironica) — “Fisime assurde”. (altro tono) Ciò che resta, ciò che

dura, che sopravvive.

B (polemico) — Niente resta, niente sopravvive. Lei continua, co-me

quando era sull’erba, accanto a suo marito, dopo aver fatto

l’amore, ad essere suggestionata dalle nuvole.

A (altrettanto polemica) — Ho i fatti a conferma delle parole, la

“disposizione di servizio”, le prove.

B — Cerchi di ragionare. Da una parte c’è l’ingegnere che può…

quel che può. E dall’altra c’è lei, vedova anomala. Crede di po-terla

spuntare? E poi… Che gliene verrebbe?

A — Qualche infortunio in meno, qualche morto in meno, qualche

invalido in meno.

E — Se è solo per questo c’è la possibilità di accontentarla. L’in-gegnere

potrebbe impegnarsi - e io stesso potrei farmene ga-rante

- a…

A (sembra arrendevole) — Dice davvero?

E — Ma sicuro! Butti gli autori che ossessionavano suo marito. Li

lasci dormire con quei quattro fanatici che li studiano nelle

università e nelle biblioteche. La vita è un’altra cosa. La vita è

fuori. Quegli scrittori hanno fatto perdere a suo marito, e anche

a lei se me lo concede, la facoltà di vedere le cose come stan-no.

Per suo marito, purtroppo, non c’è più niente da fare. Ma a

lei forse basta un aggiustamento di prospettiva.

A (dura, irremovibile) — Ho un impegno da portare a buon fine.

E — Cioè?

A — Far sapere cos’è successo nella fabbrica. Rendere nota la docu-mentazione

lasciata da mio marito. Divulgare il suo messaggio.

B — Ma è una cosa ridicola. Ai giorni nostri un messaggio?

A (ironica) — Parola orribile se davvero stessimo vivendo una

scena teatrale. “Messaggio”.

B — Non riuscirà a trasmetterlo.

A — È vero, non ci riuscirò… (dopo una pausa, cambiando tono,

con forza) Perché l’ho già trasmesso.

B — Nessuno lo diffonderà.

A — Di solito i media sono ossequiosi nei confronti dell’ingegne-re,

ma stavolta non potranno obbedire ai suoi portavoce perché

il salto fa notizia e fa notizia anche il movente, tanto più

quand’è rigorosamente provato.

B — Lei s’illude. E comunque non speri di…

A (interrompendolo, ironica) — Che progetti ha per me? Vuole

farmi diventare una “desparecida”?

B (minaccioso) — Non mi sottovaluti. Abbiamo i mezzi per…

A (interrompendolo ancora) — Lo so che avete tanti mezzi. Intan-to,

però, non speri di poter bloccare le parole di mio marito.

Neanche un esperto di pirateria informatica sarebbe in grado di

neutralizzarle. Non bisognava farle partire da qui, ovviamente.

Era necessario inserirle in una rete di connessioni, da luoghi a

luoghi, per tenerne nascosta la provenienza, con capolinea nel-la

Nuova Caledonia. C’è un cielo alto in Nuova Caledonia.

B (dopo un attimo di sconcerto) — Nouméa.

A — È di là che si è scatenata la grande comunicazione. Altro che

fax, internet, e-mail, prodigi della tecnica digitale. Di più, mol-

to di più, con un sito aperto - come i vostri per le truffe della

new-economy - un sito del quale la mia corrispondente offrirà

la chiave d’accesso a tutti i media interessati. Ne ho avuto con-ferma

dalla telefonata di poco fa.

B (ancora stordito) — Da Nouméa, la neolaureata.

A (ironica) — Sia pur certo che gliel’offrirà un buon cocktail, se

arriverà nella sua isola. Ma forse lei, se avrà sete, preferirà an-cora

acqua tonica.

B (esasperato) — La farò pentire.

A — Ottima soluzione la Nuova Caledonia. Pensi che di là, senza

rischi d’essere intercettati, si può trasmettere ovunque in tem-po

reale. Le informazioni che mi stanno a cuore dovrebbero

già essere arrivate.

B — L’ingegnere la distruggerà.

A — Non credo che potrà farlo. Tra poco mi troverò al centro del-l’attenzione,

e se mi accadesse qualcosa… E comunque, a que-sto

punto, mio marito ha già raggiunto il suo scopo.

B — Quale?

A — Lei ha detto una cosa molto ingiusta poco fa. Ha detto che

mi sarei resa conto presto di quanto inutile e immotivato sia

stato il suicidio di mio marito.

B — È così.

A (vibrata) — No che non è così. Non è così perché non è mai im-motivato,

non è mai inutile, ciò che si fa per durare, per so-pravvivere.

B (caustico) — Con un suicidio?

A (d’impeto) — Anche con un suicidio, sì, se serve a rispondere ai

profeti del niente, più perfidi e velenosi dei mosconi killer del-la

Tanzania.

B (ormai senza ritegno) — Lei è tutta pazza, com’era pazzo suo

marito.

A (assorta) — È come se… Come se fosse guarito, di colpo, dai

dubbi che lo tormentavano tra la nostalgia dell’infinito e l’an-goscia

della finitezza, come se avesse dimenticato, di colpo,

l’odore del muschio tra le foglie cadute per ricordare soltanto

il profumo delle mimose e delle roselline di macchia che

aspettano le lucciole.

B — Pazza.

A (direttamente a B) — Saltando dal ponte, mio marito ha buttato

giù con sé la sua parte peggiore, la sua sfiducia, il suo pessimi-smo,

la sua disperazione, e a me ha lasciato la sua parte mi-gliore,

la parte che spera, la parte che crede nel futuro, la parte

che crede nella vita. È per quella parte più vera di lui, stretta

per sempre a me, ch’io non lo piango, oggi, e che ho la forza

necessaria per sfidare senza paura l’ingegnere e anche lei e tut-ti

i piccoli zero zero zero come lei.

B — Pazza, tutta pazza.

A — Prima o poi anche l’ingegnere arriverà a capire qual è stato il

movente del salto di suo figlio. Separare cos’è umano, in noi,

da ciò che umano non è. È quanto avrebbero voluto fare, a loro

modo, Kierkegaard, Dostoevskij e Pessoa. Perché avevano in-tuito

la verità più semplice e più profonda, la verità alla quale

ha dato voce Dostoevskij e che tutti, tutti, tutti, dovremmo

sempre ricordare, come la ricordano, nonostante le loro soffe-renze,

le vittime degli infortuni sul fronte del lavoro: “Il segre-to

dell’esistenza umana non è vivere per vivere, ma avere qual-cosa

per cui vivere. Se l’uomo non ha, davanti a sé, il fine per

cui vive, non accetterà di continuare a vivere e distruggerà se

stesso piuttosto che rimanere senza speranza su questa terra”.