Inferiorità

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Inferiorità

Inferiorità

PERSONAGGI

ALFREDO PICCHI

GIOVANNI, il suo domestico

Conte ALBERIGHI

Barone SQUATTI

Stanza riccamente arredata nella villa di Alfredo Picchi. Due porte di fondo. Quella a destra rappresenta l'uscita; l'altra è la porta della stanza da letto di Alfredo. A destra dello spettatore c'è la porta della stanza di Giovanni. Tavolo in mezzo e varie ottomane e sedie. Sul tavolo una boccia d'acqua e dei bicchieri. Sono le ventiquattro e oltre.

SCENA PRIMA

GIOVANNI, uomo robusto di circa 30 anni, sdraiato su di un'ottomana, dorme. Suono di campanello. Giovanni, destato, si leva di malumore.

GIOVANNI.  Diamine! Le ventiquattro suonate. (Va ad aprire.)

SCENA SECONDA

Entrano il barone SQUATTI e il conte ALBERIGHI. Ambedue in marsina e soprabito. Il primo di circa 40 anni, tozzo e panciuto, apparisce alquanto preso dal vino; il secondo di circa 25 anni, sportsman agile e forte.

GIOVANNI   (con sorpresa attenuata dal rispetto). Lor signori!? Il mio padrone...

ALBERIGHI.            Lo sappiamo. Non c'è. Siamo stati con lui fino a poco fa. Veniamo a far visita proprio a te. Ci offrirai almeno da sedere? (Si getta sull'ottomana piú vicina intanto che Giovanni ne offre un'altra al barone Squatti.)

SQUATTI      (ridendo). Non hai nulla da offrirci?

ALBERIGHI.            Lascia stare. Hai bevuto abbastanza.

SQUATTI.     Ma perché? Vediamo quello che Alfredo beve in casa sua.

GIOVANNI   (risoluto). Sono certo che il signor Picchi non avrebbe nulla in contrario che io offra loro - se loro aggrada - un certo liquore ch'egli predilige. Francese,... credo. Buonissimo, sanno.

SQUATTI      (lieto e sorridente). Ben risposto, ben risposto. Vediamo, dunque, questo liquore prelibato che, a quanto pare, tu conosci tanto bene.

GIOVANNI   (serio). Il mio padrone mi permette spesso di prenderne. (Esce dalla porta di fondo a sinistra dello spettatore.)

SCENA TERZA

SQUATTI e ALBERIGHI

SQUATTI.     Mi pare che sei bene avviato a perdere la tua scommessa.

ALBERIGHI.            Farò del mio meglio per guadagnarla. Hai visto? Che vigliacco! Impallidí quando gliela proposi. Peccato che non ci pensai subito. Avrei potuto assaltarlo sulle scale dell'albergo. Non avrebbe chiamato. Dev'essere di quelli che perdono la parola. (Spazientito.) Intanto con la tua sete eterna mi fai perdere tempo.

SQUATTI.     Come sei poco furbo! Già, voi uomini furbi siete sempre... poco furbi. Se bevo io, troverò il modo di far bere anche lui. È la via piú facile per farti raggiungere il tuo scopo.

SCENA QUARTA

GIOVANNI e DETTI

GIOVANNI   (apporta su di un vassoio una bottiglia e due bicchierini). Eccoli serviti.

SQUATTI      (riempiendo subito un bicchierino). Oh! vediamo! (Sorseggiando il liquore.) Non c'è mica male! Chi l'ha pagato non ci bada alla spesa! (Si versa un secondo bicchierino.) Vivifica le piú intime fibre. (Con invidia ingenua.) Canaglia di Alfredo! Ed io che credevo non sapesse vivere.

GIOVANNI   (sorridendo con compiacenza e versando ad Alberighi). Squisito eh? Io vengo dal paese dove si distilla piú che in tutta Italia, ma una cosa cosí... cosí profumata... lievemente... non gustai giammai.

ALBERIGHI.            E il bicchierino per te?

GIOVANNI.  No! Io non posso prendere di questo liquore che quando il mio padrone me l'offre.

ALBERIGHI.            E allora berrai del mio.

GIOVANNI   (esita, poi accetta). Non credo di poter rifiutare. Alla loro salute! (Beve.)

ALBERIGHI (vuole versargliene ancora). Quello era il mio bicchierino! Eccoti il tuo!

GIOVANNI   (deciso). No! Grazie! La prego di voler dispensarmene.

ALBERIGHI (lo guarda dubbioso, poi s'adatta). Sta bene! (Ripone la bottiglia.) Mi pare sia meglio che il contratto che ho da proporti sia fatto a mente serena. Ho scommesso col tuo padrone... Gli vuoi molto bene tu al tuo padrone?

GIOVANNI   (un istante indeciso). Bene? Sí... gli sono affezionato. Immagini! Ero quasi un ragazzo... sí... un giovanotto quando venni a servirlo; ed ecco che ora sono con lui da otto anni.

ALBERIGHI.            Insomma gli vuoi tanto bene che non t'importerebbe affatto se egli dovesse perdere una scommessa?

GIOVANNI   (alzando le spalle). No! Non m'importerebbe affatto! Ha tanti denari che in fondo non gliene importerebbe niente neppure a lui.

ALBERIGHI.            E allora andremo facilmente d'accordo. Si tratta di cosa che ci darà argomento a ridere per degli anni.

GIOVANNI   (già ridendo). Se si tratta di ridere io sono pronto. (Un po' melenso.) Io ho già fatto ridere anche al mio paese. Ho collaborato ad una burla bellissima. (Ridendo fortemente al ricordo.) Oh! Bellissima! C'era il vecchio Mari che aveva una casa. Lui era un avaraccio famigerato e tutti sapevano che la casa non era stata assicurata. Per burla, una sera, d'accordo con altri, andai ad avvisarlo che la sua casa ardeva. Egli si trovava su un podere, lontano parecchi chilometri, ove sorvegliava la mietitura. Vederlo correre! (Soffocando dal ridere.) Lui che era abituato a non muoversi che nella sua carrettina! Non me la perdonò piú! Aveva ragione. Avrei fatto lo stesso anch'io. Tanto piú che alcuni giorni piú tardi la casa pigliò fuoco per davvero! (Sorpresa di Alberighi mentre Giovanni continua a ridere.) In fondo i burlati eravamo stati noi perché chi poteva immaginare che, svegliato dalla nostra burla, il fuoco avrebbe fatto sul serio! (Facendosi serio.) Si figuri che poi io ebbi delle seccature perché il vecchio Mari m'accusò senz'altro di aver io accesa la casa. La mia innocenza fu subito riconosciuta ma ancora adesso in paese si sospetta di certo Burrini che aveva organizzata la burla con me. Io non lo credo, sa, ma pure il contegno di questo Burrini fu molto sospetto. Ci fu un'inchiesta dalla quale egli uscí netto proprio perché si capí che non c'era stato per lui alcun movente di fare una cosa simile. Né io lo credo, sa.

ALBERIGHI.            Dicesti invece che lo credevi!

GIOVANNI   (cauto). Son cose che non bisogna dire. (Con forza.) Io non lo credo. Ma è strano che dinanzi alla casa incendiata udii io stesso, con queste mie proprie orecchie, mormorare il Burrini: "Che bella burla!".

ALBERIGHI (ridendo). Io non voglio di queste burle. Si tratta di meno, di molto meno.

GIOVANNI.  E allora mi dica quello che ho da fare.

SQUATTI      (versandosi ancora da bere). Si tratta di prendere il proprietario di questo buon liquore per il collo... e strangolarlo. (Beve mentre Giovanni lo guarda non comprendendo.)

ALBERIGHI.            Non dargli bada. (Con gesto espressivo.)

SQUATTI.     Io scherzo. Si tratta bensí di prenderlo per il collo, ma con una certa delicatezza, badando di non stringere troppo. (Alberighi guarda fiso Giovanni per indovinare la sua impressione.)

GIOVANNI.  Prendere per il collo il mio padrone? Io, prendere per il collo il mio padrone?

SQUATTI.     Hai paura?

GIOVANNI   (alza le spalle). Paura? Vorrei vedere chi avrebbe il coraggio di prendere per il collo il mio padrone in mia presenza. (Agitato e iracondo.) Mi meraviglia... (Poi si doma.) Oh, ma loro scherzano.

ALBERIGHI.            Si tratta infatti di uno scherzo. (Giovanni respira.) Ed è per organizzare questo scherzo che siamo qui da te. Senti! Questa sera a cena si scoperse che nel portafogli del tuo padrone c'erano ventimila lire.

GIOVANNI   (ammirato). Ventimila lire?

SQUATTI.     Belle da vedersi. Una confusione! Pezzi da cinque e da dieci lire in mezzo a banconote da mille.

GIOVANNI   (c.s.) Oh! lui è molto ricco! Solo mi pare una grande imprudenza di portare attorno con sé tanto denaro.

ALBERIGHI.            È quello che gli dissi anch'io.

GIOVANNI.  Curioso abbia fatto vedere quel denaro, lui tanto prudente.

SQUATTI.     Gli trassi dalla tasca il portafogli senza ch'egli se ne avvedesse ed ebbi tutto l'agio di contare il denaro.

ALBERIGHI.            Eravamo in compagnia di gentiluomini...

GIOVANNI.  Gentiluomini... sí... ma ventimila lire!

ALBERIGHI.            Lasciamo stare! Insomma di parola in parola arrivai a dirgli che un uomo come il tuo padrone, notoriamente poco coraggioso, non avrebbe dovuto portare con sé tanto denaro. Egli, che aveva bevuto parecchio vino e lo chiamava coraggio, diceva che avrebbe saputo difendere il suo denaro quanto io il mio. Cosí si giunse alla scommessa.

GIOVANNI   (ridendo). Lei scommise insomma di portargli via il portafogli?

ALBERIGHI.            Sí! Entro questa notte. Ed ho contato su te...

GIOVANNI   (protesta). Mi dispiace. Ma io non mi metterei mai in un simile affare. Delle burle, sí, ma non di quelle che finiscono al cellulare.

SQUATTI.     Cellulare? Zotico che sei! Come vuoi finire al cellulare avendo da fare con noi?

ALBERIGHI.            Sta zitto, tu! Senti, Giovanni! È vero che tu aspetti di raggranellare cinquemila franchi per lasciare il tuo padrone ed aprire un'osteria al tuo paese natio?

GIOVANNI.  Come lo sa lei?

ALBERIGHI.            Me l'ha raccontato il tuo padrone. E so anche che finora hai tremilacinquecento franchi e che il saldo si fa aspettare.

GIOVANNI.  Sí! Tremilacinquecento! Un po' di piú, anzi.

ALBERIGHI (con un sorriso). Lasciamo stare le frazioni. So anche che il tuo padrone era una volta piú generoso con te. Sapendo che aspetti di avere quel gruzzoletto per abbandonarlo e sposare quella tua cugina Maria, egli ritarda come può il momento di perderti.

GIOVANNI   (lascia trapelare amor proprio lusingato e rimpianto). Sí! Egli ci tiene molto ai miei servigi ed io ho avuto torto di fargli conoscere le mie intenzioni. Non si è mai abbastanza attenti alla propria lingua. Tuttavia guadagno ancora abbastanza bene. Una volta, quando mi obbligava di dormir vestito nel suo stanzino da bagno per avermi pronto e vicino, mi dava dieci lire. Ora invece me ne dà cinque soltanto.

ALBERIGHI (ridendo). Son questi i tuoi proventi straordinari?

GIOVANNI.  Eh! Non bisogna riderne! Egli dice che soffre di nervi! Io, appena venuto ne ridevo e pensavo si trattasse di paura, quella vera, quella grande paura degli uomini e degli spiriti, di tutto insomma. Ma qualche sera egli arriva in casa assolutamente privo di paura. Gliel'assicuro! Io che dormirei volentieri ogni notte in quel camerino, cerco di spaventarlo. Minaccia un temporale! La notte è oscura come una cantina! No! Mi tocca andare a letto senza i cinque franchi. Altre volte, invece, fa una bella notte lunare e devo non soltanto dormire vestito nel camerino ma chiudere porte e imposte sotto la sua sorveglianza.

ALBERIGHI.            E quanti denari ti occorrono per lasciare questo servizio tanto bene retribuito? Per sposarti, cioè, e mettere su l'osteria?

GIOVANNI.  Cinquemilacinquecento franchi almeno. Spero di averne anche di piú, perché verrà il momento - quando il gruzzoletto sarà abbastanza forte - in cui potrò imporre la mia volontà al signor Alfredo e dirgli: «O mi dà dieci franchi o non dormo nel camerino... e vestito.»

ALBERIGHI.            Insomma, a conti fatti, a te occorrerebbero altri duemila franchi e sei libero. Ebbene! Io te li do se tu, entro questa notte, mi consegni il portafogli del tuo padrone. Domani tu ritorni al tuo paese e sposi tua cugina.

GIOVANNI   (a bocca aperta). Ella scherza.

ALBERIGHI.            Ecco qui il mio impegno in iscritto. Matita, ti basta?

GIOVANNI.  Se Ella vuole, c'è anche la penna. Per me basta la matita, anzi mi basta la sua parola... (Guarda con intensa attenzione quello che Alberighi scrive.)

ALBERIGHI.            Ecco qui. (Legge.) Buono per franchi duemila da pagarsi verso consegna del portafogli del signor Alfredo Picchi contenente ventimila franchi.

GIOVANNI   (guardando estatico il foglietto di carta). A me pare d'impazzire! (Legge e rilegge.) E se il signor Picchi ha speso nel frattempo il suo denaro?

ALBERIGHI.            Un avaraccio simile vuoi che spenda tanto percorrendo di notte la via dal club a casa? Se mancherà una piccola parte...

GIOVANNI.  Ma se fosse stato derubato nel frattempo dell'intero portafogli?

SQUATTI      (tenendosi la pancia dal ridere). Neppure di questo v'è pericolo.

ALBERIGHI.            Abbiamo saputo che subito dopo fatta la scommessa il tuo padrone aveva trovata la via al telefono e s'era procurata la protezione di un questurino per farsi accompagnare a casa. Ero là là per disdire la scommessa, quando mi venne l'idea di farmi aiutare da te. Non farà mica dormire con lui il questurino.

GIOVANNI   (esitante). Ma io non posso sapere quanto denaro ci sia nel portafogli del mio padrone. Non posso mica garantire che vi sieno ventimila franchi.

ALBERIGHI.            Io non pretendo neppure un tanto.

GIOVANNI   (c.s.) E allora perché scriverlo qui?

ALBERIGHI Hai ragione! Cancelliamo! (Prende il biglietto di Giovanni, cancella e glielo restituisce.)

GIOVANNI   (guarda attentamente il biglietto e lo ripone; dopo un tempo). E quei ventimila franchi che io ho da consegnarle, cioè i diciottomila, perché duemila ne ricevo io...

ALBERIGHI.            Quel denaro va tutto restituito al suo legittimo proprietario. Che diavolo! Altrimenti sí che si potrebbe finire al cellulare.

SQUATTI.     Non rubiamo mica noi.

ALBERIGHI.            Trattengo, come stabilito, l'importo della scommessa e domattina gli restituisco il saldo.

GIOVANNI   (curioso e esitante). Quanto?

ALBERIGHI.            L'importo della scommessa è di duemila franchi.

GIOVANNI   (sorridendo e fingendo dispiacere). Cosí che tutto finisce in tasca mia?

ALBERIGHI.            Capirai che per me non è quistione di danaro.

GIOVANNI.  Eh! lo so! Eppoi son io che faccio tutto. Neppur io ci baderei al denaro se non ci fosse la mia sposa.

SQUATTI      (a mezza voce). E l'osteria.

GIOVANNI   (interdetto). L'osteria? Ma quella, anche quella, vien messa su per poter vivere. Non mi sposo mica per andare poi per il mondo a fare il servitore.

ALBERIGHI (a Squatti). Vuoi star zitto tu. Non dargli bada. Non capisce niente.

GIOVANNI   (verso Squatti). Per ora, certo, il denaro rappresenta per me tutto. Quando ne avrò anch'io, allora sarà un'altra cosa. (Ad Alberighi, deciso.) Io non posso rifiutare la sua proposta. Io l'accetto. Sí! In verità, l'accetto. E di qui a pochi giorni lascio il mio padrone e me ne vado (cantando) al mio paese. Oh! scusino.

ALBERIGHI.            Accomodati! Mi fa piacere di vederti tanto lieto. Adesso bisogna mettersi d'accordo sul modo di procedere.

GIOVANNI.  È semplice! Quando il mio padrone si sarà addormentato - e lo saprò, perché russa che la casa ne trema -...

ALBERIGHI.            Aspetta perché la scommessa prevede tutt'altra cosa: Il portafogli non dev'essere né strappato con la violenza né sottratto con l'astuzia. Egli deve consegnarlo per paura. Tu devi prendere il tuo padrone per il collo e con la minaccia di violenze maggiori devi costringerlo a consegnarti il portafogli.

GIOVANNI   (allibito). Questo volete da me? Finora non lo diceste.

ALBERIGHI.            Era questo il momento di dirtelo.

GIOVANNI.  Ma io questo non faccio. Non posso farlo. (Avvilito.)

ALBERIGHI (spazientito). E allora sia come non detto. Quanto fiato sprecato! (Si leva.)

GIOVANNI.  Non si adiri, signor conte! Io non posso fare una cosa simile. Lo comprende anche lei! Mi dispiace tanto... oh! tanto! Quel denaro ch'Ella m'offriva era per me la ricchezza, la felicità... (Quasi piangendo.) Già, io non ho mai avuto fortuna!

SQUATTI.     Hai paura?

GIOVANNI.  Non credo si chiami paura questa. Io farei quello ch'Ella mi propone con qualunque... (ripete guardando Squatti) con qualunque ma non col mio padrone. Sono da otto anni con lui...

ALBERIGHI.            Senti, Giovanni. Ti pare troppo piccolo il premio?

GIOVANNI   (quasi spaventato). No! No! Non si tratta di questo.

ALBERIGHI.            Dammi il mio bigliettino.

GIOVANNI   (eseguisce in fretta). Eccolo! Eccolo!

ALBERIGHI.            Ecco! Anziché duemila mettiamo duemilacinquecento. (Scrive.) Ti va meglio cosí?

GIOVANNI.  Duemilacinquecento... (Riluttante.) Ma prendere il padrone per il...

ALBERIGHI.            Ebbene! Lasciamo via quel gesto che ti offende. Ti propongo di fare la cosa piú semplicemente. (Leva dalla tasca un revolver.) Basta questo, ne son sicuro. Alzi il revolver, gridando: «Il portafogli o sparo!». Hai pratica di tali armi?

GIOVANNI   (guardando il revolver con piacere). Altro che pratica! Sono stato di cavalleria, io. Questa è una Browning! Finissima! (Fa scattare la molla di sicurezza.)

SQUATTI.     Lascia la molla al suo posto.

GIOVANNI.  In mano mia non c'è pericolo. (Rimette la molla a posto) Ebbene! (Passa il revolver da una mano all'altra quasi pesandolo.) Mi pare tuttavia che con questo qui la cosa sarebbe piú facile.

ALBERIGHI.            Allora l'affare è conchiuso. Eccoti qui l'equivalente di duemilacinquecento franchi. Lascio duemilacinquecento ad onta ch'eseguito cosí, l'atto non può costarti tanta fatica. O vuoi regalarmi quei cinquecento franchi?

GIOVANNI   (ridendo di cuore e intascando con un po' di fretta il bigliettino). Quando il povero regala al ricco, il diavolo ride. Farò cosí! Ammettiamo che il padrone sia là accanto alla porta. Io alzerò il revolver (eseguisce) e dirò: «Signor padrone! Mi dia il suo portafogli!».

ALBERIGHI.            Ma che padrone e che signore! Quasi t'inchini! Sarebbe il vero modo di farti prendere a calci. Intanto devi dargli del tu. Ecco: «Dammi il portafogli! Fuori il portafogli, canaglia, o sparo!».

GIOVANNI   (riluttante). Canaglia? Occorre dire cosí?

ALBERIGHI.            Sei libero nella scelta: Canaglia, manigoldo, vigliacco od altra espressione equivalente.

GIOVANNI   (imita). Dammi il portafogli, canaglia, (con sforzo) fuori il portafogli, canaglia (c.s.) O sparo!

ALBERIGHI.            Non va bene ancora! Protenditi di piú in avanti come se stessi per saltargli addosso. Cosí! Il revolver deve essere puntato sui suoi occhi perché sappia e veda che se il colpo parte egli ne sarà colpito. Cosí! Adesso parti di nuovo dalla posizione di attenti e tenta di cogliere subito l'atteggiamento voluto di grande minaccia.

GIOVANNI   (riprova un po' meglio). Dammi il portafogli, fuori il portafogli o sparo!

ALBERIGHI (non molto contento). Bisognerà contentarsi. Forse per Alfredo basterà. Se minacci me a questo modo, ti salto addosso.

GIOVANNI   (Punto). Oh, non creda, signor conte. Quando faccio sul serio riesco meglio. A me riesce difficile di simulare.

ALBERIGHI.            Ma qui non avrai da fare sul serio, avrai sempre da simulare e bisognerà simulare - come dire - sul serio.

GIOVANNI.  Ma se ad onta di tutto ciò il padrone resiste?

ALBERIGHI.            Allora non c'è rimedio; devi prenderlo per il collo.

GIOVANNI   (pensieroso). Questo mi sarà molto difficile.

ALBERIGHI.            E dunque fa che la minaccia col revolver sia efficace. Deve bastare. (Con improvvisa ispirazione.) Guarda! (Prende il revolver e minaccia Squatti.) Fuori il portafogli, imbecille che non sei altro!

SQUATTI      (spaventatissimo si mette una mano davanti agli occhi). Alberighi! Via! Non scherzare!

ALBERIGHI (gli va quasi addosso minacciosissimo ed urla). Di quali scherzi parli? Sono stanco di vederti! Fuori il portafogli! Subito! Tiro, sai!

GIOVANNI   (spaventato). Stia attento! Credo di non aver rimesso a posto la molla.

SQUATTI.     Sei pazzo, tu. Ecco il portafogli! Via quel revolver, ora.

ALBERIGHI (subito calmissimo). Ecco il tuo portafogli! Non ho mica scommesso di portarlo via a tutti gli amici. (A Giovanni.) Vedi? Sono riuscito nel mio intento ad onta che lo Squatti non potesse dubitare delle mie intenzioni a suo riguardo.

SQUATTI      (rimettendosi). Se son scherzi cotesti! (Adiratissimo che gli manca la parola.) Tu sei un pazzo pericoloso. Me ne vado, io. (S'avvia.)

ALBERIGHI.            Ma Squatti! Non capisci ch'era necessario dare un esempio a Giovanni?

SQUATTI.     Potevi almeno avvertirmi... Col revolver che può scattare.

ALBERIGHI.            La lezione avrebbe perduto ogni efficacia. Via! Resta!

GIOVANNI   (dapprima ammira). Bravissimo! (Poi pensieroso.) Io, intanto, ho capito che se faccio una cosa tale, il mio padrone non potrà piú perdonarmi. Persino il suo amico non sa smettere il broncio.

ALBERIGHI (a Squatti). Vedi quello che fai?

SQUATTI.     Sí! Ma c'è la differenza che io non ho scommesso. Infatti! Ho io scommesso con qualcuno? Or dunque! (Ritorna al tavolo e si versa un bicchierino.)

ALBERIGHI.            Sei una bestia! Le scommesse e gli scherzi sono stati sempre scusati tra gentiluomini. Eppoi che te ne importa a te, Giovanni? Una volta che hai i tuoi denari il tuo padrone non è piú il tuo padrone e te ne vai!

GIOVANNI.  Sí ma il mio padrone ha in consegna anche tutti i miei risparmi.

ALBERIGHI.            Quelli ti appartengono. Oppure facciamo una cosa: Quando tu m'hai consegnato il portafogli, io vado da Alfredo e ottengo da lui il permesso di trattenere l'importo che ti spetta.

GIOVANNI.  Ma lo darà poi questo permesso?

ALBERIGHI.            Vuoi dubitare ch'egli rifiuti di sopportare tutte le conseguenze della scommessa? Che rispetto è questo per il tuo padrone?

GIOVANNI.  Il mio padrone è persona rispettabile, ma quando se la prende con qualcuno...

ALBERIGHI.            Insomma, assumo io la responsabilità di tutto. Non avrò io il suo denaro col suo portafogli? (Stacca un altro foglietto e scrive; lo consegna poi a Giovanni.) Eccoti un altro biglietto.

GIOVANNI   (legge). M'impegno anche di trattenere dal denaro del signor Alfredo Picchi quello da lui dovuto a Giovanni. (Dopo un istante di esitazione.) Non vorrebbe indicare anche l'importo? Tremilaseicentocinquantadue lire.

ALBERIGHI (spazientito). Oh! In quanto all'importo credo che veramente sia superfluo. Temi di essere truffato da me?

GIOVANNI   (dopo una lieve esitazione guarda timoroso verso Alberighi e si rassegna). E sia! (Intasca il biglietto e nell'occasione rilegge l'altro.)

ALBERIGHI.            L'importante è che tu sappia fare la tua parte. Vuoi che la ripetiamo ancora una volta? Se lo desideri, io ti faccio vedere come riesco a farmi consegnare anche una seconda volta il portafogli da questo mio buon amico.

SQUATTI      (protesta). No! Te ne prego.

GIOVANNI   Non occorre! Io so perfettamente il fatto mio. Non è mica tanto difficile fare una faccia da mascalzone. Se non si trattasse che di questo!... E, scusi, perché ha avuto bisogno di me? Perché non ha fatto la cosa da solo, giacché sa farla tanto bene?

ALBERIGHI (esitante). Ma nel furore di scommettere io esclusi me da tale ufficio.

SQUATTI.     Anzi, se ci penso bene, il tuo padrone potrebbe indovinare che sei tu delegato a togliergli il portafogli.

GIOVANNI.  Se lo sapesse tutto sarebbe piú semplice, perché il difficile precisamente è d'avvisarlo che io voglio il suo portafogli. Il resto è facile.

ALBERIGHI.            Eh! Tanto non può indovinare! Certo che vedendosi assalito, penserà: "Guarda, guarda! Hanno incaricato Giovanni!". Noi ci appostiamo là nella tua camera e quando hai il portafogli in mano spari un colpo di revolver e noi accorriamo.

GIOVANNI   Un colpo di revolver? Che il padrone non abbia a morirne dalla paura!

ALBERIGHI.            Non ne morrà! Poi rideremo insieme.

GIOVANNI.  Non ne vedo l'ora. (Con un sospiro.)

ALBERIGHI.            Dov'è la tua stanza?

GIOVANNI   (confuso). Non so se sia un soggiorno degno di lor signori...

ALBERIGHI.            A la guerre comme à la guerre. Vieni, Squatti.

SQUATTI      (sulla soglia). Com'è piccola questa stanza! Non potresti offrirci di meglio? (Di fuori suono di un campanello.)

GIOVANNI   (agitatissimo) Che sia il padrone? Chissà perché suona alla porta di casa? Egli ha la chiave.

ALBERIGHI (con disprezzo). Suona perché ha paura di fare le scale da solo. (Tutti e tre si recano un po' distante dalla finestra e guardano fuori.)

SQUATTI.     Due questurini! E parlano animatamente con Alfredo.

ALBERIGHI.            Devono discutere l'organizzazione della forza pubblica.

SQUATTI.     Domani sarà bellissimo poter descrivere questa sua gita in mezzo ai due fratelli Branca.

GIOVANNI.  Scusi se glielo dico, ma non sarebbe bello da parte sua.

ALBERIGHI.            Va a prendere il tuo padrone, Giovanni e non temere. Se Squatti parlasse domani della paura del tuo padrone, io racconterei con quale facilità son riuscito a farmi consegnare da lui il portafogli. (Giovanni esce con una candela accesa in mano.)

SQUATTI      (mitemente). Fai male a parlare davanti a questo zotico di me in questo modo.

ALBERIGHI.            Ne sei colpa tu stesso. Ad ogni tratto con le tue parole inconsulte minacci di mandare a rotoli la mia diplomazia.

SQUATTI.     Diplomazia! Per lui è quistione di denaro. (Poi.) Ha dimenticato di riporre quel vassoio e quei bicchieri. Che ne dici? Li portiamo con noi per alleviare l'attesa?

ALBERIGHI.            Prendili pure. Curiosa dimenticanza per un cameriere. Salgono! Vieni. (Escono a destra dello spettatore.)

SCENA QUINTA

ALFREDO PICCHI e GIOVANNI

ALFREDO     (uomo sulla quarantina, ben nutrito, un po' cascante, in marsina). Chiudi! (Assiste con attenzione alla chiusura della porta; si leva il cappello ed il pastrano.) Si sta bene qui! (Respira.) Senti, Giovanni. Questa notte mi devi fare il piacere di venir a dormire sul sofà nella stanzetta da bagno. Non mi sento troppo bene. Resterai anche desto finché io non mi sia addormentato. Per ogni buon conto chiudi la tua stanza. (Giovanni eseguisce.) Gira due volte la chiave. Non c'è stato nessuno qui? (Giovanni non risponde e si dà da fare intorno a delle sedie.) Insomma rispondi sí o no? C'è stato nessuno qui?

GIOVANNI.  Ma no! Vuole che a quest'ora vengano delle visite?

ALFREDO.    Non son mica io a desiderare delle visite. Già! Chi potrebbe venire? La tua Maria non è piú in città.

GIOVANNI.  Purtroppo! (Lunga pausa durante la quale Alfredo si sdraia pensieroso su un'ottomana.)

ALFREDO     (come continuando un suo pensiero). Io chiacchiero troppo. Mi lascio trascinare a discussioni senza senso ed eccomi qui inquieto ed infelice. (Poi.) Senti, tu non mi tieni per molto coraggioso?

GIOVANNI   (deciso). Oh! No!

ALFREDO     (un po' offeso). Sei ben deciso, tu. Si può dire di me che non sono un attaccabrighe e che le guasconate non mi piacciono. Ma non coraggioso? Nervoso, sí. La solitudine e l'oscurità mi rendono inquieto. Ma non coraggioso? Dovevi vedermi questa sera. Volevano impormi con le sole minacce.

GIOVANNI.  Io volevo dire soltanto che da noi i coraggiosi son fatti altrimenti.

ALFREDO.    Lascia stare la campagna dove abita una razza del tutto diversa. Voi spaccate legna e domate bestie... È tutt'altra cosa. Vi tocca aver coraggio ogni giorno. Noi una volta all'anno ed anche meno. A me manca solo l'esercizio. Io ho coraggio ma... non sentivo affatto bisogno di fare delle scommesse.

GIOVANNI   (melenso). Scommesse?

ALFREDO.    Ti racconterò domani. Andiamo! Spegni il gas. (Giovanni eseguisce, Alfredo lo precede verso la porta di fondo con la candela in mano. Giovanni estrae il revolver che tiene nascosto. Alfredo ha raggiunta la porta che apre quando Giovanni si decide.)

GIOVANNI.  Signor padrone!

ALFREDO.    Che vuoi?

GIOVANNI   (fa lezione). Dammi il portafogli, padrone, fuori il portafogli, o tiro!

ALFREDO     (lascia cader a terra la candela e si appoggia allo stipite della porta. Guarda Giovanni con occhio smorto. Oscurità profonda).

GIOVANNI   (ripete). Il portafogli, padrone, il portafogli! (Alfredo cade a terra svenuto.) Oh! Diamine! Cade come se avessi tirato. (Ripone il revolver nella tasca posteriore dei calzoni; riaccende il gas e va a vedere Alfredo.) Dio mio! È livido! Che cosa ho fatto? (Prende dell'acqua e ne spruzza sulla faccia di Alfredo.) Padrone! Padrone mio! Non vedete che nessuno vuol farvi dei male? Signor Alfredo!

ALFREDO     (rinvenendo). Che c'è? (Terrorizzato va sino alla seggiola e vi siede senza forze.) Va via di qua. Vattene subito.

GIOVANNI.  Ma padrone mio! Non vedete che sono il vostro servo fedelissimo? Come potete credere che io voglia farvi del male? (Ravvedendosi e con mitezza ridicola.) Volevo il vostro portafogli...

ALFREDO.    Eccolo! Eccolo! Ma va via! (Pone il portafogli sul tavolo e ricade sfinito.)

GIOVANNI   (esitante). Ma io non vi faccio del male. Io non minaccio. Vi prego di darmi il portafogli. (Vuole afferrare il portafogli, ma non osa.)

ALFREDO.    Dammi un bicchiere d'acqua.

GIOVANNI.  Subito, padrone mio. Eccolo.

ALFREDO     (beve guardando torvamente Giovanni).

GIOVANNI.  Vi sentite meglio ora? Se sapeste come mi dispiace, di avervi spaventato cosí! Mi avete fatto prendere una paura. (Curvandosi verso Alfredo trova il modo di intascare il portafogli senz'essere visto.)

ALFREDO.    Alzare il revolver contro il padrone...!

GIOVANNI   (melenso, perché esitante). Il revolver?

ALFREDO.    E non minacciasti di tirare?

GIOVANNI   (costringendosi a ridere). Dissi, sí, di tirare, ma dove avevo da prendere il revolver?

ALFREDO.    Non avevi revolver? (Si alza, guarda le mani che Giovanni tiene in alto e gli visita qualche tasca. Balza contro Giovanni.) Dammi quel portafogli. Subito, birbante. Vuoi darmelo? (L'afferra per il collo.)

GIOVANNI.  Padrone, mi fate male.

ALFREDO.    Questo è il rispetto che mi porti? Non promettesti fedeltà? Traditore!

GIOVANNI   (piagnucoloso). Avete ragione, padrone mio. Ho fatto male. Ecco il vostro portafogli. (Lo consegna.)

ALFREDO     (lo prende, lo intasca e s'infiamma sempre piú). E adesso fuori di qua. Ti scaccio. Preferisco la solitudine alla tua compagnia. Vattene.

GIOVANNI.  Dove vuole che vada? A quest'ora? In fondo, poi, che cosa le ho fatto?

ALFREDO     (esasperato). E lo domanda!

GIOVANNI.  Io avevo già il portafogli in mano e lo restituii per solo rispetto.

ALFREDO     (trionfante). Per rispetto? No! Io vi ti ho costretto! Vigliacco!

GIOVANNI   (con ironia). Eh! Sí! Vigliacco! (Poi si riprende.) Sí! Che cosa le ho fatto? Io pensai che a Lei non sarebbe importato di perdere quella scommessa col conte Alberighi. Invece io avrei sposata di qui a pochi giorni la mia Maria, benedicendo il mio buon padrone... (Piagnucoloso.) Se lei volesse dimostrarsi generoso con me e consegnarmi il portafogli...

ALFREDO     (si getta sul tavolo, apre un cassetto e ne estrae un revolver). Minacci ancora? (Subito punta il revolver.) Vattene, ti dico, o sparo.

GIOVANNI   (nient'affatto spaventato). Oh! Lo so che lei non tirerà su un inerme.

ALFREDO     (pone il revolver sul tavolo). Non tiro finché non mi si fa nulla. Ma non parlare piú del portafogli. Per tuo bene! Ti lasciasti comperare da Alberighi?

GIOVANNI   (esitante ad accettare la parola). Comperare?

ALFREDO     (imperioso). Insomma?

GIOVANNI   (sempre piagnucolando). Sí, promise di darmi tutto quello di cui abbisognavo. Domani stesso avrei potuto sposarmi e finire questa vita.

ALFREDO.    Eppure io ti trattai sempre bene.

GIOVANNI.  Ma per me questa vita non fa. Ella sa come sono atteso, al mio paese.

ALFREDO.    E chi impedisce di andarvi? (Giovanni fa un gesto di sconforto.) E non io ti strappai al tuo paese. Sei tu che venisti a me ad offrirti.

GIOVANNI.  Sí, è vero.

ALFREDO.    Quanto ti diede Alberighi?

GIOVANNI.  Mi promise duemilacinquecento franchi.

ALFREDO     (stupito). Cinquecento piú dell'importo della scommessa! (Dopo lieve riflessione.) Già, per avere il piacere di avvilirmi dinanzi a tutti. E tu, fedele servitore, ti prestasti al suo giuoco.

GIOVANNI.  Duemilacinquecento franchi coi tremilaseicento e cinquantadue che già posseggo facevano giusto l'importo che mi occorreva e piú ancora...

ALFREDO.    Di quali denari parli?

GIOVANNI   (subito agitato). Di quelli che ha lei in consegna.

ALFREDO     (ride ironicamente). Parli di quelli! Ma sono poi ben tuoi?

GIOVANNI.  Sono guadagnati col sudore della mia fronte in otto anni di servizio fedele.

ALFREDO.    T'inganni! Non sono tuoi. Tu dimentichi i patti che abbiamo fatti. Solo ottocento franchi sono tuoi. In quanto agli altri ne parleremo. Ti farò vedere la lettera che firmasti quando entrasti al mio servizio. Gl'importi che io notavo sarebbero stati tuoi solo quando tu m'avessi lasciato dopo un servizio di otto anni, inalteratamente fedele.

GIOVANNI.  Ma gli otto anni sono quasi trascorsi.

ALFREDO.    E la fedeltà? E la fedeltà? (Gridando.)

GIOVANNI.  Ma quei denari sono miei! (Cammina intorno quasi in cerca d'aiuto.) Oh! padrone! Sarebbe una cattiva azione. Quei denari son miei ed io non ricordo il patto...

ALFREDO.    Dubiti della mia parola? Vedrai domani. Voglio andare a coricarmi. Riaccendi quella candela. Presto!

GIOVANNI   (corre a prendere la candela che giace ancora a terra). Subito, subito, padrone. Ma non vada senz'avermi perdonato. Sono tanto disgraziato!

ALFREDO.    Vuoi finalmente accendere quella candela o dovrò servirmi da solo?

GIOVANNI   (accende con mano tremante la candela che pone sul tavolo). Ecco, padrone. Ho sbagliato! Ma come potevo sapere io che l'andrebbe cosí. Non ho fortuna io.

ALFREDO     (si leva e intasca il revolver con grande prudenza). Sono stanco di tante chiacchiere. Coricati nella tua stanza. Io mi chiuderò nella mia e domani...

GIOVANNI   (agitatissimo). Come vuole che io possa dormire con tale pensiero? Mi perdoni, signor padrone.

ALFREDO     (s'avvia con la candela in mano). Adesso non voglio sentire altro.

GIOVANNI.  E il conte Alberighi mi disse che s'incaricherà lui di farmi avere il denaro ch'ella mi deve.

ALFREDO.    E allora fatteli dare da lui.

GIOVANNI.  L'ha anche scritto. (Nervosamente cerca il biglietto nella tasca del petto.) Ecco qui! Firmato!

ALFREDO     (legge negligentemente). Vale proprio molto! (Sorridendo.) Capirai che Alberighi fece tutto questo nella speranza di guadagnare la scommessa. Se non la guadagna si curerà ben poco di te.

GIOVANNI.  Non la guadagna! (Pensieroso.)

ALFREDO     (di nuovo iroso). E domani vedremo anche chi ti diede il diritto di farti garantire da altri quello che ti devo io.

GIOVANNI.  Io non volevo offenderla.

ALFREDO     (alza le spalle). Ma che offesa! (Procede verso la porta.)

GIOVANNI   (si lamenta). Oh! Chi mi consiglia?

ALFREDO.    Dovevi cercar consiglio prima.

GIOVANNI   (risoluto si mette davanti alla porta ed impedisce il passo ad Alfredo.) Non domani ma questa sera io debbo avere il fatto mio. Mi perdoni, signor padrone, ma, capirà, io difendo qui la mia vita.

ALFREDO.    Impertinente! Vuoi lasciarmi passare? (Cerca il revolver ma Giovanni gli afferra il braccio.)

GIOVANNI   (risoluto ma ancora rispettoso). No, signor padrone, non si passa! (Poi, improvvisamente è preso dal piú violento furore.) Anzi, vieni qui, vieni qui. (Trascina Alfredo per un braccio fino al tavolo.) Sieda e mi stia ad ascoltare. Prima di tutto... ecco... fuori il portafogli!

ALFREDO     (spaventato). Eccolo! E adesso lasciami andare.

GIOVANNI   (lascia il portafogli sul tavolo). Vede, anche senza revolver. E adesso viene il bello. Perché io ho il revolver! (Lo estrae e fa scattare la molla di sicurezza.) Adesso il portafogli ce l'ho, ma bisogna pensare anche al mio denaro. Come faccio io ad essere sicuro di averlo domani?

ALFREDO     (balbetta). Te lo prometto.

GIOVANNI   (in pieno furore). Me lo promette! E non me lo promettesti già una volta, piú volte, quasi ogni giorno e poi mancasti... canaglia! Voleva derubarmi del denaro da me guadagnato con tanti stenti! Canaglia! Giura che mi darai domani il mio denaro. Giuralo!

ALFREDO     (terrorizzato). Giuro, giuro!

GIOVANNI.  E su chi, canaglia! Non hai nessuno tu, su cui giurare. E domani parlerai di nuovo come parlasti poco fa. Il mio denaro. Voglio subito il mio denaro! (Punta sul petto di Alfredo e tira subito.)

ALFREDO.    Nel portafogli... nel portafogli. (Stramazza a terra.)

GIOVANNI   (si rimette a stento. Poi in ginocchio accanto ad Alfredo). Vi ho fatto male? Padrone, padrone! (A voce bassa.) Padrone! Ve ne prego, rinvenite! Mi darete il mio denaro e tutto sarà finito. (Vede le proprie mani macchiate di sangue e allibisce.) Che cosa ho fatto? (Alla porta picchiano e si sente la voce di Alberighi chiamar Giovanni.) Padrone! Padrone! (Con immensa gioia vedendolo muoversi.) Oh! vive!

ALFREDO     (balbetta negli ultimi rantoli). Ecco, ecco, il portafogli... (Muore.)

GIOVANNI   (guardandolo fisso). È morto. (Corre per la stanza; ritorna al cadavere, l'afferra per un braccio e pensa di trascinarlo verso il fondo.) Oh! a che serve? (Si morde le mani dall'angoscia). Padrone! Padrone! (Si cela la faccia e piange dirottamente.)

SCENA SESTA

ALBERIGHI e SQUATTI sempre chiusi nell'altra stanza e GIOVANNI

ALBERIGHI.            Ma insomma che fate?

SQUATTI.     Qui si muore soffocati. Ho caldo! Ho caldo!

ALBERIGHI.            Alfredo! Apri! La scommessa l'hai già perduta. Rassegnati e beviamo un bicchierino insieme.

GIOVANNI.  La scommessa! (Si rimette lentamente; corre al tavolo e intasca il portafogli. Si avvia verso la porta. Si ricrede, ritorna e indossa il soprabito di Alfredo ed un cappello. Fa per scappare ma ritorna ancora richiamato dalla voce di Alberighi)

ALBERIGHI.            Vuoi tenerci rinchiusi per punizione?

GIOVANNI   (dopo un'esitazione va accanto a quella porta). Non fate rumore! Ve ne prego! Io non ho ancora il portafogli. Per fortuna che il padrone è di là e non v'ha uditi.

ALBERIGHI (piú a bassa voce). Ma il colpo di revolver?

GIOVANNI   (per un istante interdetto). Ah! Il colpo di revolver! È stato tirato dal signor Alfredo che si esercita. Adesso ha riposto il revolver e ritorna subito qui. Allora lo affronterò.

SQUATTI.     Sí, ma fa presto perché altrimenti perdo la pazienza e mi metto a urlare. Io non ho scommesso con nessuno e non c'è ragione...

ALBERIGHI.            Sta zitto, tu, imbecille!

GIOVANNI.  Zitti ambedue! Ecco il padrone che viene. Lo sento muoversi nella sua stanza. Zitti! (In procinto di nuovo di fuggire s'arresta accanto al cadavere. Lo ricompone con pietà. Poi non gli basta. Lo prende in braccio e lo pone su un'ottomana. Gli bacia la mano piangendo.) Volevo abbandonarti ed ora sarai sempre, sempre con me. (Fugge.)