Ingresso libero

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DON

INGRESSO LIBERO

Commedia in tre atti

di VINCENZO TIERI

                                                                                    

PERSONAGGI

ARMANDO CAPESTRANO

GIANNI MONRÒ

GENNARINO

ALDA

CONTESSA DI BREMA

MARIELLA

UNA CAMERIERA

Commedia formattata da

Un salotto con quattro porte, due a destra e due a sinistra. Alla prima di destra, che è la porta d'uscita e che fa angolo con una rientranza della parete, si accede per tre gradini con balaustrata. Alla seconda porta di de­stra che non si vede, sì accede per un piccolo ingresso sormontato da una volta ad arco. Nella parete di fondo, verso destra, si apre un altro arco, più grande, a doppia luce, con tende, e oltre l'arco è un'alcova alla quale si arriva per altri tre gradini. Nell'alcova è un letto a una piazza e mezza, che si vedrà o s'intravedrà a seconda che le tende siano aperte o semichiuse. Nel salotto sono: un divano tipo « meridienne » a spalliera più alta da un lato; mobili e mobiletti vari, ben intonati al divano e all'ambiente, che è quello di un « ingresso libero » o « garsonnière » propriamente detta, per persone facoltose. Telefono, mobile-bar, radiogram­mofono, ecc. Un lucernario ben dissimulato dà la luce diurna all'ambiente e vi lascia entrare dì notte il chiarore della luna.

(Quando si alza la tela, è un tardo -pomeriggio autun­nale. Le tende dell'alcova sono aperte. Nell'alcova Armando sta mettendo in una valigia indumenti pro­pri già preparati sul letto; pigiama, vestaglie, qualche camicia, pantofole, ecc. Nel salotto, una vecchia ca­meriera fa pulizia, mette ordine, e la contessa di Brema, cinquantenne, molto dipinta e molto ben ve­stita, sorveglia il lavoro della cameriera).

La Contessa                  - (alla cameriera, che ha quasi finito) Quel tavolinetto là, vicino alla poltrona. (La came­riera mette il tavolinetto vicino- alla poltrona) Mi pare ancora impolverato. (La cameriera spolvera il tavolinetto con un piumino) Il cuscino della pol­trona. (La cameriera sprimaccia il cuscino della pol­trona. La contessa guarda intorno- con l'occhialetto) Così va bene. Puoi andare, Filomena. Quando verrà quel signore, fallo accomodare nel salottino giallo e avvertimi. (La cameriera esce per la seconda porta dì destra e richiude. La contessa si rivolge ad Armando che nell'alcova sta ancora facendo la valigia) Ci vuole ancora molto?

Armando                       - Non abbia fretta, contessa. « Non è mai tardi per tentar l'ignoto. Non è mai tardi per andar più oltre ».

La Contessa                  - Mi scusi; ma non vorrei che il nuovo inquilino...

Armando                       - (dopo aver guardato l'orologio) Sono le quattro e mezza. Prima delle cinque, cinque e mezza, queste cose... lei lo sa... (Vuol dire: non si fanno).

La Contessa                  - Io mi sono impegnata a consegnare l'appartamento per le cinque.

Armando                       - E allora...

La Contessa                  - Lei sa meglio di me che non è pia­cevole trovare in una casa nuova l'inquilino uscente.

Armando                       - Anche più spiacevole è trovarvi qual­che cosa dell'inquilino appena uscito. Io sono di­stratto. Temo sempre di dimenticare qualche oggetto. Il che, oltre tutto, mi porterebbe sfortuna.

La Contessa                  - E' superstizioso?

Armando                       - Molto. Spero di trovar fortuna nella nuova casa dove mi manda lei.

La Contessa                  - Dove la mando io? E' stato lei a voler cambiare.

Armando                       - Naturalmente.

La Contessa                  - E' la terza volta che lei cambia casa, volontariamente, almeno da quando io ho l'o­nore di servirla.

Armando                       - L'onore è mio... se si può parlar d'onore a proposito di case dove le donne vengono a per­derlo...

La Contessa                  - (sorridendo, falsa) Sempre mora­lista e sentenzioso, lei. Ma, se non ci fossero donne disposte a perdere l'onore, come farebbe lei a...?

Armando                       - (sorridendo anche lui) ...a ritrovarlo? Già, è vero. (Poi con malinconia) Ma forse io ero nato non per trovare o raccattare onori perduti...

La Contessa                  - Perché non si è ammogliato?

Armando                       - (la guarda a lungo; poi vago, misterioso) Già, già.

La Contessa                  - Capisco che anche gli ammogliati...

Armando                       - (amarissimo, come fra se) Gli ammo­gliati e le maritate. (Una pausa) Quanti apparta­menti di questo genere ha, contessa?

La Contessa                  - (schermendosi con un sorriso) La domanda è indiscreta...

Armando                       - Non sono mica l'agente delle tasse.

La Contessa                  - Ce n'ho, stia tranquillo. Quando lei vorrà cambiare un'altra volta... Ma a proposito: non mi ha ancora detto perché le piace tanto di cambiare.

Armando                       - Di cambiare donna o casa?

La Contessa                  - Ah, le donne non mi riguardano. Non le vedo mai, non voglio vederle; debbo, anzi, ignorarne resistenza...

Armando                       - E per che cosa, dunque, gli uomini toglierebbero in fitto presso di lei questi « ingressi liberi » o « garconnières » o quartierini o ridottini che dir si vogliano?

La Contessa                  - Non lo so. Non sono obbligata a saperlo.

Armando                       - (sorridendo) E non lo immagina nem­meno?

La Contessa                  - Sarei dunque obbligata a dar conto delle mie immaginazioni?

Armando                       - A darne conto, no, certo. Ma a confi­darle a vecchi amici come me, non ci sarebbe niente di male, credo.

La Contessa                  - (sorridendo) Di lei non mi fido.

Armando                       - Oh, bella! E perché?

La Contessa                  - E' un uomo troppo sicuro di sé, troppo affascinante.

Armando                       - Non lo credo. Ma ammettiamolo. Am­mettiamo che io abbia il fascino dell'orrido. Non ci si confida, allora, con gli uomini sicuri di sé, con gli uomini affascinanti?

La Contessa                  - Ci si confida quando dalla confi­denza si vuole arrivare... come dire?... all'intimità. Gli uomini esperti come lei incominciano appunto col provocare le confidenze per poi...

Armando                       - Ah, ecco. Lei, dunque, avrebbe paura del poi?

La Contessa                  - Una paura piacevole, intendia­moci. Ma paura. Perché io adoro gli uomini dell'età sua, non ho mai capito i giovani, e quindi... bisogna che stia attenta, che mi difenda dalle mie stesse inclinazioni, capisce?

Armando                       - Capisco, capisco. Si difenda. La Contessa [fingendo di temere qualche gesto audace di luì, con un ficcalo salto) Non mi vorrà mica usare violenza?

Armando                       - Violenza a lei? Io?

La Contessa                  - Non vorrei che si fosse avuto a male della mia parola... Per un vecchio inquilino come lei, sono pronta a sacrificar tutto...

Armando                       - Non permetterò mai che si sacrifichi. Ci mancherebbe altro! Ma prima che le donne m'impoveriscano...

La Contessa                  - Lei è troppo generoso. Avrebbe bisogno di una donna disinteressata... (Allude, natu­ralmente, a se stessa).

Armando                       - Non la troverò, purtroppo. Ma prima che le donne m'impoveriscano, voglio mettermi a fare il suo mestiere contessa.

La Contessa                  - Le sembra un mestiere, il mio?

Armando                       - Diciamo una professione...

La Contessa                  - Ma no, ma no! Io non ho fatto che valorizzare una certa proprietà edilizia un poco svi­lita, decaduta. Questa casa, quando la comprai, era una catapecchia.

Armando                       - Un cortile.

La Contessa                  - In città c'era una quantità di ca­mere buie, sottoscala, tuguri non utilizzabili da fa­miglie normali. Io ho comprato le mura e ho rin­novato tutto...

Armando                       - ...anche per non dover rinnovare le abitudini di tanti poveri uomini soli o male accom­pagnati...

La Contessa                  - ...per offrire a quelli che lo richie­dono un rifugio dove concentrarsi, studiare, ripo­sare...

Armando                       - ...ricevere...

La Contessa                  - Si fa quel che si può, caro signore. Io provengo da un ramo cadetto dei Di Brema, non ero nata certo per fare quello che faccio. Ma le guerre sembrano venire .apposta per capovolgere la sorte di alcune famiglie. Pensi che un mio ex guar­diano s'è messo a fare l'industriale mentre io sono costretta a... industriarmi per aspettare senza troppi disagi la morte.

Armando                       - La morte... degli altri.

La Contessa                  - Le sembro molto vecchia?

Armando                       - Non alludevo1 alla sua età: ci manche­rebbe altro! Pensavo alla morte degli amori che si rifugiano nei suoi appartamenti. Sono mai capitati incidenti luttuosi fra queste mura?

La Contessa                  - Mai.

Armando                       - Sorprese della polizia?

La Contessa                  - Mai. La mia clientela è selezionata.

Armando                       - Ma se di me, per esempio, non sa nemmeno come mi chiamo!

La Contessa                  - Lo so, lo so, signor Capestrano.

Armando                       - Sa il mio cognome, e basta.

La Contessa                  - E che bisogno c'è di sapere il resto, se lei paga anticipato di sei in sei mesi?

Armando                       - A proposito, le debbo il prossimo seme­stre. (Prende alcuni biglietti da diecimila, li dà alla contessa) Però dovrebbe farmi pagare meno, perché l'altra casa è più piccola di questa.

La Contessa                  - Ma è più elegante; e poi è più indipendente; e poi è in un palazzo pieno di uffici e di negozi.

Armando                       - « Dove sei stata? ». « Dalla sarta, dal dentista, dal pedicure». (Ride amaro. Poi prende dulia tasca due chiavi e le consegna alla contessa) Queste sono le chiavi: portone e porta.

La Contessa                  - (prende le chiavi) Grazie.

Armando                       - Come si chiama il nuovo inquilino?

La Contessa                  - Ah! (Vuol significare, anche con il gesto, che non si dice).

Armando                       - E' giovane?

La Contessa                  - Che glie ne importa?

Armando                       - Sono curioso delle avventure altrui. Vorrei vedermi negli altri, per capirmi. Forse perché non ero nato per fare quello che faccio: andare da una «garsonnière » all'altra, senza riposo. Mi ricordo di quando la conobbi. C'era un annunzio sul gior­nale: « Indipendente, ingresso libero, riservatissimo per facoltoso». Telefonai, mi rispose un'agenzia, l'agenzia mi mandò da un oste, questo oste mi diede un indirizzo, all'indirizzo trovai un tale che mi diede un altro numero telefonico... Che « corvée » prima di arrivare a lei! Lo Stato è più franco, nel coltivare e sfruttare i vizi degli uomini. Per il gioco del lotto lascia aprire botteghini, per il fumo tabaccherie: tutto in evidenza, alla portata di tutti.

La Contessa                  - Ma Io Stato fa anche le leggi; e quindi fa le leggi che gli sono più utili.

Armando                       - Penso, certe volte, che gli adultèri sarebbero meno numerosi, se non esistessero le « garconnières».

La Contessa                  - E le farebbe comodo?

Armando                       - (dopo una breve riflessione) Sotto un certo aspetto, sì.

La Contessa                  - Tutte le volte che ci siamo incon­trati, lei ha parlato dell'adulterio con dispregio o con amarezza. Eppure se ne serve.

Armando                       - Ci serviamo tutti di tante cose im­monde... La saluto, cara contessa. (Sta per prendere la valigia, eh'è già chiusa).

La Contessa                  - Non si disturbi. Le faccio portare giù la valigia. (Suona un cani fanello).

Armando                       - Grazie. La porto da me.

La Contessa                  - Ma per carità! (Entra dalla seconda porta di destra la cameriera) Porta giù la valigia del signore. (La cameriera prende la valigia).

Armando                       - (alla cameriera) Grazie. Troverà la mia macchina al vicolo di destra. E' una macchina verde. (La cameriera esce per la prima porta di destra) Non so perché; ma me ne vado da questa casa con un poco di malinconia.

La Contessa                  - Ci si era affezionato...

Armando                       - No. Se mi affezionassi a questi... rifugi, non cambierei, anche rinunziando ai benefici del cambiare. Ma qualche cosa oggi mi turba: come se lasciassi qui dentro una parte di me.

La Contessa                  - (con un sorriso) Forse il ricordo delle ore liete che vi ha passato...

Armando                       - Chi sa, poi, se siano veramente liete le ore che si passano qui dentro! Buona sera, contessa. (Esce per la prima porta di destra).

 

La Contessa                  - Buona sera. (Appena sola, va al telefono, forma un numero) Pronto?... Il signor Monrò?... Buona sera, signor Monrò. L'appartamento è pronto. Oggi sarà bene che lei passi per l'apparta­mento mio, così potrò consegnarle le chiavi... La valigia è già qui... Sì, sì, naturalmente. L'essenziale è che la... persona non sbagli: pian terreno, prima porta a destra. L'altra porta è la mia... Al portiere la... persona potrà dire: « Vado dalla contessa di Bre­ma»... Ma no. La contessa di Brema sono io... D'ac­cordo. Arrivederla. (Depone il microfono. Dalla prima porta di destra rientra la cameriera) Il nuovo signore sta per arrivare dalla parte nostra. Accompa­gnalo qui. La valigia è nel corridoio. Puoi portarla. (La cameriera esce per la seconda porta di destra e poco dopo rientra con una valigia che va a mettere nell'alcova. Nel frattempo la contessa ha formato al telefono un altro numero) Pronto?... E' lei, Lu­ciano?... Fra poco sarà da lei il nuovo1 inquilino... Sì, quello che stava qui da me, quello che cambia continuamente... Sì, appunto, lui: vecchio cliente, tranquillissimo... (Mette una mano sul microfono, dice alla cameriera) Quel signore arriva prestissimo, perché ha l'ufficio a pochi passi. Sii gentile, Filo­mena, mi raccomando. (La cameriera esce nuova­mente per la seconda porta di destra. La contessa ri-prende a parlare al telefono) Gli può consegnare le chiavi: ha già pagato... Le pulizie fra le nove e le undici, la biancheria due volte la settimana, anche tre, se occorre; ma vedrà che due basteranno. Per tutto il resto si metta d'accordo con lui. Non è avaro. Appena si sarà stancato e vorrà cambiare, lo manderemo a Via Catania... (Rientra la cameriera e fa un segno come per dire che il signore atteso è già arrivato e aspetta di là) Accompagnalo qui. (La cameriera esce di nuovo. La contessa riprende al telefono) No, non dicevo a lei. Dicevo a Filomena. Ora la lascio, perché è arrivato l'altro. Mi dia notizie al più presto, Luciano; specialmente degli sbirri. Sa che hanno intensificato la vigilanza? Tra quelli uffi­ciali e quelli privati, non si sa più da chi guardarsi. E' tutta una congiura contro l'amore... No, qui tutto tranquillo, almeno per ora... Arrivederla. (Sulla se­conda porta di destra è apparso Gianni Monrò. E' un giovane sulla trentina, ben vestito, che non riesce a nascondere un certo- nervosismo e imbarazzo. La contessa lo guarda con un sorriso, chiude il telefono e invita Gianni a entrare) S'accomodi, signor Monrò.

Gianni                           - Buona sera. (Guarda l'ambiente).

La Contessa                  - Ecco qua. Le piace?

Gianni                           - (nervoso, sbrigativo) Sì, sì, va bene. (E si muove per la stanza, guardando senza vedere).

La Contessa                  - (seguendolo) Queste sono le chiavi. (Gli porge le chiavi che ha lasciato' Armando).

Gianni                           - (distratto) Che cosa?

La Contessa                  - Le chiavi. Le chiavi dell'apparta­mento.

Gianni                           - Ah, sì, grazie. (Prende le chiavi, le guarda) La più grande è del portone?

La Contessa                  - Sì. Il suo ingresso è quello. (Indica la prima -porta di destra).

Gianni                           - (va alla prima porta di destra, l'apre, guarda fuori) Posso lasciare la porta socchiusa qualche minuto?

La Contessa                  - Prego.

Gianni                           - Ho detto alla... persona che le farò tro­vare la porta socchiusa. Così non c'è pericolo che sbagli. Almeno fino a quando potrò dare le chiavi pure a lei. (Lascia la porta socchiusa).

La Contessa                  - (mostrando le due porte di sinistra, che apre l'una dopo l'altra) Qui- (seconda porta dì sinistra) c'è il bagno; e qui- (prima porta di sini­stra) c'è una stanzetta che può servirle... non so... da ripostiglio... da nascondiglio... La porta (seconda dì destra) che conduce al mio appartamento sarà sempre chiusa con il catenaccio. Solo in caso... come dire?... di pericolo o... di fuga, lei può suonare quel campanello (lo indica vicino all'arco di destra), e la porta verrà aperta. Una persona che volesse uscire attraverso il mio appartamento potrebbe farlo con assoluta tranquillità. Comunque, per ogni evenienza, queste stanze fanno parte della mia casa pur avendo una uscita a sé, e chiunque si trovi qua dentro può sempre figurare mio ospite di passaggio. Signore che vengano a farmi visita da buone amiche, posso rice­verne quante ne voglio, no? (Ha detto tutte que­ste cose sorridendo maliziosamente). La sua valigia, eccola: è nell'alcova. Ha bisogno di niente?

Gianni                           - Di niente, grazie.

La Contessa                  - Per tutto il resto, mi pare, siamo già d'accordo.

Gianni                           - (con un sorriso forzato) D'accordissimo.

La Contessa                  - (dopo averlo guardato) L'ambiente è ancora troppo nuovo, troppo freddo per lei, vero? Adesso le faccio portare un po' di fiori. (Va alla seconda porta di destra, parla verso l'intèrno) Filo­mena, porta quel vaso di fiori ch'è nel salotto giallo. (Poi a Gianni) Le altre volte, ci penserà lei. O, se vuole che ci pensi io, basterà che mi avverta. Verrà spesso, immagino: vedo ch'è tanto giovane... (Lo guarda con simpatia). Non so se sia scapolo o ammo­gliato; in generale, sono ammogliati quelli che... e non so nemmeno se qui verranno piuttosto signo­rine che signore. Oggi non c'è più differenza, vorrei dire; ma si ricordi comunque di stare sempre mezzo vestito o in grado di vestirsi subito. Lei sa che il codice richiede la flagranza, per punire l'adulterio: basta evitare di essere colti in flagranza... Qui da me, per fortuna, non è successo mai niente di grave. Anche perché... essendo io una donna sola e indipendente... non ho difficoltà, quando occorra, a far passare per mio amante il mio inquilino... (Sospira) Insomma disponga di me, quando vuole e come vuole. Io adoro i giovani, e li proteggo. L'amore è il loro regno, il loro tempio, e io mi sento sempre un po'... vestale dell'amore. (Ha detto tutte queste cose con comica civetteria da seduttrice. Si ferma perché è entrata la cameriera la quale reca un vaso di fiori. Rivolgendosi alla cameriera, indicando un posto adatto) Ecco: là, stanno bene là. (La cameriera ese­gue; poi esce per la seconda porta di destra. La con­tessa continua) Vede, signor Monrò, con i fiori è già tutta un'altra cosa. Poi, quando avrà disfatto la sua valigia, si sentirà ancora di più in casa sua: un indumento personale - una vestaglia o altro - dà subito il senso dell'intimità. (Fa per uscire; si ferma) Scusi se mi permetto, signor Monrò... E' maritata la signora che sta per venire?

Gianni                           - Divisa dal marito, mi pare.

La Contessa                  - (ride) Ha detto «mi pare». Deli­zioso. Meglio un po' d'incertezza, un po' di nebbia. « Flou ». Del resto, quale sorte migliore per una donna che essere amata per sé, per la sua bellezza fisica e spirituale, indipendentemente dal suo stato civile, dai suoi legami, dai suoi doveri, dal suo pas­sato?... (Sospira) Ed è la prima volta che la riceve?

Gianni                           - Per la verità, sì.

La Contessa                  - L'avevo immaginato dal suo nervo­sismo, dalla sua emozione. Ebbene, se non si sentisse bene... non faccia complimenti: io ho di là, fra i miei medicinali, delle pasticche.

Gianni                           - Ma no, signora. Non ne ho affatto bi­sogno.

La Contessa                  - Capisco benissimo. Dicevo per dire. Ma succede a chiunque di sentirsi male.

Gianni                           - Ma no, ma no!

La Contessa                  - Ah, un uomo come lei non può che diventare la felicità di una donna. Lei avrà sem­pre molta fortuna in amore. Qualche giorno, le leg­gerò la mano e farò anche l'esame della sua scrittura. Sono una dilettante di scienze occulte; ma bravis­sima. Indovino tutto, specialmente quando ho sim­patia per chi si lascia esaminare. (Rumore dì passi nell'interno di destra. La contessa rapida) Sento dei passi. Passi incerti. Dev'essere lei. In bocca al lupo. (Esce in fretta per la seconda porta di destra e subito rumore: un chiavistello che scorre negli anelli. La contessa ha chiuso la porta dall'interno. Gianni che è subito corso alla prima porta di destra, riceve ai piedi dei gradini, stendendole le mani, Alda, che è giovane, elegantissima, e arriva un po' affannata ed emozionata).

Alda                              - (alludendo al rumore del catenaccio) Che cosa è stato questo rumore?

Gianni                           - La padrona di casa ha chiuso la porta interna col catenaccio.

Alda                              - Ma non è indipendente, questo appar­tamento?

Gianni                           - Sì, indipendentissimo. Non aver paura.

Alda                              - Sai, sono arrivata con l'affanno. Da quando ti conosco mi pare sempre di essere seguita o addi­rittura inseguita. Lasciami sedere.

Gianni                           - (premurosissimo) Siedi, cara. (L'accom­pagna al divano) Ancora non so fare... gli onori di casa, perché l'ambiente è nuovo anche per me. Ma imparerò. Impareremo.

Alda                              - (guarda intorno) Non ero mai stata in un luogo così.

Gianni                           - (con un sorriso) Il bello è che non c'ero mai stato nemmeno io... Siamo due novizi.

Alda                              - Chi sa se riuscirò ad abituarmi!

Gianni                           - D'altra parte, come si poteva fare? Non a casa tua; non a casa mia. Per evitare un amore goliardico, peripatetico, bisognava pure risolvere in qualche modo questo problema. Vuoi bere qualche cosa?

Alda                              - Sì, grazie.

Gianni                           - (ride) Ah, ma io ti offro quello che non ho! Mi sono dimenticato di... Posso scendere giù un momento, comprare qualche liquore.

Alda                              - No, no, non occorre.

Gianni                           - Oppure pregare la padrona di casa...

Alda                              - Ma no!

Gianni                           - E' una signora gentilissima: una con­tessa, dice. Si preoccupa perfino del mio stato di salute. (Ridono insieme).

Alda                              - (si alza) Voglio levarmi il cappello, il man­tello... Dov'è il bagno?

Gianni                           - Qui, mi pare. (Va al primo uscio di sini­stra, l'apre) No, qui no. Dev'essere là. (Va al secondo uscio di sinistra, l'apre) Eccolo.

Alda                              - Ho l'abitudine di levarmi nel bagno anche il cappello. Scusa, caro.

Gianni                           - Ti prego. (Malizioso) Vuoi che venga ad aiutarti?

Alda                              - (con pudore) No. Ancora no. Mi levo solo il mantello e il cappello. (Esce per la porta del bagno, richiude. Appena Alda è uscita si sente il chiavistello della seconda porta di destra scorrere negli anelli, e appare nuovamente la contessa).

Gianni                           - (quasi con paura) Chi è?

La Contessa                  - (sottovoce) Io. Sono io. (Gli porge un flaconcino di medicinale) Le ho portato le pa­sticche.

Gianni                           - Ma non sono necessarie, signora!

La Contessa                  - Le tenga. Non si sa mai.

Gianni                           - La ringrazio, ma le assicuro che...

 La Contessa                 - Non si sa mai. (Rumore dalla porta del bagno che si apre, ha contessa depone il flaconcino su un mobile e scappa, richiudendo subito la porta del suo appartamento).

Alda                              - (dalla seconda porta di sinistra) Chi era?

Gianni                           - La solita contessa. Si è messa in testa che io avrò bisogno delle sue pasticche... Me le ha lasciate, vedi. (Le indica il flaconcino).

Alda                              - (va a prendere il flaconcino, lo esamina) Però, che premura!

Gianni                           - (levandole il flaconcino dalle mani) Ma lascia andare, cara! (Depone il flaconcino su un altro mobile, cinge con le braccia la vita di Alda). Mi sono dimenticato di portare liquori, tè, caffè, e tutto l'occorrente; ma in compenso, indovina un poco, mi sono ricordato di portarti una cosa che forse ti servirà.

Alda                              - Che cosa?

Gianni                           - Non indovini? (Ha già preso la valigia, l'ha aperta).

Alda                              - No.

Gianni                           - Una cosa alla quale certamente tu non hai pensato.

Alda                              - Dimmi.

Gianni                           - Una camicia da notte. (La mostra).

Alda                              - Ah! Ma ce l'ho. Ce l'ho nella borsa. La prima cosa alla quale abbia pensato anch'io.

Gianni                           - (meravigliato, perplesso) Ah, sì?

Alda                              - Fantasticavo, sai. Mi vedevo già fra le tue braccia. « Come sarò? Lui mi conosce solo vestita, mi ha sempre vista negli angoli semibui dei giar­dini o nei cinema o dentro la macchina... ». E così ho pensato alla mia camicia da notte, mi sono affret­tata a metterla nella borsa...

Gianni                           - (rassicurato) Ah, ecco. Be', quella che t'ho portata sarà il mio primo regalo...

Alda                              - Ah, no, no. Regali niente, mai. Al mas­simo un fiore, una sola rosa, un solo garofano. Non accetterei altro.

Gianni                           - Se ti vuoi levare uno dei più sottili piaceri che dà l'aurore.

Alda                              - Non mi porterebbe fortuna. Già mi spa­venta il fatto che tu spenda per me il prezzo di questo appartamento. Quanto costa?

Gianni                           - Ma che te ne importa?

Alda                              - Ammetto anche che tu sia un ricco signore. Ma sei ammogliato. Ho paura delle maledizioni che le mogli, anche le mogli di uomini ricchi, mandano a quelle che fanno spendere denaro ai loro mariti.

Gianni                           - (ride) Strano.

Alda                              - Non è la sola cosa strana che troverai in me.

Gianni                           - Dimmene un'altra.

Alda                              - Immediatamente dopo, sai, mi viene un sonno da morire. Guai se non dormo. Se non dormo, mi sento seccata, spezzata, istupidita.

Gianni                           - Bene. Ti lascerò dormire.

Alda                              - Proprio fino a quando non mi sono spon­taneamente svegliata, sai.

Gianni                           - Obbedirò.

Alda                              - Vorrei dire che questa è una condizione essenziale dei nostri buoni rapporti.

Gianni                           - L'accetto.

Alda                              - Io ti amo. In pochissimi giorni, ho impa­rato ad amarti, Pussi...

Gianni                           - Pussi, chi?

Alda                              - Non ti ricordi che ti chiamo Pussi?

Gianni                           - Non me n'ero accorto.

Alda                              - E' il nome dell'essere più caro che io abbia avuto nella mia vita.

Gianni                           - Tuo marito?

Alda                              - No. Il mio cane.

Gianni                           - Ah!

Alda                              - Non te ne offendere. I cani sono umanis­simi, creature perfette. Per me, Pussi era tutto, ca­piva tutto, riempiva la mia esistenza.

Gianni                           - E' morto?

Alda                              - Sì, di cimurro. Vennero quelli che proteg­gono gli animali e lo uccisero. Miserabili: proteg­gono gli animali uccidendoli.

Gianni                           - (un po' contrariato) Insomma, vada per Pussi. Mi abituerò a sentirmi chiamare Pussi invece che Gianni.

Alda                              - E' la più grande prova d'amore che io ti possa dare. L'aver portato con me la camicia da notte e il chiamarti Pussi sono le più grandi prove d'amore che io ti abbia potuto dare.

Gianni                           - Grazie.

Alda                              - Quella è un'alcova?

Gianni                           - Sì.

Alda                              - Ho piacere che ci sia un'alcova e che l'al­cova abbia una tenda. Io dormirò di là, e tu mi aspet­terai di qua. Se non ci fosse stata l'altra, sarebbe stato un guaio; perché tu avresti dovuto assistere al mio sonno stando al buio. Non riesco a dormire con molta luce. Uno spiraglio.

Gianni                           - Be', ma adesso parliamo di noi, del nostro amore.

Alda                              - E non stiamo parlando di noi? Non stiamo parlando del nostro amore?

Gianni                           - Sì, in un certo senso...

Alda                              - In un certo senso?

Gianni                           - Indirettamente, ecco. Ma pensa che dal tuo arrivo fino a questo momento non ci siamo dati nemmeno un bacio!

Alda                              - (sfiorandogli appena la guancia con la pro­pria bocca) Ecco.

Gianni                           - Così poco?

Alda                              - Poi vedremo, poi vedremo.

Gianni                           - Poi, quando?

Alda                              - Più tardi.

Gianni                           - Più tardi; ma quando?

Alda                              - Ho bisogno di abituarmi all'idea...

Gianni                           - All'idea di essere mia?

Alda                              - Tua, lo sono già.

Gianni                           - Strano. Non me ne sono accorto...

Alda                              - Tua spiritualmente!

Gianni                           - Ah, spiritualmente.

Alda                              - Non ti basta?

Gianni                           - Ehi, dico, non vorrai scherzare? (Le si avvicina, fa per prenderle una mano).

Alda                              - Aspetta. Scusa. Bisogna che mi abitui anche all'ambiente, no?

Gianni                           - (si allontana pensieroso) Non capisco perché tu voglia rendere faticoso il principio del nostro amore.

Alda                              - Faticoso?

Gianni                           - Complicato, accidentato, cavilloso: come dire? Non c'è impeto, in te. Mi stai provocando, esasperando. Io fremo, al pensiero di farti mia; e tu poni indugi, ostacoli. Se lo fai per innamorarmi di più, sbagli. L'amore può morire di sazietà, ma può morire anche d'attesa. D'altra parte, più innamo­rato di così io non potrei essere, non sono mai stato.

Alda                              - Dici di amarmi; e poi mi attribuisci un calcolo così meschino.

Gianni                           - Non si tratta di calcolo. Accade spesso alle donne di obbedire a un desiderio di più com­pleta conquista, a un istinto di rapina. Ora io sono conquistatissimo, rapinatissimo...

Alda                              - Dimmelo, dimmelo!

Gianni                           - Te l'ho detto, no?

Alda                              - Dimmelo ancora!

Gianni                           - E non ti annoi?

Alda                              - Non capisci? La tua voce mi penetra nelle vene, mi scorre nelle vene insieme con il mio sangue. Tu non sai che paura e che speranza ho di perdermi in te, di annullarmi in te….

Gianni                           - (le prende le mani) Bella!

Alda                              - Non bella. Tua.

Gianni                           - Bella e mia.  

Alda                              - Sì, sì.

Gianni                           - Non solo spiritualmente...

Alda                              - Certo, certo. Ma dopo, mi lascerai dormire?

Gianni                           - (ride come se avesse da fare con una bam­bina) Ma sì, ma sì! Perché non dovrei lasciarti dormire? Solo, mi sembra assurdo che si debba pen­sare al dopo, prima ancora d'incominciare.

Alda                              - Mi ami?

Gianni                           - Infinitamente.

Alda                              - Sono gelosa di tua moglie.

Gianni                           - Come ti viene in mente, ora?

Alda                              - Tu non puoi essere geloso di mio marito perché io sono separata da lui. Ma io, tutte le volte, tutte le ore che non ci vediamo, t'immaginerò vicino a un'altra, forse più brava di me...

Gianni                           - Che paragoni inopportuni! Non pen­siamo più a nessuno, pensiamo solo a noi stessi. Vieni, vieni, Alda. Aiutami a disfare la valigia.

Alda                              - Che cosa c'è, dentro?

Gianni                           - Roba mia personale: quello che mi può servire. Oltre la camicia che ho comprato per te.

Alda                              - Portala a tua moglie. Regalala a tua moglie. Sono più contenta.

Gianni                           - Invece la terrò qui. Vedrai che un giorno ti servirà.

Alda                              - Mai, mai. Avrò sempre la mia nella borsa.

Gianni                           - E se una volta te ne scordi?

Alda                              - E' impossibile.

Gianni                           - Sei così infantile, in questo, che voglio respingere tutti i sospetti che le tue parole possono ispirare.

Alda                              - Quali sospetti?

Gianni                           - Non mi vorrai dire che da quando sei nata, e solo per futili motivi, hai l'abitudine di por­tare la camicia da notte nella borsa...

Alda                              - (coprendosi il volto con le mani) Oh, me sfortunata! Tu pensi male di me!

Gianni                           - Ti sto dicendo che non penso niente, appunto perché parli e agisci come una bambina. Ma devi ammettere che non è normale portare una camicia da notte nella borsa ed essere sicuri di non dimenticarsene.

Alda                              - (con gesti di disperazione; allontanandosi) Non mi ami! Non mi ami!

Gianni                           - (la raggiunge, la costringe a sedere) Ma senti, vieni qui, ascolta. Lasciamo andare quello che abbiamo detto finora. Al diavolo le camicie, le borse, i regali e tutto il resto; Fra un paio d'ore bisogna che io vada via...

Alda                              - Dopo che...

Gianni                           - ... avrai dormito. Ma non sarai venuta qui soltanto per dormire!

Alda                              - Sì, sì, hai ragione, scusa. Ma il pensiero che tu possa abbandonarmi mentre dormo mi spa­venta come tu non puoi immaginare.

Gianni                           - Perché, poi, dovrei abbandonarti mentre dormi?

Alda                              - Ho sempre sognato di svegliarmi e di non trovare più nessuno' Vicino a me.

Gianni                           - « Sempre». Lo hai sognato sempre. An­che prima di conoscermi?

Alda                              - No, prima no. Da quando ti conosco. E una volta, l'altra notte, ho fatto un sogno ancora più spaventoso. Non ero più sola al risveglio; c'eri tu. Ma c'era anche, vicino a te, mio marito. (Ha un brivido).

Gianni                           - Tu sei divisa da lui...

Alda                              - Sì; ma c'era. Capisci la vergogna? Tu e lui, tutte due; e io disarmata, denudata davanti a tutt'e due. Perché si può stare, sì, davanti a due amanti, in un salotto, a tavola, fra la gente, fra gli amici, quando almeno uno dei due non sappia dell'altro. Ma non in un'alcova, in camicia da notte, davanti a quattro occhi che sanno tutto, che hanno visto le stesse cose... Come faccio a renderti conto del lato terribile ch'è in una congiuntura simile, sia pure in clima di sogno?

Gianni                           - Ma andiamo! Sono fantasie, allucina­zioni, ipotesi inverosimili. Dove vive tuo marito?

Alda                              - Non so, non ne so niente. Ricevo il suo assegno mensile per mezzo dell'avvocato, ma non ne so più niente.

Gianni                           - Perché ti sei separata da lui?

Alda                              - (si copre il volto con le mani) Non so, non ricordo.

Gianni                           - (dopo essersi mosso, un po' seccato, per la: stanza) Com'è strano, tutto questo! Ci siamo conosciuti; ci siamo piaciuti, abbiamo aspettato con ansia il momento di stare insieme in una casa, al sicuro; ed ecco che l'ora più bella della nostra vita è amareggiata dal tuo nervosismo, dalle tue paure... Ti assicuro, Alda, che in questo momento vorrei non amarti più, avere la forza di riaccompagnarti fuori e di salutarti per sempre.

Alda                              - No, no, ti prego!

Gianni                           - Purtroppo la tua preghiera è superflua. Io non sono in grado di abbandonarti. Direi che il mio amore è esasperato, ingigantito da tutto quello che di inquieto, di oscuro, di illogico, è nelle tue parole e nei tuoi gesti. (Con disperazione) Vorrei non averti mai incontrata, mai conosciuta!

Alda                              - Non bestemmiare. Ti amo. Bisogna che tu mi accetti come sono. Sarò tua, sono tua. (Gianni le si avvicina, le dice qualche cosa all'orecchio) Sì, sì. (Gianni le parla ancora nell'orecchio). Subito1, caro. (Si alza, va fino alla prima porta di sinistra, l'apre) Oh, che sventata! (Richiude, va alla seconda porta di sinistra, quella del bagno, l'apre e prima di ri­chiuderla dietro di sé, dice con civetteria) Pussi!

Gianni                           - (accingendosi ad aprire la valigia) Fa' presto!

Alda                              - (c. s.) Prestissimo, Pussi. Ciao. (Esce, chiude).

Gianni                           - (aprendo nervosamente la valigia) Che strana creatura! (Tira fuori pigiama, vestaglia) Mi ha messo addosso certi nervi!

Alda                              - (dall'interno) Pussi!

Gianni                           - Che c'è adesso?

Alda                              - Mi sono dimenticata di portare le pan­tofole.

Gianni                           - (seccato) Eccoti le mie. (Prende dalla valigia un paio di pantofole, arriva alla porta del bagno, bussa).

Alda                              - (affacciandosi fra i battenti della porta soc­chiusa) Aspetta. Non si entra. Dammi. (Prende le pantofole) E tu come farai?

Gianni                           - (seccato) Camminerò scalzo.

Alda                              - Te ne regalerò io un paio, la prossima volta.

Gianni                           - Ecco, bene. Così i regali, invece di farli io a te, li farai tu a me.

Alda                              - (chiudendo la porta) Cattivo! (Gianni ritorna nervosissimo alla valigia, ne cava un « né­cessaire ». Alda dall'interno) Pussi!

Gianni                           - Dimmi!

Alda                              - Io, ora, passo. Non ti voltare.

Gianni                           - Non mi volto. Passa.

Alda                              - (apre la porta del bagno, sporge la testa) Non mi devi guardare nemmeno con la coda dell'occhio, mentre passo.

Gianni                           - (seccato) Ma sì, ma sì! Purché ti decida!

Alda                              - Non t'arrabbiare, caro. Ognuno ha i suoi pudori, le sue piccole manie.

Gianni                           - E avanti! Che aspetti?

Alda                              - Oltre tutto, debbo essere buffa, con le tue pantofole.

Gianni                           - Ma che buffa! Andiamo!

Alda                              - Sono tanto emozionata, che mi sembra di aver freddo.

Gianni                           - Finirai col prendere un malanno, se non ti decidi!

Alda                              - Ecco, ecco. Passo, Pussi. Pussi, passo. (En­tra in fretta, arriva ali 'alcova, tira le tende e fra le tende si affaccia con la sola testa) Adesso ti puoi voltare.

Gianni                           - Grazie. (E senza voltarsi si accinge a prendere un pigiama. Suona il telefono. Gianni ha un sussulto) Chi sarà? (II telefono continuerà a suonare fino a quando Gianni non avrà sollevato il microfono).

Alda                              - Non rispondere, sai!

Gianni                           - A patto che smetta di suonare.

Alda                              - Tu non hai mica dato il numero a qual­cuno!

Gianni                           - Se non so nemmeno che numero è!

Alda                              - E allora rispondi. Può darsi che sia uno sbaglio.

Gianni                           - (perplesso) E se non è uno sbaglio?

Alda                              - Vuoi che risponda io?

Gianni                           - No, no. Rispondo io. (Va al telefono, alza il microfono, parla contraffacendo la voce) Pronto? (Una pausa). Non si sente niente. (Poi nuovamente) Pronto?

Alda                              - Oh, che paura! (Tremando, lascia le tende che restano un po' scostate, va a letto).

Gianni                           - (al telefono) Pronto? Mah! (Depone ner­vosamente il microfono).

Alda                              - (dall'interno dell'alcova) Chi era?

Gianni                           - E chi lo sa! Non rispondeva nessuno. Qualche maleducato, qualche scocciatore.

Alda                              - Sarà bene, però, avvertire la padrona di casa.

Gianni                           - Già! Così mi consiglia nuovamente di prendere una delle sue pasticche. (Guarda il fla­concino).

Alda                              - E allora vieni, Pussi.

Gianni                           - (che guarda ancora il flaconcino) Sì cara, eccomi. (E ormai è talmente agitato, così poco si­curo di sé che prende il flaconcino, ne cava una pa­sticca e rapidamente l’inghiotte).

Alda                              - Pussi!

Gianni                           - Eccomi. (Prende un pigiama, si avvia verso il fondo).

Fine del primo tempo

ATTO SECONDO

(La stessa scena del primo atto. E' passato poco più di un'ora. Quando si alza la tela, la tenda dell'alcova è tutta chiusa, e di là Alda dorme. Gianni si sta rivestendo nel bagno e ogni tanto, mettendosi la cintura o facendo il nodo alla cravatta, va dalla porta del bagno all'alcova, scosta lievemente la tenda, guarda nell'interno, richiude).

Gianni                           - (dopo essere stato una prima volta alla tenda e aver guardato dentro) Dorme, Dorme come un ghiro. (Guarda l'orologio) E' più di mezz'ora che dorme. (Va nuovamente nel bagno e ritorna in scena facendosi il nodo alla cravatta; dice fra se) Mi dispiacerebbe... (Guarda il telefono, si avvicina come volendo fare un numero, si pente). No... chi sa che fra qualche minuto... (Va ancora alla tenda, la scosta, guarda dentro) Niente. (Si schiarisce la voce per far rumore, nella speranza che Alda si svegli; sta in ascolto) Macché! (Mentre continua a vestirsi, fa cascare per terra una sedia, produce altri rumori toccando i mobili, fischia; e ogni volta tende l'orecchio oppure va a guardare nell'interno dell'al­cova) Altro che sonno! Questo è letargo. (Si è già infilata la giacchetta, è pronto per uscire, si muove per la stanza nervosamente) Meglio che telefoni. (Va al telefono, forma un numero) Pronto?... Sì, sono io... Ancora qualche minuto, cara. Ti chiedo scusa. Un contrattempo... Dove hai telefonato?... E come potevi trovarmi? Te l'avevo detto che a quest'ora non ci sarei stato, in ufficio... Sono in un bar: non senti che chiasso? (Scuote più volte l'apparec­chio telefonico per dare l'impressione dei rumori di un bar) Ma no! Quanto vuoi che tardi ancora? Dieci minuti al massimo. Non cascherà il mondo per dieci minuti di ritardo... E tu telefona; avverti, prega che aspettino. Anzi, va' tu prima, precedimi. Ecco una bella idea: precedimi. Prendi un tassì e precedimi... Come vuoi che ti spieghi adesso da un telefono pubblico, da un bar? E allora aspettami, vengo a prenderti... Sono lontano dal centro, sai, il tempo di arrivare... Che via è questa dove sono io? Via... Via... (Cerca il nome di una via, dice il primo nome che gli viene in mente) Via Tarr!... Mah! non so bene che via è. E' una via... Dalla parte di... (cerca un nome) ...di... San Lorenzo, mi pare... Ma sì, mi pare, perché sono posti che non conosco, ci son venuto seguendo la macchina dei miei amici... Insomma aspettami e basta! (Sbatte il ricevitore per rabbia e anche per far rumore; sta in ascolto; poi arriva nuovamente alla tenda, guarda dentro, chiama sottovoce) Alda! (Poi lievemente più forte) Alda! (Dopo aver richiuso la tenda, fra se) Altro che letargo! E' la morte. D'altra parte, non posso morire anch'io per lei... (Va alla seconda porta di destra, preme il bottone del campanello e poi, in attesa, cerca le chiavi) Dove avrò messo le chiavi? (Si ode il rumore del chiavistello che scorre negli anelli, la seconda porta di destra si apre, fa capolino la con­tessa).

La Contessa                  - (con cautela) Ha chiamato?

Gianni                           - (che ha già trovato le chiavi) Sì, contessa, mi scusi...

La Contessa                  - (entra, chiudendo la porta dietro di se) Ma s'immagini! Spero sia andato tutto bene...

Gianni                           - Benissimo, benissimo. Ma adesso la si­gnora s'è addormentata.

La Contessa                  - Oh, bella! S'è addormentata?

Gianni                           - Sì, s'è addormentata.

La Contessa                  - Rinunziando a quel delizioso pia­cere che si prova, dopo, nel parlare un poco, sotto­voce, di cose elevate, spirituali?

Gianni                           - Già, rinunziando. Del resto, meglio. Ci sono uomini, come me, che, anzi, preferirebbero addormentarsi loro per primi. Comunque non è di questo che si tratta. Io purtroppo non posso fer­marmi qui fino a quando la signora non si sia sve­gliata...

La Contessa                  - La svegli lei.

Gianni                           - Stavo per farlo poco fa; ma ho dovuto rinunziare. Mi sono ricordato che me lo ha proibito. Ha detto che potrebbe morirne. E intanto io ho un appuntamento con mia moglie, sono in ritardo, siamo tutt'e due in ritardo...

La Contessa                  - Le lasci un biglietto.

Gianni                           - Mi ha proibito anche questo. Ha detto che debbo aspettarla comunque. Un'ora, due ore, un secolo. Morire di noia; ma aspettarla. L'ha posto come patto, come condizione.

La Contessa                  - Capisco. Forse, quando si sveglia, ha bisogno di tenerezze, di...

Gianni                           - Il guaio è che, anche se ne avesse bi­sogno, io non potrei fargliene. (La contessa guarda il flaconcino) Non è per questo. E' per l'appuntamento che ho con mia moglie. Le ho promesso di accom­pagnarla dalla pellicciaia, e guai se tardo. Io adesso vado, accompagno mia moglie dieci minuti, e torno. Se nel frattempo la signora si sveglia, mi faccia lei la cortesia di spiegarle il motivo della mia assenza, la preghi d'aspettarmi...

La Contessa                  - Signor Monrò, lei mi chiede d'im­mischiarmi di cose che non mi riguardano, di cose che non sono abituata a trattare...

Gianni                           - Mi scusi. Ma faccia un'eccezione, la prego. Lei è così sollecita, si è mostrata tanto pre­murosa...

La Contessa                  - Premurosa verso di lei, signor Monrò, perché lei è il mio inquilino...

Gianni                           - E faccia per me anche questo sacrificio!

La Contessa                  - Dovrei aspettare qua dentro che la signora si svegli?

Gianni                           - Aspettare che io torni, ecco. Può darsi che io possa tornare prima che la signora si sia sve­gliata, e allora...

La Contessa                  - E se la signora si sveglia prima?

Gianni                           - Ecco, appunto1. Se la signora si sveglia prima, che almeno trovi qualcuno. Qualcuno che le spieghi la circostanza per cui... Io speravo che dor­misse meno... Mi dispiacerebbe se, non trovando né me né nessuno, avesse l'impressione di una mia fuga. E' la prima volta, sa? Ci conosciamo appena.

La Contessa                  - Io ho da fare, signor Monrò. Non posso star ferma qui dentro per un tempo indefinito.

Gianni                           - Ci metta la sua cameriera.

La Contessa                  - E' una cretina. Complicherebbe le cose.

Gianni                           - Lasci la porta aperta, vada e venga... Insomma faccia come vuole, purché io possa, al­meno per dieci minuti, raggiungere mia moglie...

La Contessa                  - (con comica civetteria) Lei deve avermi stregata, signor Monrò! Faccio per lei quello che non farei per nessuno.

Gianni                           - Grazie. La ringrazio tanto.

La Contessa                  - Seguirò il suo consiglio: lascerò la porta aperta. E io un po' di qua e un po' di là.

Gianni                           - Voglio prendere il numero di questo telefono. Non si sa mai.

La Contessa                  - E' scritto sull'apparecchio'. (Gianni legge il numero dell'apparecchio e lo segna su un taccuino) Il numero mio, ce l'ha.

Gianni                           - Sì, grazie. (E' inquieto, perplesso) Spe­riamo che vada tutto bene.

La Contessa                  - Non abbia timori.

Gianni                           - Non so ancora che tipo è, capisce? Se è spiritosa, se è permalosa. Si può dire che ci cono­sciamo poco perfino fisicamente. So che deve dor­mire e dorme. Dice che ha assoluto bisogno di es­sere sicura che qualcuno vegli il suo sonno1.

La Contessa                  - Vada tranquillo.

Gianni                           - Eh, tranquillo! E' da stamane che non riesco a essere tranquillo. Da quando lei mi promise il suo appartamento per le cinque.

La Contessa                  - Sono stata puntuale, no?

Gianni                           - Puntualissima. Ma sa come succede? In­ventare un pretesto per la moglie, che proprio oggi naturalmente ha bisogno della vostra compagnia per andare dalla pellicciaia; avvertire e istruire l'altra perché non succedano equivoci; poi trovarsi in un ambiente nuovo, con una donna nuova che per di più ha le sue piccole manie... Be', comunque, mi pare di non scordarmi di niente...

La Contessa                  - (colta da un ricordo improvviso) A proposito di scordare! Non ha, per caso, trovato su qualche mobile o in qualche cassetto un piccolo ferro di cavallo in oro e rubini? Un oggettino pic­colissimo, un amuleto...

Gianni                           - No, niente. Non ho trovato niente. Del resto non ho aperto cassetti, non ho avuto nemmeno il tempo di disfare la mia valigia.

La Contessa                  - Approfitterò della circostanza per cercare io, se lei permette.

Gianni                           - Bene, cerchi lei.

La Contessa                  - E' un oggetto che apparteneva al suo predecessore.

Gianni                           - Al mio predecessore?

La Contessa                  - All'inquilino di prima, voglio dire.

Gianni                           - Ah, ho capito.

La Contessa                  - Superstiziosissimo. Ha detto che se non lo ritrova muore.

Gianni                           - (sempre inquietissimo, guarda l'orologio) Oh, com'è tardi! Vado. Meglio diminuire la luce. (Smorza una parte della luce) Chiudo la porta a chiave. Contessa, sono nelle sue mani.

La Contessa                  - (con comica civetteria, mostrando le mani) Mani di fata.

Gianni                           - (la guarda stupito, esclama) Mah! (Ed esce rapidissimo per la prima porta di destra chiu­dendola a chiave con tre mandate).

La Contessa                  - (rimasta sola, guarda intorno e per terra, pensando all'amuleto, poi arriva alla tenda dell'alcova, la scosta per spiare dentro) Che bei capelli! Dorme mezzo scoperta, bocconi, con la fac­cia affondata nel cuscino; non so come possa respi­rare. (Richiude la tenda, guarda ancora per terra e sui mobili, cercando; poi, seccata, va a suonare il campanello eh'è presso la seconda porta dì destra. Arriva la cameriera) Di' a quel signore che venga lui stesso qui, a vedere. Ma in punta di piedi, piano. Mi raccomando, perché c'è una persona che dorme. (ha cameriera esce, ha contessa continua a cercare con lo sguardo, fino a che per la seconda porta di destra non entri Armando).

Armando                       - (dalla porta) M'ha chiamato qui? Non c'è nessuno?

La Contessa                  - C'è una signora. Ma è di là, cori­cata, e dorme. Cerchi un po' lei stesso il suo amu­leto, senza far rumore.

Armando                       - (sottovoce) Nell'alcova non si può an­dare?

La Contessa                  - Eh, nell'alcova, no. (Con malizia) Le ho detto che c'è una signora.

Armando                       - Ma non. può essermi caduto' che nell'alcova, creda. E' là che ho preparato la mia roba, che mi sono mosso, che mi sono piegato continua­mente.

La Contessa                  - Guardi qui dentro, intanto. Poi, quando saranno andati via tutt'e due, potrà anche cercare nell'alcova.

Armando                       - Ah, che sventura, che sventura! Lo possedevo da trent'anni. Mai dimenticato, mai per­duto. Mi pareva, uscendo, di aver dimenticato qual che cosa     - (Guarda anche lui in giro, sui mobili, per terra, incomincia a aprire qualche cassetto) Come potrebbe essere qui? Lo portavo nella tasca poste­riore dei pantaloni, in una bustina di pelle; eccola qua: in questa bustina di pelle. (Mostra una pic­cola busta di pelle) Era fermato nell'interno per mezzo di una piccola spilla di sicurezza. Ecco la spilla, (ha mostra) Trent'anni! Mai smarrito. Mai dimenticato.

La Contessa                  - Intanto, cerchi. E senza far ru­more, per carità! La signora dorme e non dev'essere svegliata per nessuna ragione. Si deve svegliare da se stessa.

Armando                       - (di umore nerissimo) Che cosa vuole che m'importi della signora! Le signore si sostitui­scono, gli amuleti no. Ma è destino che nei suoi appartamenti io perda sempre qualche cosa.

La Contessa                  - Non vorrà prendersela con me adesso!

Armando                       - A Via Sicilia una cintura, a Via Stamira non so quante paia di calze! Ma tutta roba che non ha importanza, che si ricompra.

La Contessa                  - Ne sento parlare per la prima volta. Non ho mai saputo che...

Armando                       - Che bisogno c'era di parlargliene? Si trattava di cose insignificanti. Ma un amuleto, non è cosa insignificante. Senza quell'amuleto la mia vita può cambiare da così a così.

La Contessa                  - Esagerazioni. Comunque, speria­mo che cambi in bene.

Armando                       - Va benissimo come va, se ritrovo il mio amuleto.

La Contessa                  - Le auguro di trovarlo subito, si­gnor Capestrano. Lei sa quanta simpatia ho per lei. Ma si ricordi che lei non è mica stato qui dentro tutta la vita. Nemmeno tutti i giorni. Solo un paio di volte alla settimana. E ogni volta un paio d'ore.

Armando                       - Che c'entra questo?

La Contessa                  - Voglio dire che l'amuleto, può averlo perduto anche altrove.

Armando                       - Ho cercato dovunque.

La Contessa                  - E se l'ha perduto qui, lo troverà. (Alla seconda porta di destra si affaccia improvvi­samente la cameriera).

La Cameriera                - (rapida, preoccupata) Signora contessa.

La Contessa                  - Che c'è? (La cameriera le fa segno di avvicinarsi e quando le è vicina le parla sottovoce facendo intendere che le annunzia un fatto grave il quale richiede la immediata presenza di lei) Oh, perbacco! Non dovevi aprire senza avvertirmi! (E poi ad Armando) Per favore, esca dall'altra porta. (Allude alla prima porta di destra) Io qui debbo chiudere. (Indica la seconda porta di destra).

Armando                       - Ch'è successo?

La Contessa                  - Le dirò. Poi le dirò. Faccia presto. E senza rumore. (Esce rapida con la cameriera per la seconda porta di destra e la richiude col cate­naccio. Armando si rimette a cercare e improv­visamente la sua attenzione è attratta da qual­che cosa che luccica presso le tende dell'alcova. Si avvicina, guarda. E' il suo amuleto. Egli se ne mo­stra lietissimo, rimette l'amuleto nella sua busta di pelle. A un tratto sente la voce di Alda).

Alda                              - (dall'interno, improvvisamente) Pussi! (Ar­mando rimane un po' fermo, tra il preoccupato e divertito. Alda, e. s., più forte) Pussi!

Armando                       - (con le massime precauzioni va verso la prima porta di destra per uscire; ma la trova chiusa a chiave, così come l'ha lasciata Gianni. Va segni di divertito disappunto).

Alda                              - (che nel frattempo si è alzata, si affaccia con la testa nell'apertura della tenda) Ma dove sei, Pussi? (Armando è fermo sui gradini, celato allo sguardo di Alda dalla rientranza della parete e non sa, evidentemente, che cosa fare. Alda non lo vede appunto per la rientranza della parete presso la porta) Perché non mi rispondi, Pussi? Puoi anche guardare, sai. Sono coperta dalla tenda. Nel bagno andrò più tardi. Del resto, ora non mi vergogno più. O forse ti sei offeso perché ho dormito troppo? Te l'avevo detto, no, che avrei dormito tanto. Se non dormissi, mi sentirei seccata, spezzata, istupidita. Dammi la tua vestaglia, per fa­vore. La prossima volta me ne porterò una io. Dov'è la tua vestaglia? (Entra nell'alcova, evidentemente per cercare la vestaglia. Poi, dall'interno, senza mo­strarsi) Sarà nel bagno. Me la dai?

Armando                       - (dopo aver spiato per accertarsi di non es­sere visto, attraversa rapidamente la scena, va nel bagno, prende la vestaglia e con molta cautela, di­vertendosi, la butta nell'alcova. Si nasconde nel bagno).

Alda                              - (afferra a volo la vestaglia e se la infila stando fra i teli scostati della tenda; poi entra nel salotto e parla ad Armando ch'è rimasto nel bagno) Che ore sono, Pussi? (Guarda lei stessa l'orologio ch'è su un mobile) Quasi le sette? Che dormigliona, però! Ma ti debbo confidare, anche a costo di farti insuper­bire, che non ho mai dormito così bene come oggi. (Accende la radio, che suonerà sommessa per tutta la scena. Siede sul divano contro l'alta spalliera. Una pausa) Una sigaretta, Pussi. (Armando senza mo­strarsi, dall'interno, le butta un portasigarette e un accendisigaro. Adda dopo averli raccolti) Mi pare di ricordare che sei stato - come dire? - impe­tuosissimo. Non avrei immaginato di abituarmi a te così presto. Mi sembra di essere tua mo­glie. Anche qui dentro, adesso, mi pare di esserci sempre stata. Ma che fai nel bagno, Pussi? Non eri già vestito? Curioso che non ricordo, adesso, se eri vestito o no. (Ride) Quando mi sveglio sono sempre un poco intontita. Mi si confondono le idee. Non di­stinguo più il sogno dalla realtà. Così è, se ti pare. Bontempelli, no?

Armando                       - (dall'interno, senza mostrarsi) Piran­dello.

Alda                              - Ah, già. Anche gli autori confondo', quando mi sveglio. Pirandello, quello dell'« Amleto». Esse­re o non essere. Mio marito me ne parlava sempre. Colto; ma noioso. Me ne sono divisa perché era no­ioso, non per altro. Quasi non mi lasciava aprire bocca. Voleva parlare sempre lui. Se anche tu ti di­videssi da tua moglie, potremmo tentare di sposarci. Vero è che da noi non c'è il divorzio. Si do­vrebbe andare a San Marino o in Ungheria. Come mi chiamerei, maritata con te? Signora...? Ma sai che in questo momento non ricordo bene nemmeno il tuo nome? Come ti chiami, Pussi?

Armando                       - (c. s.) Pussi.

Alda                              - Carino. Il nome che t'ho messo io. Non è vero che fosse del mio cane. Era del mio primo amore. Avevo sedici anni. Non ti piace che per chiamarti ti abbia dato il nome del mio primo' amore?

Armando                       - (c. s.) Potrei esserne geloso.

Alda                              - Come hai detto? Vieni qui, avvicinati.

Armando                       - (affacciandosi con cautela) Ho detto che potrei essere geloso del tuo primo amore.

Alda                              - (senza voltarsi a guardarlo) Rassicurati. E' morto. Ma ti somigliava anche fisicamente.

Armando                       - (si avvicina fermandosi alle spalle di lei) Ah, com'era?

Alda                              - (facendo l'atto di voltarsi per guardarlo) Come te...

Armando                       - (sfuggendo, con un rapido movimento, allo sguardo di lei) Descrivilo a memoria.

Alda                              - (senza più guardare) Se ti dico che era come te! Due gocce d'acqua. Gli stessi capelli, gli stessi occhi.

Armando                       - Ti credo.

Alda                              - In fondo è vero che il primo amore non si scorda mai e che noi amiamo sempre la stessa per­sona, quella che ci colpì per prima. Forse anche per questo non avrei potuto vivere a lungo con mio marito. Con te, invece, potrei vivere fino alla morte. Sei il mio tipo. Meglio ancora: sei il mio ideale. Vorrei essere il tuo ideale pure io.

Armando                       - Lo sei. '

Alda                              - Come mi fa bene sentirti parlare! Te l'ho I detto, mi pare, che la tua voce mi entra nelle vene, mi scorre nelle vene come sangue. (Una pausa) Non te l’ho detto? (Un’altra pausa) Be, se non te l’ho detto ancora, te lo dico adesso. La tua voce è di colore bruno: una musica tenuta su toni bassi, notturni…. Adesso la conosco anche nei toni dell’amore, nei toni intimi. Bellissima. Chi sa che pagherei perché tua moglie non esistesse…..

Armando                       - Potrei ucciderla...

Alda                              - (ride) Ah, ah! Ucciderla (Ci ripensa) Saresti capace di farlo? (Una pausa) Pensa che prova di amore è uccidere una donna per un'altra donna!

Armando                       - Prova d'amore verso la donna uccisa?

Alda                              - (ride) No! (Ci ripensa) Del resto, perché no? Non si uccidono mica le persone che non ci interessano... Me, mi uccideresti?

Armando                       - Se tu mi tradissi, si.

Alda                              - Allora morirò nel mio letto, di morte na­turale, a cent'anni. Già, sono fedele per natura. Con te, poi, mi sento fedele anche per amore. (Una pausa) Comunque, per uccidere tua moglie, biso­gnerebbe che lei ti tradisse, vero?

Armando                       - Mi piace che tu incominci ad affe­zionarti all'idea...

Alda                              - (ride) Ma no! Che cosa ti viene in mente? (Una pausa). Certo, preferirei che tua moglie non esistesse... Non è lei, forse, il più forte ostacolo alla nostra felicità? Ma da questo a ucciderla! Bisognerebbe poterne affrettare la morte, ecco. Non è ma­lata? Non si ammala mai?

Armando                       - Fino a questo punto mi ami già!

Alda                              - Certo. Sono tua da meno di due ore, e ti amo come se tua fossi addirittura nata.

Armando                       - (cernie fra se) Ah, ecco, soltanto da due ore.

Alda                              - E che cosa contano le ore che precedet­tero, i giorni che precedettero?

Armando                       - Niente, niente.

Alda                              - Ci vedevamo poco, di sfuggita, male. Come se non ci vedessimo.

Armando                       - Giusto.

Alda                              - Ormai ti amo fino al punto che potrei accettare da te qualunque cosa.

Armando                       - Cioè?

Alda                              - Non ti ricordi che impressione mi faceva il solo pensiero che tu volessi regalarmi una ca­micia da notte? (Una pausa) Ti ricordi, sì o no?

Armando                       - Sì.

Alda                              - Mi pareva di vendermi, capisci? Anzi, peggio: mi pareva che tu volessi comprarmi. E invece adesso considero talmente mio tutto quello ch'è tuo, e io stessa mi sento talmente tua, che... Non credere che con questo io ti stia chiedendo regali! Ci mancherebbe altro.

Armando                       - (ormai stando al gioco e preso nel gioco lui stesso) Che regali gradiresti? Dimmi.

Alda                              - Non lo so.

Armando                       - Vuoi che ti aiuti?

Alda                              - Aiutami.

Armando                       - Un diadema con brillanti? Una pel­liccia di visone? Una Crysler?

Alda                              - (meravigliata, perplessa) Troppo!

Armando                       - Nulla è troppo, paragonato a quello che tu meriti.

Alda                              - Tanto ti sono piaciuta?

Armando                       - Tanto, e anche di più.

Alda                              - E tu sei tanto ricco da...?

Armando                       - Lo sono. Ma, anche se non lo fossi, potrei diventarlo.

Alda                              - E come?

Armando                       - Ci sono tanti modi. Tutti difficili e crudeli. Me nessuno di essi mi spaventerebbe.

Alda                              - Nemmeno la rapina? Nemmeno l'omi­cidio?

Armando                       - Nemmeno.

Alda                              - Allora io avrei raggiunto il colmo della felicità?

Armando                       - Se il colmo della felicità per una donna è questo, tu l'hai raggiunto.

Alda                              - Così, improvvisamente, per averti incon­trato, per averti seguito fino a questa casa segreta?

Armando                       - Sì.

Alda                              - Ah, Pussi. Se tutto questo fosse vero!

Armando                       - E perché non dovrebbe essere vero?

Alda                              - Lascia che chiuda gli occhi, che ci pensi come a una cosa vera. (Si copre gli occhi con le mani) Ripetimi che è vero.

Armando                       - (con voce bassa, calda) E' vero, è vero.

Alda                              - E' vero che tu puoi darmi, e mi daresti, un diadema, una pelliccia, una macchina?

Armando                       - E' vero. E anche una villa, se vuoi.

Alda                              - (tenendo le mani sugli occhi) Sapessi quanto l'ho aspettato, quanto l'ho sognato. L'ho sognato dormendo, l'ho sognato vegliando.

Armando                       - Qualunque sogno, quando sia forte, può diventare realtà.

Alda                              - E tu saresti disposto a far diventare realtà il mio sogno anche se io... anche se io...

Armando                       - Parla, parla, non aver paura.

Alda                              - ...anche se io ti avessi mentito in qualche cosa?

Armando                       - Poco fa, in quell'alcova, quando eri nelle mie braccia, mi hai mentito?

Alda                              - No, no, allora no, certo.

Armando                       - Ebbene, è quello che conta. Il resto non ha importanza. Tu puoi aver marito e non averne, essere al tuo primo amante o al decimo, avermi detto cento piccole bugie o cento mezze ve­rità, a me basterebbe che tu fossi stata sincera in quel momento.

Alda                              - Sì, sì, certo. In quel momento sì.

Armando                       - Vuoi dire che in quel momento mi hai amato profondamente?

Alda                              - Profondissimamente.

Armando                       - Hai amato me, solo me, non altri che me; e se al posto mio ci fosse stato un altro, tu non lo avresti amato o per lo meno non lo avresti amato quanto me? (Una pausa) Non rispondi. Bada che la condizione della tua felicità è appunto questa; e tu non puoi mentire senza perdere tutto quello che t'ho promesso. Pensaci bene.

Alda                              - Sì, sì, ci penso. Lasciami pensare. (Ha sem­pre le mani sul volto, e adesso le appoggia, con il volto dentro, sulle proprie ginocchia. Il rumore della prima porta di destra che si apre coglie Armando alla sprovvista. Egli dopo una brevissima esitazione va a chiudersi dentro lo sgabuzzino al quale con­duce la prima porta di sinistra. Subito dopo dalla prima porta di destra entra Gianni, che riaccende tutta la luce).

Gianni                           - Mi sono sbrigato prima di quanto po­tessi immaginare. Ero in pensiero per te. Hai dor­mito bene?

Alda                              - (alza la testa disorientata, guarda Gianni, si passa una mano sulla fronte come chi si sforzi di ricordare e di capire) Come hai detto?

Gianni                           - Dovevo accompagnare dalla pellicciaia mia moglie. Ma per fortuna il negozio era già chiuso; ecco perché...

Alda                              - Oddio, che cosa succede? Mi sembra di non riconoscere la tua voce. Non eri con me, qui? Non hai parlato con me fino a un minuto fa? (Guarda intorno come per cercare qualcuno).

Gianni                           - Ma scusa: la contessa non ti ha spiegato?

Alda                              - La contessa?

Gianni                           - Non hai trovato la contessa quando ti sei svegliata?

Alda                              - Ma a me pareva di aver trovato te. Te, con... Oddio, mi pare, non so, con... con., una voce un po' diversa...

Gianni                           - (la guarda) Andiamo, Alda. Che storie son codeste? Io, la voce... Che voce? Come potevi trovarmi, se io ero uscito? Non avrei voluto la­sciarti; ma sai...

Alda                              - E mi hai lasciata sola mentre dormivo?

Gianni                           - Mi era impossibile fare diversamente, capisci?

Alda                              - Terribile, terribile. (Si alza, si muove per la stanza come una pazza) Io e te, dunque, non siamo stati insieme qui, finora? Non abbiamo parlato di sogni, di felicità, di doni, di amore? Non sei tu che mi hai buttato questa vestaglia? Non sei tu che mi hai buttato le sigarette? Eccole qua, le si­garette, in questo portasigarette. E' il portasiga­rette tuo, no?

Gianni                           - (dopo aver guardato il portasigarette) Ma no, io non uso portasigarette.

Alda                              - (guarda Gianni, gli si avvicina, lo tocca) Pussi!

Gianni                           - Mi pare giunto il momento di dirti che codesto nome, Pussi, non mi piace affatto. Sarà stato di un cane bellissimo, e amatissimo; ma a me, come nome mio, per me, non piace.

Alda                              - (stordita, non raccapezzandosi più) Sì, sì, hai ragione. Non ti chiamerò più Pussi. Ti chiamerò col tuo nome, col tuo bel nome...

Gianni                           - Gianni! (Va a smorzare la radio).

Alda                              - Ecco, sì, Gianni. Ti chiamerò Gianni.

Gianni                           - Poi bisogna che ti rassegni a dormire sola, a svegliarti da sola, a andartene sola, se pro­prio non puoi fare a meno di dormire.

Alda                              - Lo farò, lo farò.

Gianni                           - Il mio ufficio e la mia casa non mi con­sentono assenze lunghe, capisci?

Alda                              - Capisco.

Gianni                           - E' doloroso che i nostri rapporti debbano essere subordinati alle esigenze del mio ufficio e della mia casa; ma io non sono un ricco signore...

Alda                              - Ecco, ecco, non sei un ricco signore.

Gianni                           - (la guarda) Perché? Ti avevo forse la­sciato intendere che io...?

Alda                              - No, no, no. Tu no.

Gianni                           - Sto bene, sì, posso vivere e vivo con una certa larghezza; ma non è una larghezza che mi consenta di rallentare il ritmo del mio lavoro. D'altra parte, ho moglie, tu lo sai, non te l'ho na­scosto né taciuto; e non mi sento di mortificare mia moglie o di trascurarla, anche dopo averla tradita.

Alda                              - Appunto-, appunto. Non la uccideresti.

Gianni                           - E che sono? Graziosi o Loverso? Tu mi piaci, io ti amo, ho cercato una casa dove incon­trarti, sopporterò i turbamenti e gli inconvenienti di questi incontri clandestini; ma per te non ucci­derei né mia moglie né nessuno. Da quando in qua il prezzo dell'amore sarebbe il sangue altrui? E oltre il sangue altrui, la propria libertà?

Alda                              - Giustissimo, Pussi.. Cioè Giovanni... Vo­glio dire Gianni.

Gianni                           - Be', adesso vestiti, e andiamo.

Alda                              - (come un automa) Sì, mi vesto e andiamo.

Gianni                           - Mi aspetterai un poco al caffè ch'è sotto il mio ufficio; e alle otto andremo a pranzo insieme. Ti fa piacere?

Alda                              - (c. s.) Certo.

Gianni                           - Sono riuscito a ottenere il permesso di mia moglie, capisci? Povera figlia, s'è bevute tutte le mie frottole. E' curioso che noi ammogliati vor­remmo essere costantemente infedeli a mogli che ci fossero costantemente fedeli. Tu meriti ammi­razione perché sei stata leale. Invece di tradire tuo marito, ti sei separata da lui. Che hai? Sembri sto­nata, imbambolata, fuori del mondo. Perché non vai a vestirti?

Alda                              - (c. s.) Vado, vado.

Gianni                           - Hai forse dormito male? Sei arrabbiata

. con me?

Alda                              - No, no vado a vestirmi. (E si avvia verso il bagno, come un automa).

Gianni                           - Anzi, no, aspetta. Un'idea. Pranziamo qui, soli soli. Ti va?

Alda                              - Come vuoi.

Gianni                           - Ci faremo servire il pranzo da un risto­rante vicino; o dalla contessa, se può.

Alda                              - Sì, sì.

Gianni                           - Mi pare meglio. A tavola ci si conosce meglio che a letto. Io sono libero fino a mezza­notte, anche fino all'una. Un pranzettino intimo, e magari, dopo, un altro sonnellino... (Ride con ma­lizia) A patto, naturalmente, che tu non dorma oltre l'una. In questo caso dovrei lasciarti. Anzi, facciamo l'ipotesi che io debba lasciarti prima che ti svegli. Che succede? Io ti lascio qui, a dormire qui tutta la notte magari; e domani alle cinque del pomeriggio... Non ti piace questo programma? (Alda si sente venir meno, cade a sedere) Ma che cosa hai, Alda? Ti senti male?

 Alda                             - No, no, forse è l'emozione.

Gianni                           - L'emozione di questa nostra prima notte di nozze, di questo quarto di luna di miele?

Alda                              - Ecco, sì.

Gianni                           - (la bacia in fronte) Bella! Gioia! Sembri veramente una sposina in luna di miele. E' un'e­mozione che ti si addice, che ti dona. Mi sento im­provvisamente rinascere, mi pare di essere un altro. E te ne dò subito la prova: chiamami Pussi, se vuoi. Chiamami come ti pare.

Alda                              - (uscendo un po' alla volta dal suo intonti­mento) Allora non ti dispiace più che ti chiami Pussi?

Gianni                           - No, non mi dispiace. Anzi! Pussi per te, per te sola. Gianni per tutti gli altri, per tutta la gente che non m'interessa; e per te Pussi.

Alda                              - (come per provare se finora non abbia so­gnato) E non ti dispiace nemmeno che Pussi non fosse il nome del mio cane?

Gianni                           - Che me ne importa?

Alda                              - Non te l'ho detto, poco fa, che Pussi era il nome del mio primo amore?

Gianni                           - Meglio, meglio. Il primo amore non si scorda mai; anzi ritorna, si rinnova. E' come se il 'tuo primo amore fossi io.

Alda                              - E se finora ti avessi detto qualche altra piccola bugia, non ti dispiacerebbe?

Gianni                           - Ma neanche per sogno! Finora siamo stati come due fidanzati. Da fidanzati ci si dicono tante bugie. L'essenziale è di non dirsene da sposi. Adesso siamo sposati, siamo in viaggio di nozze, ci hanno dato questa camera d'albergo...

Alda                              - E... a tua moglie non pensi?

Gianni                           - Sei tu mia moglie, no?

Alda                              - E... quell'altra?

Gianni                           - Non c'è, è morta, l'ho uccisa. Il veleno nella siringa, un colpo di rivoltella. Tà, tà, l'ho uc­cisa. Non volevi che l'uccidessi?

Alda                              - Insomma, tu faresti ora per me qualunque cosa?

Gianni                           - Qualunque cosa.

Alda                              - Io potrei chiederti tutto?

Gianni                           - Tutto.

Alda                              - Un diadema...?

Gianni                           - (istintivamente sorpreso) Un diadema? (E poi subito) Ma sì, anche un diadema. Un dia­dema, una macchina americana, una pelliccia, una villa al mare, quello che vuoi.

Alda                              - E sei abbastanza ricco per...?

Gianni                           - Rothsehild, l'Aga Khan, Creso. Se non lo sono ancora, lo sarò. Che cosa ci vuole a esserlo? Intanto si può essere qualunque cosa con la fan­tasia. Alda, amore mio, abbandoniamoci questa sera alla nostra fantasia...

Alda                              - Sì, Pussi. Alla nostra fantasia.

Gianni                           - Una fantasia, naturalmente, che non si allontani tutta dalla realtà. Io incomincio ad aver paura. Tu no?

Alda                              - Non lo so. Mi sento un poco scombus­solata.

Gianni                           - Anch'io, fino a poco fa, mi sentivo scombussolato: non ti so dire come e perché. Ho l'impressione che siano state quelle maledette pa­sticche della contessa.

Alda                              - Le avevi prese?

Gianni                           - Sì, una. Ma mi sentivo male, ero in­quieto, nervoso, emozionato. Il nostro primo con­vegno è stato troppo accidentato. Poi la fretta, il pericolo di far tardi... Tu, magari, non te ne sei accorta; ma per me tutto è accaduto come sotto una sferzata, una scudisciata: violenta e sgradevole. Sta­sera sarò un altro. Il mio stesso umore è già un altro. Poco fa, con te, debbo essermi comportato perfino male, come un maleducato'. Tu stessa mi apparivi stordita, fuori tono, un'altra. Debbo aver sentito male o capito male perfino le tue parole...

Alda                              - (cercando di orientarsi) Ma... quel porta­sigarette di chi è?

Gianni                           - Quale portasigarette?

Alda                              - Eccolo: questo. M'hai detto che non è tuo.

Gianni                           - Infatti.

Alda                              - E come si trova qua?

Gianni                           - Non so. Potrebbe essere di quello che abitava qui prima di me. Anzi deve aver lasciato o perduto qui dentro anche qualche altra cosa, sai. Poco fa, la contessa mi diceva appunto che...

Alda                              - Pensa, Pussi, che ho avuto l'impressione che qualcuno me l'abbia buttato addosso dal bagno.

Gianni                           - Che cosa?

Alda                              - Questo portasigarette.

Gianni                           - Ma andiamo! (Poi, nel dubbio, va fino alla -porta di sinistra, sì accorge di aver sbagliato' prima di aprirla, va a quella del bagno, guarda dentro) Per carità!

Alda                              - E' vero che io mi sveglio sempre un poco intontita, che debbo aspettare molto prima di orien­tarmi; ma ti assicuro che questa volta io... (Si ferma; ci pensa) Spero di non essere sonnambula, epilet­tica...

Gianni                           - Ma che sonnambula! Che epilettica! Vatti a vestire. Intanto io parlo con la contessa. Speriamo che possa provvedere lei al nostro pran­zo... nuziale. Quando ti sarai vestita, scenderemo giù un momento a prendere un aperitivo. Ne ap­profitteremo anche per comprare un po' di botti­glie per il bar. Poi torneremo su per mangiare. (Va a suonare il campanello eh! è vicino alla seconda di destra) Fa' presto, Alda. Non perdiamo più tempo.

Alda                              - Vado. (Esce per la seconda porta di sinistra. Poco dopo dalla seconda porta di destra entra la contessa).

La Contessa                  - (vedendo Gianni) Ah, è tornato?

Gianni                           - Sì. Ho fatto presto.

La Contessa                  - E... la signora., dorme ancora?

Gianni                           - No, no. E' nel bagno, si sta vestendo.

La Contessa                  - E... lei ha chiamato... Perché ha chiamato?

Gianni                           - Ecco: contessa. La signora e io avremmo pensato di pranzare qui stasera.

La Contessa                  - Qui?

Gianni                           - Sì, qui, in casa. Non è mai accaduto?

La Contessa                  - Tante volte.

Gianni                           - Allora lei è in grado di farci servire un pranzo per due alle otto, otto e mezza...

La Contessa                  - Sì, certo-. Posso1 ordinarlo da « Gennarino » e farlo portare qui attraverso il mio appartamento.

Gianni                           - Molto bene. E' un buon ristorante « Gennarino »?

La Contessa                  - Ottimo.

Gianni                           - Vogliamo preparare insieme il « menu » o ci pensa lei?

La Contessa                  - Come vuole.

Gianni                           - Immagini un pranzo... da viaggia di nozze, ecco. Anzi un pranzo nuziale.

La Contessa                  - Capisco.

Gianni                           - Io penso solo ai liquori. A tutto il resto, anche allo «champagne», al caffè, pensi lei.

La Contessa                  - Va bene.

Gianni                           - (facendo l'atto di prendere il denaro) Per ora le dò...

La Contessa                  - Non occorre. Dopo.

Gianni                           - Io, intanto, scendo un poco giù con la signora a prendere un aperitivo.

La Contessa                  - Così io ne approfitto per far met­tere in ordine... (allude all'alcova) e anche per far preparare la tavola.

Gianni t                         - Molto bene. Grazie. (Guarda le pa­sticche, le prende, le dà alla contessa) Queste sono le sue pasticche.

La Contessa                  - Non le occorrono più?

Gianni                           - No, no, no. Credo, anzi, che non mi facciano bene.

La Contessa                  - Strano.

Gianni                           - Meglio non prenderle.

La Contessa                  - Io mi preoccupo che i miei in­quilini...

Gianni                           - Pensiero gentilissimo, certo. Ma ci sono inquilini e inquilini...

La Contessa                  - Quello che c'era prima di lei...

Gianni                           - A proposito: questo portasigarette non è suo, per caso?

La Contessa                  - Di chi?

Gianni                           - Di quello che ci stava prima.

La Contessa                  - Non so. L'ha trovato qui?

Gianni                           - Sì, era qui. Pensi che la mia amica aveva avuto l'impressione che glie lo avessero buttato ad­dosso...

La Contessa                  - Ah!

Gianni                           - E quell'amuleto, lo ha ritrovato?

La Contessa                  - Io no.

Gianni                           - Faccia cercare meglio, adesso che rimet­tono in ordine.

La Contessa                  - Naturalmente.

Gianni                           - Io non sono superstizioso; ma so che gli amuleti altrui non mi giovano. E' bene che ognuno usi gli amuleti suoi.

La Contessa                  - Giusto.

Gianni                           - Anche il portasigarette, lo tenga lei. Se è dell'altro, glielo darà.

La Contessa                  - Come vuole.

Gianni                           - Incomincio ad abituarmi alla sua casa. Mi piace.

La Contessa                  - Tutti ci si sono trovati bene.

Gianni                           - La mia amica ci si sente ancora un .poco imbarazzata. Ma sa: è la prima volta che lei...

La Contessa                  - Capisco.

Gianni                           - Anche io la prima volta, per la verità...

La Contessa                  - (con un sospiro profondo) Beata gioventù!

Gianni                           - ...ma per un uomo, lei capisce, è un'al­tra cosa.

La Contessa                  - Certo.

Gianni                           - Un uomo ha altre abitudini, altre ri­sorse... (Poi guardando verso il bagno con impa­zienza) Ma quando si sbriga? Alda!

Alda                              - (dall'interno) i Eccomi, Pussi. Sono pronta.

Gianni                           - (alla contessa) Mi chiama Pussi...

La Contessa                  - Molto carino.

Alda                              - (entra; è già vestita) Andiamo?

Gianni                           - Andiamo, cara. Questa è la contessa Di Brema, la padrona di casa.

Alda                              - (con un lieve inchino) Piacere.

La Contessa                  - i Piacere mio.

Gianni                           - (ad Alda) Penserà a tutto la contessa per questa sera.

Alda                              - Ah, grazie.

Gianni                           - Vuoi dirle se c'è qualche cosa che tu preferisca?

Alda                              - Per me va tutto bene.

Gianni                           - (alla contessa) Possiamo tornare fra mez­z'ora?

La Contessa                  - Meglio fra un'ora.

Alda                              - Sì, fra un'ora. Così ne approfitto per an­dare a cambiarmi.

Gianni                           - Ottima idea. Andrò a cambiarmi anch'io. Serata «chic». «A la guerre comme à la guerre». (Gianni e Alda escono per la prima porta di destra. La contessa, seguendo con lo sguardo, sospira profondamente. Dopo qualche secondo, dalla prima porta di sinistra, s'affaccia cautamente Armando).

Armando                       - (sottovoce) Si può?

La Contessa                  - (sobbalzando per paura) Chi è?

Armando                       - Pensi che se non si decidevano a uscire io sarei rimasto in quello sgabuzzino fino a mezzanotte o all'una.

La Contessa                  - E che cosa faceva lei, in quello sgabuzzino?

Armando                       - Ah, niente. Ero lì, fermo, costretto ad ascoltare una scena d'amore. Lei sa il fastidio che danno le scene d'amore altrui. « Pussi! Gioia! Bel­la! ». Una bella scocciatura. Istruttiva, però.

La Contessa                  - (fissandolo con occhio indagatore) ; Ma... signor Capestrano! E se l'avessero sorpreso là dentro?

Armando                       - Erano tutt'e due in tali condizioni 1 che mi avrebbero scambiato per un fantasma. S'immagmi che ho parlato per un quarto d'ora con. la signora, e lei ha creduto di parlare non con me, ma con quell'altro.

La Contessa                  - Ah, ecco perché... (Gli dà il por­tasigarette).

Armando                       - C'è molta confusione, nella mente di I quella signora. Confusione di uomini, voglio dire. Non nego che a tratti è una confusione che ha del poetico, l'uomo considerato senza volto, strumento anonimo dell'amore per l'amore, Pussi « tour-court » per non sbagliare, ma non dev'essere divertente di­ventare amanti anonimi fino a questo punto. D'altra parte, chi sa quante volte è capitata a me la stessa cosa! Vorrei chiederle un favore, contessa.

La Contessa                  - Cioè?

Armando                       - Vorrei provvedere io, al pranzo di questi due giovani amanti.

La Contessa                  - Provvedere al pranzo?

Armando                       - Mica cucinarglielo. E nemmeno pa­garglielo. Non voglio avvelenare né loro né me.

La Contessa                  - E allora?

Armando                       - Glie lo dirò, se mi promette di accontentarmi.

La Contessa                  - Avanti, glielo prometto. Anche per non levarle il buon umore che finalmente le leggo sul viso.

Armando                       - Sono di buon umore, perché ho ri­trovato il mio amuleto.

La Contessa                  - Ha visto, dunque, che in casa mia non si perde niente?

Armando                       - Proprio niente, non direi.

La Contessa                  - E che cosa?

Armando                       - La testa, qualche volta.

La Contessa                  - Be', ma se non ci si perdesse al­meno la testa, come farei io a campare?

Armando                       - Giusto. Dunque, senta... (La prende sotto braccio e si avvia verso la porta di destra mo­strando di esporle il suo progetto).

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

(La stessa scena degli atti precedenti. Fra il secondo e il terzo atto è passata quasi un'ora. Quando si alza la tela, in scena è stato portato un tavolo che ser­virà più tardi per il pranzo).

La Contessa                  - (entra dalla seconda porta di destra precedendo Gennarino) Come al solito, il pranzo dev'essere servito qua dentro. Ho fatto levare il di­vano e ho fatto portare questo tavolo.

Gennarino                     - (andando verso il telefono e parlando con accento napoletano) Faccio portare subito l'occorrente per l'imbandigione.

La Contessa                  - Tutta roba di lusso, mi racco­mando.

Gennarino                     - Tovagliato di lino ricamato a mano, argenteria e cristalleria delle grandi occasioni.

La Contessa                  - Come se si trattasse di un pranzo di nozze.

Gennarino                     - Signò, e qua solo nozze si fanno. Ho visto più nozze qua dentro che nel gabinetto del Sindaco.

La Contessa                  - Ha visto! Lo dice come se avesse veramente assistito a...

Gennarino                     - Be', ma neanche il sindaco assiste a... Avvia. Instrada. « Per me siete già marito e moglie: ma' fate voi». (E' già al telefono, forma un numero) Pronto?... Neh, Marie, io sto 'ncoppa... Come, 'ncoppa dove? 'Ncoppa 'a signora contessa, voglio dire 'ncoppa 'a casa della signora contessa. Dove altro potrei essere 'ncoppa? (Poi alla contessa) Quella, Mariella, è sempre come se fosse arrivata ieri. Non ha capito ancora bene. (Poi di nuovo al telefono) Hai capito bene, adesso, dove sono?... Eh, proprio là: dove quella sera arrivò quel marito con la polizia e trovò la mogliera sul fatto... (Poi alla contessa) S'è ricordata di quell'episodio increscioso...

La Contessa                  - Ma che bisogno c'è, adesso, di parlarne?

Gennarino                     - (al telefono) Va buono, va buono, l'essenziale è che hai capito dove sto. Devi venire qua immediatamente e devi portare tovaglia, tova­glioli, posate d'argento, bicchieri di cristallo, piatti finissimi per due. Per due ma come se fosse per sei, anzi per otto, ecco: molte posate e molti piatti... (Poi alla contessa) Magari poi quelli non mangiano niente, emozionati come sono; oppure si tengono leggeri per prudenza... ma - come si dice - è sem­pre « melius abundare quam deficere »: dare l'idea dell'abbondanza, della ricchezza. Può pagare, que­sto signore?

La Contessa                  - Ma sì.

Gennarino                     - (al telefono) La meglio roba, Marie. Portala tu stessa con le mani tue. (Chiude il tele­fono; poi alla contessa) Io ho domandato se può pagare, nell'interesse suo, signò, non nell'interesse mio. In queste «garconnières » adesso corrono' certi morti di fame, che non so nemmeno chi gli dà la forza di coniugarsi. Lei è fortunata, o pure sa fare gli affari suoi: ma una volta a Napoli ho servito donna Amalia 'a Tarantina che affittava pure lei appartamentini come i suoi, e sa che le facevano a quella poveretta? Entravano, mangiavano, beve­vano, facevano tutte cose, e poi nel cuore della notte se ne fujevano insalutate ospite. Certe volte se ne fujeva solamente l'uomo e lasciava la donna addor­mentata, perché ci sono donne che l'amore le fa venire la sonnolenza. Quella, la povera donna Ama­lia, che poteva fare? Non poteva nemmeno reclamare perché, se no, le chiudevano gli appartamenti...

La Contessa                  - Gennarino! Ma è proprio neces­saria questa ricapitolazione ogni volta che ci ve­diamo?

Gennarino                     - Signò, lei è mia socia al ristorante. A chi le debbo dire queste cose se non a lei? Socio degli appartamenti a me non mi vuole, forse perché ha paura che poi guadagno troppo; e allora agl'in­teressi miei chi ci pensa, se non ci penso io?

La Contessa                  - Finora con me non ha perduto niente.

Gennarino                     - Cioè, niente! Niente per modo di dire. Per i pranzi che si fanno qua dentro, lei al ristorante non versa mai tutto quello che incassa. Certe volte nemmeno la metà.

La Contessa                  - Pago ai prezzi della lista.

Gennarino                     - E le sembra giusto?

La Contessa                  - Le mance, le lascio tutte.

Gennarino                     - E quelle vanno al personale, non vengono a me.

La Contessa                  - Non so, se vanno tutte al per­sonale!

Gennarino                     - Signò; lei che dice? Oggi ci stanno i sindacati. A momenti ai sindacati non sfugge nemmeno l'amore. Un giorno o l'altro i sindacati vengono a vedere pure qua dentro quello che si fa e quello che non si fa: lei crede che un ingresso libero è libero o indipendente veramente? Libero di fronte alla padrona di casa che uno ci porta chi vuole; ma non libero libero: libero in modo assoluto. Come si può dire libero un posto dove la polizia entra quando le pare e piace? L'ha presente quella sera che si ricordava Mariella poco fa?

La Contessa                  - Ma la smetta, di parlare sempre della stessa cosa!

Gennarino                     - Io non parlo a vanvera, signò! La polizia proprio nel ristorante nostro si mette, per sorvegliare quello che succede qua dentro: chi entra, chi esce, specialmente le signore, che poi tante volte sono signore per modo di dire. « Oh, se mi vedesse mio marito! Oh, se lo sapesse il mio fidanzato! ». Qua' marito, qua' fidanzato, signò! quattro quinti stanno nei registri della questura. Solo quegl'imbecilli che sono gli uomini si illudono di cogliere frutti proibiti.

La Contessa                  - Be', ma a lei, di tutto questo, che cosa glie ne importa?

Gennarino                     - Gesù! Che me ne importa! E se va male per lei, non va male pure per me, signò? Noi saremo soci di tavola e non di letto, diciamo così; ma sempre soci siamo.

La. Contessa                 - Il ristorante non corre nessun pe­ricolo. Il resto riguarda me sola, e io so come ca­varmela.

Gennarino                     - Faccio tanto di cappello alla sua abilità, signò; ma io parlo anche il bene suo. Il mondo è malamente. La gente vuol fare a sbafo qualunque cosa: pure l'amore. Che poi non ha nemmeno tutti i torti. (Sulla soglia della seconda porta di destra appare Mariella} la quale porta un cesto che contiene l’occorrente per imbandire la tavola).

Mariella                         - Permesso?

La Contessa                  - Venga, venga. E faccia presto, Gennarino. Fra poco i signori saranno qui.

Gennarino                     - Un lampo, signò. La tavola la te-niamo al centro?

La Contessa                  - Dove vuole. Purché si sbrighi. Poi passi da me. (Esce per la seconda porta di destra).

Gennarino                     - (a Mariella) Appoggia là (allude al cesto) e aiutami a prendere la tavola.

Mariella                         - (mette il cesto dove Gennarino le ha indicato e aiuta a spostare la tavola) Che ver­gogna e che paura quella volta! Io stavo sparec­chiando. Bussarono: bù, bù, bù. Vado ad aprire e quattro uomini entrano come bolidi senza chiedere permesso. Uno domanda a un altro: « E' questa la sua signora? ». Indicava me. « Io sono zitella » dissi. « Sì, va be'... » fa quello. Non ci credeva.

Gennarino                     - E tu lo eri?

Mariella                         - Non lo so.

Gennarino                     - Ah!

Mariella                         - Dicono che certe volte una crede di esserlo e non lo è. Certo, marito non ne avevo.

Gennarino                     - E adesso ne hai? (Fa l'atto di affer­rarla).

Mariella                         - (sfuggendo) Quella sì che lo aveva. I quattro uomini si precipitano là dentro, in quell'alcova. Che spavento! C'erano un uomo e una donna e io non ne sapevo niente. « Ecco, ecco, gridò quello di prima, è questa mia moglie». La volevano arrestare mezza nuda come si trovava. Lei strillava come un'aquila: « Sto facendo lezioni di ginnastica con il mio professore.

Gennarino                     - Ginnastica da camera.

Mariella                         - Accorse la contessa. « Chi ha aper­to? » mi domandò. «Io». «Ti caverei gli occhi». Che spavento!

Gennarino                     - Ecco. La tavola qua sta bene. Qua vicino prepariamo un piccolo buffet. (Esegue, aiu­tato da Mariella; e tutto il resto del colloquio avverrà durante la preparazione della tavola e del buffet).

Mariella                         - Adesso mi sento un poco emozionata quando entro qui.

Gennarino                     - Così dicono tutte. Poi l'emozione la lasciano dentro il bagno, appesa con la biancheria.

Mariella                         - Ma io ci vengo per servire, mica per...

Gennarino                     - Embè, non ci vengono tutte per servire? Chi serve in un modo e chi serve in un altro.

Mariella                         - Signor Gennarino! Lei dice sempre le cose con una brutalità...

Gennarino                     - Dico pane al pane e vino al vino. Solo una volta, ai tempi di Pappaeoda, le signore dicevano: «Mi batte il cuore, mi viene meno il cuore... ». Quale cuore, signò?

Mariella                         - Già, perché, secondo lei, il cuore non c'entra mai...

Gennarino                     - Sì, c'entra. Come non c'entra? Batte più forte, batte meno forte, si eccita, s'indebolisce... Ma come conseguenza, non come causa. Io, per esempio, guardo a te e mi piaci. Mi piaci perché si' 'na bella guagliona e vorrei essere io e te, al posto di questi due signori, a questa tavola e in questa casa. Sai che bella serata te faciarrìa passa! Ma il cuore mio è lontano mille miglia, pensa a 'na piccerella ohe non potei sposare tanti anni fa; e tu saresti il surrogato di quella piccerella nella mia immaginazione. 'E capite, Marie? Noi stiamo con una donna nelle braccia e un'altra nel cuore, o nella mente, o dove che sia.

Mariella                         - (con dispetto) Be', se state così voi uomini, ci stiamo anche noi donne!

Gennarino                     - Lo so, lo so. E tutti fetenti siamo: uomini e donne. Gl'« ingressi liberi » della contessa sono liberi solo per la fantasia. Per quella, sì. La fantasia c'entra, si muove, si agita, vola, e va da un posto all'altro, lontano, vicino, libera, lei sì, vera­mente libera, affidata alle sue stesse ali: 'na palomrna... (Si sente il rumore della prima porta che si apre).

Mariella                         - Sento rumore. Saranno i signori.

Gennarino                     - Eh, benvenuti. Stiamo lavorando per loro, no? (Entrano dalla prima porta di destra Alda e Gianni, tutt'è due elegantissimi, in abito da sera).

Gianni                           - (meravigliato) Che c'è?

Gennarino                     - Buona sera, signò. Sono il padrone del ristorante e questa guagliona mi aiuta. Abbiamo quasi finito ecco.

Alda                              - (che alla vista di Gennarino, si è subito vol­tata dall'altra parte per non farsi vedere) Pussi, mandali via.

Gianni                           - Per favore. Non abbiamo bisogno di altro, per ora.

Gennarino                     - Come vuole, signò. Noi attacchiamo l'asino dove dice il padrone.

Gianni                           - Preghi la contessa di venire qui.

Gennarino                     - Subito, signò. (E poi uscendo con Mariella) Quella ha paura di essere riconosciuta: 'e capito, Marie?

Mariella                         - E lei la conosce veramente?

Gennarino                     - Se non mi sbaglio, è una di quelle che... (Gennarino e Mariella sono già usciti, par­lando, per la seconda porta di destra).

Alda                              - Bisogna impedire che ci serva il pranzo quel tale. Temo che debba conoscere mio marito e forse anche me.

Gianni                           - Penso io, penso io. (Intanto entra la contessa) Non immaginavo, contessa, di trovare l'ap­partamento invaso...

La Contessa                  - Invaso? Ah, ma quel signore che era qui era Gennarino. L'ho fatto venire personal­mente perché tutto fosse preparato bene.

Gianni                           - Non vorrei che fosse lui a servirci a tavola...

La Contessa                  - No, no, no. Lui non serve mai.

Gianni                           - Bene. Allora faccia servire appena pronto.

La Contessa                  - Si, signor Monrò. (Esce per la se­conda porta di destra).

Gianni                           - (aiutando' Alda a levarsi il mantello) Del resto, non bisogna preoccuparsi di queste cose. La servitù non ha occhi e non ha orecchie. Guai se i camerieri dei ristoranti dovessero parlare!

Alda                              - Sì; lo so; ma...

Gianni                           - Sarebbe stato peggio se fossimo andati in un locale pubblico. Oltre tutto, non avremmo questa sensazione d'intimità... (Guarda intorno) Ca­rino, vero? Ti piace?

Alda                              - Mi piace perché ci sei tu.

Gianni                           - (ammirandola) Fammi vedere come sei elegante.

Alda                              - Oh, non lo sono affatto.

Gianni                           - Se sembri uscita da un figurino di Dior!

Alda                              - (vanitosa) Ti piaccio?

Gianni                           - Ti trovo incantevole. Sopratutto nuova. Una vera sposina. Io t'incontro adesso, vedi: ti vedo adesso per la prima volta. Il nostro fidanzamento è stato breve, anche un pochino tumultuoso. Ci siamo sposati quasi senza conoscerci. In treno c'era gente. Mal di capo, pasticche, qualche bacio rapido e poi il sonno. Hai dormito, ti sei svegliata fresca come una rosa. Da questo momento, finalmente, siamo marito e moglie.

Alda                              - Magari fosse vero, Pussi.

Gianni                           - In questo momento è vero.

Alda                              - Sono uscita di casa col batticuore, sai. Tutto quello ch'è accaduto finora, più che turbarmi, mi ha sconvolta.

Gianni                           - Sconvolta perché? Per la novità dell'av­ventura?

Alda                              - Anche per questo. Non mi era mai capitato prima d'ora. Ma soprattutto perché... - come spiegare questa mia impressione? - ...perché c'è come una lacuna nel mio ricordo delle ultime ore. Non riesco a ricostruire quello ch'è accaduto fra il mio risveglio e il tuo ritorno. Vedo un'ombra, sento una voce di­versa, ci sei tu e non ci sei tu, come accade qualche volta nel sogno.

Gianni                           - Hai sognato, è chiaro.

Alda                              - Sarà!

Gianni                           - Forse devi bere un poco, per ristabilire l'equilibrio. Vuoi un altro aperitivo?

Alda                              - Si, grazie.

Gianni                           - Non so se abbiano portato le bottiglie che ho ordinato. Comunque... (Va al campanello di destra, suona e ritorna presso Alda) Speriamo che la contessa abbia lei qualche cosa da farci bere. (Sulla seconda porta di destra appare Armando, che indossa una bella giacca bianca da cameriere ed è venuto per servire il pranzo).

Armando                       - Hanno chiamato, signori?

Alda                              - (nell'udire la voce di Armando) Oddio! (E cade quasi svenuta fra le braccia di Gianni che le è vicino).

Gianni                           - Ma che succede, Alda? (Poi ad Armando) Porti un aperitivo, per favore.

Armando                       - Sì, signore. (Esce per la destra).

Gianni                           - (accompagnando Alda a una poltrona) E' evidente che tu non stai bene. Che cosa ti senti? Dimmi. Vuoi che chiami un medico? Vado in far­macia a prenderti qualche cosa?

Alda                              - No, no, per ora no. Un lieve malessere. Passerà.

Gianni                           - Non vorrei che si aggravasse...

Alda                              - Ma no. E' già passato, vedi.

Gianni                           - Ti senti veramente meglio?

Alda                              - Sì, sì, benissimo.

Gianni                           - E' curioso che a me succede il contrario che a te. Io stavo male prima, e da un'ora invece mi sento un leone. Avessi visto con che disinvoltura sono andato a casa per cambiarmi. Pensa che il cambiamento d'abito non era in programma. Ebbene io sono entrato in casa tranquillissimo, ho fatto una breve commedia: « Sai, un'altra seccatura. A quel maledetto pranzo ufficiale bisogna andare in vestito da sera...». Avessi visto mia moglie, poverina, con che premura, con quanto affanno ha tirato fuori lo smoking, le scarpe, le calze, la camicia, m'ha aiutato a mettere i bottoni...

Alda                              - Perché ricordi tua moglie adesso?

Gianni                           - Hai ragione. Non bisogna ricordarla. Mia moglie sei tu. Tutt'al più io ero vedovo.

Alda                              - Se diventi vedovo, mi sposi?

Gianni                           - (con un sorriso falso e imbarazzato) Non avevo pensato a questa ipotesi. Vedovo. E già: ve­dovo. Se uccide la moglie o se la moglie muore di morte naturale, uno è vedovo. Si mette una cravatta nera e anche un nastro nero sul risvolto della giacca, e si può sposare un'altra volta. Avrei preferito che tu fossi la mia prima moglie, e io il tuo primo marito. I vedovi, è come se non fossero mai soli. No, no. Meglio che tuo marito sia vivo e mia moglie viva. C'è più gusto, non ti pare?

Alda                              - Allora questa non è la nostra notte nu­ziale? Se non è, non mi piace, Pussi. (Si è alzata) Tu sei un mentitore, mi dici un sacco di bugie. Forse ti vuoi vendicare delle piccole bugie che ho dette io. Ma io probabilmente le ho dette per farti piacere. Tu, invece, le dici per deludermi, per ama­reggiarmi, la serata.

Gianni                           - Ma Alda, amore mio, quali sarebbero le bugie? Io faccio delle ipotesi: quella di averti sposata, quella di essere con te in viaggio di nozze. Chiudo mentalmente gli occhi, guardo nel vuoto, e mi pare vero. Che altro occorre per la felicità, per quel tanto di felicità, che è concesso alle crea­ture umane?

Alda                              - E tutti i regali che mi hai promessi?

Gianni                           - Ci sono. Sono pronti. Un «collier»...

Alda                              - Un diadema.

Gianni                           - Un diadema, una pelliccia preziosa, una macchina americana, una villa sul mare. Tutto pronto. Domani sarà tutto 'tuo. Adesso pranziamo, dopo dormiamo, domani ci svegliamo, e tutto saia ai tuoi piedi. (Rientra Armando, che su un carrello porta una bottiglia di aperitivo e due bicchieri).

Armando                       - Ecco l'aperitivo, signori. (Alda lo guarda con gli occhi sbarrati, non trova la forza né di muoversi né di parlare. Armando che l'ha notato, senza darsene per inteso) Anche per la signora l'ape­ritivo, vero?

Gianni                           - Sì, anche per lei.

Armando                       - (mescendo l'aperitivo) E' il migliore che ci sia. Poco alcoolico, di un amaro gradevole. (Porge il vassoio con i due bicchieri ad Alda) Prego, signora.

Alda                              - (prende il bicchiere come un automa) Grazie.

Armando                       - (offre l'altro bicchiere a Gianni) Pre­go, signore.

Gianni                           - (prende il bicchiere) Grazie.

Armando                       - (mette il vassoio e la bottiglia su un mo­bile e dice) Porto via il carrello, che mi occorre per servire il pranzo. Fra pochi minuti, signore. (Esce, spingendo il carrello).

Gianni                           - (con un sorriso forzato) Che cameriere energico, vero? (Una pausa. Vede che Alda è ri­masta ferma, con il bicchiere in mano) Non bevi?

Alda                              - (bevendo macchinalmente) Sì, grazie.

Gianni                           - (deluso) Mi era parso, a un certo mo­mento, di aver creato un clima nuziale, e invece... Tu ti senti ancora male?

Alda                              - No, no. Benissimo.

Gianni                           - Mi rispondi con una voce astratta. Sem­bra l'eco idi una voce.

Alda                              - Le voci, sai, tante volte...

Gianni                           - Vogliamo sedere a tavola, intanto?

Alda                              - Sì. Sediamo. (Come un automa siede con le spalle alla parte sinistra della scena).

Gianni                           - (siede di fronte a lei) Hai appetito?

Alda                              - Mi pareva di averne. Ora non so.

Gianni                           - Anche a me pareva di avere una fame da lupo; e improvvisamente invece... (Rientra Ar­mando, che porta una bottiglia in un secchio e la mette sulla tavola).

Armando                       - Vino bianco del Reno per l'antipasto. Freschissimo. (Ha deposto il secchio, esce).

Gianni                           - (un po' turbato anche lui senza saperne il perché) Può darsi che l'antipasto ci faccia venire l'appetito.

Alda                              - (che la voce e la presenza di Armando hanno ormai scombussolata) Speriamo. (Rientra Ar­mando, che porta sul carrello due piatti di antipasto già preparati).

Armando                       - (servendo- l'antipasto ad Alda) E' già pronto, perché c'è stato messo un po' di tutto. (Poi serve l'antipasto a Gianni) Ecco, signore. (E si mette in fondo alla sala, fermo, impettito).

Gianni                           - (lo guarda, vorrebbe dire qualche cosa, fa l'atto d'incominciare a mangiare l'antipasto, si volge ad Alda) Mangia, cara.

Alda                              - Grazie, sì. (E si accinge a mangiare ma non ci riesce).

Gianni                           - Non ti va?

Alda                              - Veramente, no.

Gianni                           - Neanche a me. (Poi ad Armando) Porti via.

Armando                       - Subito, signore. (Rimette i due piatti sul carrello e nuovamente esce).

Gianni                           - (sorridendo a stento) C'è qualche cosa che non va, vero? (Si alza) Apriamo la radio. Ve­diamo se c'è un po' di musica. (Va all'apparecchio radio, gira un bottone) Forse con un po' di musica... (Alla radio: un ballabile. Gianni si avvicina ad Alda) Vieni, cara. Balliamo un poco.

Alda                              - Sì, è meglio. (Si mettono a ballare. Du­rante il ballo Armando rientra con il carrello sul quale è una zuppiera. Gianni e Alda non lo vedono e continuano a ballare. Armando si ferma con il carrello a distanza e rimane immobile a guardarli).

Gianni                           - (ballando) Vedrai che il ballo ci farà bene.

Alda                              - Speriamo.

Gianni                           - In fondo, le prime notti di matrimonio sono tutte così.

Alda                              - Può darsi. (A un tratto- vedono Armando. Si fermano).

Gianni                           - (dopo un attimo di turbamento; con im­provvisa decisione) Niente minestra. Porti via. (Armando riporta indietro il carrello. Gianni ripren-de a ballare con Alda) Ho fatto bene?

Alda                              - Benissimo1. (Ballano ancora. Poco dopo Ar­mando ritorna col carrello, sul quale è un piatto lungo con il pesce).

Gianni                           - (che ha visto Armando, smette un mo­mento di ballare) Senta: porti tutto insieme, e lasci qui. Non c'è bisogno che ci stia anche lei.

Armando                       - (imperturbabile, riportando indietro- il carrello) Bene, signore.

Gianni                           - (come se si fosse liberato di un peso) Oh! Ho fatto bene, Alda?

Alda                              - (guardando nel vuoto) Non so.

Gianni                           - Come, non sai? Non dava fastidio anche a te quell'uomo impalato qua davanti? Noi pranziamo qui per stare soli, mica per avere un testimone di tutti i nostri atti e di tutte le nostre parole.

Alda                              - (c. s.) Sì, sì, hai ragione.

Gianni                           - Ma ti vedo distratta, pallida. Ti senti ancora male? Chiudo la radio?

Alda                              - (c. s.) Sì, è meglio.

Gianni                           - (chiudendo la radio) Io credo che tu debba fare qualche cosa, prendere qualche cosa. Sa­prai bene se c'è un rimedio a codesto tuo malessere.

Alda                              - (dopo averci pensato, con intenzione) For­se un po' di Serenol.

Gianni                           - Serenol?

Alda                              - Ma non il Serenol Rossi. Quello Black. E' un preparato nuovo.

Gianni                           - Vuoi che vada a prenderlo? Ci dev'es­sere una farmacia qui sotto.

Alda                              - Sì, grazie. Mi dispiace di disturbarti; ma ho paura che altri sbaglino.

Gianni                           - Come hai detto? Black?

Alda                              - Sì, Black, col ci-cappa. E' in una scatola di colore verde scuro.

Gianni                           - Serenol Black. Spero di trovarlo. Vado.

Alda                              - Alle farmacie del centro si trova certa­mente, se non si trova da queste parti.

Gianni                           - Ci vado in macchina. Cinque minuti. (Esce per la seconda porta di destra).

Alda                              - (rimasta sola, siede su una poltrona, si passa più volte le mani sulla fronte, dice fra se) Pos­sibile? (Ritorna Armando con il carrello carico del pranzo intero).

Armando                       - (mette il carrello in un angolo, si accerta che tutto sia in ordine, dice come fra se) Ecco. (E si avvia per uscire).

Alda                              - (che lo ha seguito con lo sguardo) Came­riere!

Armando                       - (fermandosi) Prego, signora.

Alda                              - Mi scusi tanto; ma avrei bisogno di... sentire bene la sua voce.

Armando                       - La mia voce?

Alda                              - Sì, la sua voce. E' una voce che mi pare di conoscere. Non so dire dove l'abbia già sentita; ma la conosco. Mi piacerebbe di stabilire se vera­mente io la conosca.

Armando                       - (guarda intorno) Ma il signore, se ho capito bene, preferisce che io non mi fermi qui.

Alda                              - Non c'è. E' uscito un momento. Non le nascondo che ho provocato' io stessa la sua uscita per poter...

Armando                       - (dopo una breve pausa) La nostra voce non è mai la stessa, signora. Cambia. Solo i cantanti hanno sempre la stessa voce, perché la loro in gran parte è una voce innaturale, artefatta. Brutta, vorrei dire. Pensi com'è brutta la voce di un tenore che canti una canzone napoletana. Spro­porzionata, falsissima. (Si ferma, poi) Debbo parlare ancora?

Alda                              - (ridendo male e mentendo) No grazie. Basta. Evidentemente mi ero sbagliata. Certo lei ha una voce che ho già sentita; ma non so "quando e non so dove... Comunque, ha una bella voce, di un bel timbro... Vorrei dire, senza alcuna malizia… una voce da amante.

Armando                       - Hanno una voce speciale, gli amanti?

Alda                              - (imbarazzata) Non so. Immagino. Almeno attraverso quello che si dice, si legge... Ogni cosa, del resto, è come noi ce la immaginiamo. Bontempelli, no?

Armando                       - Pirandello.

Alda                              - (con un sussulto) Già, è vero. (Guarda Armando lungamente come per ricordare; poi come in trasognamento) E non è la prima volta che sba­glio, vero?

Armando                       - No, non è la prima volta.

Alda                              - Eravamo rimasti a quella domanda: « Hai amato me, soltanto me, non altri che me...»?

Armando                       - (riprendendo il tono di lei e rievocando le proprie parole) ...E, se al posto mio ci fosse stato un altro, tu non lo avresti amato o per lo meno non lo avresti amato' quanto me?

Alda                              - (sempre trasognata) Ecco,: ecco.

Armando                       - Il problema dell'amore è tutto qui: sono io l'unico o non sono l'unico? Puoi sostituirmi o non puoi sostituirmi? In questo momento hai as­solutamente bisogno di me o di uno qualunque? Se al posto mio ci fosse uno qualunque, per te sarebbe la stessa cosa oppure no?

Alda                              - (c. s.) Ecco, ecco. Mi ricordo. A questo punto eravamo. Io ci pensavo. Pensavo a queste domande...

Armando                       - Sono domande che valgono per la donna come per l'uomo.

Alda                              - Naturalmente, naturalmente. E sono do­mande che mi fanno capire tante cose di me, della mia vita segreta. Perché io non sono quella che mi lascio credere. Non ho marito, vivo sola, sono stata di tanti uomini, sono passata per tante case come questa... Ma non in modo volgare, no. Non in modo banale, malgrado le apparenze. Ho anch'io, sì, i turbamenti e le speranze e i desidèri e i sogni di tutte le donne - il matrimonio, il diadema, la macchina, la villa, l'uomo che uccide per amor mio - ma la mia aspirazione più forte è quella d'incon­trare l'uomo mio, l'uomo insostituibile, ed essere io stessa insostituibile per lui...

Armando                       - Una cosa quasi impossibile.

Alda                              - Perché impossibile?

Armando                       - Me lo domando pure io. Perché? Si passa per queste case, per questi « ingressi liberi », da una donna all'altra, da un uomo all'altro, fra sogni, desideri, bugie, convenzioni, paure, speranze, e ogni avventura finisce col rimanere appesa a que­sta domanda: perché? E' tutto un gioco, un fra­stuono, un carosello intorno a questa domanda. Le donne maritate e quelle che non hanno marito; gli uomini ammogliati e quelli che sono divisi dalle mogli come me; gli scapoli; le fidanzate, le princi­pesse, le saltine passano per queste stanze, in cerca o in attesa della creatura insostituibile; e la creatura insostituibile non c'è. Non c'è che il nostro desi­derio, e le immagini del nostro desiderio, e gli stru­menti inconsapevoli del nostro desiderio... Siamo tutti strumenti inconsapevoli del desiderio altrui. Ripieghi, compromessi. Tu mi piaci fin qui, tu fin lì, e mai completamente. Ti amo tanto e non più: certo non quanto vorrei e quanto potrei. Per qual­che ragione o per qualche circostanza la fusione e l'intesa non sono mai perfette.

Alda                              - Sì, è vero. Sono cose che ho sempre pen­sate anch'io, senza esprimerle. E in fondo al cuore sempre una scontentezza, una malinconia... Forse anche un sentimento di pietà per l'altra creatura, per il suo errore e per la sua illusione.

Armando                       - Lo immaginavo, che lei fosse mi­gliore delle sue apparenze.

Alda                              - Lo immaginava perché mi conosceva già?

Armando                       - Non c'era bisogno che la conoscessi personalmente. Tante altre sono come lei. Me ne sono accertato. Mi basta,

Alda                              - Ma io e lei abbiamo già parlato insieme un'altra volta o è questa la prima volta?

Armando                       - (volutamente vago) Che importanza ha questo particolare?

Alda                              - La sua risposta è troppo vaga. Non vuole proprio levarmi questa curiosità?

Armando                       - A che serve che gliela levi? Immagini che abbiamo già parlato un'altra volta. Un giorno - mettiamo - passavo vicino a lei per caso, e mi sono fermato. Ma vicino a lei c'era già un altro e allora io ho voluto vedere se quell'altro mi asso­migliasse; vedersi, ogni tanto, attraverso gli altri, come dentro uno specchio, fa bene. Si capiscono tante cose. (Tende l'orecchio. Si sente il rumore della porta esterna. Ritorna Gianni. Armando fa finta, di arrivare in questo momento con il carrello, si dà da fare intorno ai piatti che vi sono sopra).

Gianni                           - (entrando con premura, un po' affannato) ' Ecco, ho trovato la medicina. (Mostra una sca­tola verde) E' questa?

Alda                              - Sì, grazie. (Mette la scatola sulla tavola).

Gianni                           - Prendila subito.

Alda                              - No, adesso no. Mi sento un po' meglio. Spero di poterne fare a meno.

Gianni                           - Allora ci rimettiamo a tavola?

Alda                              - Sì.

Gianni                           - (si accorge ora dì Armando) Ah, è già pronto tutto.

Armando                       - Sì, signore, Tutto pronto. Pesce bol­lito, cotolette alla Bismarck, dolce, frutta. Una bot­tiglia di vino di Bordeaux per la carne. Fra poco verrà lo spumante.

Alda                              - (riprendendo il suo posto a tavola) Io prenderei solo un po' di dolce.

Gianni                           - Come vuoi, cara. (Siede anche luì).

Armando                       - Debbo servirlo io?

Alda                              - Sì, grazie. (E poi, a un gesto di Gianni) Eh, sì! (Come dire: «.sarebbe indelicato rifiutare. Ar­mando cerca il piatto del dolce, ne taglia due fette, le mette in due piatti: tutto lentamente, voltando le spalle ai due).

Gianni                           - Sapessi quanti brutti pensieri ho fatto lungo la strada.

Alda                              - E cioè?

Gianni                           - Mi dicevo: ma come sono sfortunato! E la prima volta che faccio un torto a mia moglie, ed ecco che me ne capitano di tutti i colori.

Alda                              - Le vuoi bene, a tua moglie?

Gianni                           - (sfuggendo la domanda) Che c'entra.

Alda                              - No. Dimmelo. Mi fai piacere. Soprattutto se mi dici la verità.

Gianni                           - (dopo una lieve perplessità) Certo, non le voglio male. Perché dovrei volerle male? E' una creatura buona, docile. Non dico che sia proprio il mio ideale; ma...

Alda                              - E quale sarebbe il tuo ideale?

Gianni                           - (ride) Che domanda! C'è qualcuno che sappia veramente quale sia il suo ideale? Sappiamo quale non è, il nostro ideale. E' come quando non riusciamo a ricordare un nome. Possiamo scartare tutti quelli che ci vengono in mente e che non sono il nome che cerchiamo. Lucia no, Paola no, Francesca no. Ma soltanto quando ci presenta quello che cer­chiamo, siamo in grado di riconoscerlo. Ecco Giulia. Ecco Livia. Ecco l'ideale. Non ti pare? (Una pausa) Stasera il mio ideale sei tu.

Alda                              - Stasera soltanto?

Gianni                           - Speriamo anche domani, fra tre giorni, fra un anno. Come si fa a sapere quello che accadrà di me, di te, di noi, dei nostri gusti, dei nostri sen­timenti? E' tutto labile, provvisorio, cangiante. Poco fa mi piaceva di giocare con te alle nozze; adesso non più. Appunto per questo s'è dovuta inventare l'isti­tuzione del matrimonio. Prendere quei due che si piacciono, legarli, tenerli fermi a quel legame con la forza della legge...

Alda                              - Una catena.

Gianni                           - E' quello che cerchiamo nei momenti di grazia, nei momenti dell'amore. Dopo, magari, vor­remmo spezzare la catena. Ma prima ci pare cosi bello incatenarci...

Alda                              - Hai detto che non ti piace più giocare alle nozze con me.

Gianni                           - Giocare alle nozze no; ma giocare all'a­more sì. Non ti va? (Alda perplessa, guarda Ar­mando).

Armando                       - (che si è voltato a guardare Alda le sug­gerisce con un gesto la risposta) Sì, sì.

Alda                              - (quasi macchinalmente) Sì.

Gianni                           - L'amore è bello. L'amore per l'amore. E' il più bello che ci sia. Non ti pare? (Alda guarda an­cora Armando).

Armando                       - (le suggerisce nuovamente con un cenno del capo la risposta) Sì.

Alda                              - Sì. E' il più bello.

Gianni                           - L'amore è più forte di tutto. Più forte della fame, più forte del dolore. Perfino più forte del sonno.

Alda                              - Anche del sonno? (Guarda Armando; questi, rapido, le fa cenno ancora di sì) E già, è vero. Anche più forte del sonno.

Gianni                           - Tu stessa dormi dopo, non prima.

Alda                              - (sempre guardando Armando) Già, già.

Gianni                           - Hai sonno, adesso?

Alda                              - Io no.

Gianni                           - Hai fame?

Alda                              - Non più.

Gianni                           - Nemmeno io ho fame. Né fame né sonno. Mangeremo dopo, dormiremo dopo. (Si alza la pren­de per una mano) Vieni.

Alda                              - (un po' riluttante) Dove? (Guarda Ar­mando; questi fa un gesto come per dire: « bisogna andare'»).

Gianni                           - (contemporaneamente) Come, dove?

Alda                              - Ah, sì, sì, ho capito. Ma... Pussi... nonsiamo mica soli.

Gianni                           - (che non pensava più ad Armando e che non lo vedeva essendo seduto di spalle, si volta, lo vede) Ah, già. Scusi.

Armando                       - Pregò, prego.

Gianni                           - Porti via tutto.

Armando                       - Sì, subito. Chiamo qualcuno per far prima. (Va a suonare il campanello di destra).

Gianni                           - Io pagherò il conto alla contessa. Quindi la contessa provvederà per lei.

Armando                       - La contessa?

Gianni                           - Le dispiace?

Armando                       - No, no. La contessa o un'altra, in certi momenti... (Gianni, dopo breve esitazione, lo guar­da, ride. Armando rifa il riso di Gianni. Ora è Alda che guarda Armando prima per deplorare il suo scet­ticismo e poi per incitarlo ad assecondare l'illusione di Gianni; e Armando obbedisce ritornando subito serio).

Gianni                           - Andiamo, Alda. (La prende sottobraccio, la conduce correndo fino all'alcova, s'infila fra le tende che si chiudono dietro la coppia; della quale poco dopo si udrà l'amoroso' bisbigliare. Dalla destra entra la contessa).

La Contessa                  - (guardando la tavola) Hanno finito?

Armando                       - (con intenzione, dopo aver guardato verso l'alcova) Non credo. (Una pausa) Io sì, ho finito. (Un'altra breve pausa; poi, lentamente, con un dif­fuso sorriso) Potrei addirittura dare un addio ai suoi appartamentini.

La Contessa                  - Oh! E perché?

Armando                       - (sempre con un vago e diffuso sorriso e guardando l'alcova, di dove continua a giungere, per­cettibilissimo, l'amoroso bisbigliare dei due giovani) Forse perché bisogna portarci una capacità d'illu­sione che non è più della mia età. O forse perché la mia età...

La Contessa                  - Eh! Ma la vita... comincia...

Armando                       - A quarant'anni? E allora aspettiamo che cominci... (Esce rapido verso destra).

FINE