Io non sono io

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IO NON SONO IO

Un atto con la coda

di TODDI

PERSONAGGI

MARIETTA, figlia dell’oste

L’USCIERE

BUGARINI, impiegato

RAMPACCI, impiegato

PAOLO MARCUCCI, impiegato

L’AMICO

IL CAPOSEZIONE

Commedia formattata da

Uno degli uffici al Ministero delle Finanze.

Stanzone scialbo e sporchiccio.

Due finestre  sul fondo.  Due porte  laterali.

Tre tavoli: uno tra le due finestre, due ai fianchi, in vicinanza delle porte di cui quella di sinistra  è mascherata  da un paravento.

Su ogni tavolo una lampada elettrica da ufficio.

Il muro, in prossimità dei due tavoli laterali, è decorato con cartoline illustrate e illustrazioni di giornali; sulla parete di fondo è solamente il   calendario   e   l'elenco   dei  mobili   dell'ufficio.

Tre impiegati sono seduti ai tre tavoli: Rampacci a quello di destra, Bugarini a quello di sinistra, volti Verso il centro della camera; Al tavolo fra le finestre, con la faccia rivolta verso il muro, è Marcucci.

SCENA   PRIMA

Marcucci,   Bugarini,   Rampacci

Bugarini                        - (prendendo una nuova « pratica ») «Oggetto: Conservazione del Catasto». E che ci entriamo noi con il Catasto? (a Rampacci) Di',   Rampacci,   il   Catasto   è  Divisione  terza?

Rampacci                      -    Divisione   terza!

Bugarini                        - (scrive, in lapis, sulla « pratica ») Di-vi-sio-ne ter-za!  (La mette da parte e passa alla « pratica » seguente) Desenzano è in provincia di Verona o di Brescia? (Poiché nessuno risponde, più forte) Desenzano è in provincia  di  Verona  o  di Brescia?

Rampacci                      -  E che ne so io?... È sul lago di  Garda...

Bugarini                        -    Eh   sì!   La mandiamo  al   Prefetto del...   lago   di  Garda!...  Verona o  Brescia?...

Rampacci                      - (indicando Marcucci) Lui lo deve sapere.   Lago   di   Garda!...   Presso   il   Vittoriale!...  (ride).

Bugarini                        - (a Marcucci) Ehi, Vate!  Tu che... abiti   da   quelle   parti...   in   che   provincia   sta Desenzano? 

Marcucci                       - (senza  volgersi) Non lo  so!

Bugarini                        -    Tu   non   sai  mai  niente!

Marcucci                       - Non so mai niente!

SCENA SECONDA Detti e Caposezione

Caposezione                  - (entra da destra; a Rampacci e Bugarini, che si sono alzati) Prego, comodi. (/ due rimangono in piedi; Marcucci sembra di   non   essersi  accorto   del  sopravvenuto).

Caposezione                  - (ha accento spiccatamente setten­trionale) C'è l'Intendenza di Milasso che fa ancora opposizione, e il capodivisione vuole...

Rampacci                      - (indicando Marcucci) - La « pratica » ce   l'ha   lui.

Caposezione                  - (a Marcucci) Ah, l'ha Lei la «pratica»,   signor   Marcucci?

Marcucci                       - (è costretto ad alzarsi e volgersi: si toglie la papalina) Buon giorno, signor Commendatore, (con un fascicolo, con la mano o chinando il capo, cerca di non mostrare il suo volto) Abbiamo risposto ieri sera, ma tardi.   Andrà  oggi  alla firma.

Caposezione                  -  Bene, bene. Mi raccomando. Milasso   non   è   un'Intendenssa:    è   una   gabia di passi... e di piantagrane... Mi raccomando che la cosa fili... (sorridendo argutamente) ...come   un   verso   ben   fatto.

Rampacci   e   Bugarini          - (ridono).

Marcucci                       - (come ingoiando qualcosa di amaro, cui però è abituato) Sì, signor Commen­datore.

Caposezione                  - (a tutti) - ...e Desenzano anche... (esce,   con  un  gesto  di saluto).

SCENA TERZA

Rampacci,   Bugarini,   Marcucci poi   impiegati,   un   impiegato   ed   amico

Marcucci                       - (ha   ripreso   la   sua   posizione).

(Suonano,  all'orologio  del Mi­nistero,   Le   dodici.   Tra  i toc­chi, il cannone di mezzogiorno). Rampacci e Bugarini guardano i loro orologi).

Bugarini                        - (mostrando il suo) Preciso! Spacca il   cannone! 

Rampacci                      - (regolando  il suo) Il mio  avanza di   tre   minuti:   ma  il  mio   stomaco   avanza  di un'ora.   Oggi,   giovedì,   gnocchi.

(Entrambi  chiudono   i  calamai, si    tolgono    le   mezze-maniche. Passano   da   sinistra   a   destra alcuni impiegati.   Uno  si Volge senza    arrestarsi   e   canta    sul motivo   della   «mensa   dei  sot­tufficiali »: « Cure,   cure,   che   la   supa  l'è   cotta, Chi arriva tardi la mangia pi nen!»).

Un  Impiegato               - (entrando da sinistra con un suo amico,  gli indica Marcucci) Poiché sei ve­nuto   a   trovarmi,   devi   vederla,   la   nostra   ra­rità!   Vedrai.   Identico;   preciso.   Lui,  proprio lui!    Spiccicato! (Presenta)   Rampacci.   Buga­rini.   Il   mio   amico   cav.   Tocci. (Accenna   ai due che egli vuol mostrare Marcucci all'amico, come   una  rarità  di  ufficio).

Bugarini                        - (a   Rampacci) Chiamalo   tu,   che hai  più  faccia tosta.

Rampacci                      -  Ehi,  Marcucci!   senti!  C'è qui un nostro  amico  che...

Bugarini                        - (ammiccando   ai   tre   altri,   forte)  Già,   lui   può   darle   spiegazioni... Impiegato   - (all'amico  fa  un  gesto che significa: « Aspetta,   vedrai! »).

Marcucci                       - (si  rassegna,  si  alza ed avvicina,  te­nendo   però  sempre   un  fascicolo  che  mascheri il  Volto). Impiegato     - (presentando) Il collega Marcucci; il cav. Tocci.

 Rampacci                     - (a Marcucci) Ah! L'avevi tu la « pratica » di Benevento (gli toglie bruscamente il fascicolo, scoprendogli il volto; Marcucci somiglia perfettamente a Gabriele D'Annunzio).

Cav.   Tocci                   -   Straordinario!

Marcucci                       - (dà uno sguardo accorato ai colleghi, e   ritorna   in   silenzio   al  suo   posto).

Impiegato                      - (all'amico) Hai   visto?

Cav. Tocci                     -  Straordinario davvero! Gabriele D'Annunzio, impiegato al Ministero delle Fi­nanze. Ma andiamo, che è tardi per me e per   Loro  (tutti  si avviano  per uscire).

Bugarini                        - (a Marcucci che non risponde) Sal­ve,   poeta!

Cav. Tocci                     - (a Marcucci, sorridendo) Feli­cissimo! (escono).

SCENA QUARTA

Marcucci solo, poi Usciere

Marcucci                       - (guarda, volgendosi appena, che tutti siano usciti; indi si Volge completamente. Ama­ramente) «Salve, poeta! ». Questa è nuo­va, originale: e spiritosa! E quell'altro! «Felicissimo! ». Spiritoso anche lui. Certo, «felicissimo » di aver conosciuto... di averlo conosciuto. « Felicissimo » (come salutando a sua volta, con rabbia impotente) Felicissimo anch'io... E come potrei non esser felice?... sempre   più   felice!

Usciere                          - (entra e rovescia in uno dei tre cestini la carta degli altri due) E Lei, signor Marcucci, nun va via ; rimane qui, seconno er  solito.

Marcucci                       - Già... Il solito... Come vuoi che sia altrimenti? Il so-li-to. Anche io sono il solito. Non è vero? (a sé stesso, indicando coloro che sono usciti) «Felicissimo »... ed io me ne rimango qui... con la mia felicità... (all'usciere)   Tu,   tu   sei   felice!...

Usciere                          -    Io?...   Io   so’ usciere.

Marcucci                       - Ecco: tu sei usciere. Quelli sono impiegati. Quell'altro è cavaliere. E io, io chi sono?...

Usciere                          -   Come,  chi  è?...

Marcucci                       - Sì, sì... Chi sono io?... Secondo te  io  chi   sono?   Come mi chiamo?

Usciere                          -  Lei, ma e nun ce lo sa?

Marcucci                       - « Nun ce lo sa?  » Eh, altro che, lo so, purtroppo. Lo so... (fa qualche passo agitato) ...Lo so... e forse non lo so neanche io...   chi  sono...   Come  mi chiamo?   Dimmelo.!

Usciere                          -    Ma...

Marcucci                       - Dimmelo, dimmelo, come mi chia­mo  io.

Usciere                          - (dopo breve esitazione) Signor Paolo Marcucci...

Marcucci                       - Ci hai pensato bene prima di dirlo! Eh! Paolo Marcucci. Ne sei proprio sicuro?... Ma se pare buffo anche a te che io abbia questo nome: che io possa per­mettermi il lusso di avere anche un nome mio... Ma di là, quando ti chiedono di me, come mi chiamano e, certo, come mi chiami anche   tu?...

Usciere                          -   Ma che annate a penzà'!...

Marcucci                       -  Strano, eh!  Che « vado a penzare »? Eh!... Ma dillo pure, dillo: Ga­briele D'Annunzio!... Dillo che anche tu mi chiami così, quando chiedono di me, come loro: Gabriele D'Annunzio, il Poeta, il Vate... il Comandante... Dimmi un po': anche il Capo­divisione mi chiama così?... Il Ministro no, perché non mi conosce ancora. Ma un giorno condurranno qui anche lui, perché veda... come quell'altro che è venuto adesso... perché Sua Eccellenza si compiaccia di sapere che, tra i suoi impiegati, c'è anche Gabriele D Annunzio ; e allora lo scriveranno anche sul Bollettino del Ministero. Che ci sta a fare, lì, il mio nome? Chi sono io? A che serve il mio nome? Se io non sono io, io non sono Paolo Marcucci... Io sono lui: anzi nep­pure lui: io sono un Gabriele D'Annunzio che non è Gabriele D'Annunzio e che non è neppure Paolo Marcucci. Chi sono io, dun­que?

Usciere                          -  Eh!   quarchiduno averete da esse!

Marcucci                       - Eh già. Qualcuno devo essere. Dovrei essere. Ma io non sono neppure qual­cuno. Io sono un ritratto, che cammina, che tanta gente lo guarda. Sono un vivente ritratto gratuito del più celebre poeta contem­poraneo... Ritratto gratuito... Questo è il più tragico, il più terribile... Ritratto gratuito. Capisci! Non costo niente: neanche i quattro soldi di ingresso in un baraccone da fiera. Mi si vede gratis. La gente che mi circonda e che io odio ha gratis la visione viva, reale del   Poeta...   Hai   veduto   quello?

Usciere                          -   Chi  quello?

Marcucci                       - Quello che è uscito adesso: l'invitato. L hanno invitato qui come si invita a cinematografo... al teatro dei burattini... «Vieni, vieni: vedrai: identico, spiccicato! ». E non si  paga   niente.   Gratis;   tutto   gratis.   Avanti, signori, favoriscano; il più grande fenomeno vivente, il  sosia...

Usciere                          -    ,..er  sosia?

Marcucci                   - Sì: il sosia. Tu non lo sai che è il sosia. Il sosia è una parola che hanno fabbricato apposta per me. È qualche cosa che pare un uomo, ma che non è un uomo: è un ritratto con due zampe. Tu sei un uomo, un usciere: quelli sono uomini, sono impie­gati: io sono un sosia. Uno che non è lui; e che non è neanche un altro... è un sosia. Io sono la faccia di un altro. Sai, come quelle maschere di gesso che si fanno ai morti e poi si attaccano al muro. Questa, invece, me l'hanno attaccata a me. È la maschera di un vivo, perché... perché il morto sono io... e cammino, e mi muovo soltanto per portarla in giro, a farla vedere... Io sono tutto quello che ti pare, tranne che io... Sono una goccia d'acqua...,

Usciere                          - (ridendo)   'Na   goccia  d'acqua?

Marcucci                       - Una goccia d'acqua? Sai le due gocce d'acqua che sono uguali? (Contraffacendo gli ammiratori) « Proprio, preciso, come due gocce d'acqua! ». Ecco: io sono 1 altra goc­cia d'acqua. Lui è un uomo, mentre io sono una goccia d'acqua. Perché non è mica lui che somiglia a me. No!! !  Sono io che so­miglio a lui. Nessuno penserebbe mai di an­dare a dire a Gabriele D'Annunzio: «Ma sa che Lei somiglia perfettamente a Paolo Marcucci! »... Paolo Marcucci? E chi è Paolo Marcucci? Esiste Paolo Marcucci?... Se pure qualcuno gli parlasse di me, gli direbbe: « Ma sa che a Roma, al Ministero delle Finanze, c'è uno che Le somiglia come due gocce d'ac­qua?»... «Uno»          -  uno... che non ha nome, non è persona. È un sosia. È una oleografia che campa, una cartolina illustrata che cam­mina. Le altre stanno in vetrina: e a me... mi hanno lasciati» in libertà. Son più diver­tente   così...   Ma   che   gli  ho   fatto,   io?...

Usciere                          -    E  lui,  a voi,  che  v'ha fatto?

Marcucci                       - Che mi ha fatto? Che mi ha fatto? Mi ha spezzato la vita e con quale diritto? Ci somigliamo: siamo identici. Iddio si è distratto e, con la stessa forma, ha fab­bricato due uomini invece di uno solo. Se questa è una disgrazia, sarebbe stato giusto che fosse una disgrazia per tutti due. Io so­miglio a lui: e lui somiglia a me. E que­sto avrebbe dovuto darci gli stessi diritti e gli   stessi   doveri...   Doveri!...   Io   il   mio   dovere l'ho fatto! Sono mai andato da lui a dirgli: « Bada che tu mi somigli ; sei il mio sosia »?  Mi sono mai sognato di diventare celebre? Perché se io fossi diventato celebre, un gran poeta, come ha fatto lui, conosciuto da per tutto, con ritratto su tutti i giornali e la cartolina illustrata in vetrina da tutti i ta­baccai, io sarei stato io e lui al posto mio: il sosia di Paolo Marcucci. Ho fatto niente di tutto questo, io? E lui, allora, perché non si è accontentato di essere come me, un uomo qualunque? un tramviere, un pizzicagnolo -  avrebbe guadagnato più denaro -  oppure un impiegato, un ricevitore del Lotto: la vita francescana l'avrebbe fatta lo stesso, con lo stipendio che il Governo ci dà. Magari qui, in questo stesso ufficio. Ecco: lui là e io qua. Ma uguali. Saremmo stati una curiosità lo stesso: ma in due. E io sarei rimasto io, e lui, lui. La gente sarebbe venuta a vederci, a vederci: due impiegati che ci si somigliano. Tutti gli impiegati, dopo un certo tempo, si somigliano; e noi ci saremmo somigliati come due   gocce   d'acqua,   ma   due   gocce   d'acqua...

Usciere                          -  Ci avete la fissazione, co' le gocce d'acqua.   E   lassate  perde'!

Marcucci                       - « Lassate perde' ». Tu puoi dirlo. Ma che cosa lascio perdere? Io non cerco nulla, io non voglio nulla. Non vorrei che nessuno s'incaricasse di me: che male ho fatto? che delitto ho commesso?... E son peggio di un delinquente, di un ladro che ha 'rubato qualcosa che deve nascondere... Come se glie l’avessi rubata io questa faccia che porto!... E  me  la  porto  appresso come una  refurtiva... I ladri, vedi, hanno almeno un complice, un ricettatore: e dopo che hanno rubato corrono a nasconderlo da lui, ciò che hanno preso, e se ne vanno in giro sollevati del loro peso. Io invece me la devo portare appresso: an­che se mi arrestano... me la lasciano. Come una   gobba,   peggio   di   una   gobba...

Usciere                          -    ...la   gobba   porta  fortuna.

Marcucci                       - E questa mia disgrazia è peg­giore; e non porta fortuna a nessuno. Il gobbo lo compatiscono. Mentre a me no, non mi compatiscono, non mi invidiano: mi guardano. Ma non guardano me. Io chi sono? che conto? II gobbo è gobbo: ma è lui. Se io fossi gobbo mi direbbero: « Paolo Marcucci gob­bo »... Gobbo, storpio, cieco... Oppure ciechi tutti gli altri... Vorrei vivere in un mondo di   ciechi!

Usciere                          -    ...'na   cosa  allegra!

Marcucci                       - Non allegra, ma migliore di questa. Io odio gli occhi della gente, perché con quelli mi fa male, con quelli mi ha ucciso... senza farmi morire... Io sono un pupazzo -  un pupazzo ben fatto, che gli somiglia -  e che cammina, in mezzo a tanti occhi che lo guardano. E nient 'altro... (Pausa) ...L'altra sera, vedi, a casa mia -  solo come un cane, peggio di un cane, perché a un cane si tira una sassata, ma poi lo si lascia in pace -  1 altra sera ero sul balconcino a guardarmene il cielo, le stelle. Mi pareva di trovare un pò di pace. Sì! A un certo momento anche le stelle si sono messe a guardarmi in un modo curioso       - (un po' maniaco) e ridevano e parevano che dicessero: «O che vuoi fare il poeta anche tu, come lui? ». Anche le stelle, come gli uomini, come tutti!... Tu lo vedi: la mattina io arrivo qui mezz'ora prima degli altri,   perché   nessuno   mi   veda  passare...

Usciere                          -   Allora... si tutti l'impiegati somijassero a Grabbiele D'Annunzio, annerebbe bene per   Guvemo!,..

Marcucci                       - Non c'è pericolo. Non ci sono che io, io solo, che vengo prima: e me ne sto lì, con la faccia al muro, come un ragazzo a  scuola:   al   cantuccio!    In  ogni   classe   c'è sempre un povero  disgraziato  che non fa mai niente  di  male,   ma   che   sta   sempre   al   can­tuccio, con la  faccia  al muro.   Così  io,  qui... e nella vita...   E mi accontento di  non uscire neppure, a mezzogiorno, restarmene qui e man­giare  quelle   quattro   porcherie   avvelenate  che mi portano   dall'osteria,   piuttosto   che   uscire» girare...   dare   spettacolo...   Almeno,   qui,   sono io che mangio.  Se  andassi fuori  sarei...   Ga­briele  D'Annunzio   che   mangia   all'osteria...

 L’ Usciere                    -  Lui, invece, chi sa si che magnerà!...

Marcucci                       - Lui... lui mangia in pace,  almeno. E io  non  gli  vado  a   mettere   il  boccone   di traverso!... Qui, la sera, quando esco -  l’ultimo, per le scale già a lumi spenti -  me ne corro a piedi per! i vicoletti -  perché in tram ;   c'è troppa gente e nelle strade  grandi  troppa luce  -   a  cercare   una  osteria  dove   non  c'è nessuno,   o   qualche   operaio   che   non   conosce neanche Gabriele D'Annunzio.  Ma già, adesso anche  gli   operai   conoscono   lui;   s'è    voluto mettere  in politica  per   questo,  perché  lo   co­noscessero   tutti;   per   fare   dispetto   a   me!... Perché è  andato  a  Fiume?...  Per  la   gloria. E la  gloria  sua  è la  disgrazia   mia!   Lui   è andato a Fiume,  da trionfatore;   e io,  invece, dovrei gettarmici,   a  fiume,  con una pietra   al collo, per non  venire  a  galla.  Se  no  mi  ritirerebbero su, da morto, e lì, sul Lungotevere, sai quanta  gente   a  vedere...   Gabriele   D Annunzio  che  si  è  affogato!

Usciere                          -  Ah!   'n bello spettacolo!

Marcucci                       - Sì: uno spettacolo!  Come sempre; uno  spettacolo.   E   mi   pare  già   di   leggere   i giornali:  il pezzo  di  cronaca,  col  titolo  bello grosso:   «Si   uccide,   perché   somiglia   a   Ga­briele   D'Annunzio ».   Il   nome   suo   mettereb­bero, non il mio,  nel titolo.   Che   importa che mi   sia   ammazzato   io.   Io   non   sono    io!... Forse  anche   qualche   autore,   di   questi   autori che vogliono  fare effetto,  ci farebbe una  tra­gedia... una tragedia divertente... una commedia per  Petrolini...   interessante   non   per   me,   non perché ci sono io, ma perché è in scena quell'altro!...   Se    m'ammazzassi...   tu   non    credi che, all'altro  mondo...?   Sta  pure  sicuro.   Co­me qui. Mi accoglierebbero con tutti gli onori. Pensa un po'!   Al  Paradiso  o  all'Inferno che io  andassi...

Usciere                          -   Chi   s'ammazza  va  all'Inferno,   dicheno.

Marcucci                       - No, per me bisognerebbe fare una eccezione: t'assicuro che la merito... senza merito mio proprio... ma perché il Purgatorio l'ho già fatto qui... Ma anche il 'Paradiso sarebbe un Inferno, come questo... Te lo im­magini il mio arrivo all'altro mondo? Tutte quelle anime di beati: « Oh!  corri!  vieni a vedere, chi arriva! »... «Oh! San Pietro, chi è quello? è lui? »... «No, è uno che gli somiglia tal e quale! » (accennando che par­lano a lui) « Ma venga qua ma si faccia vedere! Ma sa che è spiccicato, identico! ». Gli angeli cesserebbero di suonare per veder­mi... oppure farebbero l'accompagnamento... allo spettacolo... Serata d'onore!... E intanto, qui, i giornali pubblicherebbero il ritratto del morto: ma non il ritratto mio, che da venti anni non me ne sono fatti più... E perché dovrei far­mene? Spesa inutile: si vendono dappertutto... (Pausa) ...Vedi, con quest'occhio malato io ci sono nato: lui, lui non l’aveva un occhio ro­vinato; e almeno c’era questa differenza... Quest'occhio guasto, almeno, era mio... Ma un bel giorno lui si mise a fare l'aviatore, lui... e in quel volo che...

Usciere                          -  'Mbè, mo' lassamelo vola... È tardi e vado a magna' 'n boccone. Bon appetito,, sòr...

Marcucci                       -    ...sòr   Gabriele,   vero?

Usciere                          - (esce).

SCENA QUINTA

Marcucci  solo  - indi Marietta

Marcucci                       - (passeggia agitato: si avvicina alla finestra, scorge qualcuno nella via e questa vista sembra fugare i suoi pensieri. Si toglie la papalina, le mezze-maniche; sospinge la scrivania un po' lontano dal muro, ponendo la sedia dall'altra parte, rivolta cioè verso il centro della stanza. Si siede e attende, con Volto   sorridente   e   un   po'   sentimentale).

Marietta                        - (da   fuori) È  permesso?

Marcucci                       -    Avanti!

Marietta                        - (entra da destra: porta in mano il pranzo, in piatti sovrapposti avvolti nella sal­vietta, e nell'altra una bottiglia di vino e un bicchiere) Bongiorno, signor Marcucci(de­pone   il   tutto   sul   tavolo   di   destra).

Marcucci                       - (si alza, passando dinanzi al suo ta­volo e vi si appoggia, tendendo quindi le-braccia verso  la fanciulla).

Marietta                        - (sì volge, lo guarda e abbassa gli occhi, vergognosa; lo guarda di nuovo, sor­ride e sì lancia tra le sue braccia).

Marcucci                       - (baciandola) Cara Mariettuccia mia.

Marietta                        - (sembra  pentirsi  e  vuol divincolarsi).

Marcucci                       - No, resta così. E che male c'è? Non mi vuoi bene? Non ti voglio bene? Hai paura?...

Marietta                        -  Paura?   No.

Marcucci                       - Io te ne voglio tanto, di bene, sai. Non so se ieri sera l'hai capito. Io non so dirtelo, perché, vedi, anche ieri sera io stesso non credevo di volertene tanto, ma quando ci siamo baciati, quando per la prima volta, per quella strada fuori porta mi hai baciato   anche   tu,   ho   capito...

Marietta                        -    Che   avete   capito?...

Marcucci                       - Ho capito che a quésto mondo ci può essere un po' di bene e un po' di felicità anche per me. È una cosa brutta, sai, nella vita,   essere   solo,   non   avere   nessuno...

Marietta                        -  Certo che è brutto. Ma adesso bisogna che scappi via. Mamma se dev'esse accorta...   de   quarche   cosa...

Marcucci                       - ...Se n'è accorta? E come? Le hanno   fatto   la   spia?...

Marietta                        - (accenna   che   sì).

Marcucci                       -  Sì?!- E  chi?

Marietta                        - (sorridendo vergognosa) Je l'ho detto io. (allo  stupore di Marcucci)  Ma  state tranquillo; je l'ho detto... perché ho capito che a lei nun je dispiace... Sa che sete un galantomo, ci avete una posizione... E poi sete 'na perzona seria: casa e ufficio. Nha visto quanno che venite a magna, all'osteria, giù da noi. Sempre pe' conto vostro e nun date retta a gnisuno. E questa è 'na bona garanzia, dice mamma.

Marcucci                       - Cara! Le parlerò io, alla mamma; e anche al babbo...

Marietta                        -   A papà no.

Marcucci                       -   No?!   Anche  al babbo!...

Marietta                        -  ...A papà è mejo che je parla mamma... J'ha già parlato, cusì, 'n generale. E   anche   lui...

Marcucci                       -    Lui...?

Marietta                        -  Pure lui dice che sete un galan­tomo, un partito da tenesse in consideraz-zione...

Marcucci                       -    E  tu,  tu che dici?

Marietta                        -  Io?... E nun ve l'ho detto ier a   sera?

Marcucci                       - Detto proprio... no: ma l'ho ca­pito da quel bacio. Non sono mai stato tanto felice... Nell'oscurità tutti i lumicini dei Ca­stelli   Romani   parevano   accesi   per   noi,   e   i  campanelli   dei   carretti   a   vino,   su   la   strada, che  suonassero   a  festa per noi...

Marietta                        -  Ma io de la passeggiata nun ho detto gnente. Arioordàtevene. So' stata 'nsino alle nove e mezza a casa de Nunziata, poi avemo aspettato er tramme è sempre 'na scusa bona quella der tramme -  e Nunziata m ha accompagnata sino ar portone de casa. Si ve domanna, -nun svagate...

Marcucci                       - E quando, quando andrai nuova­mente...   da   Nunziata?

Marietta                        - (Dopo un po' di ritegno) Dome­nica  doppo   pranzo...   a  le  tre,  tre  e  mezza...

Marcucci                       - (turbato) Domenica... non potrò prima delle sei, verso sera... E poi di sera è  più   bello,   soli   soli,   senza   tanta   gente...

Marietta                        - (ridendo) Sete   misantropo?

Marcucci                       - Misantropo... no. Ma che me ne deve importare del mondo, degli altri, quando ho te, Manetta mia. Quando saremo sposati, non voglio vedere nessuno, nella nostra ca­setta...  Noi   soli...

Marietta                        -  Oh nun me terete mica carce­rata!   A me me piace de sortì,  quarche vorta.

Marcucci                       - Sì sì. Ti porterò al cinemato­grafo...

Marietta                        -  Solo ar cinematografo?... Quarche domenica, ar Pincio, ar Corso, tutti scicche, a braccetto. Fasse vede da le cunoscenze, pijasse l'na   bella   granita   ar   caffè,   una   per   uno...

Marcucci                       -    Al  caffè  no.  C'è  troppa  gente...

Marietta                        -  Ho capito: sete geloso; un ge-losone,  caro   sòr  Marcucci.

Marcucci                       - Ecco, sì. Geloso... E non dovrebbe farti dispiacere. Ma perché mi dai del voi? e mi chiami « sòr Marcucci »? È buffo. Sia­mo quasi fidanzati, oramai: dammi del tu e chiamami Paolo, come io ti chiamo Marietta...

Marietta                        -    Me   mette   soggezzione,   sapete...

Marcucci                       -   Ma  che  « sapete »!    « Sai »!

Marietta                        - (dopo breve esitazione) Mbè, sai. Tanto se volemo bene. Però te lo vojo di': è 'n capriccio che me fa piacere: quanno sa­remo   proprio   insieme,   nella   casetta   nostra...

Marcucci                       - (felice)  ...Sì, nella casetta nostra...

Marietta                        -  ...noi soli soli: min te chiamerò Paolo. Ma sai come?

Marcucci                       - (sempre sorridendo) E come, co­me mi chiamerai?... Paoluccio?... Paoletto?.,.. Padellino?...   Lellino?...   Lelluzzo?...

Marietta                        - (risponde ogni volta di no con la testa) E un crapiccetto: te chiamerò... te chiamerò... Aspetta: te lo dico in d'un orec­chio...

 Marcucci                      - (sorridendo, avvicina l'orecchio a lei che, sempre vezzosa, gli dice qualcosa che le fa  assumere   un'espressione   tragica).

Marietta                        - (distaccandosi e sempre ridendo) Sì, « Gabriele »!  Gabriele!  Perché forse nun te ne sarai accorto... ma tu somiji spiccicato a Gabriele D'Annunzio!

Marcucci                       - (come se avesse avuto una mazzata sul capo; si appoggia al tavolo per non ca­dere).

Marietta                        -  Che de? Ve sentite male? Te senti  male?...

Marcucci                       - No: non mi sento male. Cioè... io mi sento male, ma... quell'altro sta bene!... Allora... allora... anche il bacio di ieri sera... l'hai   dato...   a   lui...

Marietta                        -    Ma  che  dite?

Marcucci                       - Niente dico, niente. Dico quello che è... Anzi ti ringrazio... di avermelo detto oggi... prima di sposare... Dirmelo dopo... eh, certo... sarebbe stato peggio... Perché tu, tu non avresti sposato me. Tu avresti sposato lui...

Marietta                        - (non capisce) Ma che v'ho detto?

Marcucci                       - Niente mi hai detto. Mi hai detto anche tu quello che dicono tutti... Anche tu... Ma gli altri non volevo sposarli... Agli altri non volevo bene... M'ero illuso di poter avere un po' di bene, un po' di felicità anch’io... Ieri sera... in quella strada fuori porta... quel bacio... Ah! e che era per me, quel bacio?... Era per lui;... io cero... come testimonio: io tenevo il lume, mentre tu... tu baciavi lui... E poco fa, qui, io ho aperto le braccia,, ti ho stretta, ti ho baciata: e invece ti prendevo e ti consegnavo a quell'altro... Ma sì, chia­mami Gabriele, Gabriele... Grazie d'avermelo detto!... Se no, ti sposavo... La nostra ca­setta... la nostra camera... e tu saresti stata nelle braccia di quell'altro... (fuori di sé, fa per serrarla alla gola) Ma no. E che colpa ne hai, tu?... (ridendo) Due gocce d’acqua... E se anche ti ammazzo, è finita forse per me? No. Cambierei vestito, cambierei casa e... cam­bierei pubblico. Sarebbe un pubblico di uo­mini con l'abito di colore a righe: ma io sarei quello che sono: con 1 abito da ga­leotto anch'io; ma chi mi chiamerebbe col numero?... Ognuno dei miei compagni di ga­lera avrebbe la gioia di essere un numero: colui che ha ucciso per brutale malvagità, colui che ha stuprato, il parricida ha diritto a un nu­mero, ma un suo numero: ma io continuerei, come qui, come sempre, ad essere chiamato con nome   di   quell'altro,   a essere   il   suo   sosia,  più curioso   ancora,   più   buffo...  Vattene! (siabbatte   su   la  sedia).

Marietta                        -    Io   nun   ce   capisco   gnente.   Nun  favve  male...   Essi   borio;   magna   n  boccone., 'n goccetto...

Marcucci                       - (insorgendo) No!   No!   Porta via tutto!   Vattene!    Porta   via!   L'hai   forse  por­tato per me, quel pranzo? L'hai portato a lui! E   tutti   i   giorni,   sempre  (ridendo   ironico)   io ho mangiato il pranzo di Gabriele D'An­nunzio!... Ma l'ho pagato io, con il denaro che guadagno io: il Governo paga me... il Go­verno non mi conosce di faccia... (si riabbandona  su   la  sedia).

Marietta                        -    Ma   fateme   armeno  er  piacere...

Marcucci                       -    Che  piacere?   Non te  l'ho  fatto,     Un   critico   autorevole   fra   il   pubblico il   piacere?    Ti   ho   fatto    risparmiare   mezzaSì,   sì! lira:   tieni  (le   dà   i  soldi)   mezza   lira:   dal tabaccaio: una cartolina col ritratto di lui, di colui che hai baciato. Mettilo a capo al letto!.... E adesso vattene.    

Marietta                        - (accenna a dir qualcosa: prende l'in­volto,   la   bottiglia.   Esce).

SCENA SESTA

Marcucci, solo

Marcucci                       - (Rimane accasciato; poi, piano piano, si alza) Cretino io, ad illudermi! Come se questa potesse cambiarsi. (Fa il gesto come per strapparsi una maschera: ride tragicamente. Cerca  intorno,   con  lo  sguardo smarrito.  L'occhio si fissa sul tavolo di Rampacci. Ricorda qualcosa che gli fa balenare in mente un'idea. Corre al tavolo, tenta di aprire il cassetto: è chiuso. Con un tagliacarte lo forza; apre; estrae un oggetto che nasconde sotto la giacca. Maniacamente corre al suo posto, toglie la sedia, spinge il tavolo contro il muro, pone a posto la sedia. Dice, come a un condannato:)     Marcucci Faccia   al   muro! (Si   siede,   si   appoggia   sul tavolo:  un   colpo   di  rivoltella:  si abbatte  con la testa sul  tavolo).

(Pausa)

SCENA SETTIMA

Marcucci,   poi   Rampacci  e   Bugarini

(La porta di destra si apre: passano gli impiegati della sce­na terza. Attraversano la stan­za, senza fare attenzione a Marcucci, escono da sinistra).

Bugarini                         - (entrando depone il cappello e si avvia al suo tavolo: volto a Marcucci) Ciao D’Annunzio, dormi?

Rampacci                       - (che è entrato subito dopo Bugarini, togliendosi il cappello e appendendolo all’attaccapanni) Silenzio! Non turbare i sogni del Poeta. Riposa sugli allori. (Entrambi ridono e si preparano al lavoro, mentre cala la tela)

FINE(provvisoria)

Amministratore              - Vedo che una parte del rispettabile pubblico non ama la tragica fine di quel povero disgraziato di Paolo Marcucci.

Voci del pubblico           - Si, no, si, no, no, no…..

Amministratore              - E’ ammirevole il gusto artistico di coloro i quali han compreso quale profondo senso di umanità pervada la tragedia.

Un critico autorevole fra il pubblico  - Si, si.

Altre voci                       - No, no, no.

Amministratore              - Ma noi non vogliamo contrariare il sentimento estetico e filantropico di coloro i quali voglion salvare Paolo Marcucci e ai quali quel morticino in scena dà fa­stidio. Riprendiamo dunque lo spettacolo alla sesta e penultima scena.

(Si   fa   da   parte   e  a   un   suo cenno    si    riapre    il    sipario).

SCENA SESTA

Marcucci, solo

Marcucci                        - (ripete la scena sino al momento in cui ha preso l’oggetto dal cassetto di Rampacci. Si punta la rivoltella alla tempia).

SCENA SETTIMA

Marcucci  e Usciere

Usciere                           - (vedendo il tragico gesto, accorre e gli strappa la rivoltella) Ma che volete fa'? Ve  sete 'mpazzito?

Marcucci                        - No,    morire,    finirla...    Nessuno piangerà, non ho nessuno al mondo….

Usciere                           - Peggio! Cusì gnisuno se pijerà la penzione che ve spetta. Ma lassate annà. Tutti 'sti guai perché arisomijate a Grabbiele D An­nunzio? Embè, mettéteve l'occhiali tonni co­me Aròllede Lòidde e fateve cresce la barba come   Camillo   Benso   conte   di 'Cavour.

Marcucci                        - (abbracciandolo).

Cala   la  tela

Coloro che applaudivano fischiano e coloro che fischiavano   applaudono.

FINE