L. Cenci
di
Giuseppe Manfridi
Sosteneva, infatti, che non esistono
feci migliori di quelle di una donna
che abbia appena ascoltato
la sua condanna a morte.
P.P.P.
Personaggi:
L. CENCI - non meno di trent'anni
GIUDICE - non meno di quarant'anni
BEATRICE - non più di diciassette anni
SEGRETARIO - non più di diciannove anni
INCIPIT
La voglio nuda, signori, questa storia
che sulla pagina
ha già trovato il suo principio.
Io non so come
qualcuno verrà a
dirvela e se verrà mai qualcuno.
Il bello e il brutto non intendo giudicarli
e usando il verbo
"voglio" ho già sbagliato.
Questa storia non si può volerla nuda.
Essa è nuda, e nudo
è tutto ciò che
le compete.
Le auguro luce, ma una luce nuda.
Sarà allora accesa, intensamente accesa: illuminata
dalla luce più ricca ed oscurata
dall'ombra più
profonda.
Sì, l'ho compreso
scrivendo un po' a casaccio:
non è storia che possa
essere bella né brutta
ma solo nuda o sbagliata.
(Bufera. Un ammasso di lenzuola irrorate di sangue seppellisce un letto. Semmai, un giaciglio. Sul fondo, i piedi scalzi di una salma sporgono da oltre il vano di una porta finestra. Ombre umane saettano di fuori, sotto la pioggia. Colpi di martello e d'ascia. Dentro, L. strofina invasata il pavimento con delle pezze luride di altro sangue. E' affogata in una tunica repellente. Biascica come sgranando un rosario infernale.)
L.: Non più
pace!
Precipitati...
Precipitati...
Eccoci, e adesso?...
Precipitati...
Eccoci, e adesso?...
Eccoci, e adesso?...
Precipitati...
Non più
pace!
Non più...
Precipitati...
Eccoci, e adesso?
Precipitati
tutti.
Ah, voluto
inutile flagello!
Sei felice?
oh sì, felice!
Sarai felice: guardalo!
Bello il trionfo.
Il tuo giardino:
guardalo:
orto di turpi
germogli
lago di folli
papaveri
rose vermicanti
guardalo:
rosso
come fauci solari
rosso
tappeto per un
Sabba.
Cocente
pantano.
E' la tua gloria, avanza.
Ah!...
Ovunque ne è colato.
Fugge, si muove
strisciando a
rivoli.
Da sopra
ne viene, dai lati
da sotto
ne sorge, fiorisce
come primule: il sangue
ha una radice che lo spinge,
zolfo che l'infuoca e nulla
lo spegne
nulla!
Ah!
Ah!
Beatrice...
l'avete fatto,
pazzi!
E' chiaro
qui si legge: è
fatto.
Cosa vi dissi? Fatelo
e ce ne pentiremo:
tutti: voi che l'avete
voluto e io che sciagurata
non l'ho voluto
mai.
Mai l'ho voluto, mai.
(Beatrice, grondante, appare nel riquadro della finestra.)
BEATRICE: Ma sta' zitta, mentecatta, e fa'
quel po' che ti
riesce.
A te è bastato di volere
che fossimo noi a volerlo e questo è tutto.
(Tira via a
strappi la camicia dal corpo della carcassa per poi infilargli una giubba e
avvolgerlo in un mantello. Da ultimo, gli calzerà delle scarpe ai piedi.
L. non guarda, strofina.)
LUCREZIA: I materassi, come nubi
nere e gonfie
di pioggia, piovono
vermigli marosi più a torrenti
dell'uragano
fuori.
Ahinoi,
è tutto un segno
il cosmo che ci tiene; e questo tozzo
pietrame, il tendume, le piastrelle,
le lenzuola sono il cosmo
circoncluso da
stipiti e mattoni.
Un simbolo immane è la realtà che ci contempla.
Un ventre
che su noi pulsa,
ci succhia e ci riscaccia.
Perché proprio
stanotte la
tempesta?
Perché ora
quegli alberi
divelti?
Perché domani,
come è certo,
un'aurora giallognola e fumante
verrà in un gelo
di marmo e cenere?
Perché domani?
Perché proprio
dovrà essere così
domani?
Con l'acido dolciastro dell'insonnia
a baciarmi sulle labbra il primo giorno
che vivrò da
possibile colpevole.
Ahimè, com'è terribile
essere reali nel reale, se il reale
come stanotte è solamente un simbolo.
...
Che colpisce?
Chi lo fa?
Che recide? Che fracassa?
Ancora colpi!
Ah, non produssero
picchi o tonfi
i martelli sulla fronte
ma un vibrante
e svelto sgretolio
già affogato
dall'umido e
sieroso ribollire.
A vampe il liquido
s'accese straripando.
(Osa spingersi presso Beatrice che traffica attorno al cadavere.)
BEATRICE: Ma
torna dentro tu!
Pulisci, va'!
LUCREZIA: Che sta facendo quello fuori?
BEATRICE: Lo sai
che cosa.
Sfonda il ponte dove il legno è più marcio, poi di lì
lo faremo franare a fondo valle.
(L. carezza i piedi e i polpacci del morto.)
BEATRICE: (Rialzandosi)
Che ti prende? Che vuoi fare?
Stropicciarti a quel porco di mio padre
adesso che è stecchito?
LUCREZIA: I piedi, solo i piedi...
i muti calcagni almeno
si abbiano - a nome
del muto collo, del dorso, delle membra, delle ascelle -
la carità di una carezza.
BEATRICE: Purché sia in fretta. Di là è finito.
LUCREZIA: Ah,
sposo mio...
Le vidi, io,
le roncole e le mazze
che t'hanno giustiziato quando ancora
non erano che ferri più innocenti di forcine,
immacolati e fatti
per i campi e per la casa
non meno del tagliere
usato da una cuoca,
di scodelle per la mensa, della striglia
che sarchiava via la polvere e gli sterpi
dai lombi del rabbioso maremmano
che, inno folle alla tua morte,
già barrisce nelle stalle;
atroce simbolo nel simbolo.
(Si guarda le mani che, carezzando, si è sporcata di sangue.)
LUCREZIA: Ah, tu ancora frutto denso
del tuo sanguigno succo ne riversi all'infinito.
BEATRICE: Ne era tumido
come un membro
senza sfogo.
Sangue e sperma!
Questo era lui, puliscilo!
(Sopraggiunge un uomo intabarrato. Senza parlare tira via la carcassa sottraendola alle mani di L. e facendola scomparire.)
BEATRICE: O se t'è caro sapere
dove sprofonda, allora esci.
(Beatrice va.)
LUCREZIA: No, non
esco.
Non è questa
sepoltura da vedere.
(Trascinandosi sulle ginocchia, torna al centro della scena. Riprende a strofinare.)
LUCREZIA: La tua urna,
triste sposo maledetto,
per assurdo sarà in questi
scuri cenci di te
zuppi.
Cose chiamate
con il tuo stesso nome.
BEATRICE: (Da
fuori) Giù, spingilo, Olimpio!
Via, di sotto!...
Putrido manzo, torna
alle greppie del tuo inferno!
(L. si tappa le orecchie per non udire, nella vertigine della notte, l'inudibile tonfo del Cenci.
Un tempo.
Beatrice, riaffacciandosi sulla soglia, così la vede.)
BEATRICE:
Stupida!
I cadaveri
non urlano volando.
(Ma sono parole che L. non sente pronunciare.)
(Un'aula. Il Giudice è al suo tavolo. Disegna spirali e poliedri su dei fogli. E' la sua maniera di scarabocchiare. Si ode lo scricchio di un pennino. E' il Segretario che, più sul fondo, sta terminando di redigere un verbale. Lo scricchio cessa. Il Segretario asciuga il pennino del suo stilo con un panno già sporco d'inchiostro. Il Giudice, senza muovere lo sguardo, gli fa un cenno con la mano. Il ragazzo si dispone a ricevere un ordine. Con un secondo cenno il Giudice gli fa capire di volere il libro con le pagine appena compilate. L'altro si affretta a portargli il compendioso tomo poi ritorna al suo posto. Riprende a pulire il pennino. Il Giudice sfoglia le pagine. A tratti si sofferma su alcuni punti. Sfoglia ancora. Si sofferma. Legge.)
GIUDICE: ... Non so altro della morte di mio padre...
se non che è piombato per la breccia del mignano...
(Sfoglia. Si sofferma. Legge.)
GIUDICE: Io non sono né turca né cagna da spargere il sangue mio.
(Il Segretario ripone lo stilo in un astuccio di legno.)
GIUDICE: Io non sono né turca né cagna da spargere il sangue mio.
(Una breve pausa.)
GIUDICE: Io non sono né turca né cagna da spargere il sangue mio.
(Una breve pausa.)
GIUDICE: Né turca... né cagna...
(Nella stessa aula. Il Giudice, L. e il Segretario dietro il suo scrittoio.)
GIUDICE: Sono adesso due volte
che la sabbia ha
riempito un vuoto e l'altro della clessidra.
A me, signora, il silenzio non stanca.
Né m'affligge l'avervi di fronte.
Pur se muta. Ma inutilmente muta.
Poiché muta non siete. M'è d'obbligo informarvi
che ho competenza, ahimè, per lunga consuetudine,
di ben altre mutezze che non la vostra ormai a un passo dal
lacerarsi
in profluvi di parole. E pur quelle, all'apparenza
insondabili sepolcri,
m'apparvero loquacissime. Mai nessuna ne ho incontrata
tacita al punto da farmi dire: ecce homo,
una creatura che
non ha misteri.
Voi non siete, come vorreste farmi intendere,
una donna che non parla ma piuttosto
una donna che s'ostina
a non parlare.
Oh, sapeste
nel mentre vi pensate tanto eroica e capace
che preziose confessioni, sponte loro, van facendo
i rossori che vi macchiano, i brividi alle mani,
le pelli smangiucchiate, quelle gocce
di bianca saliva che v'incolla
le labbra agli angoli, il tremitante petto e il modo buffo
e inelegante di starvene seduta.
(Gira la clessidra.)
Raramente ho interrogato
con tanto
profitto un testimone.
D'altronde non sentite lo scricchio del pennino?
Non ha pause da quando siete qui.
E che pensate che sia? E' il mio scrivano
che altro non fa se non verbalizzare
tutto quello che pensate di non dire.
(Un silenzio.)
Insperata,
insostituibile alleata!
Per farvi meglio comprendere chi siete
vi chiamerò ad assistere
a qualcuno dei miei incontri con Beatrice.
LUCREZIA: E che
ha da dirvi lei? Cosa vi ha detto?
Non sa niente più di me.
GIUDICE: Infatti.
E perciò parla: all'infinito.
Inarrestabile ma vacua.
Il mio scrivano non è arrivato a riempirci mezzo foglio.
Lei accusa, reagisce e s'offende rovesciando
le domande in
domande. Le imputazioni in accuse.
Oh, lei sì che per adesso
sa che significhi
l'arte di tacere.
Ma dunque, signora, e questo è il punto,
io vi chiedo con precisione di
scardinare non il
vostro ma il silenzio di Beatrice.
So che per natura non siete coraggiosa.
E questa non è una colpa. E' come dire l'essere
castani, bruni o
biondi.
A nessuno si può rimproverare
di non essere
abbastanza forte.
Io è alla vostra viltà che faccio appello, appellandomi al buon senso.
A una parte di voi stessa,
innegata e viva fibra che vi portate in cuore...
LUCREZIA: Cos'è accaduto per farvi credere ch'io sia...
GIUDICE: Per
carità, niente amor proprio!
Non siete una donna, voi, che possa guadagnarci
ad apparire poco
o tanto più audace di quel che siete.
E dunque:
io vi schiudo la
porta per fuggirvene da tutto questo impiccio...
ho bisogno
di sapere con chiarezza, primo:
chi era il Cenci, secondo: cos'era per lui Beatrice,
ultimo e terzo: quale il legame
tra la ragazza e
quel Calvetti ora fuggiasco.
Come vedete
di voi non
m'interesso.
Adesso, ripetuta
per l'ennesima volta la filastrocca, mi riaccingo
a rimirarvi in proficuo e reciproco silenzio.
(L. alza gli occhi sul Giudice. Forse per osservarlo come lui ha detto di osservare lei. Il Giudice scrolla lentamente il capo. Carica la sua pipa con molteplici e cautissimi gesti.
GIUDICE: Non vi serve di guardarmi, a voi no, ma è ottimo
che pensiate ne
valga la pena. Ciò vuol dire che m'avete compreso.
Noi non siamo, l'un per l'altra, degli argomenti astratti
ma nomi da cui derivano persone, universi, cuori,
che possono
intendersi o respingersi.
Io, ad esempio,
gradisco che non
vediate in me un'istituzione e basta.
Chiaro: son qui per conto dello Stato nonché del Santo Padre.
Ma non siete voi parte, Lucrezia Cenci,
di questo Stato, e suddita
di quei Cieli dei
quali è primo suddito il Nostro Santo Padre?
Non cercate in me contrasto o inimicizia
ma conferma
che Chiesa e Stato son qui presenti, in me, per tutelare
sia chi amministra
sia
l'amministrato.
E presenti in me vuol dire
in un povero impiegato che se v'induce a non dormire
costringe sé per
primo a stare sveglio.
Che se vi tiene al gelo, anch'egli ci sta con voi.
Mi chiamo Ulisse Moscato. Ho un'anagrafe consueta.
Non vi dirò se ho figli, ma potrei averne.
Ho avuto affetti e di diverso tipo.
Nulla al momento e il domani mi spaventa.
(Additando una ciotola sul tavolo.)
So che durerò per breve tempo, ma per più tempo
di questo nevrotico scorpione che ho levato da una crepa della sedia.
Lo vedete?
Vi dirò perché lo tengo.
Ho un gonfiore alla gola che da mesi si sviluppa
sottraendomi, da
un giorno all'altro, un sorso d'aria.
Sarò ridotto, e i medici sentenziano:
senza recessione, a succhiare meno fiato di quanto basterebbe
a un micio, a un
passero, a un cucciolo di cane.
Ma i miei polmoni pure allora esigeranno
né più né meno il
nutrimento d'oggi.
Immaginatevi me che ingoio a raffica
tutta l'aria che
serve per riempirli.
Che mai sarò? Peggio d'un guitto, un saltimbanco, prima di morire.
Non penso ad altro che a inventarmi infinite dilazioni.
Comincerò pertanto a sopravvivere
rinunciando al
superfluo del respiro.
Ho già fatto i miei calcoli: innanzitutto al ridere .
Poi niente più
sbuffi, niente imprecazioni.
Nemmeno gli starnuti saranno più concessi. Infine,
a moccolo consunto, strangolato
dirò "grazie, mio Dio, che m'hai lasciato solo:
nessuno che mi veda esagitato e buffo
a tirare le cuoia come un topo
che squittisca indemoniato, idrofobo, grottesco."
Questo è ciò
che di certo io
sarò un giorno.
Lo so ma mi trattengo
dall'impormi ad
ogni istante ciò che so.
Poiché dunque la pura volontà
è il muscolo che tengo più temprato e in perenne allenamento,
d'assoluta
intenzione ho voluto regalarmi un utile giochetto.
Quest'aureo mostriciattolo voleva farmi secco.
Io l'ho prevenuto
e secondo
giustizia imprigionato.
Poi gli ho detto, ma veramente detto flatus vocis :
che tu sia dunque decretato
come l'unico
nemico di tutta la mia vita.
Ti condanno all'ergastolo, e non solo.
Ti condanno a regalarmi
la certezza
decisiva di quest'età finale.
Che il mio tempo sarà più del tuo.
Per cui
o provvedi da te
o sarò io
nell'ultimo
spasmo a toglierti la vita.
Toglierti la vita: non come un perfido
monello con gli spilli o a fuoco lento
ma toglierti la vita
come a un vero nemico, a un corpo vero
di maschio umano
possente più del mio.
E da avere, per certo, un istante da guardarti
ridotto a salma
con me che ancora vivo.
Poi s'avanzi l'illimite orizzonte per entrambi.
Ma oggi, tenendolo sott'occhio, cara amica, posso dirmi:
egli vive?
Anch'io son vivo.
Vivi! Vivi, orribile coagulo
d'esistenza
cieca!
Finché vedo il tuo uncino malefico e affamato
tremolare leggero e i tuoi scatti di saetta
io son
tranquillo, che nulla va accadendo.
Strani legacci
s'attorcigliano
tra simili e dissimili.
Di me, così, v'ho detto tutto. Ah, non proprio.
Ad onta del tumore amo il tabacco.
Ogni tipo di tabacco.
E sì... un
chiacchierone. Sono davvero un chiacchierone.
Quel mio piccolo guasto provvederà a curarmi da questa debolezza.
Dopo il ridere ho previsto
tagli drastici
pure nel parlare.
Ma, insomma, dicevamo
primo secondo e terzo, ricordate?...
Affido i tre punti
ad un'estrema, e m'auguro
feconda pausa.
(Si accende la pipa. Guarda la clessidra. Poi la donna.)
LUCREZIA: Sono stata
sono
giuro
sincera con voi
giuro...
ma sono una, io, che può sapere nulla?
So appena quello
ma solo quello...
O Domineddio!
So appena quello che mi si consentiva di origliare.
Praticamente niente, ma se vi può servire...
Oh, non fu mai
per intenzione
che lo feci.
Di origliare, cioè. Ecco, mai.
Ma quando i muri
da se stessi parlano...
Cielo benedetto, ma che sto dicendo?
GIUDICE: Proseguite.
LUCREZIA:
Perdonate, signore.
Sono una donna in lutto.
Il pianto mi governa; la ragione
m'è così
difficile di tenerla ferma!
Ma insomma, sì... Cos'è che dicevo? Ah, certo.
Se ho ben capito qui si tratta
di dover difendere qualcuno... Beatrice, insomma
e anche
quell'altro sì ecco insomma da una strana accusa che si sente mormorare...
Ma credete, sul mio onore di sposa ve lo dico:
quel che è accaduto non fu più orribile
di quanto già non
sia.
Di quanto, cioè,
già così non sia.
Vi basti il suo corpo sfracellato fra le rocce.
Vi basti una sciagura. Cosa di più
volete cercarvi
dentro?
Certo, è facile
per chi la notte dorme
impiastricciare di giorno superstizione e sogno
e fare le cose
come la voglia vuole. Facilissimo.
E voi,
che tanto conoscete il cuore umano, non sapete
come rabbia e invidia compongano poemi?
GIUDICE: Piano e
con ordine.
E meno astrusamente.
Cominciamo dal principio.
LUCREZIA: Il principio in assoluto
è per quel che mi riguarda
nelle nozze
scellerate dovrei
dire con il Cenci.
Ma nemmeno.
No, non trascrivete, ve ne prego, scellerate.
Sì, l'ho detto
ma non per dire
di ciò che fu
l'essere sua moglie, non per questo
è un altro il senso
ma per dire
cioè pensando
alla tragica vicenda di questa che per me
non è la prima ma
seconda vedovanza.
E così orrenda,
come frutto
di un atroce
malaugurio.
Da quell'altra, meno assurda, ne ero uscita
come un'orfana, un'infante
con due orfani a cui dare un altro padre, e a me un tutore.
La mia dote
era dispersa.
Non potevo che sperare
nella pura carità, e lui la fece.
(Alza lo sguardo, per azzardarsi a scrutare il Giudice negli occhi. Moscato giocherella con il suo scorpione stuzzicandolo con un fuscello. E fuma. Tace.)
LUCREZIA: Sì,
carità. Davvero.
So quello che si dice, che è difficile
accordare alla sua vita parole che non chiamino
subito in causa
la morte e l'odio.
E dunque voglio farlo, perché merita e lo faccio.
Con me il dolore fu un minimo frangente
infitto nei miei giorni. Nell'ordine che suole
la buona e
malasorte, per se stessa, figurare.
E fatemi di "sì" voi che lo sapete... A che altrimenti
il vostro
raccontarmi?
La pace è un lento scavo
sotto frane di polvere e di sabbia. E' l'avventura
d'una goccia di rugiada nell'inferno, d'una briciola
di zolfo scossa da scintille negli abissi
siderali dello spazio. Non è il disegno
dell'esistenza questo? E allora perché dire:
fu un uomo che lo volle? Un uomo che non meno
di me e di voi
ebbe il suo palo
qui su questa terra, e qui la fune che lo legò.
E non in tutti
i corpi che
vediamo, conosciuti e sconosciuti, scorre sangue?
Non in tutti? Non in quelli
di chi strepita che questo
versato per disgrazia
è sangue di demonio cavato dal demonio?
Forateli quei corpi, bucate quelle carni
e che vedrete se non sangue? - Pare strano
che il suo cranio
sia sfaldato?
E tutti a dire: figurarsi...
non può essere la roccia ma senz'altro
la ferocia d'un piccone! No, signore,
chi precipita in un baratro non muore
in altro modo da come è morto lui.
(Un silenzio.)
GIUDICE: Fate conto, queste ultime parole,
di non averle
nemmeno pronunciate.
Chissà mai che cosa il mio scrivano
avrà saputo riassumerne; a me stesso
vi confesso che è
giunto molto poco.
Per cui, di nuovo,
con ordine e con calma.
LUCREZIA: Ordine ordine calma ordine...
GIUDICE: Per chi non abbia
da elucubrare fantasie la calma è un aiuto
e l'ordine non è
un'impresa.
I dati di fatto hanno sequenze naturali.
LUCREZIA: Capirete però che
qui c'è di mezzo tutta quanta la mia vita.
GIUDICE: Non più che un episodio
e neanche centrale ma solo terminale:
la scomparsa di un uomo, compagno parziale
d'un breve tratto della vostra vita.
LUCREZIA: Sicché voi insomma
posso fidarmi che davvero non pensate
com'è chiaro d'altronde più del sole
che io proprio, proprio io...
che sì sarebbe assurdo pensare seriamente
che io, per come sono
e per quanto gli dovevo
- a lui più padre
che patrigno, a lui più padre che consorte -
io potessi maturare, ma lo sentite com'è assurdo?,
io, me, per quel che sono
la voglia di
strapparlo dai miei giorni!
Da me, flebile tenue
femmina chioccia, lui
che era lupo, era
leone. Ma guardatemi, signore!
Oh, ma poi
voi già l'avete detto
perché voi l'avete detto:
d'un breve
tratto, parole vostre, mi fu compagno.
E che ragioni
d'acredine o di furia esagerata potevano venirne,
e con la forza
di permutare la mia pelle di velina nella scorza che ci vuole
per odiare e giustiziare, che ragioni
potevano incalzare dall'infimo d'un tempo
che un anno a oggi non era cominciato?
GIUDICE: Ma tutto
ciò era implicito ancor prima che foste convocata.
Andiamo avanti.
LUCREZIA: Ah, che requie
generosa mi
donate!
Sì, dunque, eccomi pronta
a tutto quel che serve. Vi dicevo
che per quanto mi riguarda la vita nella Rocca
era fatta di telaio e forse della noia
non greve, languorosa, che preme con carezze
monotone una donna se l'autunno, non per colpa
del maschio che l'alleva, è l'unica stagione che l'anno possa offrire.
Ore caduche s'intonano alle foglie
che scendono a
folate.
Sapete quando il sole
è più scialbo
della luna?
E sole e luna non sono che disegni
a tinte tremule e
scorate pittate nella volta...
E il più che c'è da fare è nell'attendere che torni
un uomo tra le stanze. Contare quanto resta, vederlo ripartire
e riattenderlo e
contare e ancora attendere.
Ma è pure il prezzo di qualcosa questa vita.
E se il filo si strappa, se si lacera la tela
ah, che lacrime
per quella noia persa!
GIUDICE: Bene. Direi
un acquarello ben
dipinto.
Sincero e onesto. Mi rafforza
nell'avere
confidenza in quel che dite.
Ma levatevi dal centro
dei vostri resoconti. Vi rammento:
se c'è da andare a caccia non siete voi la preda.
LUCREZIA: Caccia?
GIUDICE: Eventualmente.
LUCREZIA: Ma non io...
GIUDICE: L'ho detto e ripetuto.
LUCREZIA: Beatrice, allora?...
GIUDICE:
Eventualmente.
LUCREZIA: E il suo Calvetti?...
GIUDICE: Eventualmente.
LUCREZIA: Certo, fuggirsene...
GIUDICE: Avete
detto "il suo"?...
LUCREZIA: Io?
GIUDICE: Dunque, si sapeva.
LUCREZIA: Oh, no... "il suo" per riferirmi...
GIUDICE: Suo
cosa?
LUCREZIA: Conoscente, uno di casa.
LUCREZIA: Sicché
tanto suo che vostro.
LUCREZIA: Ma più nel senso di...
GIUDICE: Compagno, amico?
LUCREZIA: Ecco sì, amico.
GIUDICE: Beatrice
quindicianni, lui quaranta.
Più comprensibile che fosse
amico vostro.
Se per amico vogliamo dire amico.
(Un silenzio.)
GIUDICE: Vogliamo dire amico?
(Un silenzio.)
GIUDICE: Non è questa la sede
delle parole
ambigue.
Volete che consulti un dizionario
per mettere in chiaro cosa vuol dire 'amico'
a ciò che nei verbali l'espressione
sia riportata, citanto quel che dite,
con un senso preciso ed ine
quivo
cabil
mente ...
lo volete?
Per me sono disposto a farlo.
LUCREZIA: Penso che a volte, così mi pare almeno
d'aver capito, lui le portasse dei libri o qualche cosa
che potesse distrarla e sulla quale, penso ai libri soprattutto,
poi restavano a parlare e s'intendevano.
E appunto voi capite come questo
possa avere un po' la forma di un legame, d'una sorta
di legame...
GIUDICE: D'amicizia.
LUCREZIA: In
qualche modo, forse, ecco mi sembra...
io direi di sì.
GIUDICE: E voi di libri
ne avete chiesti mai?
LUCREZIA: No, mai.
GIUDICE: Mentre Beatrice
di telai non s'intendeva.
LUCREZIA: Poco,
di meno.
Anzi sì, ma non è questo.
Capace era capace. Ma a quell'età, sapete...
un po' che si fa in fretta e di più ancora
come chiedere a una bimba di sapere
che significhi godere con pazienza
tutto il giubilo inane dell'attesa?
GIUDICE: Di chi?
LUCREZIA: Dello sposo per cui ci si consacra.
GIUDICE: Il Cenci non era
per lei lo sposo, ma suo padre.
LUCREZIA: L'analogo, insomma,
di colui che nel mio stato era lo sposo.
GIUDICE: Giusto.
Bene. L'enigma è sciolto.
Possiamo, dunque, confermare 'amico'?
LUCREZIA: Sì.
Sì, certo... amico.
(Il Giudice va presso il Segretario. Controlla i fogli.)
GIUDICE: Perfetto. Amico. La signora sottoscrive.
(Scorre alcune righe.)
Bene, benissimo. A rileggerla
deposizione
impeccabile. Tecnicamente ineccepibile.
Sconnessa alquanto da ascoltare ma su pagina
vi garantisco che
fa tutto un altro effetto.
No, mio Dio, perché quell'ansia
inopinata nello
sguardo?... E' un complimento.
Doveroso comunque che lo estenda
pure a questo giovanotto. Il suo mestiere lo conosce.
(Il Segretario fa un cenno col capo, per ringraziare. Il Giudice torna al suo posto. Guarda la donna.)
GIUDICE: Bisogno d'altri impulsi
o è sufficiente che stia zitto?
LUCREZIA: Cosa ha scritto su quei fogli?
GIUDICE: La pura verità, se avete detto
la pura verità.
LUCREZIA: Voglio vederli.
GIUDICE: Nessun impedimento. Ma attenta, signora, che voi m'offrite il destro
di mettervi alla
prova e ad una prova estrema.
In quei fogli c'è il vostro autoritratto.
Non dovreste riconoscervi lo capirei in un attimo.
Guai per voi.
Per me è lo stesso che concedervi uno specchio in cui specchiarvi.
Li volete?
(Nessuna riposta.)
GIUDICE: Incertezza allarmante. - Tu, passa quei fogli!
LUCREZIA: No, non
li voglio.
GIUDICE: Son io che lo voglio. Rileggete!
Vi prometto l'indulgenza di chi non se ne accorge
se rileggendo trovate due o tre punti
diciamo da
aggiustare.
Ritrattazione, madama, sapete che vuol dire?
LUCREZIA: Perché pensate
che voglia ritrattare?
GIUDICE: Merito
vostro, mai l'avrei pensato.
Ma se tanto vi spaventa d'esser vista
mentre fingete di credere a voi stessa... rileggete!
LUCREZIA: Siete voi che avete detto "specchio". Voi l'avete detto.
Ho orrorre di uno specchio
in cui trovare
quella larva che so di essere qui dentro.
Per altro che volevo... che v'ho chiesto... non per questo!
GIUDICE: Bene
benissimo.
Lo scoglio è superato. Ma sappiate
che basta un vostro cenno, mi capite?...
LUCREZIA: No, sul serio...
non è che adesso voi...
tutto quel credito che prima mi davate...
GIUDICE: Rimane intatto.
LUCREZIA: Davvero
intatto?
Ditemi di sì, ma sì davvero.
GIUDICE: Una cucciola sembrate. E sì che siete madre e siete stata
per già due volte
moglie.
Una donna d'esperienza in tutti i sensi.
Dovreste andare un poco a scuola da Beatrice.
Lei ne avrebbe da insegnarvi.
Sentiste con che toni, con che sprezzo mi risponde!
LUCREZIA: Con me Beatrice
non c'entra poco
o tanto.
Non è il mio sangue che le scorre nelle vene.
GIUDICE: Come che sia
in qualche modo è vostra figlia.
LUCREZIA: Quella
è figlia del Cenci, ma non mia.
Sa lei cosa vi dice e perché gridi
con quei versi
suoi di tigre quando un'altra tacerebbe.
Spudorata è spudorata in tutto.
Per lei il ringhiare è ciò che per me è un sussurro.
GIUDICE: L'amate
poco, o cosa?
LUCREZIA: No, non questo.
Non la capisco, ecco.
E non vorrei, sarò cattiva,
che mai possiate confondermi con lei.
GIUDICE: E' tempo, allora,
per filo e per segno di spiegare
a cosa alludevate dicendo "tutto quello
che so è perché origliavo."
LUCREZIA: No!
Sbagliate.
Non origliavo... l'ho precisato, mi pare. Ero costretta
a sentire, ma non spesso. Ero costretta.
GIUDICE: Sicuro, tutto torna: Beatrice che strillava e voi al silente
ufficio del telaio. "Costretta" trovo
sia la parola giusta.
(Si massaggia la gola. Si palpa il collo.)
GIUDICE: E in tanta costrizione, dite dite,
percepivate cosa?
LUCREZIA: Ma
grida, appunto.
La fanciulla ormai la conoscete. Quella è così, Dio sa perché.
Grida per nulla. Le escono strilla col fiato del respiro.
Solo con me si tratteneva un poco, per il resto
che fosse lo stalliere, il facchino o chicchessia
bastava una
sciocchezza ad eccitarla.
Costituzione; i nervi
sembra quasi che
le fascino la pelle.
Che fosse una verdura
in cui trovava terra,
fosse un bicchiere
con un bruscolo nel vino
ma a volte addirittura
bastava una moina, una carezza che giungesse
a coglierla distratta e sù, avvampata,
lustra negli
occhi forsennata e matta.
No, non che sia matta, per carità di Dio!
Come una matta, dico. Un'isterica di quelle
che se fossi
stata un uomo l'avrei presa a sberle.
Un uomo o per davvero
sua madre, ma sua madre
non lo sono né ho potuto
tentare neanche
solo di sembrarlo e questo è brutto.
Se penso quando invece
suo padre coi miei figli...
GIUDICE: Se penso quando invece...
LUCREZIA: Eh?
GIUDICE: Che lingua strana usate.
(L. è affannata. Non capisce il senso di quanto le è stato detto.)
GIUDICE: Generalmente dominate
in maniera
decorosa la sintassi.
Mi domando che recondita
ragione, d'improvviso,
vi induce a formule bizzarre
del tipo di
quest'ultima, e non solo.
Notavo che ciò avviene
in certi punti assai precisi del discorso.
LUCREZIA: Sarebbe tipo quando?
GIUDICE: Oh, non m'azzardo. Inezie
da entomologo. Vi ascolto.
LUCREZIA: Tipo quando?
GIUDICE: Quando ad esempio
vi sperticate ad
elogiare il Cenci.
Ma niente di che, insisto:
statistiche di un solitario cronico. Vi ascolto.
LUCREZIA: Non c'è di più. Ho finito.
GIUDICE: Bene
benissimo.
Ma che immagine infelice di minuscola selvaggia
m'avete dato
della povera Beatrice!
Diciamo, alle spicce, che è un caso da ricovero.
LUCREZIA: Che è una bambina inquieta. L'ho conosciuta inoltre
in circostanze tali
da rendere più acuti e ancora più tenaci
i suoi deliri di
eterna insoddisfatta.
Per tanti versi, monsignore, io mi sforzo di capirla.
La quiete è un bene
che vuole spiriti
maturi per essere gustato.
E la piccola, lì dentro,
poteva a volte mostrare insofferenza
- ma così, frutto dell'età e non altro -
per ciò che a me era cibo
godibile e prezioso, e a lei clausura.
GIUDICE: Che immagine infelice.
Pericolosa,
quasi. Tremenda, spaventosa.
LUCREZIA: Ma non è quella, vi giuro, che volevo.
GIUDICE: Eppure
così appare.
E v'è sgorgata dall'anima, perciò
su questo punto non consento correzioni.
LUCREZIA: O no, fatemi chiarire!
GIUDICE: Andando
avanti. Clausura, dicevate...
Nel senso, immagino, che non c'era per la Rocca un grande andirivieni.
LUCREZIA: Oh, poco sì. Ma in quanto al resto prima...
SEGRETARIO: E voi, per contro,
avevate con chi andare per qualche gita fuori?
LUCREZIA: A
volte, raramente. Forse chiedendolo.
Ma non avvenne mai. Questo, s'intende,
quand'era assente il Cenci.
GIUDICE: E quando c'era?
LUCREZIA: Con lui sì che si poteva.
GIUDICE: e si
faceva?
LUCREZIA: Ma avendolo con noi
che voglia più
volevate che ci fosse?
GIUDICE: E anche con lui in casa
era d'abitudine sentire quella barbara sgolarsi?
O forse in quei casi
il muro riposava?
LUCREZIA: Certo che no. Era suo padre. Mai.
GIUDICE: Ché non osava
o che avendo con sé il padre tornava più tranquilla?
LUCREZIA: Questo, senz'altro. Tornava più tranquilla.
(Il Giudice tace. Si sente il pennino vergare i fogli.)
GIUDICE: Volete controllare?
LUCREZIA: No, perché?
GIUDICE: Chissà
mai... per qualche aggiustamento.
Se comunque vi fidate...
LUCREZIA: Sì che mi fido. E quello che le ho detto è semplice:
la più ovvia
delle cose, non vi pare?
Era suo padre... non vi sembra la più ovvia
tra le cose che una figlia
riavendo con sé
il padre ne goda la presenza?
E come una sposa al fuoco
virile di quell'ombra anche Beatrice
scioglieva i mille intrichi, i groppi, le matasse delle sue fibre ardenti,
e a pelo liscio
tornava una
fanciulla di quindicianni e basta.
GIUDICE: E due! Voi siete una pittrice: altro soavissimo
e dolcissimo acquarello.
Ma cambiamo di vernice e tavolozza. Mi duole, ahimè,
di richiamarvi a
cromatismi ben più foschi.
Dov'eravate voi e dov'era lei
la notte quando il Cenci è volato nel dirupo?
LUCREZIA: Ah,
io...
ecco lei non so
l'ho vista poi sul ponte
sì a guardare per il foro
dove l'asse s'è schiantata
sì che questo lo ricordo
e l'altro pure che era venuto appresso
già, proprio, che dormiva
quella notte
sotto...
il Calvetti insomma
pure quello
che aveva inteso un po' Beatrice che chiamava e pure me
dico chiamava ma lì davvero avremo urlato entrambe
e con tutta la bufera
ché nel frattempo
Dio sa come il cielo s'era aperto
da fresco e nitido che era in cataratte
dunque sì
se ci ripenso
certo in tunica da notte
e pur io in tunica da notte
che nude sembravamo con l'acqua che incollava
le stoffe sulla
carne.
E' lì! E' lì! Ecco dov'è
che veramente ho visto e non in sogno
l'immagine mia e sua
vicine l'una
all'altra come nude.
Sarà dunque che dormiva
Beatrice nel suo
letto ed io nel mio.
Questo sarà, senz'altro.
GIUDICE: Ma a svegliarvi cosa fu?
LUCREZIA: Ah,
l'urlo!
A me di certo l'urlo
cioè l'urlo di lui precipitando
e a Beatrice penso
che a svegliarla sia stato l'urlo mio,
o forse fui io
svegliata da lei
che urlava.
No, fu lei
sì fu lei che mi raggiunse sopra
e terzo l'altro
che fu quello che lo vide
al Cenci poveretto
nella fossa dopo un volo
che il medico l'ha detto che l'ha fatto rimbalzare
sette volte sui crepacci
e poi finire
su un serpaio di rami come lance
che l'hanno perforato sotto l'occhio
e tutto il sangue
che dicono: dov'è
per essere smembrato
da schianti così
orrendi?
Dov'è?... Dov'è?...
Capite, è il sangue
che cercano e non
trovvano e perciò accusano...
Ah, monsignore, ve lo dico io che il sangue
l'ho visto a lunghe strisce
più nere della notte
strisce lucide che l'acqua
poi bevuta dalla
valle s'è bevuta.
E dopo all'alba
nell'asciutta mattina che è venuta
lo credo che era tutto
orribile e pulito
che solo per riaverlo il corpo di quel martire
un giorno di carrucole al lavoro
c'è voluto: un giorno tutto intero.
(Tace. Si ode lo scricchio del pennino. Poi silenzio.)
GIUDICE: Grazie,
signora.
Avete inseminato
un terreno
fertilissimo.
Per mio conto non rimane
che attendere i
germogli.
Temo, comunque,
di dovere in futuro e forse presto
chiamarvi nuovamente ed abusare
del vostro incomparabile buonsenso.
(Il Giudice accompagna la donna fuori. Rientra palpandosi il collo. Va al tavolo del Segretario che gli porge il libro. Moscato scorre in silenzio l'ultima pagina scritta. Il Segretario asciuga con uno straccio i pennini e li sistema in un astuccio di legno, poi ripone il coperchio sul flacone dell'inchiostro.)
(Nello stesso luogo. Il Segretario, scostandosi dal suo scrittoio, va a un inginocchiatoio sul fondo. Si genuflette e prega. Il Giudice va presso una finestra oscurata. Sulla mensola è sistemata una strana pianta esotica dalle filature contorte. L'uomo ne tasta la corposità delle foglie. Scosta la tenda. Ne entra un raggio di luce che viene offerto alla pianta. Il Segretario si batte il petto. Tempestosamente. Il Giudice non si volta mai a guardarlo. Prende una piccola manciata di terra dal vaso della pianta e la va a versare, come alimento, nella ciotola in cui tiene il suo scorpione. Il Segretario continua a percuotersi rimanendo in ginoccchio, quasi carponi sul fondo.)
(Beatrice è
davanti al Giudice. Ai piedi dello scrittoio - dunque più sul fondo - una
grande quantità di fogli lacerati. Tracce di inchiostro versato. Il Segretario
ha uno sguardo alterato, altrimenti: ha la fronte reclinata sui pugni che premono
alle tempie. Beatrice è ritta. Crinita. Ferma e decisiva. Tiene un braccio
rigidamente disteso di modo che la destra chiuda a coperchio la ciotola
dell'insetto. Stringe le dita contro i bordi di coccio. Un tempo - poi, con uno
scatto del polso, rovescia la ciotola. S'immagina lo scorpione che le cade sul
palmo. E così sta.
Il Giudice la fissa con evidente inquietudine.)
BEATRICE: Di che
si nutre il poveretto?
(Silenzio.)
BEATRICE: Ci fu un tempo che ebbe fame di voi e voi lo ricusaste.
Da allora ad oggi di cosa si è nutrito?
(Silenzio.)
BEATRICE: E cosa
beve?
O non è razza
che patisce la
fame né la sete?
Solo voglie e non bisogni?
Perciò l'avete eletto,
così vicino a
voi, vostro nemico.
Esangue razza
che solo di
sangue vive.
Ma sembra innocuo.
E vile.
Non colpisce. S'arrampica, s'arresta.
La viva carne lo sconcerta.
Non osa mordere temendo d'esser morso.
(Un silenzio.)
Che compagno gentile avete assunto
a condividere una morte
che è tanto idiota da non essere ridicola.
(Volta la mano. Ripone la ciotola. Si strofina il palmo sporco di terra contro il lembo della veste. Poi, aperto, lo offre allo sguardo del Giudice.)
BEATRICE:
Integra.
Per questa mano illesa
pur io vivrò, non fosse che un istante,
ma un istante più di lui.
(Al Segretario) Avete scritto, voi?
SEGRETARIO: (Al Giudice, con gli occhi pieni di lacrime)
Signore, credo
che si possa dirle di andar via.
(L'altro annuisce. Beatrice esce. Il Giudice si porta col busto in avanti. Guarda nella ciotola e smuove con un fuscello lo scorpione. Il Segretario raccoglie i fogli da terra. Sfrega via l'inchiostro versato sul pavimento. Torna a sedere.)
GIUDICE: (Senza sollevare lo sguardo dalla ciotola)
Ottimo.
Ottimo... ottimo...
(Al Segretario che lo sta guardando)
Sì, decisamente
ottimo.
Quei fogli non gettarli.
A tempo e a luogo il Santo Padre
saprà dare pure ad essi il giusto peso.
(Il Segretario rassetta i fogli sgualciti e strappati e li depone.)
SEGRETARIO: Mi manca la cronaca
dell'ultimo episodio.
GIUDICE: Non hai più carta?
SEGRETARIO: M'ha distratto.
GIUDICE: A te?
SEGRETARIO:
Perdonate, signore.
Sono stanco.
GIUDICE: Mai
abbastanza.
Quanto andiamo conformando
non s'intende di fatica o debolezza:
è un postulato.
Uno scenario. Una realtà.
Ambiguo e stabile
come un'idea e
come un fatto al tempo stesso.
Dimettiti se vuoi, ma se non vuoi
sublimati in
rotella, in verricello...
Noi siamo imposti qui per contrastare
disordinate intelligenze, abnormi palpiti, sudori,
brodaglie di parole in cui è illusione
dare credito ad un"no" solo perché
ha il merito infantile di essere, quel "no", la verità.
Le buone geometrie trovano spesso
nelle menzogne gli alleati più eccellenti.
(Si carica la pipa.)
GIUDICE: E come insegna
il Segno della Croce, la Santa Trinità,
il Divino è geometria,
e dunque giusto e
naturale.
Noi siamo, figlio mio, preposti a organizzare
ciò che è accaduto, e a fare che sviluppi
naturalmente , dunque
ciò che deve ripugnarci
non è nessuna
colpa, ma l'assenza di espiazione.
L'irresoluzione.
Il non chiudersi del cerchio.
Purnondimeno
consento che il saluto di Beatrice
rimanga come un intimo segreto,
come l'istante
di una questione privata tra me e lei
con te solo testimone.
SEGRETARIO: Se
pensate però che debba...
Non mi ci vuol molto a ricordare...
Voglio dire: potrei adesso...
GIUDICE: Non c'è tempo. Fa entrare l'altra donna.
(Il Segretario esce. Il Giudice si accende la pipa. Tossisce. Su un foglio che ha sul tavolo cancella alcune misteriose righe. Entra L. E' più riccamente vestita rispetto al precedente incontro. Il Segretario torna al suo posto.)
GIUDICE: Ovviamente
non m'attendo rettifiche, né speciose
puntualizzazioni
su quanto dichiarato...
Troppo buio?
(L. fa di no col capo.)
GIUDICE: Vorrei piuttosto
che toccassimo insieme altri capitoli,
dacché se voi
mi siete tanto provvida di luce
l'acquisita vostra figlia sa sprizzare
un tal nero di seppia che invece di oscurare mi fa scorgere
strane cose spaventevoli e confuse.
LUCREZIA: Che v'ha detto?
GIUDICE: (Continuando) Ma son certo
che quanto spiegherete sarà in grado
di fugare ogni apprensione.
LUCREZIA: Che v'ha detto?
GIUDICE: Nulla.
Esageratamente nulla.
E se al posto
di quest'oceano di nulla
avesse fatto appena un segno
d'assenso, solo uno,
ascoltando il
resoconto delle vostre affermazioni, beh...
probabilmente il grosso l'avremmo già risolto e questo caso
non restava che metterlo in archivio.
LUCREZIA: Perché
è malata!
Sì, scrivetelo: malata.
Non per questo assassina, ma malata.
GIUDICE:
Assassina?
LUCREZIA: Non dicono "assassina"?... Lo dicono! Lo dicono!
GIUDICE: Di sicuro voi
l'avete detto
adesso.
LUCREZIA: Per dire no,
che non lo è.
GIUDICE: Ma la parola sì
l'avete usata.
E mai nessuno
prima di voi tra queste mura.
LUCREZIA: La parola, e va bene, per negare
il sudiciume che
si trascina appresso.
Se non tra queste mura, nei mercati, nelle piazze,
nelle aule dei palazzi, qui in città ed altrove
sentiste come corre, e inzuppata di che bave,
di chi fiele!
GIUDICE: D'accordo, non posso
che prenderne
atto.
Come del fatto, insisto,
che a questa parola, in quest'ufficio,
siete voi che avete dato
cittadinanza. Voi e non io.
(Lo scricchio del pennino.)
GIUDICE: Eccola
lì: documentata.
Io v'informo, non altro.
LUCREZIA: Ma per dire: non è vero! Non è vero! Non è vero!
GIUDICE: Reagite ad un'accusa
che nessuno ha proferito.
LUCREZIA: Ma che pensiero mi vorreste
cacciare adesso
in testa?
Il peggio che potessi
bisbigliarvi ad un orecchio, e con dolore, ve l'ho detto! A malapena
per lo strazio che ne provo
a un'amica, a una
sorella l'avrei detto...
E' malata. Come ossessa. Già lo era, poi aggiungete
tutto quello che è successo... Oh, non chiedetemi perché ma è nata logora
nello spirito e nel sangue. Guarirà...
crescendo guarirà. Forse incontrando
qualcuno che la voglia e che l'aiuti, ma per oggi
c'è bisogno che stia a dirvelo? Si vede!
(Il Giudice, fumando, si ostina a tracciare piccoli cerchi su un foglio.)
LUCREZIA: M'ascoltate? Mi credete?
GIUDICE: Che vuol
dire se vi credo o non vi credo?
L'importante è che vi ascolto.
Sino a ieri negavate fosse pazza
- e non fui io, ammettetelo,
ad avanzare quest'ipotesi - ora dite:
"è un'ossessa", precisando:
"ma non un'assassina."
Ma da ossessa a assassina
corre lo spazio appena di un gioco di parole.
LUCREZIA: E quandomai
potrà la forma delle parole dare la forma ai fatti?
GIUDICE: Se non la forma, sovente qualche indizio
le pure parole possono offrirlo, eccome!
Parentesi chiusa e bando ai sofismi: quando
l'ultima copula tra voi e il Cenci?
(L. crolla esterrefatta a sedere.)
GIUDICE: Scusate ma è importante.
LUCREZIA: Mi coricai
con lui...
mi coricavo con lui tutte le notti
che passava nella Rocca.
GIUDICE: Ma accoppiandovi ogni notte?
LUCREZIA: No.
Non tutte.
GIUDICE: Era frequente che accadesse
più volte in una notte?
LUCREZIA: A volte.
GIUDICE: Praticava anche altre femmine
nella Rocca o solo voi?
LUCREZIA: Ma se
ero io sua moglie?...
GIUDICE: Anche altre femmine?
LUCREZIA: No...
No, no.
GIUDICE: Voi e basta?
LUCREZIA: Me e basta.
GIUDICE: E quella notte pure?
LUCREZIA: Ci coricammo insieme.
GIUDICE: E copulaste?
(Silenzio.)
GIUDICE: Copulaste?
LUCREZIA: No.
GIUDICE: Lo dite per vergogna?
LUCREZIA: Ma no!
GIUDICE: Signora,
è un punto grave.
E quale che sia la risposta che darete
ne seguiranno
domande ancor più gravi.
Avete inteso bene?...
Quel che, stupidamente,
a voi sembra un'indecenza
ha di fatto un senso molto grave.
Mi ripeto:
fu quella notte l'ultima
volta che vi prese?
LUCREZIA: Sì, quella.
GIUDICE: Più volte?
LUCREZIA: No, una.
GIUDICE: Più volte?
LUCREZIA: No, una.
GIUDICE: Una sola?
LUCREZIA: Una! Una! Una!
GIUDICE: E com'era solito montarvi?
Con violenza?
LUCREZIA: Vi scongiuro... c'è bisogno?
GIUDICE: Non fu tanto meno casta
la nostra
chiacchierata l'altro giorno.
Con violenza?
LUCREZIA: Ma che poteva mai entrarci la violenza?
GIUDICE: Dunque, senza?
LUCREZIA: In nome di Dio!
GIUDICE: Con o senza?
LUCREZIA: Ma che? Che?
GIUDICE: Con violenza?
LUCREZIA: Se v'ho detto di no, ancora non vi basta?!
GIUDICE: Bene.
Siamo d'accordo, è no.
Chiedendo sempre venia mi tocca proseguire, e garantisco:
la domanda che sto per farvi m'è resa inevitabile
dall'ultima
risposta.
Eravate nel ciclo
mestruale quella notte, durante quelle notti e in particolare quella?
LUCREZIA: Ma che c'entra? A che vi serve?
GIUDICE: Cioè a dire:
avevate perdite?
LUCREZIA: Pretendo di sapere
se serve di saperlo.
GIUDICE: E in nome di che
lo pretendete?
LUCREZIA: Esiste un diritto
alla propria dignità di cui ciascuno è arbitro.
GIUDICE: Caso vuole, signora, che la grave contingenza
l'abbia rimesso in mio potere. Un'adozione
che m'è solo di peso. Rispondete:
eravate o no nel ciclo
mestruale quella notte?
LUCREZIA: No, non lo ero.
GIUDICE: No?
LUCREZIA: No.
GIUDICE: Sicché niente perdite
né la minima violenza...
LUCREZIA: No! No! Mille volte no.
GIUDICE: E
com'era la vostra tunica da letto?
Dico quella di quella notte: la ricordate?
LUCREZIA: Ma sì che la ricordo, certo.
GIUDICE: Com'era? Dite.
LUCREZIA: Una camicia chiara...
GIUDICE: Chiara, e poi?
LUCREZIA: Con cuciture decorate all'orlo... e ai bordi delle maniche e alle spalle.
Leggera. Chiara
e...
Oh, insomma... bianca, lunga. Aperta sul petto e con un nastro per tenerla...
Così, più o meno questo.
GIUDICE: Di così fatte
ne avete più d'una o solo quella?
LUCREZIA: No, nessun'altra, solo quella.
(Il Giudice va a prendere un involto. Lo poggia sul suo tavolo. Torna a sedersi. Dall'involto tira fuori un ammasso di stoffe sporche e sprimacciate.)
GIUDICE: E' questa?
(L. allunga la mano per riconoscerla al tatto.)
GIUDICE: Ci risulta sia questa.
(Silenzio.)
GIUDICE: Lo è o non lo è?
LUCREZIA: Tutto è passato
dalla notte all'aurora e dall'aurora al giorno
col furore d'un rombo, e da quel giorno agli altri,
trascinandomi in un balzo di saetta
come un puntale di ferro ora piantato
qui sul vostro sgabello innanzi a voi. Mi ci voleva
una simile domanda a ricordarmi
che una parte di me ha trovato il tempo
per usi quotidiani: per cambiarsi, per levarsi
una veste che tuttora mi sentivo
tirare sulla pelle.
Oh, davvero una dormiente!
GIUDICE: E quella veste è questa?
(L. fa per tirarla a sé, ma il Giudice le consente di esaminare non più che un lembo.)
LUCREZIA: Dov'è stata ritrovata?
GIUDICE: Non vi serve per capire
se sia quella oppure no.
L'abbiamo appena scritto che altre uguali non ne avete.
Allora, è quella?
(L. più che esaminarla ne palpa la stoffa tra le dita tremanti.)
GIUDICE: Le cuciture ci sono, e il nastro pure.
LUCREZIA: Già, ci sono.
GIUDICE: A tunica, leggera...
LUCREZIA: Già... sì.
GIUDICE: Che concludiamo?
LUCREZIA: E' mia, sì.
GIUDICE: Ma la vostra di quella notte o un'altra?
LUCREZIA: No, non è un'altra.
GIUDICE: Unico elemento contrastante
è che non sembra molto bianca.
LUCREZIA: Mi sarò spinta
nel fango tra le pietre,
perciò che è così lercia.
GIUDICE: Non è lercia di fango. Fosse fango
lo troveremmo a
chiazze.
Ma qui il grigio è uniforme, quasi ingrossa
le trame del tessuto. Questo panno
ha consuetudine
al suo sporco.
Vi confesso: mi fa schifo di toccarlo
tant'è impestato
di cimici e pidocchi.
Mi meraviglio di voi, signora.
(Un silenzio.)
LUCREZIA: Non avevo
da mettermi che questa.
GIUDICE: E il Cenci sopportava
di praticarvi in questo stato?
LUCREZIA: Era lui che lo voleva.
GIUDICE: L'indossavate, dunque, solamente per suo gusto?
LUCREZIA: Perché era quella che avevo e non ne avevo altre.
GIUDICE: Ma ne avreste gradite
di più acconce ad appagare la vostra dignità?
LUCREZIA: Non so, non ci badavo.
GIUDICE: Ve ne avesse regalate?
LUCREZIA:
Naturalmente. Forse.
Ma quella avevo e c'era freddo.
GIUDICE: E cos'è che v'impediva
di farvene da voi, con tante ore che avevate
da starvene al telaio?
LUCREZIA: Non so
filarne, io, di questa roba.
Solo drappi disegnati.
GIUDICE: E avreste da portarmene?
LUCREZIA: Non so,
dovrei cercare.
Per lo più li davo in giro.
GIUDICE: (Al Segretario) Li davo in giro, hai scritto?
(Riprende a tracciare cerchi su un foglio.)
GIUDICE: Invero mi domando
come tutto l'acquazzone che sostenete di aver preso
non abbia saputo
strigliar via nemmeno un po' di sudiciume.
Non dico tanto, un po'.
LUCREZIA: Acqua
terrosa. Era bufera e vento.
Ci vedevamo in faccia l'una all'altra
schiume nere che grondavano
come righe tracciate col carbone.
GIUDICE: E nella luce di cotanto inferno
v'accorgeste di Beatrice limpidamente nuda?
LUCREZIA:
Un'impressione.
La sagoma svelata, ma fulminea,
nei suoi punti per me più misteriosi.
GIUDICE: E di voi stessa nuda, v'accorgeste.
LUCREZIA: Ma non fu allora
che me ne accorsi: poi nel ricordarlo.
GIUDICE: Ah,
ecco.
Bene.
(Comincia a dispiegare, con la cautela di una sarta, la veste sopra il tavolo.)
GIUDICE: Volete offrirmi, per cortesia,
una qualche chiave d'interpretazione - dacché sangue
vostro non può essere - di questo sangue qui.
(Una lunga pausa. L., inorridita, ha gli occhi fissi sulle larghe gore di sangue che imbrattano la sua camicia.)
GIUDICE: Vuolsi
che sia proprio a
mezzo della pancia.
Tralasciando qualche sbaffo
più in alto verso il petto,
là dove sboccia è esattamente dove
indossandola vi dovrebbe ricascare sopra il ventre.
Per scrupolo, proviamo?
(Quasi una pantomima. Con un cenno il Giudice chiama a sé il Segretario che, abbandonando il suo banco, viene a sentire cosa l'altro voglia da lui. La richiesta viene sussurata, impercettibile, a un palmo dall'orecchio. Il giovane prende la tunica tenendola con ambo le mani per le spalline. Si porta davanti a L. e gliela misura addosso scostandosi per quanto può d'un lato di modo che il Giudice possa fare le sue constatazioni. L'azione sembra fissarsi su questo quadro. Poi riprende, lentamente, movimento. Il Giudice non guarda più L. ma giocherella, alla sua maniera, con fuscello e scorpione. L'espressione di L. inizia a mutare suggerendo un'idea di nausea, di repulsa. La donna tenta di scostarsi quella mondezza di dosso ma il Segretario, con prontezza e vigore sorprendenti, la blocca rimponendole quella penosa esposizione. Il Giudice si ostina a non sollevare lo sguardo.)
GIUDICE: Capirete adesso il senso
dei miei quesiti
all'apparenza sconci.
Sangue di mestruo non è e poteva esserlo.
Sangue di stupro pure, ma non è nemmeno questo. E dunque?
(Una breve pausa.)
LUCREZIA: E'
sangue vecchio. Non è di quella notte.
Come tutte
o quasi tutte
le immonde croste
di questa orrenda pezza.
Un marciume orripilante
- vi repelle, lo so -
che è il cilicio con cui, per un mio voto,
ho voluto
consacrarmi alla Vergine Maria.
Così ho promesso:
per cinque anni interi di giacermi
con questa lebbra
con questa rogna addosso.
GIUDICE: Un voto per cosa?
LUCREZIA: Per la
sorte dei miei figli.
La mia prima vedovanza s'è scelta questo lutto.
GIUDICE: Ad onta del Cenci, o l'avevate consenziente?
LUCREZIA: Era un uomo devoto, come ben sanno
gli innumerevoli istituti che hanno tratto
opulenza dai suoi lasciti.
(Il Giudice si alza. Va a prendere la veste dalle mani del Segretario che, con un cenno del capo, viene fatto tornare al suo posto.)
GIUDICE: Voi
siete in sacrilegio, ve ne rendete conto?
Son già diverse sere che avete infranto il vostro voto.
LUCREZIA: La Beata Vergine lo vede
che niente fu se non per incoscienza.
GIUDICE: Ma non siete più torpida
e l'incoscienza non è un criterio. Tenete.
(Le porge la veste.)
GIUDICE: E' l'ora in cui si officiano
i riti. Il Santo Padre
recita adesso la
prima Ave Maria.
Indossate questa tunica.
LUCREZIA: Non è l'ora. Perché dovrei?
GIUDICE: Signora, la questione
è che voi dovrete uscire di qui dentro
non dalla porta per la quale siete entrata. Inoltre poi
la veste con cui andrete sarà l'unica concessa
per coprirvi nei giorni che verranno, e se v'è d'obbligo
dormire così messa,
dovrete starvi
pure in pieno giorno.
Son regole non mie ma del Palazzo
nel quale vi trasmetto.
(Accenna imperiosamente alla veste.)
GIUDICE: Fatelo, vi prego.
(Una pausa.)
GIUDICE: Fatelo, ve l'ordino!
(Il Giudice si volta contro il muro. Anche il Segretario si volta contro il muro. L. fissa il camicione che le ricasca su un braccio. Poi, come narcotizzata e senza capire, si slaccia i suoi abiti, se li sfila. Si fa passare per il capo quell'indumento raccapricciante e lascia ricadere la falda della tunica che adesso la veste come un impìastrato sudario. Ai suoi piedi stanno gli abiti appena smessi.)
GIUDICE: (Senza voltarsi) Non per imputazione
ma solo per far sì
che sia più facile fra di noi un'intesa. Per questo mi son spinto
a firmare, e solo adesso,
il foglio che
v'incarcera.
V'ho incontrata mantenendo
ancora in bilico la penna, ma più cose
m'assolvono dal
peso dei rimorsi.
Peso, comunque,
che da tempo s'è
ridotto a mia appendice.
Un'arma avevo e un'arma ho usato.
Più di questo
con voi del vostro censo,
tranquillizzatevi,
non posso.
E certo non vorrei.
Né dovrei.
Però
il punto è
che è toccato a voi di fare
ciò che Beatrice non seppe fare:
convincermi, signora,
che in quel
crepaccio c'è ancora molto da scavare.
Ed è evidente
che, voi andando, vi trascinate dietro
una teoria di nomi che, vi piaccia o non vi piaccia,
si ostinano a restarvi compagni in ciò che segue.
Beatrice, innanzitutto.
LUCREZIA: Eccomi,
signore.
Così mi volevate?
Voltatevi, guardatemi.
(Il Giudice si volta.)
LUCREZIA: Così mi volevate
e così sono.
Oh, lo so bene
che qui si fonda, che qui comincia
un'età nuova della mia esistenza
battezzata da una firma e già immolata
nel sudario in
cui veleggia.
Ma se pensate
che io, gracile scapola
agli anni in cui ho vissuto, non sappia farmi
schiena capace di questa nuova età
oh, allora sì davvero
stavolta, preparatevi, potrei ingannarvi
e ingannarvi
irreparabilmente.
Io sento che
qui non rinasco
dolente e derelitta come sono,
ma pari a una città
dalle fresche fondamenta vengo a sorgere
con le spalle di un Atlante
che neanche il globo
terracqueo col suo orpello
di gemiti sa
flettere.
Resisterò, signore:
questo è ciò che
vi prometto.
All'infamia resisterò, e se voi siete
l'infamia vorrà dire
che a voi
resisterò.
E all'ingiustizia. Se voi siete
l'ingiustizia, a
voi resisterò.
Alla follia del mondo
che se voi siete,
a voi resisterò.
E alla morte, se voi siete...
E al cielo, se
voi siete...
E alla sorte, all'infame
malasorte, e se
voi...
se voi...
Oh, aiutatemi
pietà, aiutatemi
pietà aiutatemi
pietà aiutatemi
...
(Scivola in terra priva di sensi. Il Giudice le si accosta.)
GIUDICE: (Al
Segretario) Vòltati anche tu.
Vieni qui, guardala.
(Il Segretario si avvicina.)
GIUDICE: Guardala
bene.
La vedi?... Chinati, guardala meglio.
(Il Segretario si china su L. e la osserva senza capire.)
GIUDICE: Ecco un'anima
assai ben alimentata
che troppo ha
goduto della parola 'Grazia'.
E che pesta il mondo qui, su questo suolo,
per la sua prima
volta.
D'una cosa, e giustamente, ha paura questa donna - imparalo:
più che del dolore in sé,
del figurarselo nel suo prossimo domani.
Capisci, figlio?... E' facile.
Noi giocheremo, da oggi,
con un suo precisissimo pensiero.
E sarà lei, col suo pensiero,
l'angolo retto che principierà il disegno.
(Dal Giudice.
Una sensazione di più accentuata nudità. La prospettiva dell'interno è mutata.
Lo scranno dell'inquisitore si trova adesso in un punto diverso, il banchetto
del Segretario è in un punto diverso. Il Giudice sta sistemando sul ripiano del
proprio tavolo gli oggetti che raccontano la sua vita, dunque: il contenitore
del tabacco, la pipa, la clessidra, i fogli scarabocchiati, un pugno di
fuscelli, la ciotola dello scorpione. Anche il Segretario sta attrezzando il
proprio banco deponendo aperto il librone su cui scrive e una serie ben fornita
di stecchi e pennini. E il flacone dell'inchiostro. Come, insomma, a far
immaginare che sia avvenuto un piccolo, fondamentale trasloco da un ufficio a
un altro.
Il Giudice va a scostare, in un angolo laterale, un ampio drappo scuro
rivelando la sagoma plumbea di una porticina inchiavardata. Torna presso il suo
tavolo, recupera da terra la sua pianticella tropicale e si guarda intorno
cercando una sorgente di luce a cui accostarla. Il Segretario, insoddisfatto,
sposta il suo inginocchiatoio. Controlla la nuova collocazione, se ne convince
e si genuflette. Prega. Il Giudice non riesce a trovare un posto per la
pianta.)
(L., vestita della sua tunica, è seduta davanti al Giudice. Il Segretario non sta scrivendo, ma ora è tornato al suo posto di lavoro e aspetta con la penna in mano. Si percepisce come un rombo sordo di fabbrica in attività ma viene da domandarsi quale ne sia la fonte. La donna si guarda intorno. Il nuovo luogo la preoccupa. Poi s'accorge della porta. Sospetta che il rumore provenga di lì. Si volta verso il Giudice con un moto d'affanno.)
LUCREZIA: Che c'è
di lì?...
Quello che so?
(Il Giudice fa un cenno al Segretario di non trascrivere.)
LUCREZIA: E' quello?
(Muove alcuni passi verso la porta. Tende l'orecchio per ascoltare.)
GIUDICE: Di lì
è una cosa,
di qui
è un'altra.
LUCREZIA: E a che cosa m'avete avvicinato?...
Eh?
Cos'è?
GIUDICE: Potrei liberarvi da molte angustie
dicendovi che il
patema dell'attesa è terminato.
Ufficialmente.
So qual è l'aculeo
in tutti i vostri gesti, la stretta che comprime
qualsiasi cosa voi facciate in una; dove il rovello: nel pensare,
senza l'uso della ragione, a quando e a come
finalmente il tribunale si preoccuperà di voi. Ebbene,
con un colpo di teatro non poi tanto sorprendente
ve lo dico, è dichiarato: un tribunale è già in azione.
LUCREZIA: Contro di me?
GIUDICE: Per voi.
Ed è in azione già da tempo.
Secondo colpo di teatro non tanto più efficace.
Il mio Segretario ed io siamo più che sufficienti
a istituire un
valido processo.
Siamo i poli e il mediatore; corte, assemblea
e pubblico
dibattito.
E sì. Dal primo istante
che una Cenci ha varcato... no, non quella, l'altra soglia
dell'ufficio dove stavo
l'istruttoria ha
avuto inizio. Con il primo mio punto di domanda.
I giorni dell'indagine son già quelli del giudizio.
LUCREZIA: Perché
non lo ammettete?
Contro di me, l'indagine e il giudizio!
GIUDICE: Nel cuore della legge,
che è il cuore del potere,
'contro' è
un'espressione inesistente.
Mai contro un assassino, ma per lui.
Cavargli dalle polpe la verità è restituirlo
al suo corso
naturale.
E' consentirgli...
di concludere il suo cerchio.
Per sovrapporre il merito alla colpa.
Come in un cerchio il punto di partenza
è pur quelo che
da ultimo sutura.
Ogni individuo disegna il proprio cerchio.
La forma, va da sé, è sempre la medesima.
Del libero arbitrio è invece
la scelta del
diametro.
Se divina è la figura,
il diametro è
l'io.
Ma
chi commette un delitto
s'è scelto
spropositati raggi e poi ne trema.
Si trova innanzi a proporzioni insostenibili e finisce
immedicabilmente
a stringere la curva storcendo le misure,
rimpicciolendo
in una spirale il
cerchio.
Risultato:
così rinnega
la figura, dunque
Dio.
E la natura.
Ed è questa
abiura da cui dobbiamo
salvare un criminale. Come? Aiutandolo
a sostenere, e sino in fondo, l'onere
del percorso avventato che s'è scelto.
LUCREZIA: Con che acutezza avete detto
che l'innocenza
voi la disprezzate!
Perché è al di là di voi.
Perché non sa parlarvi, né sapreste
voi che cosa dirle.
(Una pausa. Il Giudice si alza.)
GIUDICE:Il Cenci
amava torturarvi?
(Silenzio.)
GIUDICE: E
Beatrice?
Vi risulta che mai la torturasse?
LUCREZIA: Perché quest'altra stanza?
GIUDICE: V'ho fatto una domanda da cui dipende tutto.
LUCREZIA: Pur io.
GIUDICE: E' una domanda
da cui molti ci
aspettiamo una risposta.
Vi torturava o no?
LUCREZIA: E lo farete, voi?
GIUDICE: Signora, attenta
ché siete giunta
all'apice.
Questo è il crinale.
Qui non vi serve d'essere un funambolo,
e v'informo che tacere
è il peggior modo
di restare in equilibrio.
Il Cenci non è morto per disgrazia.
Non è stato il sambuco a trapassargli l'occhio.
Ora
io non intendo estorcervi denunce ma solo ciò
che è di vostra
competenza.
Vi torturava o no?
LUCREZIA: Chi fu
tanto maligno da farvelo pensare?
Beatrice? E' stata lei?
I suoi fratelli? Chi?
GIUDICE: Non
Beatrice. Né lei né altri.
Maligna è la ragione che mi fa da polpastrello
per i fili dell'intrico, e il nodo è qui:
vi torturava o no?
LUCREZIA: M'offende solo,
in memoria di quel morto,
sopportare di negarlo, offrire una reazione
allo squallore che me ne fa discutere.
GIUDICE: Siete
sottile ma non basta.
Ho avuto giusto ieri
la soavissima
ventura di accedere al Sacro Soglio.
Ho riferito al Santo Padre il quadro esatto della situazione.
Roma è in ansia, m'ha detto.
Molte ombre e penombre, gli ho spiegato,
dileguerebbero
alla luce dell'indole del Cenci.
Se quanto consumava, m'ha risposto,
nell'intimo di casa era riflesso
dei suoi pubblici costumi non posso che tremare
di pietà per quelle donne.
(Un silenzio. Il Giudice osserva L., poi sposta per un attimo il suo sguardo sulla porta.)
E' necessario
ha aggiunto
che tutto si
sappia. E' obbligatorio.
- Santità, le mie domande io le ho formulate;
toccato ho dunque il vertice consentito al mio potere,
ma innanzi a me ho uno stemma: mogli e rampolle
di altissima progenie che la legge
può toccare non
più in sù delle caviglie.
Sarete voi a permettermi
perciò quando vorrete
strumenti più precisi. - E Lui,
illimitatamente misericordioso,
ricordando che la Grazia è carità
volle che ancora alle semplici parole
fosse affidata la
via verso la luce.
Poi,
con le palpebre enfiate dalla pena, tremende cose ha detto
l'Alto Ministro
di Dio su questa terra.
Sangue tarato, ha detto...
nulla è impensabile
nulla è troppo abnorme
se cosa
condannata a ruotare attorno al Cenci.
Perciò,
dacché nella vicenda gli attori sono molti,
cominciate con sapienza a sottoporre
qualche comparsa almeno
a rigoroso esame.
LUCREZIA: A rigoroso esame?
GIUDICE: E' quel
che ho fatto.
Che sto facendo.
(Guarda la porta. Anche L. si volta a guardare la porta. Poi, tornando a lui, mentre si ricomincerà a sentire lo scricchio del pennino.)
LUCREZIA: No, non è storia
che abbia attori
né comparse.
Solo me che sono accorsa
chiamata da quell'urlo,
sua figlia lì con me
poi lui che è morto e l'altro,
quell'Olimpio Calvetti che Dio sa
perché adesso non si trovi, ma c'è gente
che a incontrare un Magistrato
- superstizione, lo capite? -
si vede già perduta e allora, ecco...
GIUDICE: Allora fugge.
LUCREZIA: C'è gente, sì, per cui
la legge è sempre e solo un affare poliziesco.
GIUDICE: Ad ogni modo
non eravate in tre là fuori,
ce n'era pure un altro.
LUCREZIA: Un altro? Chi?
GIUDICE: Marzio Catalano, lo conoscete?
LUCREZIA: Sì
certo lo conosco.
Saliva in Rocca a fare da cantore.
Un vagabondo
che s'è fermato in quel villaggio e ha messo lì radici.
GIUDICE: Parlatene.
LUCREZIA: So che vive insegnando la chitarra e poi d'altri mestieri...
di vari
marchingegni; di cose sue che fabbrica, non so.
Marzio Catalano, certo.
Ma lui non c'era.
GIUDICE: E c'era il Calvetti?
LUCREZIA: Il Calvetti sì, l'ho detto.
GIUDICE: La moglie del cantore afferma che il marito, quella notte,
l'ha passata col Calvetti.
LUCREZIA: Quel
che ha detto lo sa lei.
Lassù non c'era.
GIUDICE: Ma nella Rocca sì?
LUCREZIA: Lassù
non c'era.
Solo me all'inizio, poi Beatrice e poi quell'altro.
GIUDICE: Quanto
dopo quell'altro?
LUCREZIA: Ma poco, pochissimo.
GIUDICE: E Beatrice? Quanto dopo?
LUCREZIA: Non molto pure lei.
GIUDICE: Diciamo nulla.
LUCREZIA: Non molto.
GIUDICE: Avete già dettato
che usciste quasi insieme, voi e Beatrice.
LUCREZIA: O nulla o quasi nulla.
GIUDICE: Dunque il tempo
di un urlo, del primo
che v'ha svegliata, d'un secondo che fu il vostro
poi di un terzo,
di Beatrice.
Dopodiché è comparso lui.
LUCREZIA: Subito
o poco dopo, sì.
GIUDICE: Tre grida lancinanti
sanno svegliare dal sonno più profondo.
LUCREZIA: Naturalmente, sì.
GIUDICE: Il Catalano, questo è assodato,
è gonorroico e da un anno
non ha vita sessuale, indi per cui
escludiamo innanzitutto
che abbia detto:
dormo in Rocca, per trovarsi una puttana.
Secondo poi:
nel villaggio la
taverna smercia solo per le feste.
Capirete: ho di che credere
a quella donna e, soprattutto,
a ciò che lui le
ha detto: dormo in Rocca.
Ma allora mi domando:
se dormiva col Calvetti,
del quale è buon amico
spartendo poi con quello abitudini e cultura,
perché mai
le tre grida non
chiamarono anche lui?
Quando invece supponiamo
che alloggiando nella Rocca se ne stesse
nell'ala più lontana, quella idonea
a individui del suo rango, altro quesito:
se dormiva, e col Calvetti, giù in quell'ala
come fece il suo compagno ad accorgersi dell'urla
e ad arrivare sù
in un lampo?
Altro corno del medesimo quesito:
se il Calvetti stava altrove, lui stalliere, secchiaio e manovale,
in virtù di che diritto
albergava in altre stanze? - E se, con chi?
LUCREZIA: Non ho da aggiungere una virgola. Il Catalano
io non l'ho visto se non il giorno appresso.
GIUDICE: E
comparve da dove?
Da fuori o dall'interno?
LUCREZIA: Non era quello, in quelle
circostanze, il mio interesse.
GIUDICE: Ma signora, signora... non capite
che su un piatto
d'argento v'ho servito la risposta?
Che cambia per voi dire
se venne sopra un quarto, oppure di assentire
che c'era ma non venne? Così invece
la discrepanza resta e ne consegue
che varie altre
cose tendono a crollare.
Ah, che sguardo mi lanciate! Lo decifro.
So che implora di sapere
se ormai siete
davvero fuori tempo.
Non ancora.
Vi esorto a riflettere, ma rifletteteci per bene:
che non sia proprio
la verità ciò che vi conviene?
LUCREZIA: E se vi dico che ci stava?
GIUDICE: Non è un gioco. Significa che c'era.
LUCREZIA: Forse c'era.
GIUDICE: Però curioso
ricordarsi la natura delle gocce
che v'imbrattavano la faccia e non d'un uomo in carne e ossa!
LUCREZIA: Non ho
detto con noi sul ponte, lì non c'era.
Può essere, dicevo,
che stesse nella Rocca.
GIUDICE: Già ma allora,
se col Calvetti, perché non venne?
LUCREZIA: Vi siete già risposto: avrà dormito altrove.
GIUDICE: Già ma allora,
se non per starsene col suo amico, perché mai
venirsene alla Rocca quella notte?
LUCREZIA: E appunto sarà che non trovandolo
s'è sistemato altrove.
GIUDICE: Il suo altrove mi sta bene, ma non quello del Calvetti.
LUCREZIA: Non è affar mio di ragionare per un altro.
GIUDICE: Per me torna a riproporsi l'illazione
di una tresca con
Beatrice.
Avallatela e vedrete
come tutto si dispone.
LUCREZIA: Beatrice non mi ha mai,
che fosse o che non fosse,
eletta a confidente.
GIUDICE: Maggior ragione: non violerete alcun segreto
confidando, voi a me, se c'era una tresca o no.
LUCREZIA: Ne abbiamo già parlato.
GIUDICE: Ma non sino a un punto fermo.
"Amico",
ricordate? E' questo che diceste.
Mi spiace ma ritorno sui miei passi:
amico, amicizia... parole troppo ambigue. Non sono punti fermi.
(Un silenzio.)
LUCREZIA: Non è
affar mio ragionare per un altro.
O per un altra.
GIUDICE: Mi contento di pochissimo.
Neanche un'ombra di certezza, ma soltanto un'opinione.
C'era una tresca o no?
Era diritto d'entrambi averla e vostra di restarne
defilata
testimone.
Ma nel quadro del momento, per chiarire
lo sfasamento dei tempi e le distanze,
vi garantisco che ci serve come il pane.
C'era o no?
(Un silenzio.)
GIUDICE: Non se
ne esce, signora.
I fatti si incatenano nel tempo
come cifre in una somma, e quella tresca
è una cifra indispensabile che colma
un vuoto fatto a sua misura. C'era o no?
(Un silenzio.)
LUCREZIA: Se lo difenda da sé
il suo pudore di vergine! - Sì, c'era.
GIUDICE: Nata da molto?
LUCREZIA: C'era e basta. Probabilmente
l'ho capito solo adesso.
GIUDICE: Certo si è
che pure col Cenci nella Rocca si frequentavano parecchio...
LUCREZIA: Siete voi a dirmelo, io questo non lo so.
GIUDICE: Non
salirono insieme? Prima l'una, poi l'altro.
Se non da lei, da dove?
LUCREZIA:
Pratiche loro.
Carni e vergogna non erano affar mio.
GIUDICE: Bene
benissimo.
Ecco un punto cruciale sistemato.
(Al Segretario) Rettifica annotata?
SEGRETARIO: (Leggendo) C'era una tresca ma non so da quando.
GIUDICE: Rimane
il Catalano.
Perché venne, cosa fece e dove stette.
LUCREZIA: Ma se tutto è stato detto non altro che per questo?
GIUDICE: Per
carità, non lo domando a voi.
E' a lui che lo domando. Che vado a domandarlo.
Per l'appunto, una comparsa.
(Indica la porta.)
GIUDICE: Ora,
signora, vi porterò di là.
Vedrete un uomo sopportare degli spasmi
agganciato a dei lacci e sollevato
per le braccia
slogate dal di dietro.
Lo terremo a mezz'aria per il tempo
di quattro Ave
Maria.
Se c'è qualcosa da sapere la sapremo.
E' un rigore necessario.
Abbiamo pochi lembi per restaurare un manto.
Quel suonatore di chitarra, da buon diavolo,
già strilla all'ingiustizia, ma lui non può capire.
(Volge uno sguardo al Segretario che, svelto, si fa il Segno della Croce poi si alza prendendo con sé uno scrittoio portatile, con il librone e un calamaio. Va alla piccola porta di ferro. Inizia a schiavardarla. L. si copre il volto con le mani. Il Giudice le si avvicina. La prende per un polso costringendola a scoprirsi.)
GIUDICE: Per l'intanto a voi ricordo
quel che v'ho chiesto a proposito del Cenci.
(E' scuro. Nell'ufficio del Giudice. Avanza il Segretario con una lampada in mano. E' solo. Si muove attorno. Va presso il grande tavolo. Contempla i vari oggetti che vi stanno sopra. Le curiose suppellettili. I feticci. Si siede sullo scranno. Poggia la lampada sul tavolo. Si azzarda a guardare lo scorpione nella ciotola. Ne ha orrore. Trova però l'audacia di stuzzicarlo con un fuscello. Evidentemente la bestia dà minacciosi segni di vita poiché il ragazzo ritira di scatto il fuscello sobbalzando sulla sedia. Passa alla pipa. La sfiora, la impugna. Se la porta alle labbra. Finge di tirare qualche boccata. Tiene adesso la pipa non più con le mani ma ben salda fra i denti.
Entra il Giudice. Anch'egli con una lampada. Il Segretario, raggelato, non ha nemmeno lo spirito per tirarsi via la pipa dalla bocca. L'uomo lo vede ma sembra non badare a lui. Va al banchetto e si siede al posto del giovane. Apre il libro che raccoglie i verbali degli interrogatori. Lo sfoglia. Si ferma a un punto. Arma un pennino, lo intinge nell'inchiostro e scrive qualcosa. Cancella qualcosa. Sfoglia ancora. Si ferma a un punto. Scorre una pagina e poi la strappa. La infila nel tabernacolo della lampada e la infiamma sulla stoppa. Aspetta che bruci. Si alza. Si dirige verso il suo tavolo. Sempre sul fuoco della lampada accende un fuscello più lungo e secco. Accosta la scintilla al fornello della pipa vergognosamente ostentata dal ragazzo. Gli impone di aspirare. Grandi nuvole di fumo. Il giovane è scosso da una tosse convulsa e, mentre ancora tossisce, il Giudice si allontana. Il ragazzo, quasi soffocato e rosso in viso, stenta a riprendere fiato.)
(Altra luce. Dal Giudice. Ciascuno è al suo posto. L. è al centro.)
LUCREZIA: Signore...
voi che chiamate me "signora"...
smettete, ve ne
supplico, di rivolgere l'occhio a quella porta.
Ho imparato gli alfabeti e le orazioni
le litanie e gli spurghi: la sola lingua ammessa
per intendersi lì dentro. Ho visto un uomo scendere
all'infimo livello a cui può scendere
un'anima ridotta
a nient'altro che budella.
Le ho sentite le parole...
inascoltabili e ascoltate!
I gorgoglii, i muggiti...
‘Lì,
mi dite,
di voi c'è grande
attesa.’
Lo dice il lampo
del vostro sguardo, lo dice il piombo
di quelle sbarre e la penombra,
tanto più adesso
disabitata e tanto più famelica
di masticare in rantoli le sillabe
che ora da qui le
giungono.
Funesta paralisi impaziente
d'essere accesa d'urla. Come rispondervi
con questo crampo
al cuore?
Smettete, signore... per la Vergine dei Cieli!
GIUDICE: La
vostra mansuetudine non è prezzo sufficiente.
Ci vuole persuasione.
Scegliendo di non rispondere scegliete
ciò che ne consegue.
LUCREZIA: A tutto v'ho risposto!
GIUDICE: Negando, ma sappiate
che qui hanno suono unicamente i vostri "sì".
LUCREZIA: La mia verità non è
in quel che feci ma in quello che non feci.
(Con uno sguardo il Giudice induce il Segretario a trascrivere quell'ultima frase.)
GIUDICE: E cosa non faceste che altri invece fecero?
LUCREZIA: Altri
chi? Nessuno!
Vi dannate alla ricerca d'una firma
sotto un'opera
che non fu mai scritta.
L'evento non avvenne.
L'impresa che pensate non ebbe concezione.
E dove poi trovarla? In quale voglia
satanica, in che
ossessa perdizione?
Nella brama d'una moglie
di scannare il suo consorte o in quella d'una figlia
di macellare il padre? Perché a ritroso
salite a
inseminare questi grondanti ceppi?
Non c'è nulla di nulla: un fondo valle
fulminato dal tremendo, come tremendo
non può essere che il caso. Ecco il bandito
ecco il boia, l'assassino... questo è il suo nome
che vi posso declinare all'infinito: caso, sventura,
accidente, fato, disgrazia, malasorte...
GIUDICE: Molto
giusto. Doloroso e giusto.
Eppure, signora,
io mi domando perché abbiate la tendenza
a difendervi da
accuse che nessuno ha pronunciato.
Fu, dapprima, una risposta un po' sconnessa
che mi indusse a
una replica insinuante.
(Al Segretario) Vuoi rileggere?
SEGRETARIO: (Leggendo) Non conta ciò che ho fatto
ma ciò da cui mi astenni.
LUCREZIA: Non è così che ho detto!
GIUDICE: E va bene, ve la passo
non come frase ma come esclamazione.
LUCREZIA: Non è
così che ho detto!
GIUDICE: Lasciamola agli atti... che riposi.
LUCREZIA: Non è così! Non è così che ho detto!
GIUDICE: E' tutt'altro
che a me preme, con voi, di illuminare. Sì perché
se Beatrice, vostra figlia...
LUCREZIA: Figliastra!
GIUDICE: Figlia o figliastra, se Beatrice
lo ammettesse che quell'uomo, suo padre,
e se voi lo ammetteste che il Cenci fu davvero quel demonio
che mille voci raccontano e che noi stessi
non stentiamo a immaginare
tutto apparirebbe più trasparente e logico.
Alle strette:
uno sforzo vi chiedo: d'accusare
non i vivi bensì
un morto.
Solo questo.
(Un silenzio.)
GIUDICE: Quella porta, vedete, per me quasi non esiste.
(Un silenzio.)
GIUDICE: Sarà di tanto peso o non piuttosto
la più limpida vendetta sgranare in faccia a un'ombra
il rosario dei suoi stupri?
LUCREZIA: So che ne fate
che ne sapete fare
del mio
controfirmare le vostre deduzioni.
Mi sfugge quale senso
dareste poi al
mio cedervi e neppure m'interessa.
Volete da me un sì?
Domandatemi allora se era amabile, virtuoso
e vi rispondo sì.
Se era uno sposo assiduo, presente, generoso
e vi rispondo sì.
Se era casto e timorato
e vi rispondo sì.
Perché non scrive? Scriva!
Domandatemi se ho pianto la sua morte
e vi rispondo sì
se con lui ero felice
e vi rispondo sì
se avrei dato la mia vita in cambio della sua
e vi rispondo sì.
Domandatelo a Beatrice e cavereste anche da lei
tutti quei sì reclamati dal registro!
GIUDICE: No.
Beatrice questi
sì non ce li ha detti.
Unica risposta a tutto: io non sono
né turca né cagna
da spargere il sangue mio.
LUCREZIA: E' padrona d'una testa e d'una lingua.
Non son io che le controllo.
Ma non si sente colpevole e lo dice.
GIUDICE: Beatrice
usa spesso la parola "sangue".
Voi, al contrario, le parole "colpevole" e "innocente".
Contorto
imbroglio...
Troppi colpevoli, troppi innocenti...
troppo sangue, e al contempo
troppo poco sangue.
No, non mi convince.
(Sfila di sotto i fogli scarabocchiati una pergamena fittamente scritta. Si alza in piedi col cartiglio tra le mani.)
GIUDICE: Vi comunico, signora,
quanto già detto
pure alla fanciulla.
Questa patente che m'è giunta dal Soglio Pontificio
è un mandato per procedere, in virtù del punto morto
in cui languiscono le indagini, anche con voi, patrizie di lignaggio,
a un rigoroso esame.
(Nella stanza dedicata ai "rigorosi esami". Cappi e lacci, a pioggia, pendono dall'alto; a uno di essi, per i polsi avvinti dietro la schiena, è legata L. La donna è accasciata al suolo, dopo una trazione. A qualche passo da lei, seduto su uno sgabelletto, sta il Segretario che si tiene sopra le ginocchia il suo scrittoio portatile. Ha appena terminato di scrivere e sta riponendo lo stilo. Il Giudice è occultato nell'ombra. La sua vcce giungerà da punti sempre diversi ed imprevisti.)
SEGRETARIO: (Leggendo) L'interrogata su domanda ammette
di essere stata brutalizzata dal Cenci sin dalla prima notte insieme,
dopodiché ancora
molte volte appresso.
E che il Cenci si dilettava d'orge
e che, innanzi agli occhi della moglie costretta ad assistere, era uso
e con violenza possedere adolescenti maschi e femmine di contadini
e servi, e farne
oggetto di molteplici nequizie.
Ella ricorda
di avergli visto sganasciare con una pinza di fabbro il volto di un
dressatore che
lasciò residui di terra nei ferri del cavallo.
L'interrogata ammette inoltre
che essendo stata
richiesta dallo stesso Cenci di far salire alla
Rocca il figliolo di lei, Marco, ultimogenito quattordicenne, fu questi
condotto dal patrigno a cavalcare sino a un bosco di faggi e qui
disarcionato e
poi costretto a farsi penetrare dal di dietro.
L'interrogata dice
che il ragazzo
fuggì dalla Petrella sfregiato in tutto il corpo.
Altresì ammette
che lo starsene suo e della figliastra nella Rocca, con la sola
compagnia d'una fantesca mora, era di fatto un essere recluse con l'interdetto
assoluto ad ogni uscita. E ciò, in particolare, dacché il Cenci
riseppe del tentativo fatto da Beatrice di informare i suoi fratelli
in Roma di
cotesta prigionia.
Ancora ammette
che detti fratelli, Giacomo e Bernardo, sempre e di tutto furono
informati e, sino
all'estremo e in tutto, consiglieri di Beatrice.
E ammette ancora
che il Cenci, affetto da podagra e dai pruriti della tigna, imponeva
alla figlia di stegghiargli a mani nude le gambe e i genitali e ciò
sino a soddisfarsi tra le mani di lei e sfogandole sul viso e per il petto.
Onta di cui
l'interrogata fu più volte testimone.
Come, inoltre, del nettargli le terga quando aveva defecato.
Da ciò pure l'ammissione che una notte
scacciata che fu ella dal talamo nuziale
giacendo insieme alla fantesca di lì intese con chiarezza le strilla
di Beatrice
stuprata da suo padre.
Da ultimo conferma
che per consueto nulla aveva da indossare se non una camicia per la
notte e due altre
per il giorno. Stretto residuo della sua prima dote.
E che bevande e nutrimento erano scarsi. E che nel tempo in cui il
Cenci fu assente dalla Rocca, Beatrice e il Calvetti vennero a combutta,
e che fra essi intercorsero frequentazioni e pratiche, di
quella specie e privatezza come si suole che fra
due amanti... (corregge) avvenga.
(Un immenso silenzio.)
LUCREZIA: Da giovane ammiravo
la giovinezza. Da bambina esultavo
del mio essere bambina. Oggi da adulta, o sino ad oggi,
ho adorato
l'essere nell'età matura.
Per dire cosa?
Che alla vita non ho mai
voluto opporre
nulla.
Ho amato il petto liscio dei diecianni;
ho difeso inorgoglita il primo erompere
d'un turgore
misterioso.
E fu una quieta gioia
la sbocciata
compattezza del mio seno.
Ma non meno
già so che potrei amare d'infinita tenerezza
il suo spolparsi, il suo svuotarsi negli anni in un velario
di pelle abbandonata su carni insufficienti
da condensare e
stringere.
Il ciclo delle umane
e naturali stagioni m'intristisce,
ma la tristezza è una risposta
dell'esistere
all'esistenza.
Chiedo perdono a tutto ciò che ho spaventato.
Ai fiori spetalati, alle formiche calpestate...
Chiedo perdono
a ciò che si è spostato anche di poco per far luogo
al mio passare
per il mondo.
Non ho mai avuto il passo di chi incede.
Frusciare appena
nell'invisibile è
il mio sogno.
Il corpo troppo corpo
mi pare già sporcizia. Già sporcizia
è il gesto più
sforzato. Le esagerate risa.
Non so se questo sia
fragilità, e non
qualcosa d'altro.
A indulgente dileggio di me stessa
l'ho creduto sino
ad oggi ma non lo credo più.
Io ero forte a questo modo.
Diversamente forte, ma forte lievemente.
Decentemente.
L'avevo, e in tanto rogo
ancora non l'ho perso, il mio senso del reale
il che vuol dire
di rispetto per il reale, nonostante
questo .
Disprezzando il
mio disprezzo, ho disprezzato.
Non ho mai odiato, ma disprezzato sì.
Mea culpa mea culpa mea culpa
ma non mea maxima
culpa.
Il disprezzo fu il salario
del luridume che
ho vissuto.
Il luridume per cui affiora alle mie labbra
una parola che non evoca ma che è.
E le mie labbra
solo a dirla si fan laide.
Eppure dirla debbo e farmi laida
a ripeterla sino allo sprofondo
dell'onta e del pensiero: luridume!
Nemmeno una bestemmia mi parrebbe
più infetta e insopportabile di questa
apocalittica
parola, ma la dico.
Apocalittico era lui! Apocalittico il suo passo
il suo sorgere dall'ombra, l'avanzare
a galoppo d'inferno da fuliggini nebbiose nel mattino
e il suo giungere, il suo battere e salire
il suo chiamare, il suo volere
il suo - qualunque cosa
facesse -
penetrare, deflorare, invadere.
Penetrava nei corpi e nelle stanze
negli uteri e nei giorni con uguale
virulenza da
padrone, da teppista.
poi al culmine di sé si sottraeva.
Che tirasse via quel membro
di cane o la mannaia
da una costa di bue, o lo stiletto
da un cuore
zampillante non c'era differenza.
Ma l'estremo fu, che a tratti, più non vidi
nessuna
differenza tra lui e il mondo.
Qui il suo genio:
impicciolire il mondo sino a farlo
a sé conforme.
E il mondo mi si fece,
più di un angusto
orto, angusto.
Striminzito addosso come
una lana
infeltrita e smangiata dalla pioggia.
E tale ancora resta.
L'orizzonte
è una linea che
copro in pochi passi.
Il mare, chiazza
di saliva in una
secchia.
Innanzi agli Alti Cieli, non vorrei
avere questa fede
in ciò che, so, non è.
Ma io ormai credo che invece così sia.
Un'inezia il creato
e un inetto il suo creatore.
VOCE DEL GIUDICE: Questo scrivilo.
(Il Segretario scrive.)
LUCREZIA: Io amo ciò che non so
difendere da voi e che non seppi
difendere da lui.
Io amo me stessa nella totale
solitudine di me, che è solitudine
di braccia, di
palpebre, di mani, di malleoli.
Che è solitudine
di carnagione spiata da me sola nel timore
di ritrovarvi
rughe.
Io amo tutto ciò che fu affidato
alla mia sola mercé
ma che, di mano in mano,
ho lasciato che passasse attraverso mille imperi
da quello, primo,
della fortuna a cui non seppi più sottrarlo,
a quello d'uno sposo poi a quello di Beatrice e adesso al vostro.
E da voi al Papa, dal Papa alle corde e dalle corde a un'alba
che verrà dicendomi: Lucrezia
quel che ti
chiedo adesso è l'impossibile.
E' l'impossibile.
VOCE DEL GIUDICE: Scrivi quello che ha detto di Beatrice.
(Il Segretario scrive.)
VOCE DEL GIUDICE: Rileggi.
SEGRETARIO: (Leggendo) Avendo subìto violenze dal Cenci mi rimisi al progetto di Beatrice.
VOCE DEL GIUDICE:(A lei) Giusta la sintesi?
LUCREZIA: No.
Se il vero vi sta a cuore
non è giusta.
M'accorgo
d'essere stata come un vento flebilissimo
che traversato
dalle foglie ha traversato la foresta.
Io ho dato e preso al di là di ogni coscienza.
VOCE DEL GIUDICE: Alla luce dei fatti
è giusta o no?
LUCREZIA: Ma non ve ne accorgete
che tutto è già
spiegato?
Ho ostentato innanzi a questa fune...
a quei ganci... allo sgabello dove siede
diligente
il tenebroso
pulcino che vi illudete di covare...
ho ostentato
la vergogna della
scena.
La vergogna che allaga...
miscela fatta
di innumeri voluttà.
Di tramontate cupidigie sul cui declino
altre ne montano. Perché, signore,
non studiamo un
compromesso?
O piuttosto un baratto di ammissioni.
Non confessioni: intimità.
Ci incontreremmo a un istante d'amicizia,
di quella gaia amicizia che consuma
nel cuore della notte veritiere maldicenze
derisioni di sé, denundamenti spensierati
dell'uno innanzi
all'altro che tanto ci conosce.
Gli amici così fanno.
Anche amici di caserma.
Più raramente amiche costrette dal ritegno.
No, da amici-amici ci vorrebbe!
Camerati un po' alticci e melanconici
a un fronte di battaglia oppure reduci
dall'amore rabbioso per una stessa donna
che li ha fatti azzuffare, detestarsi e infine dirsi:
ma che ne sa
quella di noi?
Che ne sa di te?
- Ah, come sanno
amici così
raccontarsi tutto!
Ditemi allora:
l'avervi raccontato le sue infamie
non è forse
equivalso a confermarvene una mia?
Si sa:
un uomo simile non muore
impunemente.
Né
ordinariamente.
Al vostro cerchietto manca appena un arco
più minuscolo di
un'unghia.
Ormai ci siete e lo sentite.
Il giro di compasso è completato.
Che brividi, signore!
Sono i vostri che sento, non i miei.
Però in tanta fatica, e nell'intento
quasi spasmodico di raggiungere la meta,
non è andato
tutto liscio.
A me sembra
che un po' vi siate danneggiato. Un po', non molto.
E lo sapete. - Oh, che struggente
delizia, che carezza sarebbe ora per me
sentirmi dire a
bassa voce in un orecchio: è vero.
Ma è troppo. Non ci spero.
O forse sì
ne vale la pena?
Ne vale la pena?
(Il Giudice tace. Il Segretario lo cerca, ma invano, con lo sguardo per capire se debba scrivere o no.)
LUCREZIA:
Ottenuto il massimo vi sfugge il minimo.
La perfezione è solo disfiorata.
Intuisco... caro amico
che quanto vi fu richiesto
- dall'Alto Soglio, probabilmente -
può in sintesi, voi è la sintesi
che amate, riassumersi nel titolo:
fine di Casa
Cenci.
Chiusura della saga.
Clinica ecatombe.
Avello suggellato su tutta una famiglia
che, annichilita,
sarà pratica d'ufficio rendere munifica.
Con cavilli metafisici, quisquilie
per chi governa le leggi che governano
le procedure degli uomini e di Dio,
sarà sentenziato che una simile sentina
di cotante turpitudini
dapprima venga estinta
e dopo paghi il
dazio.
Lo scompenso della logica verrà assunto a rango d'alta
filosofia del Diritto, e ne verranno le agognate
confische, terre
e latifondi.
Lo Stato ha un ventre peccaminoso che si pasce di reati.
Ma il fastidio, vostro, del momento per paradosso è proprio
il successo esagerato
nel far risorgere
il colosso Cenci.
Si rischia che a far dire:
"non si poteva che ammazzarlo"
la pubblica opinione non consenta
di coniugare il
suo consenso con i fini dello Stato.
Sarà d'uopo calmierare
la pittura forsennata
sotto tinte più
modeste.
Un po' smussare
i freghi troppo
aguzzi del ritratto.
Ripristinare
in quest'onda di
escrementi il decoro del defunto.
E poiché retrocedendo
potrei aizzare mille fuochi, non è un caso che stilato il documento
strettamente necessario, anzi forse troppo esplicito,
il vostro
amanuense non si azzardi più a scricchiare.
Una cosa vorreste da me ancora,
asciuttamente una, quella
e basta:
una magra
confessione a monosillabi.
Ebbene, non
per reticenza, ma
non posso.
Perché non fui colpevole, non posso.
Perché non voglio prendermi in quest'incubo altro ruolo
che non sia quello di colei che sogna.
VOCE DEL GIUDICE: L'interrogata, non su domanda, insiste
a proclamare la sua innocenza.
(Lo scricchio del pennino.)
LUCREZIA: Ma
allora scrivi tutto!
Io
testimone eloquente,
per quel che ho visto
per quel che non ho agito,
di tutto il male che i cinque sensi possono ispirare
sono stata e rimango tabernacolo.
VOCE DEL GIUDICE: Scrivi, scrivi tutto!
(Segue ancora lo scricchio affannoso del pennino.)
LUCREZIA: Creatura, ciascuno di essi, al limite
m'hanno fatta
marionetta della giostra.
E tra me e ciascuno d'essi mai interposero
il più minuto segno d'un codice animale,
una parvenza di gesto che bastasse
a riconoscermi donna in mezzo a loro.
VOCE DEL GIUDICE:
Chi loro?
Beatrice? I suoi fratelli? Il Cenci?
LUCREZIA: Roma, il Papato, il popolo
della Rocca...
l'universo!
E' tutto così poco!
Così piccolo e stretto!
E la fantesca
mora e il
Catalano!
E quel ventre da mercato, lo stalliere!,
che sgrondava le sue smanie in una pancia di bambina
chiamandola sua amante per il gusto
d'essere il servo che consuma
la sua lotta di classe consumando a coiti
un'ideologica potenza
tra le cosce
della figlia di chi lo frusta e insulta.
Così nel buio
degli anditi di sotto, nei corridoi, negli angoli
dei luoghi più scoperti lo facevano
mai per se stessi: solo contro
quel drago immane
frequentatore d'orifizi, con me tremante
a scongiurarli che poi tutti
se lui fosse venuto
o svegliato se c'era e uscito fuori
o se avesse
sbirciato le maligne
conchiglie che ostentavano le loro mani avvinte
in minuscole lussurie - tutti
saremmo stati chiamati a darne pegno. E lo facevano!
Ma allora, quasi,
più contro di me
che contro lui!
E con più foia lei dell'altro
si imponeva di volere
quei sudori
repugnanti.
Quell'umido dovunque!
Quell'agone
di budella palpitanti nel mischiume
di una tagliola che li impastava insieme.
VOCE DEL GIUDICE: Non ti fermare! Scrivi tutto!
SEGRETARIO: (Facendo riposare il polso) Non ce la faccio.
VOCE DEL GIUDICE: Scrivi!
LUCREZIA: Ah,
Beatrice... etera perfetta!
Come in te urgeva
il tuo progetto!
Era fede, era mito,
religione.
Era in te trasfigurato
mirabile panneggio.
Mi ci perdevo, guardandoti, a osservarlo dettaglio per dettaglio,
siccome un viaggiatore
che ha raggiunto, dopo strade
contorte e dissennate, il luogo della
sua indeflettibile tenacia e trascende contemplando
un Giudizio Universale, io trascendevo
di fronte alla tua idea.
Idea epidemica, indifferente
ai rifiuti e tanto meno
a dissuasioni. Indifferente
come una macina che macini,
indifferente a
cosa macina.
Così io
non ero per la macina l'oliva necessaria
ma un cecio un seme un grano
inutile a far
l'olio, ma lì stavo.
E la macina, macina. Indifferente macina.
Ancora non sapevo quanto fossi disgustata.
Il mio disgusto
pretendeva riflessione. Ah, che lusso
inconcepibile!
La tua idea, Beatrice,
era azione già
compiuta.
La sua rotta già percorsa.
Fu inevitabile che tutti
ancora dico tutti
dovessimo
subirla.
Azione come
una montagna è azione:
non un fatto
compatibile col tempo che trascorre
ma un grumo che è
dal tempo intatto.
Che non inizia né esaurisce, ma che sta.
Questo è evidente che lo vedo solo adesso
sennò come spiegare
le mie
piagnucolose pretese di frenarti?
I miei decenti
richiami a Gesù
Cristo?
I miei Ora Pro Nobis petulanti?
La mia bisbetica pazienza?
Il mio vile
il mio untuoso soggiacere? E il mio schermarti?....
VOCE DEL GIUDICE: Perché non scrivi?
SEGRETARIO: Signore, non ce la faccio... e poi non so cosa...
VOCE DEL GIUDICE: Scrivi!
(Riprende lo scricchio.)
LUCREZIA: Com'ero
mite, a ripensarci!
E, cosa strana,
la mitezza era in me con sì tanto logica ovvietà che banchettava
dissipando il mio pudore come i Proci
le ricchezze di
Ulisse alla sua mensa.
Follemente ero mite e neppure lo vedevo.
Oh, no!
Non fui così mai più.
Non sono così adesso.
Se posso dirlo, signore, son cresciuta.
Solo da oggi, forse,
non sono più bambina.
(Il Segretario, volgendosi a caso verso il buio, fa un cenno come a dire: anche questo?)
VOCE DEL GIUDICE: Tutto!
LUCREZIA: Cominciai, insomma,
schiacciata così dalla certezza
che le Erinni s'eran fatte inevitabili,
a gustare come miele,
come un panforte da succhiare impossibile da mordere,
le settimane, i giorni e l'ore
di quel periodo
di transizione.
Sino a che scoccò la luna e scoccarono le stelle.
Scoccarono le nubi e il temporale.
Ancora mi provai... - Vi dico: fatelo
e ce ne
pentiremo.
Per Dio onnipotente, giuro:
così gli dissi: vi dico fatelo
e ce ne pentiremo. Tutti:
voi e me. E con quale pietà
strepitavo quel
"me"! Voi e me!
Ma perché io?
Me che non sento
la fame che vi spinge! Perché volermi
protagonista idiota
di un coacervo che per me non sorge
dal sogno che invade voi e che mai vorreste
non fosse solo vostro? Perché me?
VOCE DEL GIUDICE: L'altro era chi? Il Calvetti?
LUCREZIA: Ma
allora, piuttosto, vi grido: non voglio!
E ringhiatemi contro quel che più vi piace...
concubina del mio consorte immondo...
larva di femmina, ottusa vacca, insulsa...
Qualsiasi cosa io ve la confermo
pur di non fare quello che non voglio.
VOCE DEL GIUDICE: (Al Segretario) Specifica che il nome dell'altro era il Calvetti.
LUCREZIA: Non più colma di così potrebbe essere
un'esistenza
umana.
Né di pianta
o di bestia
o minerale.
Ma riesumando,
come per dettare ho fatto,
le meraviglie del Cenci mi domando
se tanta innocenza non mi fa colpevole.
(Il Giudice fuoriesce dall'ombra. Avanza verso L. Rimesta leggero con un fuscello dentro la ciotola dello scorpione.)
GIUDICE: Bene,
Lucrezia.
La fogna casalinga è stata scoperchiata.
Tu l'hai messa a cielo aperto equiparando
le vostre diversissime ragioni, nonché le vostre
smisuratamente diverse colpe e responsabilità
in un solo compatto e fermo gesto che vi rende
- te e quella puttana
della tua figliastra, più il suo drudo, il loro sgherro e gli altri -
tutti quanti parricidi.
(L. sorride.)
LUCREZIA: Io volevo solo
conversare con
te.
Ti ho detto come.
Confidarmi e ascoltare confidenze.
(E ride di un riso infantile, che chiede complicità.)
GIUDICE: No,
Lucrezia.
Ho detto: tutti parricidi.
Ciò assodato
ridi pure se vuoi, ma io con te non vorrei
spartire nemmeno il pavimento dove te ne stai allungata
né l'aria che
respiri.
Non c'è modo di ridere insieme.
Dunque... io rido.
Tu ridi.
Ma la nostra non è la medesima risata.
LUCREZIA: Perché
dici così?
E' la cosa più crudele
che abbia mai sentita.
GIUDICE: (Ormai accostato a lei.)
All'indovino ripugna
la linea spezzata della mano,
e non per nulla scaccia da sé l'offerta
che gli viene dalla destra se la sinistra
lo induce a
profetare una sciagura.
Chi fiuta la morte storce il naso.
E tu, Lucrezia,
non sei ormai più di questo mondo
ma di quello a
cui i sani non possono mescolarsi.
Non sei già più nel tuo presente
ma nel tuo
prossimo futuro.
E il nembo che ti fascia è già sepolcro...
la tua figura, salma...
statua di te
stessa sanguinante.
Dalle tue guance, dalle fosse dei tuoi zigomi,
dai recessi prosciugati del tuo sterno
certo non lo sai ma già lampeggia
il furibondo sguardo dell'invidia
con cui chi è morto perseguita la vita.
(Con rapidi passi corre verso la porta.)
GIUDICE: Via!
Via!
Venite a portarla via!
(Nell'aula della tortura. Il Giudice è solo. Ha la ciotola in mano.)
GIUDICE: Ecco che l'accaduto
si allontana da
me. Mi sfugge.
M'abbandona.
E io rimango al mio posto; non un niente
della mia complessione, o dei miei polipi interiori
s'aggrega all'episodio che, come un arto
in cancrena
segato via dal corpo, mi si stacca di dosso e se ne va.
Sempreché
non sia quello la parte più completa con gli organi primari
e io, di qui, l'arto che sussulta
scosso
dall'ultima elettricità nervosa.
Vorrei seguirlo, se potessi, quel parziale tutt'uno di me maggiore.
Pedinarlo su per l'erta, sino in cima.
Fare in esso la mia casa.
Disertare le mie norme quotidiane, il ritornello
del saliscendi domestico, i saluti
di sempre a chi conosco. E le cure
le cure soprattutto
dei miei più
intimi bisogni.
Ho nostalgia. Io pure così avvezzo
ai miei cimenti di stimato e conclamato
professionista di
prim'ordine.
Prossimamente imporporato. Io.
(Si massaggia il collo.)
Ho nostalgia. Non di teneri echi
non di suppliche più acute e inestirpabili,
di questo o di quell'altro antagonista. Ma
di una qualche inimicizia
probabilmente mai
provata.
Di una lotta la cui specie m'era ignota
che ho combattuto ignorandone la logica e che ho vinto
grazie a trucchi
che ancora non comprendo.
Eppure tutto mi parve talmente lineare!
Ho nostalgia
dell'ultima china, ecco di che:
dell'ultimo contrasto dal quale fuoriesco e a cui m'è dato
- che enfatica e pesante, sdrucciola espressione! - di sopravvivere.
Dell'ultima volta in cui sono confermato
nel mio stato di
superstite.
E di fianco solo brume.
Alle mie spalle brume, e queruli addii.
A non più
rivederci, senza "grazie" che qui non han dimora.
...
Le amo tutte, adesso per un attimo le amo tutte.
E li amo tutti.
Il chitarrista già consunto e scomparso nel cacume...
Quella coppia di fratelli, uno ebete e l'altro infido come un serpe,
vigliacchi entrambi e delatori...
Lo stallone analfabeta alle cui calcagne sciama
un termitaio di
sicari che ne fiutano la gola...
E quel padre descrivibile
non altrimenti
che attraverso una fedele biografia.
E la vergine puttana
coagulo di opposti;
pesciolino d'argento fatto squalo
da un granulo
ammorbato del suo plancton.
Poi lei, la trascinata;
equipaggio inconsenziente dello scafo
per plebiscito
tirannico volato fra gli scogli.
E il corollario di comparse. E i superiori vertici
che dettavano gli
ordini a cui ho donato stile.
Di me stesso in quest'epoca recente ho nostalgia.
Va da sé, per esser chiari,
che nostalgia è
una cosa, rimpianto un'altra.
Si chiudono i battenti. Riprendo le mie cene.
Tutte quelle che mi restano: non più che alcune
di tutte le cene della mia vita.
(Avanza il Segretario. Ha lo scrittoio portatile con sopra il registro aperto.)
GIUDICE: Vieni,
ti aspettavo.
Hai ricopiato per bene?
SEGRETARIO: Sì,
maestro.
(Gli avvicina lo scrittoio col registro. Lo stilo è intinto nel calamaio. Il
Giudice lo prende e appone in calce a una pagina la sua firma.)
GIUDICE:
Scansati, va'.
Detesto sentir smosso l'ossigeno che mi serve.
Va', va'.
(Il Segretario si allontana.)
GIUDICE: E sì. Un
oggettucolo.
Una pietruzza periferica
nel polittico
sontuoso.
No, non può essere
che sia tutto
così sgradevole!
Questa parte non mi va
di recitarla
oltre.
Il mio sabato dilaga
nel pomeriggio
del giorno appresso.
Sono come un dormiglione che s'e perso
una domenica mattina per intero.
(Rovescia la ciotola. Lo scorpione cade sul pavimento. L'uomo lo schiaccia con la punta della scarpa, ed esce.)
(Una cella, di notte. Due giacigli. Su quello più in ombra, Beatrice. Su quello più esposto alla luce lunare, L.)
LUCREZIA:
L'apologo è pronto per i manuali.
Confezionato ad arte.
Una fabula aneddotica
che renderà più sapide le escursioni per le vie del centro
agli avidi gitanti richiamati
chi da Roma in se
stessa, e chi dal Giubileo.
In questa città che non conosce scandalo.
Addetti ai lavori indicheranno
facciate di palazzi - "Lì ha svernato
adolescente la fanciulla." - Ai più pedanti illustreranno
il chiostro d'un convento - "Di qui venne strappata
ai suoi lieti catechismi" - Poi la soglia d'una chiesa
- "Qui il Cenci si sposò
per la seconda volta..." - Benedetto colui
che insoddisfatto chiederà:
con chi?
Chissà se mai, a questo punto,
risuonerà il mio
nome.
Il gruppo in marcia, tra basiliche e musei,
scoprirà il camposanto dove il Cenci sta interrato.
Qualcun altro chiederà
o sempre quello, il puntiglioso: e dove, invece,
la piccola Beatrice?
Che commozione in tutta la brigata nel sapere
che tu hai voluto
essere sepolta...
- "Vi ricordate quel convento... quel chiostro
sopra a Monte
Citorio che abbiamo già visitato?
Di lì, nell'unica
stagione spensierata, con le prime sue compagne spensierate
se ne andava a
scampagnare sul Gianicolo.
Là in cima c'è una chiesa che il tempo non modifica.
Andremo a visitarla, la vedrete." -
Sfioreranno le scolare, come carni
di una giovane compagna che s'ammira
e si può solo carezzare sulle chiome dal di dietro,
le polpe tue di marmo: lo scaffale
che un artigiano
sta rifinendo or ora.
Una polvere biancastra si raccoglie
stanotte ai piedi laboriosi di qualcuno
che va limando la
sua opera compiuta.
Le guide più informate additeranno
dal di fuori una finestra e le sue sbarre
- "Ecco lì dentro la cella dove stette
la notte prima di salire sul patibolo." -
E parlando di te, tramutandoti in leggenda,
quanti diranno che quella notte, questa
notte, tu non fosti da sola? Che in quella cella, in questa
cella, e dietro quelle sbarre, dietro queste
sbarre, noi eravamo in due .
La splendida
colpevole e l'insipida innocente.
Beatrice, io mi pento e mi dolgo
d'essere rimasta sola lasciandoti da sola
a fare ciò che hai fatto, ciò che andava
- non in nome di
Dio ma in nostro nome - fatto.
E son felice
che qualcuno
l'abbia fatto.
Se il tuo morire che è pure il mio morire
odora sino al lezzo d'ingiustizia,
rinfranchiamoci pensando che essa è frutto
di un atto
debordante di giustizia.
Vacillerò domani, questo è certo.
Non tu vacillerai dinnanzi a folle
che sapranno ben distinguere
il mio gregario
patimento dal tuo tragico soffrire.
Io sarò minimamente
pianta e tu
cantata.
I ragazzi di Roma impazziranno
di un amore
incontenibile a vederti.
Sbraiteranno, urleranno e non saranno,
quelle urla, urla politiche
che troveranno in
noi il pretesto per minacciare insurrezioni.
Saranno lai e gemiti d'amore.
Se li vedrai lanciarsi contro il carro
non potranno fare
nulla e sai perché?
Perché il primo loro intento non sarà
di sgozzare i tuoi carnefici ma quello d'abbracciarti, di toccarti,
di spogliarti e
possederti.
Guappi in calore, così ti seguiranno
sino a Ponte Sant'Angelo e in un rantolo comune
consumeranno la
loro vedovanza.
Chi vedrà, se non le donne, artigliato dai ganci tuo fratello
scarnato da
tenaglie incandescenti e poi schiacciato da una clava?
Chi Bernardo, il più piccino, chinato a lui davanti con due pinze
negli occhi per
costringerlo a guardare?
E chi me, che solo dagli annali verrò considerata?
Ma dunque è giusto
è tuo dovere
che sia tu l'exemplum, la migliore, la più forte, la più alta
seppure non è detto la più bella.
Mi rendo conto,
arditissima sorella... dovrei tacere.
La mia improvvisa forza d'animo è noiosa.
Ma appunto se tacessi
sarebbe per
coraggio, e non ne ho.
Io posseggo in misura consentita - ovvero
diciamo media, passabile, ma non di più - ciò che agli umani è dato
per vivere e morire.
Hic et nunc
ho un attimo di
pace e lo contemplo.
Oh, merito non mio ma delle droghe
che m'hanno
propinato per non giungere esanime sul ceppo.
E in questa pace
ho un
microscopico mio rito da officiare.
Cerimonia solo mia. Mi spiace, son costretta
a celebrarla davanti a te. Ne ho un po' vergogna, è come se dovessi
orinare in pubblico. Ma orinare
tu m'hai visto. Pur io t'ho vista
che lo facevi prima.
Ormai a questo ci siamo abituate.
Abitudine che domani lasceremo
sulla scansia
come un oggetto per nessuno, abbandonato e perso.
Il rito a cui mi riferisco è un rito funebre.
E' il mio
compianto. Per questo mi commisero.
Se il tuo sarà
l'orgia di Roma
e in un futuro immenso,
il mio non può
che essere
stanotte o mai.
Mi abbraccerei, Beatrice...
M'asciugherei da me le lacrime
ma come con altre mani, con le mani di un'amica che non fosse me
con quelle di una madre, di mio figlio
con le tue se tu volessi
con le mani di qualcuna che avesse un'altra voce e non la mia
per calmare i
miei singhiozzi e consolarmi.
Perdonami, Beatrice... vòltati di là se vuoi ma debbo farlo.
(Viene avanti. Si china in terra come ad asciugare, con un lembo della veste, qualcosa che non c'è.)
LUCREZIA: E' un'erbetta che rampica e s'allieta
della vista
all'aria aperta questa porpora brinata...
il sangue mio disperso.
Se non sarò io a detergerlo
con l'immensa carità che questi gesti chiedono,
rimarrà come
pestifera vergogna sul selciato.
Si farà duro come crosta
di cicatrice,
orripilante.
Si scosteranno i passanti ritrovandolo
abbarbicato per
le loro strade. Oh, no!
Tanto poco rispetto non lo voglio.
Ero io quel sangue. Quella ruggine.
Son io questo sangue, di limpida grazia circonfuso
e limpidamente assolto poiché mai
negli alti cieli
processato. Poiché sparso invano.
Ahimè, sparso invano.
(L. asciuga.)
BEATRICE: (Dall'ombra.)
Io, se è vero che ancora vivo,
riaffiorerò a pelo d'acqua in questo mondo
di porci che non vogliono
essere salvati.
Riaffiorerò. Riaffiorerò. Riaffiorerò.
(L., genuflessa, si ravvia una ciocca di capelli che le ricade sugli occhi.)
EXPLICIT
Se vi è stata raccontata, signori, questa storia
e se ci siete
vengo a chiudere dicendo che non nego
l'anacronismo di
tutto il mio racconto.
Non lo nego e lo difendo: ne ho vissuto
per un tempo ben
preciso.
L'ho abbracciato, subìto e contrastato.
E mentre sprofondavo in cotanto anacronismo
ho mangiato,
dormito e starnutito.
Lo stile ha trasmigrato
dalle funzioni
primarie alla scrittura, e viceversa.
Ho pure letto, e letto un solo autore.
L'anacronismo è questo: un assoluto concentrarsi
nell'estrema
distrazione.
Solo altrove si trovano le cose.