La bottega dell’orefice

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ANDRZEJ JAWIEN (KAROL WOJTYLA)

 


(MEDITAZIONI SUL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO CHE DI TANTO IN TANTO SI TRASFORMANO IN DRAMMA).

Poema drammatico in tre parti

di Andrzej Jawień

(pseudonimo di Karol Wojtyła)

TITOLO ORIGINALE «PRZED SKLEPEM JUBILERA»

TRADUZIONE DI ALEKSANDRA KURCZAB E JERZY POMIANOWSKI

CON LA COLLABORAZIONE DI SIRO ANGELI

PERSONAGGI

Teresa

Andrea

Anna

Adamo

Cristoforo

Mo­nica

Stefano

Coro

Copyright © 1979 Libreria Editrice Vaticana

00120 Città del Vaticano


Il Teatro di Radiodue

La bottega dell'orefice

Meditazioni sul sacramento del matrimonio

che di tanto in tanto si trasformano in dramma

Poema  drammatico  in  tre  parti 

di  Andrzej Jawien

(pseudonimo di Karol Wojtyla)

Traduzione di  Aleksandra  Kurczab e Jerzy Pomianowski

Adattamento radiofonico  di  Siro Angeli

Personaggi e interpreti:

Teresa: Lucia Catullo

Andrea: Walter Mae­stosi

Anna: Milena Vukotic

Adamo: Raoul Grassilli

Cristoforo: Luca Dal Fabbro

Mo­nica: Claudia Della Seta

Stefano: Nino Dal Fabbro

Coro:

Anna Buonaiuto, Cinzia Bruno,

Monica Gravina, Fabio Gamma,

Mar­zio Margine, Enrico Frattaroli,

Franco Maz­zi, Maura Gravina

Regia di Aleksandra  Kurczab

Realizzazione effettuata negli Studi di Roma della RAI

L'opera è stata trasmessa in prima esecuzione mondiale giovedì 1° marzo ?

I.

I RICHIAMI

1.

TERESA

Andrea ha scelto me e ha chiesto la mia mano.

È accaduto stasera tra le cinque e le sei.

Non ricordo di preciso, non mi è venuto di guardare

l'orologio

né di notare l'ora sulla torre del vecchio municipio.

In attimi come questi non si bada all'ora,

sono momenti che sovrastano il tempo dentro di noi.

Ma anche se mi fossi ricordata di guardare la torre

non avrei potuto farlo perché avrei dovuto

alzare lo sguardo sopra la testa di Andrea.

Stavamo costeggiando la piazza a destra quando Andrea

si voltò e disse:

— Vuoi essere la compagna della mia vita?

Disse proprio così. Non domandò: vuoi essere mia moglie

ma:   la compagna della mia vita.

Dunque quello che intendeva era ben meditato.

Lo disse guardando lontano, come se avesse paura

di leggere nei miei occhi e insieme come volesse

accennare che davanti a noi c'era una strada, strada senza fine,

c'era o almeno doveva esserci se avessi risposto di sì.

Risposi:   «Sì» — non immediatamente

ma dopo alcuni minuti,

però in questi minuti non ci fu in me alcuna riflessione,

né alcuna lotta degli impulsi.

La risposta fu quasi scontata.

Sapevamo entrambi che si tendeva verso il passato

e si sporgeva verso il lontano futuro,

che si infilava nella nostra esistenza come una spola

per captare quel filo che determina il disegno della stoffa.

Mi ricordo: Andrea non volse subito gli occhi verso di me ma guardò a lungo davanti a sé,  come stesse osservando la strada da percorrere insieme.

ANDREA

Sono arrivato a Teresa per vie assai lunghe, non l'ho                                

trovata subito.

Non mi ricordo nemmeno se il nostro primo incontro

fu accompagnato da un presentimento o qualcosa di simile.

Forse non so neanche cosa voglia dire «l'amore a prima vista».

Passato qualche tempo mi sono accorto che non usciva

più dal cerchio della mia attenzione,

questo vuol dire che fui costretto a interessarmi a lei,

e che non mi sono opposto a questa costrizione.

Sì, avrei potuto comportarmi diversamente

però mi pareva che sarebbe stato privo di senso.

Evidentemente Teresa aveva qualcosa che concordava con

la mia personalità.

Allora pensavo molto al mio alter ego.

Sì, Teresa era un mondo intero distante allo stesso modo

come ogni altro uomo, come ogni altra donna

— eppure qualcosa mi permetteva di pensare che potevo

gettare un ponte.

Lasciavo che questo pensiero durasse, anzi — maturasse in me.

Lo facevo consapevolmente, non a caso.

Non cedevo solo all'impressione e all'incanto dei sensi

perché in tal caso non sarei stato in grado di uscire dal mio io

e di giungere all'altra persona. Questo non era facile.

Perché i miei sensi a ogni passo si nutrivano

del fascino delle donne incontrate.

Ma quando talvolta cercavo di seguirle

trovavo solamente isole deserte.

Ho pensato allora che la bellezza percepibile ai sensi poteva essere un dono difficile e pericoloso; lo sapevo — molti lo hanno pagato con un male inflitto

agli altri.

E così ho imparato man mano ad apprezzare la bellezza percepibile con la ragione, cioè la verità.

Allora ho deciso di cercare una donna che fosse capace

di essere il mio alter ego, affinché il ponte gettato tra

noi due

non diventasse una passerella vacillante tra canne e ninfee.

Ho incontrato già qualche ragazza che ha colpito la mia

immaginazione

e ha riempito i miei pensieri — ma proprio nei momenti

in cui mi pareva di essere più impegnato

mi accorgevo d'un tratto che solo Teresa era presente

nella mia mente, nel mio ricordo,

era lei la pietra di paragone per le altre.

Eppure desideravo che la scacciassero dalla mia mente;

forse me lo aspettavo.

Ed ero pronto a seguire solo le impressioni invadenti e forti.

Volevo considerare l'amore soltanto una passione,

un desiderio dominante — tutto qui —

credevo che la passione fosse qualcosa d'assoluto.

Ecco perché non riuscivo a capire

il perché della strana persistenza di Teresa dentro di me,

grazie a che cosa era sempre presente dentro di me,

che cosa le assicurava un posto nel mio io,

che cosa creava intorno a lei questa strana zona

di risonanza, questo tu devi.

Ecco perché la evitavo prudentemente, scansavo di

proposito

ogni cosa da cui poteva nascere un'ombra di rivelazione.

Talvolta la maltrattavo nei miei pensieri

mentre mi sentivo la sua vittima.

Mi sembrava che mi perseguitasse con il suo amore

e che dovessi troncarlo una volta per sempre.

Intanto il mio interesse cresceva,

l'amore nasceva proprio dalla contestazione.                  

Perché l'amore può essere anche uno scontro

nel quale due esseri umani prendono coscienza          

che dovrebbero appartenersi, malgrado la mancanza

di stati d'animo, e di sensazioni comuni.

Ecco uno di quei processi che saldano l'universo,          

uniscono le cose divise, arricchiscono quelle grette

e dilatano quelle anguste.

TERESA

Ma sì, la dichiarazione di Andrea

fu per me una sorpresa.

In verità non avevo motivo di aspettarla.

Mi sembrava sempre che Andrea facesse di tutto

per non avere bisogno di me e per convincermene.

Se però questa dichiarazione non mi colse del tutto di sorpresa

fu perché mi sentivo in qualche modo adatta a lui

e anche, poteva darsi, capace di amarlo.

Sì, consapevole di questo, forse lo amavo già.

Non c'era altro.

Non mi sono mai permessa di coltivare un affetto

condannato a rimanere senza risposta.

Oggi posso dirmelo chiaramente —

non è stata una cosa facile.

Mi ricordo benissimo, un mese,

anzi, una sera di quel mese —

giravamo allora per le montagne,

la compagnia era numerosa e molto affiatata,

ci univa forse qualcosa di più di un semplice cameratismo —

ci intendevamo perfettamente.

Si vedeva chiaramente che Andrea era piuttosto attratto

da Cristina.

Ciò non mi toglieva la gioia della gita.

Ero sempre resistente come un albero

che può magari tarlarsi, mai però marcire.

Se compiangevo me stessa

non era per l'amore deluso.                

Eppure — tutto mi sembrava difficile.

Specie quella sera quando il buio ci ha colti nella discesa.

Non dimenticherò mai gli stagni che ci hanno sorpresi

lungo la strada,

come due cisterne piene di sonno senza fondo.

Dormiva il metallo confuso con i riverberi

della notte chiara d'agosto.

Ma non c'era la luna.

D'un tratto mentre stavamo così guardando

— non lo dimenticherò per tutta la vita —

da qualche parte al di sopra delle nostre teste

si udì un chiaro richiamo,

assomigliava a un lamento, un gemito,

un pigolio.

A tutti noi tolse il fiato.

Non si sapeva se aveva gridato così un uomo              

o se era un vagito di qualche uccello tardivo.

La stessa voce si udì un'altra volta.                 

Allora   i ragazzi risposero,                                  

il loro richiamo attraversò la foresta muta e assopita,

la notte delle montagne. Se fosse stato un uomo — poteva

sentirli.

Pero la strana voce non si udì più.

E proprio allora, quando tutti ormai tacquero

sperando di udire la risposta,                                    

mi balenò un altro pensiero: anche sui richiami —

mi è tornato in mente oggi, 

tra il profilo di Andrea           

e la torre del vecchio municipio                                  

della nostra città,

stasera, fra le cinque e le sei,

quando Andrea ha chiesto la mia mano —

pensavo ai richiami che non possono mai convergere.

Pensavo ad Andrea e a me.

E ho presentito il peso della vita.

Quella notte stavo tanto male

eppure era davvero una notte splendida,

una notte colma di segreti, notte di montagna.

Tutto intorno a noi mi sembrava

così necessario,

così in assonanza col mondo intero,

e solo l'uomo pareva smarrito, sconvolto.         

Non so, del resto, se ogni uomo,                        

io però sì, di sicuro.

Oggi dunque, quando Andrea mi domandò:                

«Vuoi essere la compagna della mia vita»                

dopo dieci minuti gli risposi di sì

e un attimo dopo gli domandai se credeva nei richiami.

ANDREA

Teresa mi ha chiesto oggi:

«Andrea, credi nei richiami?»

E quando — sorpreso da questa domanda—

mi sono fermato per un attimo

guardando stupito negli occhi     

quella che da qualche minuto era la mia fidanzata,

lei mi ha confessato i pensieri

che tesseva nella sua mente fin da quella sera nelle

montagne.

Come mi passò vicino quella notte!

Mi investì quasi con la sua immaginazione

e con quella sofferenza nascosta

che allora non volevo intuire

e oggi sono pronto a considerare un bene comune.

Teresa — Teresa — Teresa —

il culmine miracoloso della mia maturazione,

non più un prisma di raggi fittizi,

ma un essere veramente raggiante.

E lo so — non posso più camminare solo,

so che non ho più nulla da cercare.

Tremo solamente pensando come era facile          

perderla, allora.                                                    

Camminava accanto a me ormai da qualche anno e io non

mi rendevo conto

che anche lei andava maturando.

Mi rifiutavo di accettare quello

che oggi mi sembra il dono più prezioso.

Passati gli anni vedo con chiarezza

le nostre vie che avrebbero potuto divergere             

e ci hanno invece avvicinati.                                     

Questi pochi anni sono stati un periodo che non ha prezzo,

ci hanno permesso di orientarci nella complicata

mappa dei richiami e dei segni.  

Doveva essere così.

Oggi vedo che il mio mondo è anche il suo.

Eppure sognavo soltanto di gettare un ponte.

2.

La sera, nella nostra antica città,

(— in ottobre fa buio presto —)

gli uomini escono dagli uffici

dove si progettano quartieri nuovi,

donne e ragazze tornano a casa,

guardando le vetrine lungo la strada.

Ho incontrato Teresa mentre stava

davanti a una grande vetrina                                     

piena di scarpe da donna.                                            

Mi sono accostato taciturno, di sorpresa                      

—  e d'un tratto ci siamo visti insieme                         

da entrambi i lati di quella grande lastra trasparente

imbevuta di luce raggiante.

E ci siamo visti tutti e due riflessi                               

perché la vetrina è chiusa nel fondo                            

da un enorme specchio

dove si riflettono sia le scarpe

sia la gente che passa lungo il marciapiede,

specialmente — chi si ferma

per guardare le scarpe o se stesso.

Dunque, quando ci siamo trovati ad un tratto

da entrambi i lati dello specchio grande

—  qua vivi, reali, là riflessi —

io — non so perché,

forse per completare il quadro,

o piuttosto spinto dal semplice bisogno del cuore

domandai: «A che cosa stai pensando, Teresa?» —

lo dissi quasi sussurrando

perché così di solito parlano gli innamorati.

TERESA

Non pensavo più ai richiami,

e non pensavo in fondo ad Andrea.

Cercavo delle scarpe col tacco alto.

Ce n'erano tante, scarpe sportive,

ce n'erano tante, scarpe senza pretese,

ma io cercavo proprio

delle scarpe col tacco alto.

Andrea è più alto di me, tanto

quanto basta perché io voglia diventare più alta

—  allora non è vero che non pensavo ad Andrea,

dunque pensavo a lui,

a lui e a me stessa.

Pensavo continuamente a noi due

e lui sicuramente faceva altrettanto        

—  perciò avrebbe potuto gioire del mio pensiero.

Incominciò allora un discorso            

sulle piccole cose delle nostre nozze.

Gli parlai della cravatta

che gli sta meglio di tutte,

e dell'abito scuro che gli va tanto bene.

Andrea ascoltava contento

non perché cercava adulazione

ma perché voleva sempre piacermi

e farmi qualche piacere.

Guardammo poi a lungo, insieme,

la vetrina dell'orefice.

Là, negli astucci

foderati di velluto

brillavano dei gioielli.

Tra gli altri — anche fedi nuziali.

Le guardammo un attimo zitti, zitti.

Poi Andrea mi prese per mano

e disse:   «Entriamo, Teresa,

bisogna scegliere le fedi».

ANDREA

Ma non siamo entrati subito,

ci fermò un pensiero, nato

— lo sapevamo bene — nello stesso momento         

in me e in lei.

Le fedi che stanno In vetrina     

ci dicono qualcosa con strana fermezza.

Per ora sono solo oggetti di metallo prezioso

ma lo saranno soltanto fin quando

io  ne metterò una al dito di Teresa

e lei metterà l'altra al mio.

Da quel momento saranno loro a segnare il nostro destino.

Ci faranno sempre rievocare il passato

come fosse una lezione da ricordare,

ci spalancheranno ogni giorno di nuovo il futuro

allacciandolo con il passato.

E insieme, in ogni momento,

serviranno a unirci invisibilmente

come gli anelli estremi di una catena.

Dunque non siamo entrati subito. Il simbolo prese la parola.

Lo abbiamo capito insieme nello stesso momento.

Guardando le fedi

nuziali ci ha colto una commozione silenziosa.

È questo che ci ha fermato davanti al negozio.

Rimandavamo il momento.

Mi sono accorto solo che Teresa serrò più forte

il mio braccio ... e questo era il nostro oggi:

l'incontro del passato con il futuro.

Ecco noi due spuntati da tanti momenti strani

come dall'abisso di fatti semplici e consueti.

Ecco noi due insieme. Ci uniamo segretamente

grazie a queste due fedi.

Qualcuno alzò la voce dietro le nostre spalle.

(QUALCUNO)

Guarda la bottega dell'orefice. Che arte singolare.

Fare oggetti capaci

di provocare riflessioni sulla sorte umana.

Per esempio gli orologi, dorati dall'orefice,

misurano l'infinito e insegnano che ogni cosa muta,

che ogni cosa fugge, perisce.

TERESA

Quella voce non si udì più. Ma quell'uomo toccò

il fondo dei nostri pensieri. Stavamo sempre zitti.

Ma l'immaginazione lavorava. Ormai vedevo come nello

specchio

inginocchiata insieme con Andrea me stessa nel vestito

bianco da sposa.

Lui in abito scuro. Quando passavamo la soglia della chiesa

lo uguagliavo nella statura — ogni sproporzione scompariva

(bisogna perciò comprare queste scarpe col tacco alto,

proprio queste che ho visto oggi in quella vetrina là).

E adesso — un'altra cosa stranissima

e inattesa:

quando stavamo fermi così davanti al negozio dell'orefice

ci siamo ricordati frammenti di nostre lettere     

scritte qualche anno fa.                                    

 

  

3.                            

(frammenti di una lettera scritta da teresa a andrea)

... vorrei tornare, Andrea, a quella nostra gita d'agosto, e a quella notte quando sentimmo dei richiami insoliti. Forse ricordi — c'è stata allora una certa confusione, è sorta una discussione. Qualcuno riteneva che bisognasse iniziare subito le ricerche perché forse qualche gitante aveva perso la strada nel fitto del bosco, qualcun altro invece era del parere ohe quella era solo la voce di un uccello notturno, e non una voce umana. Tu pensavi proprio così.

Fu una notte memorabile. Anche perché — così almeno mi pare — ti vidi allora in una luce di verità. Credimi, Andrea, mi sono balzati agli occhi i contrasti che dormono dentro di te. Sai — i contrasti tra il desiderio umano della felicità e la possibilità umana di raggiungerla sono inevitabili. Ma tu vuoi ad ogni costo calcolare la tua propria fortuna come stai calcolando ogni cosa nel tuo ufficio progetti. Ti manca il coraggio e la fiducia — in che cosa? verso chi? — si tratta della vita, del tuo proprio destino, della gente, di Dio forse ...

(FRAMMENTI DI UNA LETTERA DI ANDREA A TERESA)

... dunque sei coraggiosa e piena di fiducia — quante volte invece io ho potuto leggere sulla tua faccia i geroglifi­ci delle lacrime, anche se gli occhi rimanevano asciutti. For­se anche a te sembra soltanto di tendere la mano coraggiosa verso la felicità, ma in verità questa è unicamente una forma di timore, o — in ogni caso — di prudenza.

4.

TERESA

L'immaginazione cresceva di intensità,

andava oltre i ricordi, oltre il passato,

per giungere ai giorni futuri, sempre più vicini.

Mi vedo dunque accanto ad Andrea, siamo uguali di statura,

siamo entrambi eleganti e forse ormai maturi

—  maturavamo attraverso tante lettere scambiate per anni.

E siamo ancora fermi davanti a quel negozio, intenti a

scegliere il destino comune.

Ma la vetrina è diventata lo specchio del nostro futuro

—  e lo riflette intero.

ANDREA

Le fedi non rimasero in vetrina.

L'orefice ci guardò a lungo negli occhi.

Saggiando per l'ultima volta il prezioso metallo

diceva cose profonde. In modo sorprendente

si fissavano nella mia memoria.

Il peso di queste fedi d'oro

—  così disse — non è il peso del metallo.

Questo è il peso specifico dell'essere umano,

di ognuno di voi            

e di voi due insieme.

Ah, il peso proprio dell'uomo,

il peso specifico d'un essere umano!

Potrebbe essere ancora più gravoso

e insieme — più inafferrabile?

È questo il peso della gravita costante

legata al nostro breve volo.

Il volo prende forma di spirale, di ellisse — la forma del

cuore...

Ah, il peso specifico dell'uomo!

Questa incrinatura, questo groviglio, questo fondo,

questo appigliarsi, quando diviene tanto difficile

distogliere il cuore, il pensiero.

E in mezzo a tutto questo — la libertà,

una libertà, talvolta follia,

la follia di libertà che si impiglia nel groviglio.

E in mezzo a tutto questo — l'amore

che sgorga dalla libertà

come una sorgente dal suolo.

Ecce homo! Non è limpido

né solenne

né semplice                                                

semmai — misero.

Questo, un uomo solo — e due?

e quattro, e cento, e un milione?

Moltiplica tutto questo

(moltiplica la grandezza per la debolezza)

— e avrai il risultato dell'umanità,

il risultato della vita umana.

Così parlò quello strano orefice

misurando le nostre fedi.

Poi le pulì con la pelle di camoscio,

le ripose nell'astuccio

che prima stava in vetrina,

infine cominciò ad avvolgerle in carta velina.

Ci guardava sempre negli occhi,

voleva forse sondare i nostri cuori.

Aveva ragione nel dire tutte queste cose?

Sono stati forse anche i nostri stessi pensieri?

Forse nessuno di noi due poteva

trarre le conclusioni da così vicino —

l'amore è più entusiasmo che riflessione.

TERESA

Ed ecco veniamo riflessi nella vetrina

come in uno specchio che capta il futuro:                 

Andrea prende una delle fedi                                     

io un'altra, ci diamo le mani —

Dio mio, com'è semplice.                

Cosa possono pensare gli invitati alle nostre nozze?

Cosa pensano, quando stanno in silenzio — e dopo, quando

smetteranno di parlare,

che cosa penseranno ancora?

5.

IL   CORO

1.

La situazione è bella davvero,

dovrebbe far venire in mente tante cose.

Basta guardare quello che succede!

2.

Ognuno vive con la propria linea d'ombra, vive anche con la sua linea di luce, la luce si trasforma in ombra, l'ombra in luce.

3.

Gli uomini nuovi — Teresa ed Andrea —

finora sono due, non ancora uno,

ma ormai sono uno, sebbene siano due.

4.

Lei però sembra triste,

del resto — forse è solo seria

e commossa —

(balenò un brillante sullo sparato di Andrea

e un fiore bianco nei capelli di Teresa,

ma questi non sono bagliori uguali).

5.                                                        

Brilla anche il vino. Vino — questo sì!

Che esso sia vita in un altro uomo,  

l'uomo — è amore. Teresa, Andrea,

vino, vino —

irraggiate reciprocamente la vostra vita.

(Brindisi, brindisi).

6.

Quante parole, quanti cuori

quante parole, quanti cuori

quante parole, quanti cuori.

Vi accompagneremo, andremo con voi per i portici,

e poi — per i viali,

faremo insieme qualche passo, centinaia di passi,

con entusiasmo,

con un sorriso sincero,

fin qui, fin qui insieme.

Ma poi spunteranno i veicoli,

poi ci ostacolerà la strada,

poi salirete in macchina

— dovrete pur rimanere soli.

7.

Ma torniamo alle stelle,

torniamo al calore, ai sentimenti.

Ah, come l'uomo desidera di essere amato,

come vogliamo star vicini uno all'altro.

Teresa e Andrea.

8.

Alberi, alberi —tronchi alti e slanciati

che troncano la vista dall'alto,

che recidono dagli occhi la luna lontana,

lontana trecentomila chilometri —

eppure sono in due.

Teresa e Andrea.

E la luna diventa un tamburo

rullante nel fondo degli occhi,

nel fondo dei cuori.

9.

L'amore, l'amore vibra nelle tempie,

l'amore nella mente diventa pensiero

e volontà:

volontà di Teresa di essere Andrea,

volontà di Andrea di essere Teresa.

10.

È strano, però necessario

allontanarsi poi l'uno dall'altro.

Perché l'uomo non riesce a durare nell'altro

senza fine

e l'uomo non basta.

11.

Come arrivarci, Teresa,

come rimanere in Andrea per sempre?

Come arrivarci, Andrea,

come rimanere per sempre in Teresa?

Come arrivarci se l'uomo non riesce a durare nell'altro,

se l'uomo — non basta?

12.

Il corpo ... il pensiero scorre nel corpo,

ma non trova in esso appagamento.

E anche per l'amore il corpo non è che un tramite.

Teresa, Andrea, per i vostri pensieri

trovate approdo nei vostri corpi

finché esistono,

trovate approdo al vostro amore.

6.

ANDREA

Anche se siamo stati sempre davanti alla bottega dell'orefice... era evidente che la vetrina del suo laboratorio cessava di essere per noi uno spettacolo in cui ognuno può trovare qualche oggetto per le proprie esigenze. Diventava invece uno specchio per noi due, per Teresa e per me. Anzi, non era uno specchio piatto e comune, ma piuttosto una lente capace di assorbire ogni oggetto. Anche noi ci sentivamo non tanto rispecchiati quanto assorbiti. Ho avuto l'impressione di essere indi­viduato e riconosciuto da qualcuno nascosto nel fondo della vetrina.

TERESA

Si intravedeva il giorno delle nostre nozze. Noi due vestiti a festa, e tante altre persone: tanti invitati. La vetrina mi assorbì in varie posizioni e in vari momenti — prima quando stavo accanto ad Andrea, poi quando ero inginocchiata, poi quando ci scambiammo le fedi ... Credo perfino che la nostra immagine sia rimasta dentro lo specchio per sempre, che nessuno avrebbe potuto né toglierla, né cancellarla. Dopo un attimo mi venne in mente che eravamo stati là — nello specchio — da sempre, fin dal principio dei principi, in ogni caso — molto prima che ci fermassimo davanti alla bottega dell'orefice.

ANDREA

Intanto l'orefice — come ho già detto — ci guardava in modo particolare. Il suo sguardo era insieme mite e penetrante. Con questo sguardo, lo sentivo, ci scrutava, scegliendo e soppesando le fedi. Poi ci ha infilato gli anelli al dito — per prova. Ho avuto l'impressione che con il suo sguardo cercasse i nostri cuori per immergersi nel loro passato. Riesce anche ad abbracciare il futuro? Calore e fermezza — ecco cosa leggevo nei suoi occhi. Il futuro è rimasto per noi ignoto, ma lo accettiamo senza perplessità. L'amore ha vinto ogni perplessità. L'amore determina il futuro.

TERESA

L'amore determinail futuro. 

ANDREA

A un certo punto i nostri sguardi si sono incontrati — il mio e quello del vecchio Orefice. Ho avuto allora la sensazione che Lui non solo stesse sondando i nostri cuori ma che cercasse anche di versarvi dentro qualcosa. Ci siamo trovati al livello del Suo sguardo, anzi, al livello della Sua vita. La nostra intera esistenza stava davanti a Lui. Il Suo sguardo ci comunicava dei segni ma in quel momento non eravamo in grado di percepirli in tutta la loro pienezza come accadde con quelle voci, quella notte in montagna — però quei segni riuscirono a penetrare fino nel fondo dei nostri cuori. E non so come — ma ci siamo messi in cammino nella direzione indicataci perché questo filo è diventato l'ordito di tutta la nostra vita.

TERESA

Siamo stati fermi molto a lungo davanti alla bottega dell'orefice senza accorgerci né del tempo, né del freddo che doveva per forza portare con sé quella sera di ottobre. Ma a un certo momento ci siamo riscossi perché dietro di noi un passante ha detto a voce alta:

(qualcuno)

È tardi ormai, tutti i negozi sono chiusi. Perché il nostro vecchio orefice non spegne la luce? Invece di fare le ore piccole, meglio chiudere e andare a casa.


II.

LO SPOSO

(Anna, Stefano)

1.

ANNA

Guardando agli avvenimenti degli ultimigiorni

dovevo essere sconvolta.

Li guardavo con amarezza.

L'amarezza — sapore del cibo e della bevanda

e anche sapore interiore — sapore dell'anima,

di un'anima delusa e disincantata.

Questo sapore intride, penetra tutto quello che fai,

quello che dici, o che pensi. Penetra anche il sorriso.

Ma è poi vero che ho provato delusione e disincanto?

O forse questo è il corso consueto delle cose

che la storia di due esseri umani determina?

Così almeno cerca di spiegarmelo Stefano

da quando gli ho confessato

il primo rancore che si era raggrumato in me.

Stefano mi ascoltava ma senza preoccuparsi molto

di quello che dicevo.

Così il mio rancore è aumentato ancora.

Non mi ama più — ho dovuto riconoscere —

se non si accorge più della mia tristezza.

Non riuscivo a darmi pace

e non sapevo come impedire

la crepa:

(all'inizio i suoi margini si sono fermati

ma da un momento all'altro potevano disgiungersi ancora

di più —

in ogni caso sentivo

che ormai non si sarebbero più riaccostati.)

Come se Stefano non esistesse più in me.

O forse neanch'io ero più dentro di lui?

O forse avevo soltanto la sensazione

di esistere solo in me stessa?

Come mi sentivo estranea

a me stessa!

Quasi mi fossi disabituata alle pareti del mio intimo —

era così pieno di Stefano

che senza di lui sembrava vuoto.

Ma non è forse una cosa terribile

condannare così le pareti del tuo intimo

a dare alloggio a un unico abitante

che potrà sfrattarti

e comunque cacciarti via da questo posto?

Fuori, tutto scorreva come prima.

Stefano si comportava in apparenza allo stesso modo,

ma non sapeva rimarginare la ferita

che si era aperta nella mia anima.

Non la sentiva. E non gli faceva male.

Forse non voleva avvertirla. Si chiuderà da sola?

Ma se si chiuderà da sé

finirà per dividerci, in ogni caso, per sempre.

Intanto Stefano era convinto

che non doveva contribuire alla guarigione.

Mi ha lasciato con la ferita nascosta

pensando forse:   «Le passerà».

Oltretutto era convinto dei suoi diritti,

ma io desideravo che li conquistasse ogni volta da capo.

Non volevo sentirmi un oggetto

che una volta posseduto non lo si perde più.

C'era in tutto questo dell'egoismo?

— Sicuramente facevo troppo poco

per giustificare Stefano davanti a me.

L'amore deve essere forse un compromesso?

O non deve invece nascere da una lotta

continua per l'amore dell'altro?

Lottavo per l'amore di Stefano,

pronta in ogni momento a ritirarmi

se lui non avesse capito il senso

di tutta questa lotta.

Ma riuscirò alla fine a perdonargli?

Oppure la crepa si calcificherà?

Come faticoso questo spartiacque

tra egoismo e non-egoismo.                                         

Sono stata madre. Nella stanza accanto

ogni sera si coricavano i nostri figli.

Marco, il più grande, Monica e Gianni.

Nella stanza accanto c'era il silenzio —

non si è ancora insinuata nelle loro anime      

l'incrinatura del nostro amore

che mi doleva così acutamente.

2.

UN  INTERLOCUTORE   CASUALE

È già la seconda volta che incontro qui questa donna.

Passava davanti al negozio del vecchio orefice.

La saracinesca era abbassata, i battenti chiusi col lucchetto.

L'orefice finisce di lavorare alle sette

e se ne va.

Lavora tutto il giorno e forse non s'immagina neppure

come la sua opera penetri profondamente nella vita dell'uomo.

Ne ho parlato, una volta, con lui.

La porta del negozio era aperta e lui se ne stava sulla soglia

osservando negligentemente i passanti.

Il sole splendeva intensamente, la strada era piena di bagliori

che facevano socchiudere gli occhi.

Uomini e donne mettevano occhiali scuri

per attenuare un po' quella luce.                 

Attraverso gli occhiali scuri non puoi distinguere   

il colore delle iridi                                                  

annegate nell'oscurità come in un pozzo.                  

Ma dietro questi occhiali                                          

vedi tutto — anche se in una tonalità diversa —

e non devi socchiudere le palpebre.

Adesso il negozio è chiuso.                      

Le facce dei passanti si nascondono nel buio della sera.

 

ANNA

Spesso passavo di qui.

Facevo questa strada tornando dal lavoro

(la mattina invece prendevo una scorciatoia).

Prima però non badavo

a questa bottega.

Ma da quando

il nostro amore si è spezzato

più di una volta mi sono fermata a guardare

le fedi d'oro

— i simboli dell'amore umano e della fedeltà coniugale.

Ricordavo come, tempo prima, questo simbolo mi parlava

quando l'amore era innegabile,

quando era un inno cantato

con tutte le corde del cuore.

Poi le corde a poco a poco ammutolivano

e nessuno sapeva più accordarle.

Io credevo che il colpevole fosse Stefano —

non riuscivo a trovare colpa dentro di me.

La vita si trasformava sempre di più

nella pesante coesistenza di due

che occupavano sempre meno posto uno nell'altro.

Ora rimane solo l'insieme dei doveri,

un insieme convenzionale e mutevole,

sempre più spoglio

del puro sapore dell'entusiasmo.

E così poco ci unisce, così poco.

Allora mi vennero in mente le fedi

che ancora portiamo al dito

io e lui.

Così una volta, tornando dal lavoro,

e passando vicino all'orefice,

mi sono detta — si potrebbe vendere,

perché no, la mia fede

(Stefano non se ne accorgerebbe,

non esistevo quasi più per lui.

Forse mi tradiva — non so,

perché anch'io non mi occupavo più della sua vita.

Mi era diventato indifferente.

Forse, dopo il lavoro, andava a giocare a carte,

dalle bevute tornava molto tardi,

senza una parola, e se ne gettava là una

rispondevo col silenzio).

Quella volta allora decisi di entrare.

L'orefice guardò la vera,

la soppesò a lungo sul palmo

e mi fissò negli occhi. E poi

decifrò la data                                              

scritta dentro la fede.                               

Mi guardò nuovamente negli occhi e la pose sulla bilancia...

poi disse:   «Questa fede non ha peso,

la lancetta sta sempre sullo zero

e non posso ricavarne nemmeno

un milligrammo d'oro.                                     

Suo marito deve essere vivo — in tal caso  

nessuna delle due fedi ha peso da sola

— pesano solo tutte due insieme.

La mia bilancia d'orefice                                

ha questa particolarità                                    

che non pesa il metallo in sé

ma tutto l'essere umano e il suo destino».

Ripresi con vergogna l'anello

e senza una parola fuggii dal negozio

— penso che lui mi abbia seguito con lo sguardo.

Da allora tornavo a casa per altre vie.

E solo oggi, di nuovo ... ma la saracinesca era abbassata.

UN   INTERLOCUTORE   CASUALE

La donna che incontrai davanti all'orefice

non si trovava là per caso,

ne sono certo.                                                         

Piuttosto, penso, fu per caso                                  

che cominciai a parlare con lei,                       

così la donna aprì davanti a me la sua vita.    

Si lamentò infine del vecchio orefice

che non volle comprare la fede, per lei diventata inutile.

Allora discorrendo con lei vedevo                              

da dove viene e fin dove giunge l'amore umano,

e come sono ripide le sue rive.

E se qualcuno scivola da una riva simile

gli sarà molto difficile tornare,                                  

vagherà da solo al di sotto della propria strada.

Sul conto di Stefano ho appreso da Anna tante cose

come se dovessi diventare il suo giudice e insieme il suo boia.

L'orefice era assente

 e non c'era chi potesse confermarmi queste parole.

ANNA

Mi meravigliai con me stessa

di aver cominciato un tale discorso

con un uomo del tutto sconosciuto.

Gli parlavo di me e di Stefano

approfittando del fatto che lui mi ascoltava

senza interrompere le mie frasi.

In fondo questo non era che un monologo

completamente preparato nel mio pensiero.

Un fatto seguiva all'altro, incolpando Stefano.

Ero sicura della verità dei miei giudizi.

Ma parlavo anche come una donna

con dentro l'incrinatura dell'amore, una piaga,

una ferita che fa male ...                             

Quell'uomo mi ascoltava assorto.                   

Non conoscevo il suo nome, né il cognome.

Neanche lui mi domandò come mi chiamavo.

Però a un certo momento

mi disse:  «Anna» (dunque mi chiamò con il mio nome)

«come sei simile a me

tu — e anche Stefano,

come mi assomigliate tutti e due.

Il mio nome è Adamo».

Avrei voluto conoscere anche il suo indirizzo

(ogni tanto gli avrei potuto scrivere due parole).

Camminavamo lungo la strada.

Mi sentivo così bene

in compagnia di quell'uomo.

Mi colpì il suo aspetto

così virile e così intensamente raccolto.

In lui dominava il pensiero e una traccia di dolore

(come era diverso da Stefano).

Quando passammo nuovamente davanti al negozio

Adamo disse all'improvviso:

«Ecco la bottega dell'orefice,

tra poco passerà di qui lo Sposo».

ADAMO

Dissi allora alla donna (ad Anna):

«Tra poco passerà di qui lo Sposo»

le dissi questo pensando all'amore

che si era spento così nella sua anima.

Lo Sposo va per tante strade

dove incontra tanta gente diversa.

Passando tocca l'amore

che è in loro. Quando è male —

soffre. Ed è male anche

quando manca del tutto.                               

Ricordo — le dissi anche questo:

— Perché vuoi vendere la tua fede?

Cosa vuoi fare a pezzi con questo gesto? — la tua vita?

Ma la vita non si vende ogni momento?

Non si fa a pezzi tutta la vita

con ogni gesto?

E allora? Non si tratta di andarsene,

di vagare per giorni, per mesi, forse per anni —

si tratta piuttosto di tornare, di trovare se stessi

al posto di prima. La vita è un'avventura

che ha anche una sua logica

e coerenza —

e non si può lasciare il pensiero

e l'immaginazione a se stessi!

Con che cosa allora devono stare? — domandò Anna —

Il pensiero — evidentemente — deve stare con la verità.

ANNA

Ma la verità non è forse quello che senti di più?

Il nostro dialogo seguì una strana corrente —

non ero sicura dove ci avrebbe portati

la mia sensibilità e la sua intelligenza.

Per un attimo Stefano si allontanò dalla mia coscienza,

ma sentivo anche allora fino a quale punto non riuscivo

a perdonargli di avere sfregiato la mia immagine dentro

di sé,

il mio stesso essere che pure viveva in lui

— dopo tutto ero sua moglie ...

Ero fragile ma piena di passioni —

l'amore non è forse un fatto dei sensi e di una certa

atmosfera?

Questi elementi si uniscono e fanno sì che due esseri

vibrino nel cerchio dei sentimenti — ecco tutta la verità.

Non tutta — sosteneva Adamo.

Secondo lui l'amore è una sintesi di due esistenze

che convergono a un certo punto

e da due diventano una sola.

E dopo ripeté ancora

che lo Sposo sarebbe passato per questa via

tra poco.

L'annuncio, due volte rivelato,

non solo mi affascinò                                   

ma svegliò di colpo in me la nostalgia.       

L'aspirazione per un essere perfetto,

per un uomo deciso e buono,

che sarà diverso da Stefano,

diverso, diverso —

E con questa aspirazione improvvisa           

mi sentii diversa anch'io, più giovane.        

Forse ho cominciato anche a correre

fissando gli uomini che passavano —

3.

... Il primo che sfiorai passando non voltò nemmeno la testa. Camminava immerso nelle sue riflessioni. Pen­sava forse alle sue faccende. Poteva essere direttore di una ditta, o primo contabile di una grande impresa. Senza voltarsi disse soltanto:  — Scusi —

I.

... Scusi ...

(ANNA)                                                                        

Non cercai di fermarlo, ma ero decisa ad attirare la sua attenzione. Non capisco come sia successo ma ora volevo attirare l'attenzione di ogni uomo. Forse questo era solo un semplice riflesso della mia nostalgia, ma ero giunta alla certezza che nessuno può negarmi questo diritto.

(adamo)

Proprio questo mi costringe a riflettere sull'amore umano. Non esiste nulla che più dell'amore occupi sulla superficie della vita umana più spazio, e non esiste nulla che più dell'amore sia sconosciuto e misterioso. Diver­genza tra quello che si trova sulla superficie e quello che è il mistero dell'amore — ecco la fonte del dramma. Questo è uno dei più grandi drammi dell'esistenza uma­na. La superficie dell'amore ha una sua corrente, corrente rapida, sfavillante, facile al mutamento. Caleidoscopio di onde e di situazioni così piene di fascino. Questa corrente diventa spesso tanto vorticosa da travolgere la gente, donne e uomini. Convinti che hanno toccato il settimo cielo dell'amore — non lo hanno sfiorato nemmeno. Sono felici un istante, quando credono di aver raggiunto i confini dell'esistenza, e di aver strappato tutti i veli, senza residui. Sì, infatti: sull'altra sponda non è rimasto niente, dopo il rapimento non rimane nulla, non c'è più nulla. Non può, non può finire così! Ascoltate, non può. L'uomo è un continuum, una integrità e continuità — dunque non può rimanere un niente.

(ANNA)

... Il secondo passante incontrato ha reagito in modo diverso. Quando l'ho guardato in faccia ha colto il mio sguardo e si è fermato. Lo ha ricambiato, ha fatto due passi e ha detto: — Forse l'ho già vista, signora ... —

II.

... Forse l'ho già vista, signora ...

(anna)

Ero quasi decisa a prenderlo sotto braccio. La serata era proprio calda e attraverso il fogliame color ruggine dell'ottobre filtravano tante luci. La sera, del resto, non si nota la ruggine. Forte in me era il desiderio di appoggiarmi al braccio di un uomo, e di fare con lui una passeggiata nel viale dei castagni appassiti. Lui disse an­cora: — Entriamo qui, in questo locale. Due note di musica ci faranno bene ... —

III.

... Entriamo qui in questo locale, due note di musica ci faranno bene ...

(ANNA)

E dopo? — Lui non rispose e io come se mi fossi spaventata di questo dopo. Doveva avere una moglie, della quale adesso non parlava. Di colpo capii cosa può significare l'espressione "Una donna incontrata così ...". E qualche cosa mi ha imposto di non aggrapparmi al suo braccio. Non era del resto troppo invadente. E allora

ho capito ancora meglio cosa vuol dire l'espressione "Una donna incontrata così".

            Non so quanti passi ho fatto e in quale direzione. Credo di aver camminato dal viale che circonda la nostra vecchia città verso questa chiesa, dove nelle nicchie stan­no delle figure di santi. Ricordo che nella nicchia po­steriore c'è un crocifisso, davanti al quale è sempre accesa una lampada, anche di notte. Mi sembrava di intrave­dere già la sua luce attraverso il vetro colorato.

            Camminavo però pensando sempre alla solita cosa, come andare incontro a qualsiasi uomo. Uno passò così in fretta e così vicino con la sua borsa, da spostare l'om­brello che portavo sotto il braccio destro. Un altro si levò il cappello guardandomi con insistenza, poi svelto lo rimise in testa, l'ho udito mormorare qualcosa tipo: — No, non la conosco — e ha proseguito.

IV.

... No... non la conosco ...             

(ANNA)

            Ora è il margine del marciapiede. Il ciglio. Cammino proprio sul ciglio come facevo quando ero piccola. Sapevo allora percorrere la lunga fila di pietre senza mai cadere, mai scivolare sul selciato. Questo era il nostro gioco preferito quando con le mie amichette ci rimbeccavamo più volte:   «Io ho percorso la strada fino in fondo, e solo una volta  sono  scivolata»,  «E io  nemmeno una volta, vedi chi è la più brava ...».

Adesso cammino di nuovo sul ciglio, non corro. I miei occhi per la verità sono asciutti ma brillano, lo so. Ecco una macchina, è molto elegante. Il finestrino leggermente abbassato. Un uomo al volante. Mi sono fermata.

(adamo)

L'amore non è un'avventura. Prende sapore da un uomo intero. Ha il suo peso specifico. È il peso di tutto il tuo destino. Non può durare un solo momento. L'e­ternità dell'uomo passa attraverso l'amore. Ecco perché si ritrova nella dimensione di Dio — solo lui è Eternità.

            L'uomo si tuffa nel tempo. Dimenticare, dimenticare. Esistere solo un attimo, solo adesso — e recidersi dal­l'eternità. Prendere tutto in un momento e tutto subito perdere. Ah, maledizione dell'attimo che arriva dopo e di tutti gli attimi che lo seguono, nei quali cercherai sem­pre la strada per ritornare a quello già trascorso, per averlo di nuovo e, attraverso quell'attimo, tutto.

(ANNA)

            Mi fermai e fissai il modello della macchina, il fine­strino, l'uomo. Mi ricordo di quando Stefano diceva: «Amore, un giorno comprerò la macchina, viaggeremo Selli e distinti per paesi sconosciuti». L'uomo mi guardò. Mi avvicinai. Lui abbassò il finestrino. La sua voce era calda e profonda quando disse: — Signora, vuole acco­modarsi? —

V.

Signora, vuole accomodarsi? ...

(anna)

Mi indicò il posto accanto a sé. Subito dopo avrebbe acceso il motore. Saremmo partiti. Avremmo fatto un viaggio in paesi sconosciuti. Mani maschili posate sul volante. Ci si può appoggiare leggermente a questo brac­cio che fa srotolare il nastro dell'asfalto. Dopo — le luci dall'alto ... Sarò di nuovo qualcuno. Lui ripete ancora una volta queste parole.

VI.

... Signora, vuole accomodarsi? ...

(ANNA)

Sì, lo desidero, lo desidero tanto.

Infatti ho messo già la mano sulla maniglia. Bisogna­va solo spingere. All'improvviso ho sentito la palma di un uomo sulla mia. Ho alzato lo sguardo. Accanto a me c'era di nuovo Adamo. Vedevo la sua faccia. Era stanca: tradiva commozione. Adamo mi guardava diritto negli occhi. Non diceva niente. Teneva solamente la mano sulla mia. A un tratto disse: — No. —

(adamo)

No.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           

(anna)

Ho sentito la macchina ripartire. Dopo un po' non c'era più. Adamo lasciò la mia mano. Mi sembra di avere detto: com'è strano che sei tornato, e io credevo che fossi sparito per sempre. Dove sei stato tutto questo tempo?

(ADAMO)

Sono tornato per mostrarti la strada. È una strada insolita. È insolita non per i molti negozi, né per le scritte luminose o per l'aspetto delle sue case, ma — per la gente. Guarda là, dall'altra parte della strada passano delle ragazze. Ridono e parlano ad alta voce. Oh, certo tu non sai dove vanno. —

Le loro lampade si sono spente e allora vanno a comprare l'olio. Metteranno l'olio nelle lampade ed esse si accenderanno di nuovo.

(ANNA)

Ah, sì...

(adamo)

Queste sono le vergini sagge. Conta quante sono. Dovrebbero essere cinque. Sono già passate. Ti sei mera­vigliata che non portino lunghe vesti orientali. Vestono secondo il clima e il costume del nostro paese. Ma in mano portano delle lampade e la gente si meraviglia di dove le stiano portando. Forse neanche si meravigliano tanto perché gli uomini della nastra epoca si sono disa­bituati a meravigliarsi.

E adesso guarda là. Quelle sono le vergini stolte. Dormono e le lampade le hanno abbandonate sotto il muro. Anzi — una è rotolata dal marciapiede ed è finita di sotto.

A te forse sembra che loro dormano in quelle nicchie, ma in fondo anche loro stanno camminando. Camminano dormendo. Camminano in letargo — come se portassero dentro un vuoto assopito. Anche tu, proprio adesso, sen­ti dentro di te un vuoto così, perché anche tu stavi per addormentarti. Sono venuto a svegliarti. Credo di essere arrivato in tempo.

(ANNA)

Perché mi hai svegliata? A che scopo?

(adamo)

Ti ho svegliata perché per questa strada deve passare Io Sposo. Le vergini sagge vogliono andargli incontro con la luce, le vergini stolte si sono addormentate e han­no perso le lampade. Ti assicuro che non faranno in tempo a svegliarsi e anche se si sveglieranno non avranno il tem­po di ritrovarle e di accenderle.

(ANNA)

Infatti — le lampade sono rotolate sulla strada e quando uno si sveglia di colpo rimane ancora per un po' pieno di sonno. Lo Sposo passerà in fretta. Certo è un uomo giovane e non aspetterà.                       

(adamo)

In realtà lui aspetta sempre. Vive in continua attesa. Vedi — ma questo è un fatto che si compie al di là di tutti questi amori senza i quali l'uomo non riesce a vivere. Tu per esempio. Non riesci a vivere senza amo­re. Ti ho vista da lontano quando camminavi cercando di suscitare interesse. Sentivo quasi la tua anima. Invo­cava con disperazione l'amore che ti manca. Cercavi qual­cuno che ti prendesse per mano, che ti stringesse a sé ...

Oh, Anna, come posso persuaderti che al di là di tutti questi amori che ci riempiono la vita — c'è 1'Amore. Lo Sposo passa per questa strada e passa per tutte le stra­de! Come posso persuaderti che tu sei la Sposa. Bisogne­rebbe adesso perforare la crosta della tua anima come quando nei sottobosco e nel suolo si cerca la sorgente d'acqua tra il verde. Sentiresti allora il richiamo: oh, mia amata, tu non sai quanto mi appartieni, non sai quanto appartieni al mio amore e alla mia pena — perché amare vuol dire donare la vita attraverso la morte, amare vuol dire sprigionare dalle profondità dell'anima l'acqua viva della sorgente, l'anima che brucia, arde senza fiamma, ma non riesce a ridursi in cenere. Oh, fuoco e sorgente! Non senti la fonte ma il fuoco ti divora. Vero?

(ANNA)

Non lo so. Sento solo che hai parlato alla mia anima. Non temere. La mia anima segue sempre il mio corpo. Come può uno comprenderla o possederla senza il corpo? Io sono la vergine stolta. Io sono una delle vergini stolte. Perché mi hai svegliato?

(adamo)

Lo Sposo arriva. Questa è proprio la sua ora. Oh, guarda — sono proprio passate le vergini sagge, tenendo in mano le lampade appena accese. La loro luce è limpida perché hanno pulito i vetri. Vanno allegre, quasi dan­zando.

(ANNA)

Ho visto queste ragazze. Le loro facce non erano nean­che tanto assorte. Ma sono veramente così pure e così nobili, o hanno avuto solo più fortuna di me?

Oh, stupida, stupida donna svegliata per dormire ancora —

Poi ho visto altre cose. Passava un Uomo, con un cappotto leggero, senza cappello. Andava con la testa china, pensieroso, per questo non ho notato subito il suo viso. Istintivamente mi sono incamminata verso di lui. Ma quando ha alzato la testa ho quasi urlato. Mi era sembrato di vedere chiaramente la faccia di Stefano. E subito sono indietreggiata là dove stava Adamo. Lo pre­si con forza per mano. Adamo diceva:

(adamo)

So, perché sei tornata. Non hai sopportato la vista della sua faccia.

(ANNA)

Ho visto il volto che odio e ho visto anche il volto che dovrei amare. Perché mi esponi a una tale prova?

(adamo)

Nel volto dello Sposo ognuno di noi ritrova i linea­menti di tutti quelli che abbiamo amato su questa spon­da della nostra vita, della nostra esistenza. Tutti si ri­trovano in Lui.

(ANNA)

Ho paura.                                       

(ADAMO)

Hai paura dell'amore. Veramente hai paura dell'a­more?

(ANNA)

Sì. Ho paura. Ma perché mi tormenti:  quest'uomo aveva la faccia di Stefano. Ho paura di quella faccia.

4.

(IL   CORO,   STEFANO)

1.                       

Ecco l'intervallo, si interrompono le parole e le luci,

ma pensiero e dramma continuano.

I  personaggi rimangono gli stessi.

Il  destino li spacca, li confonde, fa sì

che non formino l'unione.

2.

Fioco è il lumino nelle lampade                       

— sta forse già finendo l'olio?

Non più con l'olio si alimenta la fiamma

ma con l'acqua piovana —

pioggia, pioggia, bagna l'asfalto e il marciapiede.

3.

Vergini stolte, oh vergini stolte,

con l'acqua non potrete accendere il fuoco!

(I piedi si proteggono dall'umidità

con le scarpe).                                                    

4.

Si dissipino le finzioni e le illusioni,

non è passato nessuno, non hanno portato via la luce,

tutto è come era prima.

Il verde si alimenta della pioggia,

— gli alberi non arrugginiscono.

I  capelli di Anna sono bagnati

e anche il cappotto e il braccio

di Stefano.

5.

Acqua passata. Nessuno le dice di tornare.

Capelli bagnati, può succedere di primavera o d'autunno.

Non piangere!

Non sei libero, non sei diverso

— è solo la frustata obliqua della pioggia.

6.

Il  lucignolo si imbeve d'olio

e l'acqua si sazia di fuoco,

la pietra non beve l'acqua

— non la beve — non la beve —

ma l'acqua ha assorbito la fiamma,

le lampade si sono spente.

7.

Se ne sono spente due.

L'una non ha donato all'altra la fiamma.

L'una non ha donato all'altra l'olio.

Non ha donato il lume.

Non ha donato il lume,

non l'ha donato

— due lampade — e pioggia.

8.

Crepuscolo. Egli ha portato la luce.

L'ha portata e l'ha mantenuta viva

e voleva diventare me e te,

lui e lei.

Ma è passato.

Chissà che ore sono?

9.

Eccomi. Eccomi. Il braccio di Stefano è debole,

i capelli di Anna — asciutti. E anche gli occhi ...

5.

ANNA

Quando mi sono ripresa dalle mie visioni e meditazioni

stavo ancora allo stesso posto di prima.

La bottega dell'orefice erachiusa, come prima.

Mi ricordo l'espressione dei suoi occhi,

indipendentemente dalle sue parole mandavano un preciso

messaggio:

non devi mai scendere al di sotto del mio sguardo,

non devi scivolare in basso, poiché il peso della tua vita

deve essere misurato sulla mia bilancia.

Quando, dopo, piena di segreta speranza

corsi verso lo Sposo a me annunciato così d'improvviso —

vidi la faccia di Stefano.

Ma deve proprio avere per me quella faccia?

Perché?  Perché?

III.

I FIGLI

(Monica, Cristoforo)

1.

TERESA

Quel giorno quando Cristoforo mi disse di Monica

tornai a casa più lentamente del solito,

come cercando apposta strade nuove e più lunghe.

Dovevo riflettere sulle parole di mio figlio

e in me cercare per loro la stagione del cuore.

Di lei sapevo già da prima. Frequentava

gli stessi corsi di Cristoforo. Sapevo anche

che Cristoforo si interessava a lei.

L'ho vista qualche volta — una ragazzina timida

e delicata. Mi ha dato l'impressione

di un essere chiuso in sé, le cui qualità più vere

sono tanto introverse che quasi non riescono più

ad arrivare agli altri. Sono, queste, qualità autentiche?

Allora vagando per strade sconosciute pensavo a Monica,

ma vedevo sempre Cris. Pensare a mio figlio

è diventata per me un'abitudine ovvia come la mia stessa

esistenza. Ha scavato nella mia coscienza tanti sentieri

che da qualsiasi punto partisse il mio pensiero

tornava sempre su uno di essi.

In questo momento sono (mi pare) davanti al negozio

dell'orefice.

E di colpo stette nei miei occhi qualcosa come lo specchio

in cui si erano riflessi i nostri destini, il mio e quello di

Andrea.

Sostavamo sulla soglia. Era una sera di ottobre.

Le fedi stavano in vetrina davanti a noi.

Dopo le abbiamo viste alle nostre dita.

In quello specchio li c'era il nostro futuro prossimo, 

Gente benevola varcava la parete di questa visione,   

sentivamo le loro voci, di più — i loro pensieri.

E noi due, io e Andrea, diventiamo uno

grazie a queste due fedi d'oro —

Solo fin qui leggiamo nello specchio,

dopo — tutto è ignoto.                               

Non era ancora al mondo Cristoforo che si è concepito in me

e il destino futuro di Andrea, la storia della nostra unione,

tutto questo allora sconosciuto già diventava carne.

Quando Cris compì due anni, Andrea partì per il fronte.

Sollevò il bambino, lo accarezzò a lungo prima di sparire

dietro la porta.

Fu l'ultima volta che lo vidi e il ragazzo non conosce il

padre.

La nostra unione è sopravvissuta in Cristoforo, solo in lui.

Mio figlio cresceva.

Andrea non era morto in me, non è caduto su nessun fronte,

non doveva nemmeno tornare — era come fosse sempre lì.

Non puoi capire, marito mio, come è tremenda la paura

che confina con la speranza e ogni giorno si insinua in essa.

Non c'è speranza senza paura, e paura senza speranza.

Mio figlio cresceva — e in lui vedevo sempre più te.

Non uscivo ormai dal cerchio segnato dalla tua personalità

insolita

alla quale ho dato me stessa e non riesco più a ritrarmi.

Tu non vieni mai, non ci provi nemmeno.

Dall'altra parte dello specchio l'orefice misurava le fedi.

Dall'altra parte dello specchio si spaccò il nostro destino

— ma l'unione rimase.

Cristoforo  mi ha parlato oggi  di Monica,

una ragazza timida, estranea —

come tu allora hai detto a tua madre: Teresa.

La parola fu pronunciata.

Oggi mi sono fermata di nuovo davanti alla vetrina

dell'orefice,

vi leggevo i capitoli successivi della nostra strana storia.

Quel vecchio aveva nello sguardo la livella per la nostra

nuova vita.

I nostri cuori facevano da filo a piombo. (Il piombo

incontrava la livella al punto giusto).

Dopo li vidi insieme — uscirono felici tutti e due.

Monica col suo sorriso tradiva come una svolta:

Cristoforo aveva  scoperto un'altra  persona,  i  loro

pensieri si erano fusi.

(Per un momento mi sono sentita Monica incontrata da te).

Potevano tutti e due passare senza neanche notarmi,

però, già da tempo, era in me il loro colloquio.

2.

(IL DIALOGO TRA  CRISTOFORO E  MONICA  ERA QUESTO)

CRISTOFORO

Sono figlio di mia madre e la ritrovo anche in te.

Non conosco mio padre, quindi non so cosa si chieda a

un uomo.

Comincio la vita da capo. Non ho modelli pronti.

Mio padre rimase in mia madre, quando cadde non so

su quale fronte.

Da me non veniva mai, non passava con me le sue giornate.

L'idea del padre mi è stata innestata da lei — crescevo così,

pensando più spesso di quanto credi al suo destino di donna,

alla sua solitudine piena dell'assenza di lui

che io ripresento in me. —

Ma per te non voglio un destino simile. Voglio la presenza,

voglio un continuo compenetrarsi, sempre, come adesso.

Hai in te tanto di mia madre che devo lasciarla

per ritrovarla in te? Una vita completamente nuova

e gente nuova; ti ringrazio proprio per questo

che tu, Monica, mi hai costretto a comprendere la mia

esistenza

come uno straordinario insieme che ha preso rilievo

e contorni solo perché tu stai vicino a me.

MONICA

Io però ho paura di me stessa e temo anche per te.

Prima ho avuto a lungo paura di te, temendo anche per

me stessa.

Tuo padre partì e cadde, ma — l'unione è sopravvissuta

— tu sei stato il suo portavoce, l'amore si è trasposto in te.

I miei genitori vivono come due esseri estranei,

non c'è l'unione di cui si dovrebbe sognare

quando si accetta la vita in comune e si vuole anche offrirla.

Non sarà un errore, mio caro, non ci passerà presto?

Non mi lascerai un bel giorno, come ha fatto mio padre,

un estraneo nella nostra casa — o non ti lascerò forse io

come ha fatto mia madre, divenuta altrettanto estranea?

Può dunque

l'amore umano durare quanto la vita di un uomo?

Forse l'affetto che mi invade è proprio amore

ma sento dentro di me un presagio che viene dal futuro

—  questa è la paura.

Lo so — me l'hai levata (è qui che iniziò l'amore).

E l'hai presa nelle tue mani, come si prendono altre due

mani,

gelide e tremanti, che non si scaldano mai

—  erano mie, queste mani — ti ricordi, sulla neve,

al margine di quel bosco, prima d'un tramonto fugace,

quando smarrimmo la strada. Avevo paura di te,

di questa tua forza, che poteva impadronirsi di me

per lasciarmi poi sola ... (questo era il presagio del futuro).

Ora temo piuttosto me stessa, di te mi fido.

Dicevi che tuo padre è partito per non tornare mai più,

eppure lui è rimasto con voi. Con il mio tutto è diverso,

come con mia madre. A un tratto mi è venuto in mente

che tu rimarrai con me anche se te ne andrai come mio

padre,

e da allora tutto è cambiato. Adesso temo per te.

CRISTOFORO

Dobbiamo accettare che l'amore s'intrecci col destino.

Se il destino non spezzerà l'amore — sarà una vittoria

dell'uomo.

Ma nulla più di questo — nulla che vada più oltre.

Qui sono i limiti umani.

La notte mi svegliavo spesso e subito la mia coscienza

ti stava accanto. Mi domandavo se potevo

prendere le tue mani gelide per scaldarle tra le mie,

per creare una qualche unione, la visione di una nuova

esistenza

che abbraccerà noi due. Ma poi non si spegnerà?

Mi turbavo così per ore, insonne fino all'alba,

ero tentato di fuggire — ma oggi non posso più farlo.

Dobbiamo d'ora in poi camminare insieme, Monica,

anche se dovessi lasciarti presto come ha fatto mio padre.

Bisogna seppellire i ricordi e costruire il proprio destino

da capo.

L'amore è una sfida continua. Dio stesso forse ci sfida

affinché noi stessi sfidiamo il destino.

MONICA

Dobbiamo andare avanti insieme, Cristoforo, insieme,

anche se dovessi diventarti estranea come mia madre per

mio padre.

Avevo paura proprio per questo. Ancora oggi

temo l'amore, temo questa sfida dell'uomo.

Prendi una ragazza difficile, fragile fino all'esagerazione,

che si chiude in sé per un niente e con sforzo rompe il

cerchio

che il proprio io continuamente disegna. Prendi una che

forse pretende più d

i quanto tu sia in grado di dare e che dà con grande

parsimonia.

Spesso mia madre mi ha rimproverato per questo — e

aveva ragione.

Oggi me ne accorgo meglio di quanto non facesse lei stessa

CRISTOFORO

Non posso andare al di là di te. Non si ama un uomo

per il suo carattere docile. E in fondo — perché si ama?

Perché ti amo, Monica? Non chiedere la risposta.

Non saprei dartela. L'amore oltrepassa il suo oggetto

oppure si avvicina tanto da perderlo di vista.

Allora l'uomo deve pensare in modo diverso, deve

abbandonare i freddi ragionamenti

— e quando pensa a caldo conta una cosa sola — se crea?

Ma non si può sapere neanche questo, stando così vicino

all'oggetto.

Importante sarà quello che rimane quando l'ondata delle

emozioni si ritirerà.

Tutto questo è vero, Monica. E sai che cosa mi piace di più?

Abbiamo in noi tanta verità che riusciamo a decifrare le

cose semplici

nell'intreccio di tutti questi slanci.

3.

TERESA

Quella sera ho dovuto capire, Andrea,

come tutti quanti pesiamo sui loro destini.

Ecco l'eredità di Monica;   la spaccatura di quell'amore

si è impressa così profondamente in lei che anch'esso

prende origine da li. Cristoforo cerca di guarirla.

In lui è sopravvissuto il tuo affetto per me, ma anche

la tua assenza

— paura di dover amare l'assente. Ma questo non è  

colpa nostra.

Siamo diventati per loro un varco che devono attraversare

con difficoltà

per entrare in case nuove — nel rifugio delle loro anime.

Sarebbe già molto se non inciampassero. —

Viviamo in loro per lungo tempo.

Quando crescono in fretta  sembra che diventino

inaccessibili,

impermeabili come l'argilla, ma ormai sono impregnati di noi.

E anche se si chiudono esteriormente

rimaniamo lo stesso dentro di loro

e fa quasi paura il pensarci — la loro vita è come una

verifica

del nostro operato, di ciò che è stata la nostra sofferenza

(se no come si può parlare d'amore al tempo passato).

Ecco il punto dove noi ci siamo fermati una volta, come loro

si sono fermati oggi. Guardavamo la vetrina di questo

strano Negozio.

Certe verità non tramontano, ritornano sempre agli uomini.

Quella verità che anni or sono prese le sembianze della

nostra vita,

oggi prende le loro. —

Devo avvicinarmi a loro e dire:

Buonasera, Monica, buonasera, Cristoforo.

(Mi ricordo, Andrea, che ti sei fermato dietro di me,

discreto: la tua faccia l'avevo notata prima nella vetrina

e solo dopo ho sentito la tua presenza).

Andrea, non è finito niente —

devo dunque avvicinarmi a loro e dire così:

Carissimi ragazzi, non è finito niente, l'uomo deve tornare

sul luogo dove prese l'avvio la sua esistenza —

e desidera ardentemente che essa spunti dall'amore.

Lo so — il vecchio orefice che questa sera

anche lui è più vecchio di altri ventisette anni,

vi ha scrutato con lo stesso sguardo di allora, sondando

i vostri cuori

e precisava con queste fedi il nuovo livello dell'esistenza.

Forse in tal modo cambia in spiccioli la sua stessa vita,

riempiendola con la vita degli uomini, di tanti, tanti uomini.

Andrea ha portato con sé la fede, con essa è caduto,

io porto ancora la mia. —

CRISTOFORO

Quando abbiamo messo le fedi ho sentito la tua mano

tremare ...

Abbiamo dimenticato di guardare il viso del vecchio

di cui mia madre mi aveva parlato; i suoi occhi avrebbero

dovuto dirci molto.

Non è colpa nostra se non abbiamo notato niente

nel suo sguardo — e disse cose ovvie, del resto parlò poco.

Non ti meravigliare allora, mamma, che queste parole

siano passate così, senza eco

(cose note, del resto — non abbiamo avvertito in esse

nessuna grandezza),

molto di più mi hanno detto le mani tremanti di Monica.

Ero tutto preso dalla sua commozione

e da come la vivevo io stesso, perché la sentivo pienamente      

— e ho visto noi due sul fondo di questa esperienza;

credo di volerle molto bene.

MONICA

Eravamo presi uno dall'altro — come avremmo potuto

guardarlo ...

Lui non ha fatto niente per affascinarci ...

ha preso semplicemente la misura delle nostre dita, poi

quella delle fedi,

come un qualsiasi artigiano. Non c'era traccia d'arte.

Lui non ci ha avvicinato a niente. Tutta la bellezza è rimasta

nel nostro proprio sentimento. Non ha allargato nulla,

né ristretto

... ero completamente presa dall'amore — e mi sembra

solo da questo.

TERESA

Mi sono spaventata .. . forse il vecchio orefice

ha perso ormai la forza del suo sguardo e della sua parola?

O forse loro non sono stati in grado di recepirla,

di sentire ciò che è nascosto nelle sue parole

e nei suoi occhi? Sono forse diversi, loro?                  

Gli dissi — buonasera — e presto abbiamo cominciato

a parlare di matrimonio. Monica parlò subito

dei suoi genitori. Erano interiormente assenti.

L'amore di Monica nasceva fuori della loro presenza, e forse

anche contro la loro volontà — così almeno credeva lei.

Tuttavia,

lo so, esso nasceva dal seme che essi avevano lasciato

in lei. —

Monica non si vergognava di questa incrinatura che da sola

si rimarginava nelle loro anime, ma in lei si ripercuoteva

ancora.

Che cosa state costruendo, ragazzi? Quale compattezza

avranno i vostri sentimenti fuori del significato delle parole

del vecchio orefice, parole attraverso cui passa il piombo

di ogni matrimonio in tutto il mondo?

MONICA

Penso ai miei genitori, penso ai miei genitori                

— perché, naturalmente, provo a immaginare, mio caro,

il giorno del nostro matrimonio. Spesso faccio queste prove.

Assomigliano forse un po' alle prove in teatro:

il teatro della mia immaginazione, del mio pensiero.

Mio padre farà la parte del padre e del consorte,

mia madre accetterà quel ruolo e cercherà di adattarsi ad

esso.

Le loro facce mi daranno fastidio ...                      

Oh, quando finalmente cominceremo a vivere

la nostra vita! E quando finalmente crederò

che tu non sei come mio padre! Quando diventerai solo

Cristoforo

libero da quei ricordi! Vorrei tanto diventare tua

e solo questo mi disturba incessantemente; essere me

stessa.

CRISTOFORO

Erano strane le tappe del nostro amore, cara mamma,

ho dovuto restituire Monica prima a lei stessa,

poi ai suoi genitori (non mi amano troppo,

anche se ultimamente va un po' meglio ...),

ho cercato di immaginarmi con lei la loro partecipazione

al nostro matrimonio;

è diverso da come pensi, e lo sarà —

gli uomini non sono solo maschere, hanno qualcosa nel

profondo.

Monica, che ne sai dell'intimo di tua madre e di tuo

padre, Stefano?

Quando arriverà il giorno del nostro matrimonio

ti staccherai da loro. —

Un tempo ti tenevano tutti e due per mano,

prima ancora eri nella culla,

e quando tuo padre tornava dal lavoro

e domandava ad Anna, tua madre:

— Come mangia la piccola, è aumentata di peso? —

e si congratulava per ogni grammo di più,

poi gioiva del tuo sonno, poi del tuo balbettio

— così diventava anche lui bambino.

Tutto questo non poteva passare senza traccia.

Dunque quando arriverà il momento

io ti prenderò da loro,

sarai un essere maturo al dolore,

al dolore di un nuovo amore,

al dolore di un nuovo parto

e saremo tutti pieni di gioia

e sfioreremo i confini di quello

che nella lingua umana si chiama felicità.

TERESA

Mio figlio  è buono con Monica

come volesse sostituirsi al padre mancato anche a lui

e che lei invece è solo convinta di aver perduto —

(uno strano processo, Monica; quando sparisce dentro di

noi una persona

che vive ancora — sparisce perché noi non la tratteniamo

più —

e anche qualcosa di più strano; talvolta con l'immaginazione

creiamo in noi una persona che non esiste.

Così Cristoforo ha creato te, Andrea,

così vuole ricreare Stefano e Anna, genitori di Monica).

4.

TERESA

Quando arrivò il giorno delle nozze, i genitori vennero

entrambi,

per stringersi intorno a Monica, vestita di bianco,

Cristoforo stava accanto a me. Adamo ha preso il posto

di suo padre.

Adamo fu proprio l'uomo che vide Andrea l'ultima volta.

Erano nello stesso battaglione. Appena tornato dal fronte

venne da me per ripetere le parole dette da lui.

Forse qualcosa dei grandi affetti di Andrea è penetrato

nel suo cuore

perché ha amato molto Cristoforo e lui lo ha ricambiato.

Più di una volta li trovavo in casa, conversavano

vivacemente.

Adamo non lesinava il tempo, faceva da padre al ragazzo.

Ero un po' perplessa, mi domandavo se non pensasse a me.

Intendeva forse chiedere la mia mano? Ma una volta mi

disse:

«Mi sembra di esistere al posto di ogni uomo per continuare

la sua sorte

perché anche quella precedente è cominciata in me». —

Non ho captato il senso di queste parole, ma da quel

momento, ne sono certa,

ho ritrovato la calma. —

Eravamo tutti così festosi. Monica era molto bella,

Cristoforo un po' impallidito. Si avvicinavano lentamente.

Poi Cristoforo la prese per mano e così ci hanno preceduti.

(La bottega dell'orefice è rimasta alle spalle, di mezzo

giro a destra.

I  due giovani si sono scambiati le fedi — e hanno ripreso

a camminare tenendosi per mano.

Noi siamo rimasti indietro ...).

Ricordo — la vetrina di questo negozio una volta divenne

uno specchio strano,

assorbì tutto il nostro futuro, fino al momento in cui

inizia il mistero. Il mistero, o forse — l'ignoto?

Per noi fu sufficiente. L'amore si dimostrò più forte

della paura.

Ma loro, oggi, sono andati avanti. Senza guardare la

propria immagine

nello specchio di quella strana vetrina, senza sondare il

futuro.

Il  mistero, o l'ignoto, comincia per loro qui?

Intanto Cristoforo strinse il braccio di lei. Voleva mutare

in lei i ricordi dei genitori.

                                             

5.

Loro sono rimasti li, io con Adamo. Potevo forse mettere

a prova l'intuito di mio figlio? 

ANNA

Adamo, non ho mai pensato di incontrarti qui.

Anche il tuo nome suona strano sulle mie labbra.

Ricordi — hai cominciato a parlare con me, allora,

così d'improvviso, proprio qui —

mi hai detto:  «Lo Sposo passerà per questa strada ...»

Aspettavo, confondendomi tra le ragazze che si

addormentavano

mentre altre portavano le lampade e gli andavano incontro.

Mi sono incamminata con loro e quando arrivò lo guardai

in faccia, da vicino.

Era la faccia di Stefano. Volevo fuggire subito.

Tu credi che io sia giunta a rassegnarmi?

Il senso della sproporzione non è sparito in me del tutto.

Non potevo, non posso accostare queste due facce,

non possono per me diventare una.

Si è prosciugato in me l'antico amore di fanciulla per

quest'uomo,

come una fonte che non può sgorgare due volte dalla terra.

Cercavo però di capire, di credere in lui, in un ordine,

in un'armonia delle cose, anche in quelle della mia vita.

Poi — non lo disprezzavo più, non portavo più rancore,

questo terribile rancore per una vita distrutta proprio

da lui.

Ho cominciato a cercare la colpa anche in me. C'era.

Non troncavo più i discorsi. Ho smesso di tacere per

umiliarlo.

Non so se lui sia cambiato. Ma è diventato meno

invadente.

Anche per lui, penso, la mia presenza è diventata più

sopportabile.

Non ci allontaniamo più uno dall'altro con la velocità

crescente

di prima. Adesso sembra che tutto si sia fermato.

Viviamo l'uno per l'altro? Non credo. Più per i ragazzi.

Monica è la più difficile. In lei abbiamo distrutto di più.

Adesso se ne va. Credo che sia troppo presto

 — e porterà con sé la convinzione della colpa dei suoi genitori

(ma qui ci fa torto, forse).                                 

Che lo Sposo dovesse avere la faccia di Stefano — adesso

lo capisco.

Ma sono rimasta una di quelle vergini stolte, alle quali è

mancato l'olio,

la mia lampada arde appena e per farlo

sfrutta ogni minima fibra della mia anima.

ADAMO

Quella sera vidi Anna di nuovo. Dopo tanti anni l'incontro con lo Sposo era ancora vivo in lei. Anna ha imboccato la strada dell'amore che completa. Bisognava arrivare al completamento donando e ricevendo in propor­zioni differenti da prima. La crisi avvenne proprio tanti anni fa, in quel buio. Allora tutto sembrava naufragare. Un nuovo amore poteva nascere solo dall'incontro con lo Sposo. Ciò che Anna sentì all'inizio non fu che soffe­renza. Col tempo si è calmata a poco a poco. Ciò che invece si andava, formando era inafferrabile e del tutto privo del sapore del vero amore. Forse arriverà il mo­mento in cui tutti e due cominceranno ad assaporare il nuovo ... In ogni caso Anna è già più vicina a questo momento di quanto non sia Stefano.

La causa di tutto questo sta nel passato. Là era lo sbaglio . .. Voglio dire che la gente si lascia trascinare dall'amore come se fosse un assoluto, anche se mancano le misure dell'assoluto. La gente segue la propria illusio­ne, senza cercare d'innestare questo amore nell'Amore che ha una tale misura. Non hanno neanche il sospetto di questa necessità perché sono accecati non tanto dalla forza del sentimento quanto dalla mancanza d'u­miltà. È una mancanza d'umiltà verso quello che do­vrebbe essere l'amore nella sua vera essenza. Questo pericolo diminuisce se ne siamo coscienti. In caso con­trario — il pericolo è incombente; l'amore cede sotto il peso della realtà quotidiana.

Come mi faceva pena, Anna, quella sera di tanti anni fa. Come mi faceva pena Stefano. Avevano già tre bam­bini che crescevano (più di tutti ne ha risentito Monica). Mi facevano una pena terribile — molto di più di quanto ho patito per Andrea al momento del nostro commiato al fronte quando lui partì per la sua posizione; disse allora — non tornerò. Non mi rimase altro che portare questa notizia alla vedova e all'orfano. Cercai in tutti i modi di sostituirmi al padre invece del quale non mi è stato concesso di morire.

Certe volte la vita umana sembra essere troppo corta per l'amore. Certe volte invece no — l'amore umano sembra essere troppo corto per una lunga vita. O forse troppo superficiale. In ogni modo l'uomo ha a disposizione una esistenza e un amore — come farne un insieme che abbia senso?

Eppoi questo insieme non può essere mai chiuso in se stesso. Deve essere aperto perché da un lato deve in­fluire sugli altri esseri, dall'altro riflettere sempre l'Es­sere e l'Amore assoluto. Deve rifletterli almeno in qualche modo.

È questo anche il senso ultimo delle vostre esistenze:

Teresa!                                               

Andrea!                                                 

Anna!                                               

Stefano!                                                

e anche delle vostre:

Monica!

Cristoforo!...

TERESA

Adamo ci ha nominati tutti, uno dopo l'altro. Ha taciuto

il suo nome.

È stato una specie di denominatore comune di noi tutti,

portavoce insieme e giudice.

Silenziosamente ci affidavamo al suo pensiero, alla sua                                                      analisi, al suo cuore.

Tutto quello che è stato, che è passato, oppure si è

trasformato lentamente  

in un altro insieme.

Era difficile staccare il pensiero e il cuore dai giovani:

Monica e Cristoforo di nuovo rispecchiano in qualche

modo

l'Essere e l'Amore assoluto.

In qual modo? Ecco una domanda che rimane sempre aperta

(Lo specchio nel quale una volta vedemmo con Andrea

il nostro prossimo futuro — non c'era più).

Ah, l'orefice ha già chiuso il negozio. E loro se ne sono

andati.

Sanno almeno che cosa essi stessi rispecchiano? Non vale

forse la pena di seguirli?

In fin dei conti hanno i propri pensieri...

Torneranno qui, torneranno di sicuro. Se ne sono andati

solo per un attimo, per pensarci su;

perché — creare qualcosa che rispecchi l'Essere e

l'Amore assoluto

è forse la cosa più straordinaria che esista!

Ma si campa senza rendersene conto.

STEFANO

Neanche io capivo che cosa stesse dicendo Adamo, e anche Teresa, la madre di Cristoforo. Ancora prima, Anna, aveva quasi confessato ad Adamo gli ultimi anni della sua vita. Quando finì di parlare dello Sposo che doveva avere il mio volto, portò subito il discorso su Monica. Questo l'ho capito meglio: Monica vuole lasciarci a qualsiasi costo. Ma perché, perché? Francamente non capisco che cosa vuol dire rispecchiare l'Essere e l'Amore assoluto —  ma  se Monica vuole  tanto lasciarci  allora so con tutta certezza che lo vuole perché noi, io e Anna, lo rispecchiamo così male. Questo l'ho capito chiaramente. È questo che mi ha addolorato di più.

In quel momento — per la prima volta in tanti anni — ho sentito il bisogno di dire qualcosa in cui si aprisse tutta la mia anima. Volevo dirlo proprio a Anna (questa sarebbe stata forse una prova di autoaccusa, o meglio — una prova della spartizione della colpa tra noi due —).

Tuttavia mi sono avvicinato a lei, le ho posato una mano sul braccio (da tempo, da molto tempo non lo facevo più) e le ho detto queste parole:

che peccato, che peccato che da tanti anni non ci siamo

sentiti più come due ragazzi,

Anna, Anna quante cose abbiamo perduto per questo!

COMMENTO

Come risulta evidente, la trama di quest'opera e il suo messaggio morale non richiedono commenti e spiegazioni. Tut­to è detto qui con la semplicità parsimoniosa e la lucidità pacata che sono presenti solamente nelle opere di un ta­lento sicuro delle sue idee. Talmente sicuro da non avere bi­sogno di perdersi nella ricerca di parole altisonanti e di si­tuazioni straordinarie. Per la stessa ragione — ed è un tratto importante di questo dramma dedicato al sacramento del ma­trimonio — un solo imperativo, quello etico, e non la paura delle sanzioni imposte dall'esterno, fa qui da bussola per le dramatis personae. La voce più incisiva che sentono (o che ri­fiutano di sentire) le tre coppie dei protagonisti, è la voce della legge naturale, la voce della propria coscienza. Non a caso apprendiamo solamente tramite le loro bocche cosa abbia detto il vecchio Orefice, portavoce della verità rive­lata; questi, con le parole più elementari esige dai futuri sposi soprattutto che siano responsabili — e della sorte del­l'altro essere umano con cui ci si unisce, e della sorte degli esseri cui si intende dare la vita.

Certamente i credenti e coloro che sono alla ricerca della fede, da questa commedia trarranno più vantaggio degli altri. Ma questo dramma umano sembra capace di commuovere anche coloro che non si sentono vincolati alle sanzioni reli­giose. La voce della fede e della coscienza si esprime qui con un linguaggio universale — quello della comprensione; lo stesso autore afferma in un altro suo libro che «l'amore è senza dubbio un dramma».

Con tutto ciò, non il contenuto, ma piuttosto il caratte­re poetico, le circostanze della nascita di questo dramma e soprattutto la sua particolare forma, giustificano qualche considerazione che potrebbe interessare il lettore, specie quello che ne viene a conoscenza in versione tradotta.

I.

Il nome di Andrzej Jawień è ben conosciuto dagli ama­tori della poesia in Polonia e non da ieri, ma già da anni. Più esattamente dall'anno 1950 quando sulla rivista catto­lica di Cracovia «Tygodnik Powszechny» è apparso il «Can­to dello splendore dell'acqua», seguito, a qualche mese di distanza dal poema «Madre». E — va subito detto — l'at­tenzione dei lettori non fu suscitata dalla personalità né dall'ufficio sacerdotale del giovane autore che si nasconde­va sotto un nome facilmente riconoscibile come uno pseu­donimo perché preso da un libro notissimo in Polonia, dal «Cielo nelle fiamme» di Jan Parandowski. Ciò che piuttosto colpiva in queste poesie era la maturità, insolita in un esor­diente. Quest'impronta di maturo equilibrio proveniva da un riuscito coagulo tra la mole dei problemi e dei significati e l'abilità stilistica unita ad una particolare semplicità del linguaggio.

Il peso dei significati era tale che i versi sembravano scoppiarne; in essi niente è stato scritto a beneficio della rima e della fluidità, ogni parola doveva essere un veicolo del pensiero ed insieme uno strumento della magia poetica. Eppure non erano contenuti di poca importanza: si tratta­va di riflessioni liriche molto personali sul tema dei proble­mi dell'esistenza e sui misteri della fede, questioni già di per se stesse difficili, perché i canoni della filosofia e della re­ligione difficilmente si adattano ai canoni della poesia, per cui la tradizione corrente suggerisce spesso, proprio per que­sti temi, l'uso di una forma retorica oppure ripete gli sche­mi dei motivi folcloristici, quelli di più facile consumo.    

In queste poesie si sentiva, senza sfarzi, la voce perso­nale dell'autore, ma l'arte stilistica tradiva l'ottima cono­scenza del patrimonio poetico dei romantici polacchi ottocen­teschi, specie di Cyprian Kamil Norwid, e, contemporaneamen­te, anche delle conquiste della poesia più moderna, come per esempio delle opere della cosiddetta «Avanguardia di Cra­covia»: non dimentichiamo che l'autore proprio a Cracovia si formava ed agiva. Il traguardo forse più importante di questa corrente artistica era la rivalorizzazione del linguaggio poetico ricercata attraverso l'esigenza di attribuire un signifi­cato rivelatore ad ogni parola e ad ogni frase e non soltanto alla battuta finale. Tale metodo portava al rifiuto della poe­tica tradizionale con il suo rispetto per la musicalità e per gli effetti che suscitano soltanto le associazioni sensoriali.

Infatti la stilistica delle poesie di Andrzej Jawień è ca­ratterizzata dal principio della responsabilità ver­so ogni parola e ogni pensiero, come del resto il problema della responsabilità domina le opere filosofiche di questo autore e le azioni di questo uomo.

Ed infine la semplicità del linguaggio attraeva il lettore perché si trattava di una semplicità non ingenua, non pre­cedente al ragionamento, ma quella che si conquista dopo la riflessione. Tale qualità si impone, nonostante la den­sità semantica delle poesie. È così perché questi versi hanno di regola il carattere di una confidenza; non sono una misteriosa collezione di metafore come talvolta accade nel­la poesia moderna. In essi è sempre avvertibile la tonalità intima, immediata, delle parole del protagonista lirico ver­so colui al quale la poesia si rivolge. Un tono ugualmente quotidiano e fiducioso troviamo nelle confessioni di Maria riguardanti suo Figlio nel poema «Madre» come anche nei semplici pensieri e nelle domande del cresimato del poema «Nascita dei Confessori».

Insomma quasi subito fu chiaro che la letteratura polac­ca si era arricchita di un nuovo talento pieno di severa modestia perché non si curava di distendere davanti agli altri l'ampiezza dei propri sentimenti e delle proprie esperienze, ma piuttosto era teso ad evidenziare agli altri la possibilità del loro arricchimento spirituale.

II.

Vale la pena soffermarsi sull'importanza dell'apparire dei nuovi talenti, delle nuove voci e dei nuovi pensieri nel­la Polonia post-bellica. Durante i sei anni della guerra e del­l'occupazione nazista, hanno avuto una morte violenta sei milioni di cittadini polacchi. Fra questi, gli ebrei furono sterminati quasi totalmente. Quale altro paese ha perso in tale maniera un quinto di tutta la sua popolazione? Ha perso inoltre una parte prevalente della classe chiamata in Polonia intelighenzija; da più di un secolo questa classe è conside­rata portatrice della continuità culturale e custode della iden­tità nazionale. L'occupazione ha fornito, in favore di que­ste ambizioni, una prova veramente tragica: su tutte le liste naziste di proscrizione degli ostaggi, delle persone destinate alle fucilazioni e di quelle destinate ai lager, i primi posti fu­rono riservati agli insegnanti, agli studiosi, ai preti, agli inge­gneri, ai medici, agli studenti, ai giornalisti, agli artisti, agli scrittori. L'elenco delle perdite belliche nella cultura e nel­la letteratura polacca è orribilmente lungo. Quasi tutta la gioventù letteraria polacca prese parte attiva nel movimento della resistenza. Quando Stanislaw Pigoń, storico della let­teratura, seppe che nel quarto giorno della insurrezione di Varsavia era caduto nella lotta Krzysztof Baczyński, forse il più dotato di quella generazione, disse: «Che volete! noi apparteniamo a una nazione il cui destino è di sparare al nemico con i brillanti».

All'indomani della guerra, mancavano nel paese non so­lo la capitale distrutta e le biblioteche bruciate, ma anche molte delle migliori teste e i talenti più promettenti. Ma non meno disastrose furono le devastazioni morali. Non parliamo del normale raccolto di tutte le guerre: il proliferare della rapacità, della spietatezza e della criminalità; e nem­meno dell'incitamento all'odio e al disprezzo per la vita umana. Nel paese così a lungo assoggettato alla totalitaria violenza armata che negava i diritti delle nazioni, nonché quelli dell'uomo, nel paese per lunghi anni calpestato dal­le truppe e dai comandi altrui cominciò a diffondersi la di­sarmante sensazione dell'impotenza, dell'impossibilità di in­fluire sul proprio destino, sia personale sia nazionale. Da questa sensazione cominciò la deleteria rinuncia agli inalie­nabili diritti dell'uomo, al diritto di fare le scelte secondo la propria coscienza. Siccome con le proprie forze niente pare possibile contro i soprusi e le calamità, siccome ogni passo autonomo sembra prevaricare le umane forze non sarebbe forse meglio cedere ogni decisione morale al potere alla autorità, oppure — addirittura all'hegeliano Spirito del­la Storia? Non sarebbe più semplice affidare a costoro il compito di distinguere il bene e il male?

Non è una domanda astratta. Una risposta affermativa significa in questo caso nient'altro che la preclusione dalla libertà e dalla responsabilità.

Il rovesciamento sociale e politico avvenuto in Polonia dopo la guerra, in nome delle generose idee dell'uguaglian­za e della giustizia sociale, non è riuscito a mettere ripari a questa inaridente inerzia morale giacché questo rovescia­mento per lunghi periodi non intendeva tollerare alcuna ini­ziativa non proveniente dal potere, alcun pensiero in disac­cordo con l'opinione dell'autorità ed alcuna legge non pro­mulgata da questa.

Gli antichi principi etici formulati dalla dottrina cri­stiana, in questa situazione sono diventati inevitabilmente il punto di riferimento per ogni sforzo autonomo in favore non solo della continuità culturale, ma anche del pensiero indipendente. Questi principi postulavano la libertà delle scelte morali nonché il primato assoluto delle regole etiche soprattutto il primato dei diritti della personalità umana in quanto non ritenuta il letame della storia, né un semplice mezzo.

Nella poesia «Alla memoria di un compagno caduto sul lavoro», così si esprime Jawień a proposito dell'uomo:

«... devono forse le generazioni usarlo solo come materiale

privandolo dell'unica e propria essenza più intima?».

Sin dal suo primo verso l'autore della «Bottega dell'Ore­fice» proclamava con fermezza questi principi che talvolta, invece, sono considerati come degli impicci decorativi nel raggiungimento dei profitti materiali.

Durante gli anni 1953-56 le poesie di Andrzej Jawień non apparvero in alcuna parte, né quelle di Stanislaw An­drzej Gruda, né quelle di Piotr Jasień, ugualmente pseudo­nimi dello stesso autore. In quel periodo le riviste lettera­rie cattoliche «Tygodnik Powszechny» e «Znak» furono sot­tratte ai loro editori e trasmesse, da decisione amministrati­va, nelle mani del gruppo «Pax». Sono gli stessi anni nei quali il primate di Polonia, cardinale Stefan Wyszyński, vie­ne segregato e privato della libertà per poi riacquistarla nell'ottobre del '56, il periodo del disgelo e delle grandi spe­ranze.

Di queste speranze sono vissuti tutti i polacchi di buo­na volontà, credenti e non credenti. Questa alleanza e que­ste aspettative trovano oggi una ragione nuova non solo grazie alla riaffermazione e alla evoluzione della chiesa po­lacca, ma anche grazie ai mutamenti avvenuti in seno alla società laica. Ci si riferisce a quella parte di società che ritiene non si possa raggiungere la giustizia sociale a spese della verità e dei diritti dell'uomo, e che ritrova nell'etica cristiana un sostegno a queste sue convinzioni. Questo con­cetto non lo ha espresso un sanfedista, ma lo scrittore Jan Strzelecki, sostenitore dell'umanesimo socialista: «Il cristia­nesimo si è messo di traverso all'autoidolatria del partito, dello Stato, della nazione, di traverso all'etica dei collettivi militarizzati che imponevano i loro dieci comandamenti con il linguaggio della mistica e delle pallottole. È stato una scuola nella quale ognuno ha appreso il senso indispensabile della responsabilità per la sua propria vita».

Queste parole scritte dopo la guerra non avevano e non hanno un carattere congiunturale. Se ne trova un paragone nella parte finale della poesia «Il cavalcatore» di Jerzy Liebert, poeta cattolico morto alla vigilia della guerra:

«... poiché ho scelto una volta per tutte       

debbo scegliere ogni volta».                    

III.

La «Bottega dell'Orefice» è una pièce che possiede una struttura particolare e un carattere non convenzionale. Sarebbe vano cercare le fonti della sua poetica nella storia dello spettacolo di contenuto religioso, come il dramma li­turgico, oppure i misteri. Assai fallaci appaiono anche i pa­ragoni con i drammi di Claudel, di Eliot, i primi che possono venire in mente al critico occidentale.

Volendo chiarire le peculiarità di questa commedia, vale allora la pena di indicarne i tre fenomeni distintivi.

1. Abbiamo a che fare non con la cosiddetta rappresen­tazione religiosa, ma semplicemente con un dramma umano. Sono meditazioni riguardanti il significato della sorte uma­na quotidiana. Senza dubbio le conclusioni di queste medi­tazioni concordano con le indicazioni della Sacra Scrittura, però l'autore evita nel linguaggio, nello stile e nel tono di questo suo dramma, ogni elemento ieratico e tanto meno aulico, ogni associazione con la tradizione della solennità. Di simili attributi non sono prive neanche le opere dei poeti moderni molto insigni quando questi penetrano nei terreni sbarrati dai canoni e dai comandamenti religiosi. Il tono ostentato, in questi casi, è determinato non solo dalla tradizione, ma anche dalla troppa reverenza e dalla mancata consuetudine con l'argomento. Chi invece vi è avvezzo può permettersi parole semplici e toni intimi. L'autore della «Bottega» non ha scelto come protagonisti i santi o delle figure storiche, ma gente di oggi, quella che sfioriamo gior­nalmente per strada e ciò perché la sua mira non è all'alto, ma al fondo. Con l'esatta comprensione di una delle fon­damentali regole aristoteliche egli ci ha sorpresi applicando a simili problemi i mezzi poveri, efficaci, lo sappia­mo, nella pratica non solo della chiesa ma anche del teatro. Cyprian Nordwid ha creato la teoria del fiore bianco che sostiene l'uso moderato dei mezzi propri dell'espressione artistica, la loro discrezione, la loro liberazione dal patetico. Questa commedia può servire come esempio dell'applicazione di tale teoria.

2.  Un altro tratto particolare dell'opera è l'impronta di confidenza che l'autore ha messo in ogni battuta dei suoi personaggi. È l'uguale tono che troviamo nelle sue ope­re liriche. I dialoghi veri e propri vi si trovano di rado, ma non si tratta di un ciclo di monologhi. Sono dei discorsi indiretti arricchiti da riflessioni e ricordi, ma portati avanti nella costante consapevolezza della presenza dell'interlocu­tore, oppure della sua dolorosa assenza. Viene da pensare che l'ascoltatore e lo spettatore di questa pièce si sentiran­no fidati confessori dei personaggi scenici. È un'impressione assai rara nel teatro.

3.  La parola, il verbo, è, in fin dei conti, l'unico mezzo di espressione al quale l'autore si affida. Questa pièce è priva di didascalie, di suggerimenti per gli effetti decorativi, per i costumi, per gli oggetti scenici. Basta la presenza dell'attore, la sua voce umana, a far percepire tutto.

Questa fiducia nella parola, l'arte della sua applicazione teatrale, come del resto moltissimi altri elementi della sua poe­tica e del suo concetto dell'arte, è stata dall'autore senza dubbio estrapolata dal Teatro Rapsodico. La conoscenza di questo fenomeno teatrale, del suo ruolo e della sua impor­tanza nella cultura polacca è ancora scarsa in Occidente.

Il teatro suddetto è nato a Cracovia nel 1941 a metà notte dell'occupazione nazista. È noto che, durante i sei anni neri, l'occupante chiuse in Polonia oltre alle università e al­le scuole (ad eccezione delle elementari), anche tutte le case editrici, i musei e perfino i teatri. Vennero risparmiati sol­tanto i locali che elargivano il divertimento più volgare; li evitarono i patrioti e li boicottò il sindacato clandestino de­gli attori polacchi. Quasi tutto il mondo teatrale polacco ha preso parte al movimento della resistenza passiva, ma non sono mancati attori, registi e teorici che sono passati alla resistenza attiva. Sorsero allora i teatri illegali, esisteva an­che, nella clandestinità, un'accademia teatrale che funzionava alla stessa maniera delle altre scuole clandestine, medie e superiori.

In queste circostanze, il dr. Mieczyslaw Kotlarczyk, na­to a Wadowice, appare a Cracovia e fonda la sua compagnia. Il giovane Karol Wojtyła, compaesano di Kotlarczyk, suo alunno e amico fedele, faceva parte dei primi attori di questo teatro, dei primi allievi di questa vera e propria accademia della parola viva. La compagnia dava i suoi spettacoli nelle case private, nelle sacrestie, nei locali occasionali. L'annun­cio degli spettacoli veniva sussurrato all'orecchio, ma gli spettatori non mancarono mai e la compagnia non fu vitti­ma mai della delazione.

Non è stata un'attività senza pericoli: è stato un atto di lotta contro il disegno dello sterminio spirituale della na­zione polacca. L'unica arma di questa lotta era la parola; già le sole condizioni nelle quali si svolgevano le rappresenta­zioni costringevano alla rinuncia di tutti gli altri elementi dello spettacolo teatrale. Però Kotlarczyk è riuscito a fare di questa necessità una vera virtù. In cartellone si trovavano soprattutto le opere non teatrali, specie quelle dei poeti romantici polacchi. La compagnia iniziò la sua attività con la riduzione scenica del poema «Re Spirito» di Słowacki, più tardi arrivò «Il signor Taddeo» di Mickiewicz. Finita la guerra il teatro uscì dalla clandestinità e potè allargare il suo repertorio nel quale troviamo non solo le opere di Norwid e di Wyspianski, ma anche quelle di Dante, dell'Ariosto, di Omero, di Shakespeare, di Puskin. Apparvero il co­ro e gli elementi scenografici, ma sopravvisse il culto per la parola. Kotlarczyk aveva istillato nei suoi attori la convin­zione che la parola potesse avere una forma magica. In ciò egli si rifaceva ai suoi maestri Osterwa e Limanowski, crea­tori del noto teatro polacco «Reduta», ai mistici dell'Orien­te e dell'Occidente, allo Steiner e al suo Goetheanum di Dornach, però sia Kotlarczyk, sia i suoi seguaci furono affa­scinati soprattutto dal Verbo, dal Logos, così come l'inten­deva San Giovanni evangelista.

Nel 1953 il Teatro Rapsodico fu chiuso in seguito a una decisione presa dall'alto. Ed ecco che nel 1957 appare sul «Tygodnik Powszechny» un ciclo di interventi fatti da eminenti intellettuali i quali chiedevano che fra le correzioni di quelli che furono chiamati «gli errori e le deformazioni del periodo stalinista» fosse inclusa la riapertura del Teatro Rapsodico. Il più importante di questi interventi portava la firma, ormai a tutti nota, di Andrzej Jawień. L'interven­to ebbe un effetto quasi immediato. Tuttavia nel 1967 il tea­tro fu di nuovo chiuso e questa volta definitivamente, ma

—  scrive Karol Wojtyła, diventato ormai cardinale e me­tropolita di Cracovia, nella prefazione all'«Arte della parola viva» di Kotlarczyk, (edita a Roma nel 1975 per i tipi del­l'Università Gregoriana) —:   «Bisogna però aggiungere che

—  anche se il Teatro Rapsodico non esiste più —  la sua idea di teatro come parola viva innestata da Mieczyslaw Kotlarczyk, in vario modo fanno adesso parte dello stesso costume teatrale di tutta la Polonia».

E invero l'esempio di questa scena non ha cessato di dare i suoi frutti. Restituire il suo valore alla parola ebbe un'importanza particolare proprio quando il movimento in­novatore, così presente nel teatro polacco, si esauriva negli innocenti sfoghi degli esperimenti scenografici, quando il re­gista si realizzava mettendo l'autore nell'ombra e le farneti-cazioni erano tollerate più volentieri che non il pensiero, sempre incommensurabile. Gli attori che allora debuttarono in quella compagnia, oggi occupano posti di primo piano nei migliori teatri polacchi. Ricordiamo qui Piotr Pawtowski, Józef Para, August Kowalczyk, ma soprattutto Danuta Michalowska, la creatrice del Teatro dell'Attore Solitario, l'ec­cellente interprete della poesia.

La «Bottega dell'orefice» fu pubblicata nel 1960 sul numero 78 della rivista mensile «Znak».

La sua sola specificità, di cui abbiamo già scritto, baste­rebbe a spiegare perché questo poema drammatico, così estra­neo agli abituali ed approvati schemi, finora non era stato messo in scena. È occorsa l'iniziativa Radio Due della RAI per promuovere questa versione italiana della pièce e la sua prima mondiale. Infatti la poetica di quest'opera corrisponde perfettamente alle esigenze della radiofonia, ma la sua por­tata non è dovuta soltanto alla caratteristica del mezzo di comunicazione.

I contenuti della «Bottega dell'orefice» sono chiaramen­te comprensibili anche a ogni spettatore e lettore: è la vox humana, esplicita e presente, che concede a queste com­plesse meditazioni le ali della chiarezza e della semplicità.

Jerzy Pomianowski