La buona famiglia

Stampa questo copione

[Prefazione]

Carlo Goldoni

LA BUONA FAMIGLIA

Commedia in tre atti in prosa rappresentata per la prima volta in Venezia nell'Autunno dell'Anno 1755

A SUA ECCELLENZA

LA SIGNORA

CAMILLA BARBARICO BAGL1ONI

Alloraquando (Nobilissima Dama) mi venne in pensiero di dare al pubblico una Commedia sulla immagine di una Buona Famiglia, desiderai con quest'opera più di giovare, che di piacere, ed impiegai ogni studio per innamorare gli spettatori di quella pace amenissima, che fra i legami dell'onesto amore e del sangue mantiene la vera felicità. Durai non poca fatica nell'immaginare i caratteri all'argomento proporzionati, mentre sendo io accostumato valermi in altre occasioni di quei difetti, o di quelle virtù, che praticare ho veduto, non mi è riuscito in allora fissare l'occhio in alcuna Famiglia, che per la vera bontà di tutti quelli che la compongono, servisse a me di prototipo, per agevolarmi l'impresa. Non è facile trovare al mondo in una casa medesima tante persone buone, che tutte contribuiscano alla comune tranquillità; ed una sola che abbia l'animo diversamente inclinato, basta a rompere quella catena che è opera solo della concordia; laonde ho dovuto figurarmi da me medesimo tante virtuose persone in una sola casa raccolte, le quali per l'uniformità dei pensieri, e delle ottime inclinazioni, e del vicendevole amore e rispetto, servissero altrui d'esempio, e un'idea proponessero della Buona Famiglia. Se prima di comporre una tal Commedia, avessi avuto la sorte che posteriormente ho ottenuta, di conoscere internamente la virtuosa Famiglia di V.E., avrei avuto più largo campo di tessere il mio disegno, e provveduto mi avrei di que' lumi che suggerire non mi ha potuto lo scarso ingegno, senza temere che mi venisse imputato aver io scelto un soggetto fantastico e immaginario. Godea soltanto in allora la protezione umanissima del fu eccellentissimo Signor Francesco, Cognato di V. E., il quale per la vera bontà di cuore, per la dolcezza de' suoi costumi, e per le belle virtù dell'animo e del talento, lasciò morendo di sé gloriosa memoria, ed un perpetuo dolore nell'animo de' suoi servidori ed amici. Fra gli altri innumerabili benefici, che da esso benignissimo Cavaliere confesso aver riportati, singolarissimo è quello di aver io col suo mezzo acquistato il patrocinio di V. E., quello dell'amabilissimo di Lei Figliuolo, e di tutta la nobilissima di Lei Famiglia. Dopo ch'io ebbi l'onore di essere ammesso a frequentare la di Lei Casa, dissi fra me medesimo con esultanza: Non è un poetico sogno l'immagine di una virtuosa Famiglia; venga fra queste mura chi vuol vederne l'esempio. Ecco una Madre, che all'antichissima nobiltà de' natali accoppiando le più belle virtù, sa preferire ad ogni altro bene la domestica pace. Ecco una Dama, che fu la delizia del caro Sposo, fin ch'egli visse, e colla sua prudenza, e coll'ammirabile suo talento, non cercò che di accrescere la di lui gloria, viva rimanendo ancora la ricordanza ossequiosa del di Lei nome nella Città di Bergamo, ove l'Eccellentissimo Signor Gio. Antonio, di Lei Consorte, sostenne gloriosamente il sublime carico di Pubblico Rappresentante. Ecco (riflettea con ammirazione) ecco un'amorosa tutrice de' suoi Figliuoli, rimasta sola nel grande impegno di bene educarli in quell'età in cui prossimi essendo a dover figurar nel gran Mondo, possono contribuire più dei Collegi e dei Monisteri gli esempi e gl'insegnamenti di sì gran Madre, da forte zelo e da vera amore animata. Due Figlie femmine ed un solo Maschio sono presentemente le sue delizie. Ella è intieramente sagrificata al dolce peso di così cara Famiglia. Altro non cura che il solo bene, che la vera gloria de' suoi Figliuoli; attenta a promovere i loro nobili avanzamenti, sa concedere ad essi quegli onesti piaceri che al loro grado convengono, ed obbligarli a rinunziare da per se stessi a tutto quello che, quantunque si tolleri nel gran Mondo, non sembra degno di lode. Sa farsi obbedire senza fatica, rispettar senza tema, ed amar senza abuso. Bella cosa è il vederla in mezzo a' suoi cari Figli far con essi la sua piacevole conversazione, andar con essi (talvolta ancora di malavoglia) a qualche onesto divertimento, sagrifìcando il proprio comodo al piacer loro, e prendere dalla compiacenza di essi quell'interno diletto che per se medesima altrimenti non sentirebbe. Ma questo è il meno delle sue amorose attenzioni; Ella è l'ammirabil direttrice del patrimonio ricchissimo della Famiglia, e con provvida incessante cura nulla perde di vista che giovar possa al decoro, all'utile, allo splendore del loro grado e delle loro fortune. Ella per altro ha tutta la ricompensa che può bramare alla grand'opera dell'amor suo, ed ha occasione di benedire le sue attenzioni, per quella esemplare obbedienza e rassegnazione, che alla venerabile sua Genitrice usa incessantemente il dolcissimo e rispettoso Figliuolo. L'Eccellentissimo Signor Paolo Baglioni, unico rampollo della Nobile sua Famiglia, in una età nella quale pur troppo soffrono mal volontieri i giovani pari suoi il giogo de' Genitori, tratto dalla schiavitù del Collegio alla libertà delle domestiche mura, senza l'autorevole voce del Padre, retta soltanto dal dolce freno dell'amabile Genitrice, sa ben discernere co' suoi talenti la fortuna di una tal Madre, e lungi dallo scostarsi da' suoi consigli, serba ad essa tanto rispetto e tanta obbedienza, che si reputerebbe infelice, se per avventura foss'ei capace renderle un dispiacere. Egli è docile per natura, tenero ed amoroso di cuore, e questo è merito del di Lei sangue, che lo ha nelle proprie viscere fecondato; ma le Virtù che lo adornano, sono effetti mirabili della di Lei attentissima educazione. Per verità, basta conoscerlo per amarlo; Egli è nemico delta vanità, dell'ostentazione, ma sa conoscere i doveri dell'uomo e quelli del Cavaliere. E liberale, è cortese, ma non sa uscire dai confini della prudenza; ama i piaceri onesti con sobrietà; è amico de' buoni, e si compiace dell'altrui bene. Fortunata potrà chiamarsi quella illustre Donzella, che ad Esso il Cielo avrà destinata in Consorte. Egli è il solo che può promettere la propagazione della Nobile sua Famiglia, e rinnovare la fama di que' Baglioni, che sin nel secolo XIV illustrarono colle loro vittorie le armi di questa eccelsa Repubblica, ed empierono l'Italia tutta del loro nome. Al merito de' suoi Natali, a quello delle sue ricchezze, aggiungesi in alto grado il sommo merito della bontà de' costumi suoi, e non gli può esser discaro, ch'io ne attribuisca la gloria alla di lui ammirabile Genitrice. Ella con pari zelo, e con attentissima cura, va preparando il cuore delle dolcissime Figlie ad incontrar quel destino che ad ambedue avranno i Cieli fissato.

Non è lontana da esse quella stagione, in cui sogliono le Fanciulle svelare modestamente l'inclinazione del loro animo. L'amorosa loro Genitrice è dispostissima a secondarle, e le massime ch'ella ha finora istillate loro nel cuore, potranno renderle in ogni stato felici. Tanto il Mondo che il Chiostro abbisognano di prudenza, di rassegnazione, di tolleranza; da per tutto si trovano dei malagevoli incontri da superarsi, e le Virtù generali servono di lume e di scorta in qualunque grado di vita. Queste illustri Figliuole mostrano nella dolcezza del loro rollo la candidezza del cuore; e la rispettosa obbedienza che usar costumano ai materni voleri, fa sperar certamente un'eguale rassegnazione al piacer delle Sposo, o ai doveri del Monistero.

Può dunque dirsi a ragione, Nobilissima Dama, che fra le vostre pareti trovisi la Buona Famiglia, e s'io non ebbi tempo di raccogliere da essa le traccie del mio argomento, permettetemi almeno che a Voi consacri quest'opera, a Voi soltanto dovuta; l'esempio vostro potrà smentire coloro che mi hanno imputato un'invenzione chimerica. I fatti nella mia Commedia introdotti non convengono al grado vostro, ma le massime che vi ho sparse, quella vera bontà di cuore che faccio in tutti quelli della Buona Famiglia risplendere, conviene a Voi perfettamente, ed ai virtuosi Figliuoli vostri.

Iddio Signore, che vi ha finora nei cari Figli felicitata, rendavi egualmente nei frutti loro contenta, e lunga età vi preservi, per continuare ai Nepoti la medesima scorta nel sentiero della Virtù; ed aumentandosi la vostra illustre Famiglia, si moltiplichi l'onore di questa Patria, la gloria del vostro sesso, e la consolazione degli ammiratori del vostro merito, fra' quali ossequiosamente m'inchino.

Di V.E.

Umiliss. Devotiss. Obblig. Servidore

Carlo Goldoni

L'AUTORE A CHI LEGGE

Habent sua sidera lites sogliono dire i Forensi, e con questo bel detto si scusano spesse volte d'aver perduta la causa. Hanno, dirò io pure, le Commedie ancora le loro costellazioni. In fatti, per detto comune di tutti, non dovea la presente Commedia aver quell'esito poco felice, ch'ella ebbe la prima volta che fu in Venezia rappresentata. È vero ch'ella non è molto brillante, ma alquanto seria; però non manca del suo ridicolo e ne ha tanto che basta per l'argomento di cui si tratta. Io non soglio mai difendere le cose mie, quando le veggo disapprovate; ma questa posso difenderla francamente, perché di essa ho avuto parecchie congratulazioni da persone che contano, e che possono ammaestrarmi. Mi hanno detto che la mia Buona Famiglia non ha in se stessa verun difetto, che l'azione è perfetta, che l'argomento è nobile, istruttivo, morale, la condotta assai ragionevole, i caratteri naturali, e il fine della Commedia ottimo ed esemplare. Io non dirò che ciò sia tutto vero, poiché a me il dirlo non istà bene; ma lascierò giudicarla al Lettore. Dirò soltanto, che per farla scomparir sulle Scene la prima volta, molti accidenti si sono uniti, ed ecco le costellazioni della povera sfortunata. Mancarono in quell'anno dalla Compagnia due personaggi essenziali: una prima Donna, ed un soggetto di caricature. Se ne fuggirono all'improvviso, e non essendovi altra cosa in pronto per la prima sera, si dovette far questa cambiando le parti, e adattandole ad altri, a' quali convenivano meno. Fu reclutato per necessità un personaggio nuovo, che Dio lo benedica, e gli faccia fare qualche altro mestiere. In progresso, alle altre opere mie in quell'anno prodotte la Compagnia supplì valorosissimamente, ma per questa non vi fu tempo di regolarla. Quando una cosa è riuscita male la prima volta, non si rimette mai più in concetto. - Il pubblico in Venezia l'ha disapprovata in principio, e ha continuato a stimarla poco; ma io, con riverenza di quelli che me la sprezzano, amo più di attaccarmi a quelli che me la lodano; sia verità sia amor proprio, non so che dire.

PERSONAGGI

ANSELMO vecchio

FABRIZIO figliuolo di Anselmo

COSTANZA moglie di Fabrizio

ISABELLA figliuola di Fabrizio e Costanza

FRANCESCHINO figliuolo di Fabrizio e Costanza

RAIMONDO amico di casa di Anselmo

ANGIOLA moglie di Raimondo

LISETTA serva di Costanza

NARDO servidore di Anselmo

La Scena si rappresenta in casa di Anselmo.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

La signora Costanza, la signora Isabella, Lisetta; tutte tre lavorano.

ISAB. Come è bello questo lino, signora madre.

COST. Vuol venire una bellissima tela.

ISAB. Mi par mill'anni che si dia a tessere.

COST. Sollecitatevi a dipanare.

ISAB. Ne ho dipanato quattro matasse, e non è un'ora che Lisetta mi portò l'arcolaio.

LIS. Ed io, dopo che son levata, ho empito un fuso.

COST. Vi siete portata bene. Vi meritate la colazione.

ISAB. Da noi non si fa come dalla signor'Angiola, che dormono sino a mezza mattina.

COST. Via, badate a voi e non dite degli altri. Fate quello che vi si comanda di fare, e basta così. Cosa potete voi sapere in casa della signor'Angiola, se si dorma o si vegli? E se dormono la mattina, veglieranno la sera; e faranno in due ore più di quello forse che si fa da noi in una giornata intiera. Delle persone si ha sempre da pensar bene, figliuola. Ve l'ho detto altre volte, non voglio né che si dica, né che si pensi mal di nessuno.

ISAB. In verità, signora, io non ho detto per dir male. Buon pro faccia a chi leva tardi. Per me, quando è giorno, non ci starei nel letto, se mi legassero.

LIS. Certo, appena vede uno spiraglio di chiaro dalla finestra, mi desta, e si vuol alzare. Qualche volta, per dir il vero, m'alzo per compiacerla, che sono ancor cascante di sonno.

ISAB. Ci ho gusto io a vederla un po' sbadigliare.

COST. In tutte le cose ci vuole moderazione. Alzarsi presto va bene, perché quello che non si fa la mattina per tempo, non si fa più; ma la natura vuole il suo riposo. Quando le notti son lunghe, va bene il levarsi col sole; ma quando son corte, conviene starci qualche ora di più. La povera Lisetta va a coricarsi dopo degli altri; lasciatela dormire un'ora di più, se qualche volta è assonnata.

LIS. Eh no, no, signora; ho piacere di levarmi presto, e di fare le faccende grosse di casa, prima che sia levata la mia padrona; e la padroncina non voglio che si vesta da sé; voglio io pettinarla, assettarle il capo, vestirla e farla bella la mia padroncina d'oro, che le voglio tutto il mio bene.

ISAB. Cara la mia Lisetta, compatitemi se vi desto, non lo faccio per farvi dispetto, anzi se qualche mattina non vi sentite bene, sapete quel che v'ho detto: son pronta a far io le faccende di casa, se non le potete far voi.

COST. Brava, ragazza, così mi piace: umiltà, buon amore, carità per tutti.

LIS. Oh signora padrona! davvero può ringraziare il cielo d'aver due figliuoli che sono la stessa bontà.

COST. Sì certo, lo ringrazio di cuore. Anche Cecchino è un ragazzo di buona indole, che mi fa sperare d'averne consolazione.

LIS. Ma! quando la madre è buona, anche i figliuoli riescono bene.

COST. No, Lisetta, io non ci ho merito nessuno. Il cielo ha dato loro un temperamento sì docile, che con poca fatica si allevano bene.

LIS. Eh signora, se non fosse il buon esempio che loro date...

COST. Circa al buon esempio, non hanno da guardar me che ho dei difetti moltissimi, ma il padre loro, che è tanto buono, e l'avolo, che è il più amabile, il più esemplare vecchietto di questo mondo.

ISAB. Voglio tanto bene io al signor nonno.

LIS. Ed egli ne vuol tanto alla sua cara nipote.

COST. Certo, posso dire d'esser venuta in una casa dove tutto spira bontà. Dal marito e dal suocero non ho mai avuto un menomo dispiacere; non cercano che di contentarmi.

LIS. Ma ci vuol poco a contentar lei, per altro.

COST. Eppure potrebbe darsi, che se avessi a fare con gente aspra ed ingrata, mi venissero di quelle voglie che ora non ho. Che importa a me di certe pompe, di certi divertimenti, se in casa mia godo la vera pace, che è il maggior piacere e la maggior ricchezza di questo mondo?

LIS. Oh, questo poi è verissimo. Anch'io, che nelle altre case dove ho servito non vedeva l'ora di andarmi un po' a divertire, qui non mi vien mai voglia d'escire. Il maggior piacere ch'io possa avere, è allora quando li vedo tutti uniti, o a tavola, o dopo tavola in conversazion fra di loro. Oh! questa sì davvero può dirsi che sia una buona famiglia. Prego il cielo che alla signora Isabellina tocchi una fortuna simile, se il cielo la chiamerà per la strada del matrimonio.

COST. È ancora presto di parlare di queste cose.

ISAB. Dove volete ch'io vada per istar meglio di qui? Fino che la signora madre mi vuole, non vi sarà dubbio certo ch'io me ne vada.

COST. Non avete d'aver riguardi, figliuola mia: avete da fare tutto quello che il cielo vi suggerisce; ma non vi fidate di voi medesima nella scelta dello stato, né di me, né di quelli che vi amano, perché l'amore ci potrebbe far travedere. Consigliatevi con persona saggia, indifferente, dabbene.

ISAB. Oh! ecco il signor nonno.

LIS. Ci farà ridere un poco. Il gran buon vecchio! Proprio gli si vede la bontà negli occhi.

COST. La quiete di animo, figliuola, è quella che rende gli uomini allegri; quando vi sono de' rimorsi, il viso non può mai esser sincero.

SCENA SECONDA

Anselmo e dette.

ANS. Buon giorno, figliuole care, buon giorno.

COST. Buon giorno a lei signor suocero; ben levato.

ISAB. La mano, signor nonno. (s'alza e gli bacia la mano)

ANS. Il ciel vi benedica, la mia gioia. (ad Isabella)

LIS. Anch'io, signor padrone. (bacia la mano ad Anselmo)

ANS. Sì, anche voi, cara.

COST. Ha riposato bene?

ANS. Benissimo, grazie al cielo, benissimo. Fabrizio è fuori di casa?

COST. Sì signore, è sortito presto stamane.

ANS. Ma perché andar fuori senza dirmi niente? È pur solito ogni mattina, prima d'escire, di venire a salutar suo padre.

COST. Ha dovuto andar di buon'ora da un avvocato, per una certa differenza che ha con un altro mercante.

ANS. Poteva ben venire a dirmi qualche cosa.

COST. Ha pensato che vossignoria dormisse, e non ha voluto destarlo.

ANS. Non importa; ancor ch'io dorma, ho piacere che mi desti e mi dia il buon giorno, prima di escir di casa. Lascio per questo la porta aperta, e il mio figliuolo, finché vivo, ho piacer di vederlo. È andato dunque per una lite?

COST. Certo, signore, stamattina è stato avvisato che quel mercante, che ieri gli ha promesso quella partita di cere, ha trovato di migliorar il negozio con altri, e vuol mancar di parola.

ANS. E per questo vuol far lite Fabrizio? No, per amor del cielo; s'aggiusti, se può, con reputazione, ma non faccia lite. E Cecchino dov'è? È andato ancora alla scuola?

COST. Non signore, è di là che fa la lezione.

ANS. Voleva dire, che fosse andato senza baciarmi la mano! Quando ha finito la sua lezione, ho una cosa da dargli.

ISAB. E a me, signor nonno?

ANS. Anche a voi, se la meritate.

ISAB. La merito io, signora madre?

COST. Non so...

LIS. Eh, la merita sì, la merita. Quattro matasse ha dipanato stamane.

ANS. Quattro matasse? Brava.

ISAB. E faremo la tela, e faremo delle camiscie al signor nonno.

ANS. Oh tenete, che vi voglio dare una cosa buona.

ISAB. Davvero?

ANS. Ecco un pezzo di torta con il candito. (tira fuori della torta)

ISAB. Oh buona!

LIS. E a me?

ANS. Te la meriti? (a Lisetta)

ISAB. Signor sì. Ha empito un fuso a quest'ora.

ANS. Ce ne sarà anche per te dunque della torta.

SCENA TERZA

Franceschino e detti.

FRANC. E a me niente?

ANS. Ah briccone, hai sentito l'odore eh?

FRANC. Ho sentito ch'era qui il signor nonno, son venuto a baciargli la mano.

ANS. Tieni. (gli dà la mano)Ti piace la torta?

FRANC. Mi piace.

ISAB. Anche a me mi piace.

ANS. Aspettate; prima a vostra madre.

COST. Obbligata, signor suocero, non posso mangiare a quest'ora.

ANS. Un pochino solo.

COST. Per aggradire ne prenderò un pochino.

ANS. L'ho fatta fare a posta; tenete. (dà un piccolo pezzo a Costanza)Questa a voi. Prima al maschio. (ne dà a Franceschino)Questa a voi. (ne dà ad Isabella)Questa a Lisetta; e questa a me.

COST. E per mio marito, poverino, niente?

ANS. Oh povero me! me l'era scordato. Non gli dite niente, che me l'avessi scordato. Gli serberò questa.

COST. No io gli serberò questa.

ANS. No, mangiatela, che gliene serberò della mia.

COST. In verità, gli do la mia volentieri.

ANS. Poverina! siete pure amorosa. Mio figlio può ben dire aver avuto la grazia d'oro, avendo trovato una sì buona moglie.

COST. Io, signore, non era degna d'averlo.

FRANC. Vado alla scuola, signora madre.

COST. Andate, che il cielo vi benedica.

ANS. Nardo. (chiama)

SCENA QUARTA

Nardo e detti.

NAR. Signore.

ANS. Accompagnate questo ragazzo alla scuola. (E badate bene, che per la via non si fermi a guardare le bagattelle, che non si accompagni con qualche cattivo giovane). (piano a Nardo)

NAR. (Non vi è pericolo, signore. Egli non tratta mai con nessuno. Va per la sua strada, e non vede l'ora di arrivare alla scuola. Io poi, quando altro facesse, non lo lascierei fare a sua voglia). (piano ad Anselmo)

ANS. Bravo, Nardo. Tieni, un po' di torta a te pure.

NAR. Grazie, signore.

ANS. Che tutti godano; di quel poco che c'è, che tutti abbiano la parte loro. Siamo tutti di carne; e dice il proverbio, che le gole sono tutte sorelle. Via, andate, e portatevi bene. (a Franceschino)

FRANC. Non lo sa, signor nonno, che alla scuola sono l'imperatore?

ANS. Sì, lo so; bisogna conservarsi il posto, veh.

FRANC. Certo, se voglio avere il premio.

COST. Ne ha avuti quattro de' premi Cecchino.

ISAB. Ed io che premio averò, quando sarà fatta la tela?

ANS. Eh, a voi ne preparo un bello de' premi.

ISAB. Davvero? Che cosa mi prepara di bello?

ANS. Lo saprete un giorno.

ISAB. Quanto pagherei di saperlo adesso.

ANS. Eh, curiosità! Basta... voglio anche soddisfarvi. Andate alla scuola voi, che non facciate tardi. (a Franceschino)

FRANC. Eh signore, vado. Non importa a me di sentire. Il signor maestro m'ha detto che non bisogna essere curiosi. Le voglio bene alla sorellina. La mano, signor nonno. La mano, signora madre. Ho piacere io, che mia sorella abbia dei regali. Quando sarò grande, le voglio fare un busto, una gonnella e un paio di scarpe ricamate d'argento. (parte con Nardo)

SCENA QUINTA

Costanza, Isabella, Anselmo, Lisetta

COST. È amorosissimo quel ragazzo.

ANS. È figlio di buona madre.

COST. Ha tutte le massime di suo padre.

ISAB. E così, signor nonno, che cosa mi prepara di bello?

ANS. Vi dirò, figliuola mia, è vero che avete padre e madre che non vi lascieranno mai mancar niente, e un fratello da cui col tempo potete sperare assai; ma io non voglio che nessuno abbia da incomodarsi per voi. Non si sa come andar possano le cose di questo mondo. Ho avuto un'eredità mia particolare di diecimila scudi; questi gl'investo in un capitale in nome vostro, con condizione che i frutti vadano in aumento del capitale, fino che siate in grado di prender stato.

COST. Caro signor suocero, questa è una gran bontà che avete per il vostro sangue.

LIS. Mi fa piangere per tenerezza.

ISAB. E se io non avessi volontà di escir di casa, ho da perdere dunque?

ANS. In questo caso... cara Isabellina, non voglio mica che perdiate il frutto dell'amor mio. In età di trent'anni, se non siete ancor collocata, lascierò che possiate disporre.

ISAB. Disporrà il signor nonno.

ANS. Eh, io non ci sarò più, figliuola.

ISAB. Signor sì che ci ha da essere.

ANS. Sono un pezzo in là, cara... Basta, non parliamo di malinconie; fino che vuole il cielo, e niente di più...

SCENA SESTA

Fabrizio e detti.

ANS. Oh Fabrizio, figlio mio, siete qui eh?

FABR. Perdonatemi se sono uscito senza venirvi a riverire; parevami troppo presto.

ANS. Non me la fate più questa. Venite, se fosse di mezza notte.

FABR. Favorite. (gli vuol baciar la mano)

ANS. Tenete. (gli dà la mano)(Ehi! la signora Costanza ha una cosa buona da darvi). (sottovoce)

FABR. È egli vero? Che cosa ha di buono mia moglie da regalarmi?

COST. Un po' di torta donatami da vostro padre.

ANS. Non ha avuto cuor di mangiarla senza di voi. (a Fabrizio)

FABR. Vi ringrazio del buon amore. Mangiatela voi per me.

COST. Io no; è vostra.

FABR. Datela a Isabellina.

COST. Ne ha mangiato abbastanza. Non vo' che le faccia male.

ISAB. Mi desta i bachi la roba dolce.

ANS. Via, date qui. Se nessuno la vuole, la mangerò io.

LIS. Io non ho detto di non volerla.

ANS. Ghiotta! metà per uno. (divide la torta fra lui e Lisetta)

LIS. Grazie, signor nonno.

ANS. Tutti mi dicono nonno. Anche fuori di casa, quando arrivo dallo speziale, dal libraio, da mio compare, mi dicono il nonno. Ma io non me ne ho a male: lo dicono per amore. Fabrizio, è egli vero che siete andato per una lite?

FABR. Non è lite, se vogliamo; ma mi vogliono mancar di parola, ed io intendo che mi si mantenga il contratto.

ANS. Non litigate, per amor del cielo; che all'ultimo, ancor che vi diano ragione, tutto il guadagno anderà nelle spese. Mangiamoci in buona pace quello che abbiamo, che per grazia del cielo ci basta, e non istiamo da noi medesimi a procurarci delle inquietudini per avere di più.

FABR. Questa volta c'entra un po' di puntiglio, per dir il vero.

ANS. No, no, puntigli; no, figliuolo mio, non abbadate a puntigli. Se ci avessi badato io ai puntigli, non sarei arrivato a quest'età, grazie al cielo, sano e robusto come mi trovo. Se vi fanno un insulto, una soverchieria, la vergogna è sempre di loro. Quando il mondo sa che siete un galantuomo, che non meritate di essere trattato male, peggio per quelli che vi fanno la cattiva azione. Che vi può fare il puntiglio? Scaldarvi il capo e mettervi dalla parte del torto. Volete illuminare e convincere chi vi fa del male? Date loro tempo di riflettervi sopra: credetemi, che le coscienze sono giudici di sé medesime, e presto o tardi, chi opera male s'ha da pentire d'averlo fatto.

COST. Ascoltatelo bene vostro padre, che in verità non può dir meglio di quel che dice.

FABR. Ho sempre fatto a modo vostro, signore, e me ne son trovato contento. Lo farò ancora nell'avvenire. Se l'amico mi manca di parola, pazienza. Il danno non è gran cosa, e la piazza già lo condanna.

ANS. Bravo, che tu sia benedetto. (gli dà un bacio)

ISAB. È picchiato all'uscio, mi pare.

LIS. Andrò a vedere. (s'alza e parte)

SCENA SETTIMA

Costanza, Isabella, Fabrizio, Anselmo

ANS. Mangiamoceli noi i denari che ci avrebbono a mangiar le liti. Questa sera ha da venirmi a trovar mio compare collo speziale e il dottore. Volete voi, Fabrizio, che diamo loro un po' di merenda?

FABR. Non siete voi il padrone, signore?

ANS. Ma io ho piacere che tutto quello si fa, sia concordemente fatto. L'aggradite voi, signora nuora?

COST. Sì signore, quello che è di vostro piacere, è di piacer mio.

ANS. Volete invitar nessuno, voi? (a Costanza)

COST. Non saprei chi invitare io, perché in oggi non si può trattar nessuno senza mettersi in soggezione. Da noi si va a letto presto, e pare, quando viene qui qualcheduno, che gli si faccia uno sgarbo a dirgli che siamo avvezzi a ritirarci per tempo. Io godo la mia quiete; mi diverto colla mia famiglia, e non pratico volentieri.

ANS. Oh, si sta pur meglio soli. Mio compare e lo speziale sono come siam noi; e il dottore, che è ragionevole, si ritira per tempo.

SCENA OTTAVA

Lisetta e detti.

LIS. Sa ella chi è, signora? (a Costanza)

COST. Chi mai?

LIS. La signor'Angiola, che la vorrebbe riverire. Ha fatto picchiare all'uscio, per vedere se le torna comodo ora o più tardi.

COST. Per me la faccio padrona di venir quando vuole, se il signor suocero o mio marito non hanno niente in contrario.

ANS. Non siete voi la padrona? Ricevetela pure.

FABR. Anzi è meglio che la facciate venir subito, più tardi vi può venir da fare qualche altra faccenda.

COST. Appunto aspetto il tessitore verso il mezzogiorno.

ISAB. Oh, che mi solleciti a dipanare dunque.

COST. Fatele dire che è padrona quando comanda. (a Lisetta)

LIS. Ci avrebbe a essere qualche guaio in casa della signor'Angiola. La serva m'ha fatto de' gesti col capo. In quella casa ci si sta pur male.

COST. Badate a voi.

LIS. Compatisca. (parte)

SCENA NONA

Costanza, Isabella, Fabrizio, Anselmo

ANS. Tornate fuori di casa, voi? (a Fabrizio)

FABR. Non signore, per questa mane. Ho le lettere di Germania; anzi, se vi torna comodo, signore, vorrei che le leggessimo insieme e discorressimo sopra certi progetti che fanno al nostro negozio.

ANS. Sì, figlio, come volete. Già sapete che ho rinunziato il maneggio a voi non per sottrarmi dalla fatica, ma per impratichirvi degli affari nostri, prima della mia morte; son qui per altro ad assistervi, se vi occorre.

FABR. Ed io ho accettato il carico per sollevarvi: ma intendo da voi dipendere, e valermi sempre dell'utile consiglio vostro.

ANS. Andiamo dunque a leggere le lettere di Germania. Nuora, a rivederci. Nipotina, addio, cara: il mio sangue, il mio sangue. Cielo, dammi allegrezza del mio sangue. (parte)

SCENA DECIMA

Costanza, Isabella, Fabrizio

FABR. Vi occorre niente? (a Costanza)

COST. Niente, per ora.

FABR. Cecchino sta bene?

COST. Benissimo. È ito alla scuola.

FABR. Ho parlato col suo maestro. Si contenta molto di lui. Spero che ci voglia dare consolazione.

COST. Lo faccia il cielo per sua bontà.

FABR. Dal canto mio non mancherò certo di dargli tutti gli aiuti possibili.

ISAB. Perché non fa insegnare anche a me, signor padre, che imparerei tanto volentieri le lettere?

FABR. Figliuola mia, le lettere non sono per voi. Non dico già che non aveste ingegno atto ad apprenderle, che so benissimo altre valenti donne averle egregiamente apprese; ma le cure devono essere distribuite. La briga della casa non è poca briga, sapete? e le donne vi si adattano meglio; e voi, o qui o altrove, avrete bisogno d'essere istruita in ciò più che in altro; e i lavori di mano che fate voi altre donne, sono utili alla famiglia quanto le arti che proprie sono dell'uomo. Contentatevi di far quello che a voi si destina, e più del talento fate conto della bontà di cuore. Imitate la madre vostra e sarete certa di riuscir bene. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Costanza e Isabella

ISAB. Non vorrei se ne avesse avuto a male il signor padre, perché ho detto così.

COST. No, no, figliuola, non è puntiglioso vostro padre. Non sentite ch'egli anzi vi loda? Ma vi consiglia a quello che crede meglio per voi.

ISAB. Io non farò mai se non quello che mi verrà comandato.

COST. E ciò riescirà in profitto vostro ed in nostra consolazione.

SCENA DODICESIMA

Angiola e dette, poi Lisetta

ANG. Si può venire?

COST. È padrona la signor'Angiola. (s'alza, e fa lo stesso Isabella)

ANG. Stiano comode, stiano comode. Proseguiscano le faccende loro, ch'io non intendo d'incomodarle.

COST. Niente, signora. Lisetta. (chiama)

LIS. Signora.

COST. Una sedia alla signor'Angiola. Tieni questa calza.

ANG. Seguiti a far la sua calza; non si stia per me ad incomodare.

COST. Non ho più voglia davvero; ho piacere di starmi un poco a godere la compagnia della signor'Angiola.

ISAB. Seguiterò a dipanare io, se mi dà licenza.

ANG. Sì, cara, fate pure. Bella consolazione aver di queste figliuole! (a Costanza)

COST. Bisogna ch'io le faccia questa giustizia a Isabellina, non è cattiva ragazza.

ANG. Ma! la pace in casa è un gran bene. Io non l'ho questo bene, povera me!

COST. Ha qualche cosa che la disturba?

ANG. Sono venuta a posta da lei per consiglio, per aiuto, e per isfogare un poco le mie passioni.

COST. Incomoda la ragazza?

ANG. Oh niente, può sentir ella pure.

COST. Che cosa ha ella che la disturba, signora?

ANG. Ho un marito pessimo, inquieto, pieno di vizi, di mal animo, che mi riduce agli estremi.

COST. Non si faccia sentire a parlar così del marito. (guarda un poco Isabella)

ANG. Già tutto il vicinato sa il suo modo di vivere. Da pochi giorni in qua ha una certa pratica d'una donna...

COST. Isabella, andate a dipanare in quell'altra camera.

ISAB. Sì signora, (s'alza)con sua licenza. (ad Angiola)(Quasi quasi aveva curiosità di sentire, ma la signora madre comanda). (da sé, e parte)

COST. Portatele l'arcolaio. (a Lisetta)

LIS. Sì, signora. (Ne vuole avere un pesto ora la mia padrona). (da sé; prende l'arcolaio, e parte)

SCENA TREDICESIMA

Costanza e Angiola

ANG. (Gran delicatezza che ha per la sua figliuola! Mia madre non ha fatto così con me). (da sé)

COST. Ora possiamo parlare con libertà.

ANG. Eh, non avrei detto cose...

COST. È meglio così: le fanciulle fanno caso di tutto.

ANG. Per tornare dunque al proposito nostro, signora Costanza, io sono una femmina disperata.

COST. Perché mai? Il signor Raimondo è un galantuomo, un uomo civile; hanno del bene, sono senza figliuoli, dovrebbono vivere colla maggior quiete del mondo.

ANG. Eh signora, se non vi è giudizio nel capo di casa, non vi può essere la quiete. Mio marito ha una pratica.

COST. Ma lo sa di certo? Potrebbono essere le male lingue che l'avessero detto.

ANG. Lo so di certissimo. Pur troppo per me, che dacché ha quest'impegno, non mi può più vedere, e non dorme nemmeno nella mia camera, e se gli dico una buona parola, mi risponde di bu e di ba.

COST. Oh, che dice mai? Manco male che non vi è la ragazza.

ANG. Le dirò solamente questa...

COST. Cara signor'Angiola, sono cose che il dirle a me non le può recare sollievo alcuno; si risparmi il rammarico di raccontarle.

ANG. Ma è necessario che gliele dica, se ho da arrivare alla cagione per cui sono venuta da lei.

COST. Non saprei. Si sfoghi con me, che può farlo; ma non lo faccia con tutti, che la riputazione ci scapita.

ANG. Pur troppo siamo la favola del paese, e perché? per il poco giudizio di mio marito. Oltre l'amica che gli succhia il sangue, ha di più il giuoco ancora.

COST. In verità non la vorrei nemmeno conoscere.

ANG. E fra un vizio e l'altro ha tanti debiti, che non sa dove rivoltarsi.

COST. Povera signor'Angiola! sono una compagnia dolorosa i debiti.

ANG. Uno ne ha fra gli altri della pigione di casa, che può farci scorgere pubblicamente, si tratta di dire che il padrone ci vuol mandare i birri alla porta.

COST. Oimè, mi sento tutta rimescolare.

ANG. E mio marito non ci pensa. Mangia, dorme, va a divertirsi, e non vede il precipizio vicino.

COST. Come mai si può dormire con simili batticuori? Divertirsi? Io non credo che sia possibile.

ANG. Eppure si diverte, che lo so di certo; e a me tocca pensarci.

COST. Ma ella che cosa può fare, se non si muove il marito?

ANG. Che cosa posso fare? Ecco qui, le mie povere gioje anderanno di mezzo. Per ora i pendenti e l'anello; e voglia il cielo che uno di questi giorni non vada a spasso il gioiello ed il resto ancora.

COST. Vuol ella privarsi delle gioje per pagar i debiti?

ANG. Che vuol ch'io faccia? Mi svenerei per la riputazion della casa.

COST. Non so che dire. È ammirabile la di lei bontà, e meriterebbe che il marito le fosse grato davvero. Ma lo sarà certo, l'animo mi dice che le sarà grato. Un'azion simile l'ha da convincere, se avesse un cuor di macigno.

ANG. Mi consiglia anche ella a farlo?

COST. Quando non v'è altro modo, l'aiutarsi col suo è sempre bene. Le gioje si fanno anche con questo fine, per valersene nelle occasioni.

ANG. Mi dispiace che andar in mano di certi cani, l'usura mangia il capitale.

COST. Quanto sarebbe il bisogno suo, signor'Angiola?

ANG. Cento scudi, signora, e se non fosse il mio troppo ardire...

COST. Basta così; non dica altro, che voglio aver il piacere di servirla senza che provi pena nel domandare. Mi figuro anch'io (quantunque per grazia del cielo non mi sia trovata mai in questo stato), mi figuro quanto rincrescimento abbia da provare una persona civile a confidare le sue indigenze; ma avendole confidate a me, può esser certa che non lo saprà nessuno. Cento scudi li ho di mio, uniti a poco per volta coi regaletti che mi fa mio marito, ed alcuni utili che mi lascia sopra certi capi minuti del negozio nostro.

ANG. Certo ella farà una carità fiorita.

COST. Terrò le gioje in deposito. E quando potrà...

ANG. E mi ho da privare d'una parte delle mie gioje?

COST. Non so che dire. Io mi esibisco servirla, e mi prendo la libertà di farlo senza chiedere la permissione a nessuno. È vero che i denari sono in mio potere; ma quello che è della moglie, è del marito; e all'incirca sa bene egli ancora quanti denari trovar mi posso. E se venisse un giorno in curiosità di vederli, che vorrebbe ch'io gli dicessi? Finalmente, se troverà le gioje, dirò che ho creduto bene far un piacere...

ANG. La prego di non dirglielo almeno senza una precisa necessità. Mi vergognerei ch'egli lo sapesse.

COST. Le prometto che non lo dirò, quando non fossi in necessità di doverlo dire.

ANG. Tenga i pendenti e l'anello. Glieli raccomando.

COST. Favorisca di passar meco nel mio stanzino; dove mi vedrà metterli, li troverà sempre, volendo.

ANG. Vada pure; non vi è bisogno ch'io veda.

COST. Venga, che le conterò il denaro.

ANG. Riceverò le sue grazie.

COST. Favorisca passar innanzi.

ANG. Per obbedirla. (entra)

COST. Poverina! Mi fa compassione. Gran cose si sentono a questo mondo! e per questo, chi ha un poco di bene deve ringraziar il cielo di cuore. (entra)

SCENA QUATTORDICESIMA

Anselmo, Fabrizio, poi Nardo

ANS. Regolatevi così, figliuolo, e non fallerete. Pochi negozi, ma sicuri: non intraprendete mai negozi nuovi con persone che non conoscete ben bene, e fidatevi poco di chi vi offre avvantaggi grandi.

FABR. Veramente quel progetto di mandar le sete per conto nostro e ritirarne poscia i lavori, pare, secondo il calcolo che ci fanno, che potrebbe rendere un venti per cento; ma ci sono vari pericoli come voi riflettete prudentemente.

ANS. Volete veder chiaro il maggior de' pericoli? Quello che a noi suggerisce un negozio sì vantaggioso, perché non lo fa da sé? Qualche cosa c'è sotto. Io non soglio pensar male di nessuno; ma in materia di mercatura si vedono tanti cattivi esempi, che il pensar male in oggi è diventata la prima massima del commercio.

NAR. Signore? (a Fabrizio)

FABR. Che c'è?

NAR. È qui il signor Raimondo che vorrebbe parlar con lei.

ANS. Bellissima! la moglie dalla moglie, il marito dal marito. Questi fanno le visite al contrario della gran moda.

FABR. Bisognerà ch'io lo faccia venire. (ad Anselmo)

ANS. Sì, fatelo.

FABR. Ditegli che è padrone. (Nardo parte)

ANS. Io me n'anderò a fare una cosa fuori di casa.

FABR. Dove, signor padre?

ANS. In un luogo; basta...

FABR. Non lo posso saper io?

ANS. Ve lo dirò, ma che nessuno lo sappia. Una povera famiglia civile non ha pan da mangiare, le porto questo zecchino. Credo che non vi dispiacerà ch'io lo faccia.

FABR. Oh signor padre, dategliene due, se veramente ha bisogno.

ANS. Per ora questo le può bastare. Ma non lo diciamo a nessuno. Parrebbe, se si sapesse, che volessimo far pompa d'un po' di bene che il cielo ci ha dato. Non l'ha da sapere il mondo; basta che si sappia lassù. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Fabrizio e poi Raimondo

FABR. Questi sono negozi sicuri. Le opere di pietà non impoveriscono mai.

RAIM. Servo, signor Fabrizio.

FABR. Riverisco il signor Raimondo.

RAIM. Non vorrei esser venuto in occasione di darvi incomodo.

FABR. Siete sempre padrone in ogni tempo, ma ora, in verità, non ho niente che mi occupi.

RAIM. Sono bene occupato io nel cuore, nella mente, nell'animo da mille agitazioni, da mille tetri pensieri.

FABR. Che cosa mai v'inquieta a tal segno?

RAIM. Una moglie trista, pessima, dolorosa.

FABR. Caro amico, non parlate così della vostra moglie. Fate pregiudizio a voi stesso.

RAIM. Già è conosciuta bastantemente. Ha tutti i difetti cred'io, che dar si possono in una donna, e poi una certa amicizia ch'ella coltiva, mi vuol far dare nei precipizi.

FABR. E a voi che siete marito, non dà l'animo di farla praticare a modo vostro?

RAIM. Eh pensate! per la mia soverchia bontà mi ha posto il piede sul collo, e non vi è rimedio.

FABR. Siete bene, per dir il vero, in una deplorabile situazione.

RAIM. Aggiungete allo stato mio quest'altra piccola circostanza. Ho tanti debiti, che non so dove salvarmi

FABR. Come mai li avete fatti questi gran debiti?

RAIM. Causa la moglie; mi giuoca ogni cosa.

FABR. E voi la lasciate giocare?

RAIM. Sono stato compiacente al principio; ora mi converrà venire a qualche strana risoluzione.

FABR. Voi non avete bisogno de' miei consigli: ma si trova il rimedio, quando si vuol trovare.

RAIM. Dite bene voi, che avete una moglie buona; ma se l'aveste come la mia, non so come la v'anderebbe.

FABR. Basta; ringrazio il cielo... Certo è una cosa dura il non avere la pace in casa.

RAIM. In cambio della pace, ci ho i debiti io in casa.

FABR. Dite piano; non vi fate sentire.

RAIM. La passione mi trasporta. Caro amico, se voi non mi aiutate, io sono all'ultima disperazione.

FABR. Ma, caro signor Raimondo, gli è vero ch'io maneggio e sono alla testa del negozio e della famiglia, ma rendo conto d'ogni cosa a mio padre. Se volete che gliene parli...

RAIM. No, no, vostro signor padre è un galantuomo, è un uomo dabbene; ma non avrei piacere che lo sapesse nessuno. Io ho bisogno di dugento scudi, e vi darò in ipoteca un gioiello di diamanti con due spilloni da testa.

FABR. Le avete voi queste gioje?

RAIM. Eccole qui. Voi ne averete pratica.

FABR. Bene; vi servirò. In ogni caso che mio padre mi ricercasse dei conti, con queste potrò appagarlo.

RAIM. Sopra tutto, che nessuno lo sappia.

FABR. Non dubitate; vi prometto che non si saprà. Favorite passare nell'altra stanza, che vi conto subito i dugento scudi.

RAIM. Voi mi farete il maggior piacere di questo mondo. (entra)

FABR. Prestar denari senza timore di perderli, è un servizio di niente; e poi siamo obbligati in questo mondo ad aiutarci potendo. (entra)

SCENA SEDICESIMA

Lisetta e Nardo

NAR. Ci sono ancora le visite dai padroni?

LIS. Ci sono. Anzi la padrona colla signor'Angiola sono passate nello stanzino, e parvemi che aprisse l'armadio, e ci giocherei che le presta dei denari.

NAR. È facile, perché in casa del signor Raimondo contrasta, come si suol dire, il desinar colla cena.

LIS. Zitto, che la padrona non vuole che si dica mal di nessuno.

NAR. Fin qui non c'è male, che s'abbia a dire si mormora; ma se si volesse discorrere sopra di loro, si farebbero de' romanzi.

LIS. Raccontatemi qualche cosa.

NAR. No, no; i padroni non hanno piacere che si mormori.

LIS. Non si può dire senza mormorare?

NAR. Non lo so io; se, per esempio, dicessi che marito e moglie giocano da disperati?

LIS. Si dice che giocano per divertimento.

NAR. E se dicessi che il giuoco li ha rovinati?

LIS. Basta dire che hanno giocato del suo, che del suo ciascheduno può far quel che vuole.

NAR. Ma se hanno fatto dei debiti per giocare?

LIS. Si può soggiungere che li pagheranno.

NAR. Basta, in quanto al giuoco si può colorire la mormorazione; ma se passassimo a certi altri vizietti?

LIS. E sono?

NAR. No, no; se lo sapessero i padroni, l'avrebbono a sdegno; e non abbiamo da fare in segreto cosa che da loro ci vien comandato non fare.

LIS. Si può ben dire qualche cosa, senza entrar nel massiccio; e in tutte le cose sento dire che vi è il più ed il meno. Non dico che mi diciate tutto; ma così, delle coserelle che non sieno cosaccie.

NAR. Per esempio, se dicessi che il signor Raimondo ha una comare, con cui ci spende l'osso del collo?

LIS. Si può dire che lo faccia per carità.

NAR. Carità pelosa un poco.

LIS. Via, fra il bene e il non bene. Ma non s'ha per questo da mormorare.

NAR. Lo stesso si può dire della signor'Angiola, che va con certe compagnie di poco credito, con certi giovanotti di mondo, che fanno che mormori il vicinato.

LIS. Ma noi non abbiamo da mormorare, per questo che la padrona non vuole.

NAR. E m'ha detto il suo servitore, che cento volte ha ella augurata la morte al marito.

LIS. Per voglia forse di rimaritarsi.

NAR. Certo, perché fra quei che la servono, vi sarà alcuno che le darà nel genio.

LIS. Eh, si vede ch'ella è d'un temperamento bestiale, capace d'ogni risoluzione.

NAR. Si sono bene accoppiati. Marito e moglie, due veri pazzi.

LIS. Oh basta, non diciamo altro; non vorrei che principiassimo a mormorare.

NAR. Se non fosse il freno che ci han messo i padroni...

LIS. Anch'io ne direi di belle; ma non vogliono che si dica.

NAR. Ecco la signor'Angiola che se ne va.

LIS. E di là viene il signor Raimondo. Che sì che s'incontrano?

NAR. Andiamo, andiamo. Non ci troviamo fra questi pazzi.

LIS. Non mormorate. (parte)

NAR. Non vi è pericolo. (parte)

SCENA DICIASSETTESIMA

Angiola da una parte, Raimondo dall'altra.

ANG. (Con questi cento scudi... Qua mio marito?) (da sé)

RAIM. (Angiola qui? che vuol dire?) (da sé)

ANG. Qua, signor marito?

RAIM. Qua ancor ella, signora moglie?

ANG. Sono venuta a far una visita alla signora Costanza.

RAIM. Ed io al signor Fabrizio.

ANG. Avreste bisogno di venirci spesso da lui, per imparare a vivere.

RAIM. E voi stareste bene un paio d'anni in educazione della signora Costanza, per cambiar sistema; ma non fareste niente, io credo; avete troppo il capo sventato.

ANG. La padella dice al paiuolo che non la tinga. Oh, voi avete del sale in zucca!

RAIM. Più di voi certo, che una donna alla fin fine non dee mettersi in paragone degli uomini, e dee pensare che la riputazione si perde presto.

ANG. Io non faccio cose che non sieno da fare. Né di me si può dire quello che si dice di voi.

RAIM. Io so che dacché siete venuta voi in questa casa, vi è entrato il diavolo.

ANG. C'era il diavolo prima che ci venissi. Ce l'ho trovato io.

RAIM. Che sì, che siete venuta qui per denari?

ANG. Per denari? per farne che? Tocca a voi a pensare al mantenimento della casa, non tocca a me.

RAIM. Voi pensate al mantenimento del giuoco.

ANG. E voi al giuoco e alla comare.

RAIM. E voi al giuoco e al compare.

ANG. Chi mal fa, mal pensa. Ci giuoco io, che siete venuto voi per denari.

RAIM. Oh sì, che in questa casa ne danno a chi ne vuole. Sono genti che hanno giudizio; non ne prestano sì facilmente.

ANG. Gli è vero che sono cauti per non gettare; ma col pegno in mano, potrebbono anche far un piacere.

RAIM. Che sì, che ve l'hanno fatto col pegno in mano?

ANG. Sì eh? Basta così, ho capito. So perché ci siete venuto.

RAIM. Voi mi credete tinto della vostra pece.

ANG. Or non c'è più niente in casa. Quelle poche gioje, e poi è finita.

RAIM. Spero non averete l'ardire di disporne senza consenso mio.

ANG. Io non dico... che si sa che servono per comparire. Ma voi certo non vi prenderete la libertà... Il gioiello e i spilloni che si sono dati al gioielliere per accomodare, quando tornano in casa?

RAIM. Li porterà il legatore, quando saranno accomodati. Erano scassate tre pietre del gioiello, e i spilloni s'hanno da rilegare di nuovo.

ANG. No, no; io li voglio in casa.

RAIM. E i pendenti e gli anelli dove son eglino, che non ve li vedo?

ANG. Sono, sono... nel mio armadio sono.

RAIM. Cara signora, andiamo a casa, che li voglio vedere.

ANG. Prima d'andar a casa, voglio ire dal gioielliere a veder un po' il fatto mio.

RAIM. Che occorre che voi ci andiate? Tocca a me a vedere.

ANG. Eh, non m'infinocchiate, caro. Vo' andarvi ora da me; e se non ci sono le gioje mie, vo' che dite davvero ch'io sono un diavolo. (parte)

RAIM. L'animo mi dice, ch'ella abbia impegnati i pendenti. Vo' aprir l'armadio senza le chiavi; e se non ci sono, troverà in me un diavolo più indiavolato del suo (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Costanza e Fabrizio

COST. Sarà ora, cred'io, di mandar a prendere Franceschino.

FABR. Nardo fa qualche cosa in cucina, m'ha detto, e poi anderà.

COST. Povero Nardo, non si può negare che non sia un servitore attento per la nostra casa.

FABR. Sì certo; fa egli solo quello che non farebbono due.

COST. In fatti, quando ne avevamo due, eravamo serviti peggio. Principiano a dir fra di loro: tocca a te, tocca a me; e non fa niente nessuno.

FABR. E poi quell'altro aveva il cervello sopra la berretta. Questo ha un po' più del sodo.

COST. E quel che mi piace, dalla sua bocca non si sente mai dir mal di nessuno.

FABR. Nella servitù non è sì facile un tal contegno.

COST. Anche Lisetta è una buona ragazza, di buona indole, amorosa, castigata assai nel parlare.

FABR. Fortuna averla ritrovata così, per ragione della figliuola. Dalla servitù imparano per lo più i figli le male cose che sanno.

COST. Io le bado assaissimo, e non ho motivo di dolermi di niente della cameriera.

FABR. Ringraziamo il cielo di tutto. Si sentono certe cose che accadono altrove, che mi fanno tremare.

COST. Il mondo peggiora sempre, per quel che si sente.

FABR. Eh cara Costanza, il mondo è ognora il medesimo. De' buoni e de' cattivi sempre ce ne sono stati; le virtù e i vizi hanno trovato loco in ogni età, in ogni tempo. Chi ha avuto la buona educazione che aveste voi in casa de' vostri, non ha avuto campo di sentire quante pazzie ci sono nel mondo; ora che sentite discorrere, vi pare il mondo cambiato, e non è così. Anche adesso ci sono delle persone dabbene, che vivono come voi siete vissuta, e ci sono degl'infelici dominati dal mal costume.

COST. Gran disgrazia per chi si trova in certi impegni coll'animo e colla persona.

FABR. Basta, pensiamo a noi, e lasciamo che il cielo provveda agli altri. Se possiamo far del bene, facciamolo, ma senza intrinsicarsi troppo negli affari altrui.

COST. Sapete ch'io sono nemica di certe curiosità. Ma mi rammarico per gli altri, quando mi arrivano all'orecchie cose che sien di danno o di dispiacere a persone anche che non conosco. Quella povera signor'Angiola mi ha contaminato davvero.

FABR. Ma! la povera donna è in una pessima costituzione.

COST. Non è egli stato da voi il di lei marito?

FABR. Sì, c'è stato, e a me pure ha fatto venire il mal di cuore per compassione di lui.

COST. Vi ha confidato ogni cosa dunque?

FABR. Pur troppo mi ha fatto egli la dolorosa leggenda.

COST. Lo stesso ha fatto con me sua moglie. Che vuol dire, vanno d'accordo se non altro in questo, nel dire i fatti i suoi a chi non li vuol sapere.

FABR. (È molto, per altro, che la signor'Angiola dica da sé i suoi difetti. Questi è un principio buono). (da sé)

COST. Ho sentito delle gran cose.

FABR. Ma non bisogna parlarne.

COST. Oh, non v'è dubbio. Dirò come dite voi: farle del bene, se si può; ma non intrinsicarsi.

FABR. Certo il bisogno fa fare delle gran cose.

COST. Vi ha detto il signor Raimondo lo stato di casa sua?

FABR. Sì, me l'ha confidato.

COST. Anche a me la signor'Angiola. Convien dire, che si sieno accordati nella massima per provvedere al bisogno.

FABR. Quando s'arriva a intaccar le gioje, è segno che la necessità stringe i panni addosso davvero.

COST. Vi ha detto anche delle gioje dunque?

FABR. Si è trovato in necessità di dirmelo.

COST. E la signor'Angiola mi diceva, che non voleva che si sapesse.

FABR. Per me sono certi che non lo dico a nessuno.

COST. Nemmen io certamente.

FABR. Le gioje staranno lì, fin che verranno a riprenderle.

COST. Sono sicuri che saranno ben custodite.

FABR. Con dugento scudi potranno rimediare a qualche loro maggior premura.

COST. No dugento scudi; cento solamente.

FABR. V'ha detto forse cento la signor Angiola?

COST. Sì, mi disse che tale era il di lei bisogno.

FABR. E il signor Raimondo, che sa più lo stato delle cose sue, m'ha detto dugento.

COST. Ma io non gliene ho dati che cento soli.

FABR. Voi avete dato cento scudi?

COST. Io sì.

FABR. A chi?

COST. Alla signor'Angiola.

FABR. Così colle mani vuote? senza sicurezza veruna?

COST. Non signore; non lo sapete voi pure, che mi ha dato le gioje in pegno? Non ve l'ha detto il marito suo?

FABR. Il marito suo ha dato a me un gioiello e due spilloni; ed io su questi gli ho prestati dugento scudi.

COST. E a me la signor'Angiola ha portato un paio di pendenti e un anello, e mi ha pregato che le prestassi cento scudi.

FABR. E a lei li avete prestati? (un poco alterato)

COST. Sì, io. Ho fatto male?

FABR. Dar fuori cento scudi, senza dir niente né al suocero, né al marito, non mi pare cosa molto ben fatta.

COST. Mi ha pregato che non lo dicessi.

FABR. Tanto peggio. Una donna prudente non lo doveva fare. Dovevate dirle, che le mogli savie non fanno le cose di nascosto dei mariti loro.

COST. La compassione m'ha indotto a farlo.

FABR. La compassione, la carità, tutto quel che volete, ha da cedere il luogo al rispetto e alla convenienza.

COST. Non mi pare aver fatto gran male.

FABR. Che paia a voi, o non paia, vi torno a dire che avete fatto malissimo. E poi dar cento scudi, acciò sieno cagione di nuovi scandali, è molto peggio ancora.

COST. Peggio voi, compatitemi, che ne avete dati dugento.

FABR. Io li ho dati a buon fine.

COST. Ed io colla migliore intenzione di questo mondo.

FABR. Orsù, non vo' contendere; ma non mi aspettava da voi un arbitrio simile.

COST. Mi dispiace nell'anima averlo fatto; ma non credo poi di meritarmi un sì fatto rimprovero. Dacché son vostra moglie, non mi avete detto altrettanto; pazienza.

FABR. Non intendo trattarvi male; vi dico, che la dipendenza della moglie al marito deve essere costante ed illimitata.

COST. Non sono poi la serva di casa.

FABR. Ma né anche l'arbitra di disporre.

COST. Pazienza. (si ritira un poco piangendo)

FABR. (Non vorrei averlo saputo). (da sé, con afflizione)

COST. (È tanto buono, e non vuol perdonare una cosa fatta senza malizia). (da sé, come sopra)

FABR. (Si principia così, con poco; guai se prendesse piede). (da sé, come sopra)

COST. (Poteva pure non esser venuta la signor Angiola). (da sé)

FABR. (Gran cosa, che s'abbia d'avere per altri dei stracciacuori). (come sopra)

SCENA SECONDA

Anselmo e detti.

ANS. È ora di desinare? (Fabrizio e Costanza lo salutano, senza dir niente)Che c'è, figliuoli? Che è accaduto di male? Oimè, dov'è Cecchino? (a Fabrizio)

FABR. Credo che Nardo sarà andato a prenderlo dalla scuola.

ANS. Isabellina dov'è? (a Costanza)

COST. Nella mia camera, che lavora.

ANS. È accaduto niente di male?

COST. Niente, signore.

FABR. Niente.

ANS. Ma io mi sento morire a vedervi così. Qualche cosa ci ha da essere certo. Siete corrucciati, figliuoli? Perché mai? In tanti anni che siete marito e moglie, quest'è la prima volta che vi vedo in un'aria che mi pare sdegnosa. Vi sentite male? (a Fabrizio)

FABR. Non signore, per grazia del cielo.

ANS. Vi sentite male voi? (a Costanza)

COST. Ah! (sospira, voltandosi verso Fabrizio)

ANS. Eh, il cuor me lo dice. Siete in collera, avete gridato. Per carità, se mi volete bene, palesate a me la cagione del vostro dispiacere, del vostro sdegno. Cari figliuoli, non mi date questo tormento. Sapete quanto vi amo; mi si stacca il cuore.

COST. Io, signore, sono la rea, e vi confesserò la mia colpa. Ho prestato cento scudi alla signor'Angiola sopra alcuni diamanti, mossa dalle sue preghiere, e l'ho fatto senza dirlo né a voi, né a mio marito. Domando perdono a tutti e due, e vi prometto in avvenire di non prendermi più una simile libertà. (piangendo)

ANS. Vi è altro, Fabrizio, che questo?

FABR. Poteva dirlo, e non dare a divedere... che ella... (con qualche lagrima)

ANS. Vi ha maltrattato per questo? (a Costanza)

COST. Mi ha rimproverato... e quando penso... che mai più...

ANS. Via, acchetatevi; non piangete per così poco: non vi affliggete per un sì leggiero motivo. Fabrizio non ha tutto il torto a pretendere che vogliate mostrare quest'umile dipendenza da lui, che sapete quanto vi ama, e che non è capace di negarvi una giusta, onesta soddisfazione. Non lo fa egli per li cento scudi; e non lo farebbe se fossero anche meno sicuri di quel che sono; ma io so il suo dispiacere: è geloso del vostro affetto, e dubita che in faccia di quella donna siate comparsa meno amante di quel che siete. Ma voi, caro figliuolo, per un dispiacere così leggiero, perché mortificare una consorte che ha per voi tanto amore e tanto rispetto? Non siamo infallibili in questo mondo. Siamo tutti soggetti ad errare, e il cuore si attende nelle operazioni, non l'effetto che ci rappresentano agli occhi. Via, siate men rigoroso. E voi, cara, non vi dolete sì fieramente d'un leggiero rimprovero ch'ei vi possa aver dato. Questo vuol dire non aver mai avuto motivo di dolersi l'uno dell'altro; un picciolo neo vi agita, vi conturba. Venite qui; accostatevi; voglio che facciate la pace; e presto fatela, prima che ritorni a casa Cecchino; prima che se ne avveda Isabella; prima che sappiasi dalla servitù. Datemi la vostra mano. (a Costanza)Fabrizio, la mano. Se mi volete bene, pacificatevi, abbracciatevi, consolatemi per carità.

COST. Vi domando perdono. (a Fabrizio)

FABR. Ed io a voi, cara.

ANS. Via, via, stiamo allegri; che non si pianga più; che più non vi sieno dissensioni, dispiaceri, contese. Pace, pace; sia benedetta la pace. Questa sera dunque verrà il compare, il dottore e lo speziale, che già loro l'ho detto, e staremo in buona compagnia con quegli uomini veramente da bene; e dopo la merenda, voglio che facciamo una burla allo speziale. So ch'egli ha un fiasco di vino buono, voglio che in compagnia andiamo a beverglielo tutto; e han da venire Cecchino e Isabellina, e voglio che si stia allegramente, sì, allegramente.

COST. Oh signore, Isabellina non l'ho condotta mai fuori di notte.

ANS. Verrà con me; le darò mano io; e se alcuno la vorrà nemmeno guardare, gli farò il grugno io. Oh, ecco il nostro Cecchino.

SCENA TERZA

Franceschino, Nardoe detti.

FRANC. (Entra, si cava il cappello, e va a baciare la mano a tutti, e parte)

ANS. Ora ci siamo tutti; mi pare di essere più contento. Nardo, come stiamo in cucina?

NAR. Io per me posso far quanto presto vuole. Ma all'ora solita del desinare ci mancheranno due ore.

ANS. Tanto ci manca?

COST. Si sente in buono appetito il signor suocero?

ANS. Io sì per dir il vero; ma non tanto per me ho sollecitudine, quanto per Fabrizio, che stamattina si è alzato presto; e sarà bene anticipare un poco.

FABR. Per me non ho questo bisogno. Sapete quante volte, per ragione degli affari di piazza, sono solito a star così fino alla nera notte.

ANS. Oh, io poi sì fatte cose non le ho volute mai. Ho saputo prendere il mio tempo; non ho trascurato gl'interessi miei, ma mangiare ho voluto sempre; ed ora che son vecchio, grazie al cielo l'appetito mi serve, e quando è una cert'ora, bisogna ch'io mangi.

COST. Sollecitatevi, Nardo.

NAR. Farò più presto che potrò.

ANS. Che cosa c'è di buono stamane?

NAR. C'è una minestra d'erbe...

ANS. Coll'ovo dentro, eh?

FABR. Fino che venga l'ora del desinare, anderò avanzando tempo, per non istare così colle mani in mano. Principierò a rispondere a qualche lettera.

ANS. Sì, bravo; farete bene; così nel dì della posta vi troverete un po' sollevato, e potrete scrivere a più bell'agio.

COST. Non verreste prima con me un poco? (a Fabrizio)

FABR. Avete bisogno di nulla?

COST. Vorrei mostrarvi una cosa.

ANS. Via, andate a vedere quello che vostra moglie vi vuol mostrare. (a Fabrizio)

FABR. Si può sapere cos'è che mi volete mostrare?

ANS. Andate con lei ci vuol tanto? Oh, se fosse viva la buona memoria della mia Cassandra, non me lo farei dire due volte.

COST. Vorrei mostrarvi le gioje...

ANS. Sentite? Le gioje vi vuol mostrare. Oh figlio mio, che bella gioja è la moglie!

FABR. Io credo che non vi averete fatto ingannare, e però non vi è bisogno ch'io veda...

COST. Pazienza! conosco che non siete ancora coll'animo pienamente sereno.

FABR. Quel che è stato, è stato; io non ci penso più.

ANS. Ma va con seco: tu mi faresti montar in collera. (a Fabrizio)

FABR. Ciò non sia mai, signor padre. Eccomi, Costanza, andiamo.

ANS. E ti fai tanto pregare?

COST. Il mio cuore non è mai stato angustiato come oggi. (parte)

ANS. Andate, andate, che vi consolerà. (dietro a Costanza)

FABR. Povera donna! Mi dispiace ora d'averla mortificata. (parte)

SCENA QUARTA

Anselmo e Nardo

ANS. Va, va a terminare di consolarla. (dietro a Fabrizio)Gioventù benedetta! E così tu non solleciti il desinare? (a Nardo)

NAR. Aspettava che volesse sapere il desinare che c'è.

ANS. Bene, che c'è oggi?

NAR. Che hanno i padroni, che mi sembrano corrucciati?

ANS. Curiosaccio! sei stato qui per sentire, eh? non per dirmi del desinare.

NAR. Mi dispiacerebbe tanto, che i padroni si adirassero fra di loro; non ne siamo avvezzi noi a vederli adirati.

ANS. E non lo sono nemmeno adesso. È stato un poco di pissi pissi di certe genti; ma non è niente. E così, che abbiamo noi da desinare?

NAR. L'erbe, l'ho già detto.

ANS. Coll'uovo, l'hai detto.

NAR. Una pollastra bollita.

ANS. Tenera, veh!

NAR. Un arrosto di piccioncini.

ANS. C'è da star poco bene per me.

NAR. E ci saranno delle polpette.

ANS. Oh, queste sì. Fanne molte di queste, che sono per me una gioia.

NAR. Vi sarà poi...

ANS. Vanne, vanne, che il tempo passa

NAR. Vado subito. (Son curioso di sapere che cosa è stato; può essere che Lisetta lo sappia). (da sé, e parte)

SCENA QUINTA

Anselmo e poi Isabella

ANS. Oh come per poco, se non veniva io, principiavano a bisticciarsi que' due colombi. Dice bene il proverbio: ogni biscia ha il suo veleno. Per buoni che sieno gli uomini, si danno di que' momenti, ne' quali si prendono le pagliucce per travi; ma chi è buono, come son eglino, presto presto si rasserena.

ISAB. Ci posso stare qui, signor nonno?

ANS. Perché mi domandate questo? Non potete stare in casa dove vi piace?

ISAB. Dico così, perché io era nella camera della signora madre; è venuta col signor padre, e mi hanno cacciata via.

ANS. Averanno degl'interessi fra loro.

ISAB. Me ne ho a male io, che m'abbiano cacciato via.

ANS. Vi averanno mandato via, acciò venghiate a stare un poco con me; ch'io non ci sto volentieri solo. Dov'è Cecchino?

ISAB. Studia, signore.

ANS. Oh il buon ragazzo! studia senza che gli si dica. Si vede che nello studio trova piacere, trova dilettazione.

ISAB. Anch'io ho piacere a leggere, a studiare, e mi piace tanto tenere a mente quello ch'io leggo. La sapete voi la canzona della colezione?

ANS. No, io so che mi piace far colezione la mattina, e merenda il giorno, e non ne so più.

ISAB. Cecchino l'ha avuta da uno scolare compagno suo la canzona della colezione, che si dice in due, e io ho imparato la parte mia, e Cecchino dice la parte sua.

ANS. Non ve l'ho mai sentita a dire io.

ISAB. L'ha portata ieri Cecchino.

ANS. Imparatela, che me la direte poi.

ISAB. Io la so dire, e Cecchino la sa dire ancora.

ANS. Ditela dunque, bravina, bravina.

ISAB. Aspettate, ch'io vada a chiamar Cecchino.

ANS. Sì, sì; la dirà egli pure. Ci averò gusto io.

ISAB. Aspettateci, che venghiamo subito. (parte)

SCENA SESTA

Anselmo solo

ANS. La canzona della colezione deve esser bella. S'io sapessi di poesia, vorrei farne tante sopra il desinare e sopra la cena; e vorrei dire che il mangiare è il più bel gusto del mondo, e vorrei lodare le robe tenere, le robe dolci, e il brodo grasso.

SCENA SETTIMA

Isabella, Franceschinoe detto.

ISAB. Eccoci, siam belli e lesti.

ANS. Cecchino, mi vuoi tu dire la canzona della colezione?

FRANC. Signor sì; anche l'Isabellina.

ISAB. La dirò anch'io, che la so dir bene.

ANS. Datemi da sedere, che la vo' godere agiato.

FRANC. Ecco, signore. (gli dà la sedia)

ANS. Via, dite su, carini. (Non darei questo divertimento per un operone di quelli del tempo mio). (da sé)

ISAB. Madre mia, la colezione.

FRANC. Figlia mia, che t'ho da dare?

ISAB. Lascio a voi l'elezione,

Ché non tocca il domandare,

Mi sovvien che mi diceste,

Alle giovani modeste.

FRANC. Egli è ver che non si chiede,

Vuol così l'obbedienza;

Ma la madre ti concede

Un'amplissima licenza;

Perché stata sei bonina,

Domandar questa mattina.

ISAB. Grazie, grazie, madre mia.

Chiederò. Che cosa mai?

Una cosa che non sia

Fra le cose che pigliai.

Oh davver, che l'ho trovata:

Piglierei la cioccolata.

FRANC. Son pei vecchi cose valide

La cannella e la vainiglia;

Ma son droghe troppo calide

Pel bisogno di una figlia;

Di soverchio è butirroso

Il caccao sostanzioso.

ISAB. Del dolcissimo sapore

Compiacere, è ver, mi soglio;

Ma se genera calore

N'ho abbastanza, e non la voglio.

Meglio dunque fia per me

Una tazza di caffè.

FRANC. Acqua nera, polve amara

Di nerissimi carboni,

Che da noi si compra cara,

Per destar le convulsioni;

Fa vegliar, fa tristo effetto

A chi sola dorme in letto.

ISAB. Col caffè non faccio tresca,

Che dormir non voglio a stento;

Convulsioni non mi accresca,

Che pur troppo me le sento:

E la notte si combatte.

Prenderò piuttosto il latte.

FRANC. È indigesto il latte ancora,

E s'accaglia nel ventricolo

Chi del latte s'innamora,

Può incontrar qualche pericolo.

Qualche volta è medicina;

Ma talor non s'indovina.

ISAB. Vada dunque il latte in bando,

Che arrischiarsi non conviene;

Beverollo allora quando

Sarò certa di far bene.

Prenderò, mamma mia bella,

Qualche tè colla ciambella.

FRANC. Sia lo svizzero, o l'indiano,

Sia di foglia, o sia di fiore,

Sia il moderno veneziano,

Che degli altri è tè migliore,

Sarà sempre tal bevanda

D'acqua calda una lavanda.

ISAB. Se mi par d'esser in caso

Di lavarmi le budella,

La mattina in fresco vaso

Bevo l'acqua pura e bella.

Meglio dunque sarà il dono

D'una zuppa nel vin buono.

FRANC. Oscurar suole la mente,

Figlia cara, il vino puro:

E dal volgo dir si sente,

Che han le donne il cervel duro,

Preparar ti vo' tal cosa,

Che fia sana e fia gustosa.

ISAB. Lasciam star, non vo' col vino

Che il cervel sen voli via;

Ché pur troppo per destino

Siam soggetti alla pazzia.

Se ogni cosa è a me importuna,

Mamma mia, starò digiuna.

FRANC. Poverina, l'amor mio

Digiunar non ti farà;

Quanto possa so ancor io

L'appetito in quell'età.

Preparar ti vo' tal cosa,

Che fia sana e fia gustosa.

ISAB. Giubilar mi sento il core.

La promessa mi consola;

Già gustar parmi il sapore

So che siete di parola.

A una madre amor consiglia

Il bisogno della figlia.

FRANC. Per vederti più grassetta,

Ritondetta e più bellina,

Figlia mia, figlia diletta,

Vo' recarti ogni mattina...

ISAB. Presto, presto, ch'io vi godo

FRANC. Una zuppa nel buon brodo.

ISAB. Sarà buona, ma per poco:

Io credea di meglio assai;

E mi sento un certo fuoco...

Ma parlar non soglio mai.

Sta alla vostra discrezione

Migliorar la colazione.

FRANC. Così disse a mamma cara

La figliuola rispettosa;

E la mamma le prepara

Colazion più saporosa.

ISAB. Più gradita al suo desio,

Colazion che bramo anch'io.

FRANC. È finita. (ad Anselmo)

ISAB. Che ne dite, non è bellina? (ad Anselmo)

ANS. Chi ve l'ha data questa canzona? (a Franceschino)

FRANC. Uno scolare che va alla scuola dove vado io.

ANS. L'hanno sentita vostro signor padre, vostra signora madre?

FRANC. Non ancora.

ISAB. La vogliamo dire dopo desinare.

ANS. Fate a modo mio, figliuoli: non la fate loro sentire. Non istà bene che voi altri ragazzi vi facciate lecito di domandare cioccolata, caffè e altre cose che si contengono nella canzona. Se mi volete bene, voglio che mi facciate un piacere.

FRANC. Comandi, signor nonno.

ANS. E anche da voi lo voglio. (ad Isabellina)

ISAB. Capperi! comandi pure.

ANS. Non voglio che mai più la diciate a memoria, né piano, né forte, né in compagnia, né da voi altri soli; e se volete esercitar la memoria, e imparar dei versi, ve ne darò io dei più belli. Questi sono scritti male, vi faran poco onore. Ve ne darò io de' più belli assai. Me lo farete questo piacere?

FRANC. Volentieri, signore. Ecco qui la carta; ne faccia quello che vuole; io le prometto di non recitarli mai più.

ISAB. Anch'io farò lo stesso. Non mi ricorderò nemmeno d'averli veduti. Ma ci ha promesso di darcene di più belli.

ANS. Sì, ve li darò; non dubitate.

FRANC. Anderò, se si contenta, a terminare la mia lezione.

ANS. Sì, figliuolo, andate, che il cielo vi benedica.

FRANC. Avremo dei versi belli. Oh che gusto, Isabellina!

ISAB. Questi non si dicono più.

FRANC. Oh, mai più. (parte)

ISAB. Me li darà a me il signor nonno?

ANS. Sì, a tutti due.

ISAB. Vado a dirlo alla signora madre.

ANS. Non ci andate ancora dalla signora madre; aspettate ch'ella vi chiami.

ISAB. Anderò da Lisetta, dunque.

ANS. Sì, andate da Lisetta.

ISAB. Se me li dà stassera i versi, dimani glieli so dire (parte)

ANS. Che bella docilità! Cielo, ti ringrazio. Ma questi compagni alla scuola... Voglio andare or ora per l'appunto dal maestro suo, a dirgli che vi badi un poco. Se uno scolare gli ha dato la canzona con innocenza, un altro gliela può spiegar con malizia. Sempre pericoli in questo mondo, sempre pericoli. (parte)

SCENA OTTAVA

Lisetta e Nardo

NAR. Non sapete niente voi, che cosa sia accaduto fra il padrone e la padrona?

LIS. No certo, non so niente io.

NAR. Son curiosissimo di saperlo.

LIS. Vedete? Questa curiosità non istà bene. Avrete sentito dir cento volte, che i curiosi sono in odio delle persone; e se lo sapranno i padroni, vi perderanno l'amore.

NAR. Non cercherò altro dunque. Mi dispiace, che non li vedo allegri secondo il solito.

LIS. Vi pare che sieno adirati?

NAR. Almeno lo erano, se non lo sono.

LIS. Avete sentito niente di quel che dicevano?

NAR. Sono arrivato che c'era il vecchio; ma prima avevano taroccato; ero nell'altra camera, e qualche cosa ho sentito.

LIS. Che cosa avete sentito? Ditemelo, caro Nardo.

NAR. Quando sono entrato io, avevano ancora le lagrime agli occhi.

LIS. Qualche gran cosa convien dir ci sia stata.

NAR. Non si guardavano nemmeno.

LIS. E il vecchio, che cosa diceva? Dalle parole del vecchio si potrebbe venire in cognizione di qualche cosa.

NAR. Non mi ricordo bene che cosa dicesse.

LIS. Pensateci un po', se vi sovvenisse qualche parola.

NAR. Ma non dite voi, che i curiosi sono in odio delle persone?

LIS. La cosa sta qui fra noi. Essi non l'hanno a sapere.

NAR. Dunque il bene ed il male sta nel saper fare, a quello che dite voi, nel sapersi nascondere.

LIS. Non m'imbrogliate il capo con certe sottigliezze che non capisco. Pensava io fra me stessa, che possano aver gridato per ragione dell'interesse, perché i nostri padroni sono persone buonissime, ma sono attaccati all'interesse ben bene.

NAR. Non manca niente però in casa, e a noi ci danno un buon salario, e anche fanno qualche spesuccia.

LIS. Eh, sì sì; ma so io quel che dico... e potrebbono anche aver gridato per i figliuoli, perché credo che il padre non voglia pensare a maritar la figliuola, ed ella può darsi abbia il solletico, e l'abbia confidato alla madre.

NAR. Tutto può essere, ma non c'è fondamento.

LIS. Io penso un pezzo in là qualche volta.

NAR. E mi pare che diate nella mormorazione.

LIS. Uh, povera me! questa linguaccia qualche volta sdrucciola nel difetto antico. Non ne parliamo più, Nardo mio. Non sappiamo quello che passi fra di loro, ci possiamo ingannare; bensì per l'avvenire voglio che stiamo vigilanti ben bene per rilevar, se si può, il principio di questa picciola differenza.

NAR. Se sapranno la nostra curiosità, ci perderanno l'amore.

LIS. Ma io lo faccio per amore soltanto... Oh, è stato picchiato. Anderò a vedere...

NAR. Io, io ci anderò.

LIS. Ecco, voi ci andate per curiosità.

NAR. E questa è un'altra mormorazione. (parte)

SCENA NONA

Lisetta sola.

LIS. È tanto difficile ch'io me ne astenga. Prima che venisse in questa casa a servire, non si faceva altro dov'era. Qui m'hanno insegnato a castigare la lingua e a moderare i pensieri; ma spesse volte ricado nell'uso vecchio. Col tempo, se ci starò qui, diventerò un po' meglio di quel che sono. Parmi ch'ella m'abbia chiamato. Vengo, vengo, signora; se posso, qualche cosa voglio da lei ricavare. (parte)

SCENA DECIMA

Angiola e Nardo

NAR. Io non lo so, signora, se il padrone ci sia in casa.

ANG. Guardate se c'è; e ditegli, posto che ci sia, che mi preme dirgli una parola da lui a me.

NAR. Vo a vedere, e la servo subito.

ANG. Fatemi il piacere. Alla padrona non dite niente. Ho bisogno di parlar con lui.

NAR. Benissimo; s'egli è nella stanza sua, non c'è bisogno d'altro. (Principio quasi a trovarlo il motivo delle discordie loro). (da sé, e parte)

SCENA UNDICESIMA

Angiola, poi Fabrizio

ANG. Me l'ha fatta lo sciagurato. M'ha impegnato il gioiello cogli spilloni. Manco male che li ha dati in mano d'un galantuomo. So ch'egli è un uomo tanto civile, che sentirà volentieri le mie ragioni. Chi sa che non mi riesca di riavere le gioje, con buona maniera, senza il denaro. Finalmente sono mie le gioje, e da mio marito può farsi rimettere li dugento scudi.

FABR. Che mi comanda la signor'Angiola?

ANG. Perdoni se son venuta ad incomodarla.

FABR. In che la posso servire, signora?

ANG. Ho necessità di discorrere seco lei un poco.

FABR. Ed io qui sono per ascoltarla. S'accomodi. (la fa sedere)

ANG. Ma se ha qualche affar di premura, che io le interrompa, me lo dica liberamente. (sedendo)

FABR. Niente, signora, non ho alcuna faccenda ora.

ANG. Favorisca seder ella pure.

FABR. Non importa; sto bene in piedi.

ANG. In verità mi dà soggezione. M'alzo anch'io dunque.

FABR. Via, per compiacerla, sederò.

ANG. So che stamattina è stato da vossignoria mio marito.

FABR. Sì signora, è vero.

ANG. E gli ha portato certe gioje in pegno per dugento scudi.

FABR. Verissimo.

ANG. Pare a lei, signor Fabrizio, che sieno queste azioni onorate d'un marito, che va a impegnare le gioje della consorte?

FABR. Per me non saprei; ma direbbe il signor Raimondo: pare a voi che sieno azioni buone di una moglie, che va a impegnare i pendenti e gli anelli, senza licenza di suo marito?

ANG. Chi ha detto a voi, che tali cose sieno da me state impegnate?

FABR. Stupisco che me lo domandiate, signora; non ha la moglie da comunicare al marito le azioni sue? Non ha tardato un momento a dirmelo la signora Costanza.

ANG. (Bacchettonaccia del diavolo! così mantiene la sua parola?) (da sé)

FABR. Ma tanto io che mia moglie siamo persone oneste, e non v'è dubbio che dalla bocca nostra si sappia.

ANG. Ne son certissima. Conosco bene il carattere del signor Fabrizio: un uomo che si può dire il ritratto della bontà e della gentilezza.

FABR. Oh signora, non dica tanto.

ANG. Tutti quelli che hanno avuto l'incontro di trattare con voi, non si saziano di lodare la vostra gentil maniera.

FABR. La prego; so che non merito...

ANG. Ed io non ho mai avuto questa fortuna, che la desiderava tanto.

FABR. In che la posso servire?

ANG. E ora trovo anche più in voi di quello mi fu dagli altri rappresentato.

FABR. (Principia un poco a seccarmi). (da sé)

ANG. Se il cielo mi avesse dato un marito di questa sorte, felice me!

FABR. Signora, alle corte: io non son fatto per tali ragionamenti. Se qualche cosa da me le occorre, mi dica il piacer suo, e lasciamo da parte le cerimonie.

ANG. (È un poco ruvido veramente; lo piglierò per un'altra parte). (da sé)

FABR. (Le ho sempre odiate le adulazioni). (da sé)

ANG. Signore, voi sarete ben persuaso, che il gioiello datovi in pegno da mio marito, ed i spilloni ancora, son gioje mie, sopra di che il marito non ha dominio veruno.

FABR. Anzi, signora mia, son persuaso al contrario; e credo fermamente, che di tutto ciò che ha la moglie, possa il marito disporre.

ANG. Sarà dunque in libertà del marito di rovinare affatto la moglie?

FABR. Io, compatitemi, distinguerei vari casi. Se il marito è savio, e la moglie no, può il marito dispor di tutto; se la moglie è savia, e il marito no, si fa in modo che non possa il marito dispor di niente. Ma se tutti due mancano di saviezza, fanno a chi può far peggio, né si possono fra di loro rimproverare gli arbitrii.

ANG. Fra queste tre classi così politamente distinte, in quale sono io collocata, signor Fabrizio?

FABR. Non istà a me il giudicarlo, signora.

ANG. Ma se il marito mio, secondo voi, può disporre, io non sarò la savia.

FABR. Guardimi il cielo, ch'io mi avanzassi a dir cosa che vi potesse offendere.

ANG. Non mi offendo di niente io. Da voi ricevo tutto per amicizia. Ma, caro signor Fabrizio, mettetevi le mani al petto: mio marito ha impegnato la roba mia, e la roba mia che ho portato in dote, non me la può impegnar mio marito; e voi, se siete quell'uomo onesto che vi decantano, conoscerete che ragion vuole ch'io le riabbia.

FABR. Un tale articolo si potrà esaminare; ma intanto, per riavere le gioje, signora mia, avete voi portato i dugento scudi?

ANG. Per ricuperare la roba mia, mi sarà d'uopo sborsar danaro?

FABR. Non decido chi lo debba sborsare; ma senza questo, le gioje non esciranno dalle mie mani.

ANG. Via, signor Fabrizio, siate meco un poco più compiacente. Che vi ho fatto io, che mi guardate di sì mal occhio? Alla fin fine, se ora non volete darmi le gioje mie, pazienza. Non vi perderò per questo la stima, né sarò grata alla vostra casa meno di quello ch'io debba essere, per il bene che ne ho ricevuto. Mi cale sopra tutt'altro la vostra grazia, l'amicizia vostra; non parliamo più di melanconie; ho bisogno anch'io di sollevarmi un poco. Caro signor Fabrizio, non v'incresca di far meco un po' di conversazione. Accostiamoci un pocolino. (s'accosta colla sedia)

FABR. (S'alza)Se non avete altro da comandarmi, ho qualche cosa che mi sollecita a dipartirmi, signora mia.

ANG. (S'alza)Volete ch'io ve la dica, come l'intendo? Siete assai scompiacente, signor Fabrizio, e vi conosce poco dunque chi predica la vostra docilità.

FABR. Signora, io non fo la corte a nessuno. Chi mi vuole, mi pigli; chi non mi vuole, mi lasci.

ANG. E come volete che chi vi vuole, vi pigli, se da chi vi si accosta, fuggite?

FABR. Compatitemi, veggo Nardo che mi vorrebbe dir qualche cosa. (guardando verso la scena)

ANG. E con questa buona grazia mi licenziate? S'io non volessi andarmene, che direste?

FABR. Direi che vi accomodaste a bell'agio vostro. Permettetemi ch'io vada a intendere, che cosa il mio servitore ha da dirmi.

ANG. Mi lascierà qui sola con questa magnifica civiltà?

FABR. (Eh, mi farebbe impazzare se le badassi). (da sé)Nardo, venite qui.

SCENA DODICESIMA

Nardo e detti.

NAR. Ho da dirle una cosa.

FABR. Posso ascoltarlo senza offendere la civiltà (ad Angiola, con ironia)

ANG. Accomodatevi, signore. Non facciamo caricature.

FABR. In casa mia non si usano. (Bene, cosa c'è?) (accostandosi a Nardo)

ANG. (Non c'è verso da sperar niente, per quel ch'io vedo). (da sé)

NAR. (È venuto per parlare a vossignoria il signor Raimondo. C'è qui sua moglie; non sapeva di far bene, o di far male; gli ho detto che sono tornato ora a casa, e che non so se il padrone ci sia). (piano a Fabrizio)

FABR. Benissimo... (guarda in viso Angiola, un poco turbato)

ANG. Via, signore, non mi guardate losco, che senza più me ne vado.

FABR. Se ora volete andarvene, sarà meglio. Non anderete sola.

ANG. È tornato il mio servitore?

FABR. C'è il marito vostro, signora...

ANG. Mio marito? Sa egli che ci sono?

FABR. Non credo.

NAR. Non lo sa, signora.

ANG. Non ha veduto il servitore dunque?

NAR. Non l'ha veduto, perché il camerata, veggendolo venire, si è rimpiattato. Titta è un buon servitore; lo conosco che è un pezzo. Per questa sorta di cose, non v'è un par suo.

ANG. Che vorreste voi dire perciò... (a Nardo)Signore, mio marito è un uomo bestiale; dirà ch'io sono qui ritornata a dispetto suo. Noi ci faremo scorgere. (a Fabrizio)

FABR. E come posso io regolarmi? Ho da ricusar di riceverlo? Voi che siete una signora tanto civile, questa inciviltà non l'approverete.

ANG. Prudenza insegna che sfuggasi il maggior male.

FABR. Non c'è un male al mondo per me. Ditegli che ci sono. (a Nardo)

ANG. No, per amor del cielo, non fate, ve lo chieggo per finezza, per grazia, per onestà.

FABR. Come abbiamo a fare dunque?

SCENA TREDICESIMA

Raimondo di dentro, e detti

RAIM. C'è o non c'è il signor Fabrizio?

ANG. Meschina me! eccolo. (ritirandosi indietro)

FABR. Trattenetelo un poco. (a Nardo)

NAR. Sì signore. Dirò che fate una cosa. (parte)

ANG. Lasciate ch'io mi ritiri, per carità.

FABR. Ma non vorrei che facessimo peggio.

ANG. S'ei non lo sa, non vi è pericolo.

FABR. Cara signor'Angiola...

ANG. Qui non c'è altro che dire. Vo' ritirarmi. Se voi sarete indiscreto a segno di disvelarmi, può essere che ve ne abbiate a pentire. (s'accosta alla camera)

FABR. Andate da mia moglie frattanto.

ANG. Bene, bene.

FABR. Per di là.

ANG. O di qua, o di là...

FABR. Ma no, è il mio studio quello.

RAIM. Ditegli che mi preme, vi dico. (di dentro, forte)

ANG. (Corre a ritirarsi nella camera figurata lo studio)

SCENA QUATTORDICESIMA

Fabrizio, Raimondoe Nardo

FABR. (Poh! qual demonio mi ha condotto in casa costoro?) (da sé)Chi è di là? Chi mi vuole?

RAIM. Sono io, signore. Scusate, se torno ad incomodarvi.

FABR. Scusate voi, se vi ho fatto un poco aspettare. Aveva un affar tra' piedi, che m'inquietava.

RAIM. Non sarà forse minore l'inquietudine che provo io; ditemi, signore, in grazia, da quell'uomo onesto che siete: è egli vero, che la signora vostra abbia prestati alla moglie mia dei denari sopra di alcune gioje?

FABR. È verissimo. Cento scudi le ha dato.

RAIM. E queste gioje in che consistono?

FABR. Parmi che m'abbian detto in un paio di pendenti e in un anello, io credo.

RAIM. Non le avete vedute voi queste gioje?

FABR. Non le ho vedute. Mia moglie volea mostrarmele, ma quello che ella fa, è ben fatto, né mi son curato vederle.

RAIM. Che dite, eh, della signor'Angiola? Può darsi sfacciataggine maggiore di una moglie senza rispetto?

FABR. Dite piano, signor Raimondo.

RAIM. In che averà ella impiegati li cento scudi? Voglia il cielo, che ciò non sia con vergogna nostra.

FABR. Ma non dite sì forte.

RAIM. Lasciatemi sfogare. Qui non c'è nessun che mi senta.

FABR. Ci potrebbe essere qualcheduno che vi sentisse.

RAIM. Questo poco mi premerebbe. Così ci fosse Angiola stessa, che le vorrei dire in faccia pazza, sciagurata, viziosa.

FABR. Signore, se non cambiate discorso, io me ne vado.

RAIM. Vorrei un piacere da voi.

FABR. Comandatemi.

RAIM. Che mi faceste vedere le gioje che colei ha lasciato in pegno, per riconoscerle se sono desse.

FABR. Volentieri. Nardo. (chiama)

NAR. Signore.

FABR. Tenete questa chiave. Aprite per codesta parte. Andate dalla padrona, ditele che si contenti mandarmi quel paio di pendenti e quell'anello che ebbe questa mane da custodire.

NAR. Sì signore. (parte, poi torna)

FABR. Vedete? Voi dicevate forte, ed il servitore sentiva.

RAIM. Credetemi che poco preme. Le pazzie di mia moglie sono oramai famose. Tutti sanno ch'ella è una testaccia del diavolo.

FABR. (Raschia forte, perché Angiola non senta)Ma io, compatitemi, non voglio sentire parlar così.

RAIM. Credetemi, non trovo altro sollievo che lo sfogarmi un poco.

FABR. Ma in casa mia non lo fate.

RAIM. Quando penso ch'ella tende a precipitarmi...

FABR. Via, via, ecco il servitore colle gioje.

NAR. Signore, ho cercato la padrona per tutto, e non la trovo.

FABR. Non c'è nella sua camera?

NAR. Non c'è. Ne ho domandato a Lisetta, e pare lo sappia, e non voglia dirmelo.

FABR. Che novità è questa? Vo' un po' vedere io. Con licenza; ora torno. (Ehi, badate ch'egli non entrasse nello studiolo). (piano a Nardo)

NAR. (C'è l'amica, eh?) (piano a Fabrizio)

FABR. (Sì, povera sventurata! Ha soggezione di suo marito... Vi racconterò la cosa com'è...) (a Nardo)(Non vorrei ch'egli sospettasse... Oh, sono pure il male imbrogliato). (da sé e parte)

SCENA QUINDICESIMA

Raimondo, Nardo, poi Costanza

RAIM. Dove può essere andata la signora Costanza?

NAR. Non saprei. Sarà poco lontana. Eccola qui davvero.

COST. (Viene da un'altra parte opposta a quella dove andò Fabrizio)(Non c'è qui? L'ho pur veduta venire). (da sé guardando intorno)

RAIM. Signora, la riverisco.

COST. Serva divota. (Dalla finestra l'ho veduta entrare, di là non si passa senza la chiave. Di qua l'avrei incontrata. Che fosse nello studiolo, non lo crederei). (da sé)

NAR. Signora, il padrone la cerca.

COST. Non era qui il padrone?

NAR. Sì signora; è partito ora per questa parte, in traccia di lei.

COST. In traccia di me?

RAIM. Cerca di voi, signora; andatelo ad avvisare ch'ella si trova qui. (a Nardo)

NAR. Vado subito. (parte)

RAIM. Mia moglie è stata da lei per cento scudi, non è egli vero?

COST. Sì signore. L'ha veduta ora la signor'Angiola?

RAIM. Ora? dove? Non l'ho veduta io.

COST. È molto che è qui vossignoria?

RAIM. Poco. È forse ritornata mia moglie?

COST. (Non lo sa nemmen egli. Oh cielo, cielo! Che cosa mai ha da essere?) (da sé)

RAIM. Voi mi parete turbata. Vi è qualche cosa di nuovo?

COST. Ho qualche cosa che m'inquieta. Compatitemi. (guardando per la camera)

RAIM. Non vorrei che mia moglie vi avesse dato dei dispiaceri. Sarebbe capace di farlo.

COST. (Non è possibile che mi possa dar pace). (s'accosta allo studio)

RAIM. (È agitatissima questa donna). (da sé)

COST. (Povera me! che cosa mai ho veduto?) (da sé dopo aver osservato nello stanzino)

RAIM. Ma che avete, signora Costanza?

COST. Niente, signore. (Prudenza vuole che mi raffreni) (da sé)

RAIM. Ecco il signor Fabrizio.

COST. Con sua licenza (torna a partire per dove è venuta)

SCENA SEDICESIMA

Raimondo, Fabrizio, poi Angiola, poi Nardo

FABR. Signora Costanza. (chiamandola)Che novità è mai questa? Fugge? Non mi guarda? Non mi risponde?

RAIM. Queste gioje, signore, si possono vedere sì o no?

FABR. Le chiavi le ha mia moglie.

RAIM. (Qui ci avrebbe a essere qualche cosa sotto). (da sé)Signore, compatite l'incomodo.

FABR. Tornate in un'altra ora.

RAIM. Tornerò in un'ora più comoda. (Aspetterò ch'egli non vi sia in casa, e farò ben io in modo che la signora mi dovrà mostrare le gioje mie.) (da sé e parte)

FABR. (Dopo essersi allontanato da Raimondo). Escite di qua una volta. (ad Angiola allo studiolo)

ANG. Un poco di acqua, per carità.

FABR. Non c'è acqua, signora. Favorite andarvene, che mi par tempo.

ANG. Così me ne fossi andata prima; ne ho sentite di belle, e ho dovuto affogarmi per non poter rispondere.

FABR. Vostro danno. Partite, ve lo domando per carità.

ANG. Parto, sì. Se ci torno più in questa casa, mi porti il diavolo. (parte)

FABR. Che cosa ha meco mia moglie? Viene qui quando io non ci sono. Parte quando io sopraggiungo. La chiamo, e non mi risponde. Ho de' sospetti in capo. Nardo. (chiama)

NAR. Signore.

FABR. Di' al signor padre, che favorisca venire un poco da me, se si contenta.

NAR. Non c'è, signore, in casa.

FABR. Non c'è? Dov'è andato a quest'ora?

NAR. L'intesi dire che andava dal maestro del signor Cecchino, non so a che fare.

FABR. Pazienza. Non occorr'altro. Va pure, gli parlerò quando torna. No, dammi il cappello e la spada. Anderò ad incontrarlo. (parte)

NAR. Mi pare sempre più s'intorbidi il tempo. Oh, chi l'avrebbe mai detto? Il padrone ha rimpiattato la signor'Angiola, perché non fosse veduta. E non s'ha da mormorare per questo? Io non dico di mormorare; ma vado subito a raccontarlo a Lisetta. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Costanza, poi Lisetta

COST. Povera me! povera me! che giornata è questa per me! Non so s'io viva; mi sento una smania al cuore, che mi pare di essere, il ciel mi perdoni, all'inferno. Ah, mi fossero cadute in terra le pupille degli occhi, pria di vedere quel che ho veduto. Perché venir di soppiatto colei a ritrovar mio marito? E di più ancora, Nardo venirmi a dire ch'ella ha desiderato ch'io non ci fossi! Per bene non ci può essere venuta. Ma! non potrebbono essere questi miei temerari giudizi? Non potrebb'ella essere qua tornata per ragione delle gioje sue?... E se per questo fosse venuta, perché sottrarsi dagli occhi miei? perché desiderare ch'io non ci fossi? E di più poi, perché rimpiattarla nello studiolo, dove non riceve che persone dell'ultima confidenza? Potrebbe averlo fatto, perché veduta non fosse da suo marito... Ma se la venuta sua fosse stata innocente, importato a lei non avrebbe l'esser veduta; e mio marito perché nasconderla, se non ci fosse?... Ma che mai ci ha da essere? E avrò coraggio di pensar male di mio marito? dell'unico bene che ho al mondo, dell'unica mia consolazione che tante prove d'amor mi ha dato, che tanto bene disse ognora volermi? E me ne ha voluto, sì, del bene, me ne ha voluto, e me ne vorrà, spero, me ne vorrà; e se non me ne ha più da volere, colle mani alzate al cielo domando la morte per carità. (con qualche lacrima)Lisetta. (asciugandosi gli occhi)

LIS. Signora.

COST. È ritornato il signor Fabrizio?

LIS. Non ancora.

COST. E il signor suocero?

LIS. Non si è veduto nemmeno lui. E sì l'ora è avanzata.

COST. Mio marito si tratterrà per gli affari suoi. Stupisco del signor suocero, che a quest'ora non manca mai.

LIS. Egli è uscito per andar dal maestro di Franceschino: ma poc'anzi, nel ritornare a casa ch'egli faceva, è stato riscontrato per la via dal signor Fabrizio; si sono posti a discorrere, e non la finiscono ancora.

COST. (Non ha seguitato la donna dunque). (da sé)Convien credere che abbiano degl'interessi che premano.

LIS. Eh signora padrona, non si ha da mormorare, né da pensar male di nessuno: ma le cose chiare e patenti che cogli occhi si vedono, e colle orecchie si sentono, sono poi quel che sono, e non si può dir che non sieno.

COST. Non sarebbe gran cosa, che l'occhio e l'orecchio ingannassero qualche volta.

LIS. La signor'Angiola non è una paglia che si possa prendere in iscambio.

COST. Sì, la signor'Angiola è venuta poc'anzi a discorrere con mio marito. E per questo? Sarà la prima femmina che avrà seco lui trattato, per vendere, per comprare, per raccomandarsi?

LIS. È vero, signora; ma le femmine che vengono solamente per questo, non cercano, pare a me, di parlar al marito di nascosto della consorte.

COST. Quello sciocco di Nardo non ha inteso bene. Ha detto ella, e lo so di certo, che bastavagli rappresentare le premure sue al padrone, senza incomodar la padrona.

LIS. Ma perché serrarla nello studiolo?

COST. Chi ha detto a voi, che l'ha serrata nello studiolo? Non può essere entrata ella là dentro per sottoscrivere un qualche foglio, per far qualche ricevuta, qualche ordine di pagamento? Lisetta, a quel ch'io vedo, voi siete stanca di viver meco. Cento volte v'ho detto, che mi ristuccano ragionamenti simili, fatti così all'impazzata; e poi ve ne fo scrupolo grande, grandissimo, che quando non si san di certo le cose, non si dicono e non si credono. Mio marito non ha mai dato uno scandalo, e non è capace di darlo. La signor'Angiola è persona onesta; e se voi non castigherete la lingua, se non regolerete il pensare, non solo escirete di questa casa, ma non farete mai bene; poiché, figliuola mia, la riputazione che in un momento si toglie, in mille anni non si restituisce più intera.

LIS. Ma io diceva questo perché...

COST. Già mi avete capito, e non occorre mi replichiate.

LIS. Compatisca per questa volta; non dirò più, signora.

COST. Mi pare abbiano picchiato all'uscio di strada.

LIS. Andrò a vedere. (Con tutto questo non credo niente io. Può ben dir che non dica, ma che non pensi poi! Bisognerebbe che mi facesse cambiar la testa). (da sé e parte)

SCENA SECONDA

Costanza, poi Lisetta che torna.

COST. Pagherei la metà del mio sangue, che non si potesse dir da costoro quello che pur troppo ragionevolmente si dice. In questo mondo non si può godere felicità. Finora ho avuto lo spasimo de' figliuoli; ora che sono allevati, e grazie al cielo in istato di darmi qualche consolazione, pare che voglia affliggermi la condotta di mio marito. Ma giusto cielo! potrà egli cambiar il cuore? Un uomo di tanta bontà è possibile che si lasci sedurre, che si stanchi di volermi bene?

LIS. È domandata, signora.

COST. Da chi mai?

LIS. Dal signor Raimondo.

COST. Dal marito della signor'Angiola?

LIS. Per l'appunto.

COST. Domanda egli di mio consorte?

LIS. Non signora, domanda di lei.

COST. Che cosa vuole da me?

LIS. Questo non me l'ha detto, e non me lo vorrà dire.

COST. Ditegli che compatisca, che non c'è né mio suocero, né mio marito... e che io sono impedita ora.

LIS. Vedete? Così si fa, e non come quello...

COST. Come chi volete voi dire?

LIS. E non come quello che riceve le donne, senza che lo sappia la moglie.

COST. Frasca.

LIS. Non parlo di qua io; parlo de' mariti del paese mio. (parte, poi ritorna)

COST. Eppure non sarebbe fuor di proposito ch'io lo ricevessi! per sentir, così di lontano, se qualche cosa mi riuscisse di ricavare... Ma no, è meglio superarla questa curiosità; alle volte, cercando di voler sapere, si sanno di quelle cose che non si vorrebbono aver sapute. Io so per altro anche troppo, e potrei forse dalle parole del signor Raimondo raccogliere qualche cosa che mi recasse consolazione; e io medesima potrei contenermi seco in modo, che senza offendere la riputazione sua, valesse a farlo vegliare un poco più attento sulla condotta di sua consorte. Ma non vorrei far peggio, e che mio marito trovasse un nuovo motivo per mortificarmi.

LIS. Signora non posso dispensarmi dal dirle, che il signor Raimondo si offende moltissimo ch'ella non lo voglia ricevere; disse essere un galantuomo, che viene per un affare di premura grande, e che in due parole la spiccia subito.

COST. Viene per un affare di premura grande?

LIS. Sentirlo lui, è una cosa che preme all'eccesso.

COST. (Volesse dirmi qualche cosa di mio marito?) (da sé)E mi spiccia presto, dice?

LIS. In due parole.

COST. Non saprei... che passi.

LIS. Benissimo.

COST. È tornato il signor Fabrizio?

LIS. Non signora. Se torna, che non gli dica niente del signor Raimondo?

COST. Anzi gliel'hai da dire. E che venga subito. Sei pure sciocca.

LIS. Ma io, quanto più mi studio far bene, fo sempre peggio. (parte)

SCENA TERZA

Costanza, poi Raimondo

COST. Può anche darsi ch'egli venga da me per le gioje sue, che con i cento scudi alla mano voglia ricuperarle.

RAIM. Permette la signora Costanza...

COST. Scusi di grazia, se l'ho fatta un po' trattenere. A quest'ora, chi è alla direzione della casa, ha sempre qualche cosa che fare. I figliuoli non sanno stare senza di me; ciò non ostante, sentendo ch'ella ha qualche cosa da comandarmi, non ho voluto mancare.

RAIM. Né io son qui per incomodarvi. Favoritemi, in grazia. È egli vero dunque che mia moglie ha dato a voi in ipoteca un paio di pendenti e un anello, per l'imprestito di cento scudi?

COST. Verissimo.

RAIM. Potrei aver io il piacere di vederle codeste gioje?

COST. Signore, se vi basta vederle, non ho difficoltà di rendervi soddisfatto.

RAIM. Siccome la moglie mia si è fatto lecito d'impegnarle, posso ancora temer di peggio. Desidero per quiete mia di vederle.

COST. Vi servo subito. (parte)

RAIM. (Va a prenderle; dunque ci sono. Dubitavo di qualche inganno, benché sappia che sono genti da bene, e specialmente la signora Costanza è di buonissimo cuore. Chi sa che con un poco di buona maniera non mi riuscisse riaverle senza il denaro ancora!) (da sé)

COST. Ecco qui, signore, i pendenti e l'anello. Li riconoscete voi? Sono dessi?

RAIM. Verissimo, sono dessi. Ecco la bell'azione di mia consorte. Se voi andaste ad impegnare la roba di casa vostra senza parteciparlo al marito, che direbbe egli di voi?

COST. So che volete dirmi. Mi condannate per averle fatto piacere; pazienza, questo è il merito ch'io ne ho; ma sappiate che non mi sarei indotta a farlo, se ella non mi avesse svelate le piaghe di casa sua.

RAIM. Da chi derivano queste piaghe?

COST. Non lo so, signore, e non mi curo saperlo.

RAIM. Ella lo fa per i capricci suoi; né io ho bisogno per il mantenimento di casa mia, che s'impegnino le mie gioje.

COST. Via, signor Raimondo, sono cose queste da accomodarsi fra di voi due, senza far scene fuori di casa. L'altar delle gioje è diviso con giusta distribuzione: cento alla moglie, dugento al marito; e poi non occorre diciate altro. Chi mi porterà i cento scudi, avrà i pendenti e l'anello. Un'altra cosa mi preme un poco più di sapere: che altri interessi può avere la signor'Angiola con mio marito? Non ardisco già pensar male: sarei una donna indegna, se volessi adombrare col pensiero soltanto il di lei onore; ma non vorrei ch'ella si prendesse qualche altro arbitrio; che mio marito, che è di buon cuore, le prestasse degli altri denari, e voi aveste da lamentarvene, e forse forse concepiste voi quel sospetto di vostra moglie, ch'io non ardisco formare di mio marito.

RAIM. Non saprei; ma mia moglie è una pazzarella. Non ha avuto giudizio mai, e dubito sia difficile che averlo voglia per l'avvenire.

COST. Se voi parlate di lei con sì poco rispetto, che volete dunque ne dican gli altri?

RAIM. Povero me, che mi è toccata in sorte una moglie sì dolorosa!

COST. Signore, sia di uno, sia dell'altro il difetto, mi duole delle discordie vostre, ma è inutile che meco ve ne lagniate.

RAIM. Ah, se mi fosse toccato in sorte una donna amabile qual siele voi!

COST. Mi prendete in iscambio, signore.

RAIM. La vostra bontà congiunta alla bellezza vostra...

COST. Lisetta. (chiama)

SCENA QUARTA

Lisetta e detti.

LIS. Eccomi.

RAIM. Stava costei coll'orecchia all'uscio.

COST. Con sua licenza. Ho un affar di premura.

RAIM. Ma non abbiamo concluso niente circa l'affare dei cento scudi.

COST. Quel che vostro, è vostro; parlatene con mio marito. (parte)

SCENA QUINTA

Raimondo e Lisetta

LIS. Sì signore quel che e vostro, è vostro. Qui non si gabba nessuno.

RAIM. Di che cosa v'intendete voi di parlare?

LIS. Dei pendenti, dell'anello e dei cento scudi.

RAIM. Vi ha ella dunque confidato il segreto?

LIS. Oh signor no; non mi ha detto niente.

RAIM. Come lo sapete dunque?

LIS. Mi hanno comandato di ritirarmi, non mi hanno proibito di stare a sentire.

RAIM. Ecco qui la mia riputazione in pericolo.

LIS. Per quel che so io, eh? Felice voi, se non si sapesse di peggio. Bisogna sentire quel che dicesi di voi e di vostra moglie dal vicinato.

RAIM. Come! che cosa si può dire di noi?

LIS. Orsù, in questa casa comandano che non si dica male di nessuno, ed io li voglio obbedire; e non vogliono nemmeno che siamo curiosi de' fatti d'altri, e non ne voglio saper di più. (parte)

RAIM. Mi hanno piantato qui arrossito e mortificato. Sperava con questa donna, che ha de' denari, insinuarmi con buona grazia per averla amica ne' miei bisogni; ma è selvatica al maggior segno. Spiacemi dei pendenti, spiacemi dell'anello; in qualche maniera converrà certo ricuperarli; se mia moglie li ha impegnati per cento, posso ricavarne dugento (parte)

SCENA SESTA

Anselmo e Fabrizio

ANS. Non può essere, vi dico, non può essere. Costanza non è donna capace...

FABR. Ma se l'ho trovata io da sola a solo col signor Raimondo; e appena mi ha veduto, si è ritirata.

ANS. Ma che cose mai, caro figlio, vi passeggiano per il capo? Parlerò io con mia nuora. Mi comprometto di sapere la verità.

FABR. Siete voi certo, che la voglia dire?

ANS. Se non ha mai detto una bugia in tutto il tempo che è in casa nostra!

FABR. È vero, nemmeno per ischerzo si è mai sentita a dire bugia.

ANS. Eh, io vo vedendo da che procede il male. Quelle gioje! quelle gioje! Tanto ella che voi, compatitemi, non dovevate impacciarvi con gente cattiva. Portano costoro la peste col fiato dov'essi vanno. Andiamo a desinare, che ormai non mi posso reggere in piedi. Vi prego, a tavola dissimulate, sospendete ogni dubbio fin ch'io le parli; vedrete che la cosa sarà come dico io...

FABR. Chi viene?

ANS. Nardo forse.

FABR. Altro che Nardo! il signor Raimondo. Che stato sia da mia moglie?

ANS. Pensate se vostra moglie vuol ricevere il signor Raimondo. Non ve lo sognate nemmeno.

FABR. Lo sapremo ora.

SCENA SETTIMA

Raimondo e detti.

RAIM. Servo di lor signori.

FABR. Che cosa avete da comandarmi, signore?

RAIM. Niente, per ora, se non che dirvi che potevate risparmiare di svelar altrui la confidenza da me fattavi delle gioje.

FABR. Io so di non averlo detto a nessuno.

RAIM. L'avete detto alla vostra moglie. Ella me l'ha confessato ora colla sua bocca. Manco male che eravamo soli, e che nessuno l'ha intesa. Si vede, compatitemi, ch'ella ha più prudenza di voi: non è capace ella di far sapere altrui gl'interessi che passano fra di noi. Basta; custodite le gioje. Verrò a riprenderle uno di questi giorni. Vi riverisco. (parte)(Fabrizio ed Anselmo rimangono un qualche tempo guardandosi, senza parlare; poi Fabrizio parte agitato, senza dir niente, ed Anselmo lo seguita)

SCENA OTTAVA

Nardo e Lisetta che s'incontrano

LIS. Nardo, ho saputo ogni cosa.

NAR. Anch'io tutto.

LIS. Ho tanto fatto, che ho voluto sapere.

NAR. E io, quando mi metto in capo di voler sapere, so certo.

LIS. Possono ben dire, eh, della curiosità! Non c'è rimedio.

NAR. Ma se quando ho curiosità di sapere, pare m'abbia morsicato la tarantola, non istò fermo un momento.

LIS. Dal mormorare si può facilmente astenersi, ma dall'ansietà di sapere, è difficilissimo.

NAR. Certo, perché la curiosità è cosa che dipende dalla natura; ma la mormorazione è un cattivo abito della volontà.

LIS. Ora che si sa la cosa com'è, non si pensa più come si pensava.

NAR. Avevo una pietra da mulino sopra dello stomaco; ora mi pare di essere sollevato.

LIS. Tutto il male dunque proviene dalla gelosia.

NAR. Sospetti che hanno l'uno dell'altro.

LIS. Fa male il padrone a coltivare un'amicizia che può essere scandalosa.

NAR. E la padrona fa peggio a ricever gli uomini di quella sorte, in tempo che suo marito è fuori di casa.

LIS. Non credo che ci sia male.

NAR. Non ci può esser gran bene, per altro.

LIS. Certo che si principia così, e poi si passa a degl'impegni maggiori.

NAR. Dicano quel che vogliono, siamo tutti di carne.

LIS. Il padrone pare effeminato un poco; e se si stufa della moglie...

NAR. Ed ella, colla sua bontà, chi l'assicura di non cadere?

LIS. Ehi, Nardo, la mormorazione...

NAR. Diavolo! ci son caduto senz'avvedermene.

LIS. Che fanno ora, che non domandano in tavola?

NAR. Non lo so certo. Il desinare è all'ordine, e le vivande patiscono.

LIS. Ci giuoco io, che fra marito e moglie vi è qualche nuovo taroccamento.

NAR. Andiamo a sentire?

LIS. Se sapessi con quale pretesto!

NAR. Ci anderò io, col pretesto di domandare se vogliono in tavola.

LIS. Sì, e sappiatemi dire.

NAR. Vi dirò tutto; fra di noi si ha da passare d'accordo.

LIS. Ci predicano l'armonia i padroni; non potranno dire che non si vada fra di noi di concerto.

NAR. Aspettatemi, che ora torno. (parte)

SCENA NONA

Lisetta, poi Isabella e Franceschino

LIS. Nardo è un buonissimo ragazzo; se mi volessi maritare, non lascierei lui per un altro, ma in questo seguito volentieri le insinuazioni della padrona. Non ho mai fatto all'amore, e non mi curo di farlo. Può essere però che un giorno ci pensi per prender stato, e non ridurmi vecchia senza nessuno dal cuore. In tal caso Nardo sarebbe secondo il genio mio; ma quando poi mi fosse marito, vorrei per assoluto ch'egli lasciasse il vizio della curiosità.

ISAB. Lisetta, che vuol dire che oggi non si va a desinare?

FRANC. Per verità, ho fame io pure; e poi, se ho d'andare alla scuola, poco tempo mi resta per desinare.

LIS. Ora è andato Nardo a sentire che cosa dicono. Cioè, che cosa dicono intorno al desinare; non già che ei voglia sentire quello che fra essi parlano.

ISAB. Il signor nonno ci porterà i versi.

FRANC. Io li copierò subito, e darò a voi la parte che vi toccherà dire.

LIS. Li sentirò anch'io, non è egli vero?

ISAB. Li diremo a tutti e chi li vorrà sentire, ci donerà qualche cosa.

LIS. Fatemi un piacere, ditemi la bella canzona della colezione.

FRANC. Non si dice più.

LIS. Perché non la dite più.

ISAB. Non vuole il signor nonno che si dica più?

LIS. Io non so capire il perché.

FRANC. Lo saprà egli il perché; io non ve lo so dire.

LIS. Già ora il signor nonno non c'è; ditemela su, presto presto.

FRANC. Oh, questo poi no. Mi ricordo quello che mi ha insegnato il maestro, che bisogna essere obbedienti, e che l'obbedienza non basta usarla alla presenza di chi comanda, ma in distanza ancora; e bisogna ricordarsi quello che ci è comandato, e farlo sempre, sebbene ci costi del dispiacere.

LIS. (Questo ragazzo mi fa vergognare). (tra sé)

ISAB. Mi ricordo anch'io, che la signora madre m'ha comandato che non mi lasciassi vedere alle finestre che guardano sulla strada, e d'allora in qua non mi ci sono affacciata mai più.

LIS. (Quante se ne ritrovano di queste buone fanciulle? (da sè)

SCENA DECIMA

Nardo e detti.

LIS. E così? (a Nardo con curiosità)

NAR. (Zitto. Vi dirò poi, che non sentano i ragazzi). Ha detto il padrone vecchio, che si dia da desinare ai figliuoli; che essi hanno un affar di premura e mangieranno più tardi. (forte)

LIS. (Ho inteso). (da sé)

FRANC. Oh io, se non ci sono anch'essi, non mangio certo.

ISAB. Nemmeno io, se non viene la signora madre, non desino.

LIS. Patirete voi altri, a star così senza niente. Andate, che Nardo vi darà qualche cosa.

NAR. Io bisogna che vada fuori ora; dategliene voi da desinare. (a Lisetta)

LIS. (Dove vi mandano?) (piano a Nardo)

NAR. (Il vecchio mi manda in fretta a cercare del Signor Raimondo e della signor'Angiola; e per obbligarli a venire, vuole ch'io loro dica, che se non vengono subito, perderanno le gioje). (piano a Lisetta)

LIS. (Come la possono credere questa baia?) (piano a Nardo)

NAR. (Mi ha anche detto, che li faccia dubitare di qualche sequestro). (piano a Lisetta)

LIS. (Eh, la sa lunga il vecchio. Ma perché vuol egli che tutt'e due qui si trovino? Per fare una piazzata, non crederei). (piano a Nardo)

NAR. (Non crederei, sentiremo). (piano a Lisetta)

LIS. (Oh, qui sì abbiamo da sentir tutto). (piano a Nardo)

NAR. (Se credessi di cacciarmi sotto d'un tavolino). (piano a Lisetta)

LIS. (Eh io se credessi di bucare il solaio). (piano a Nardo)

NAR. (Vado, vado. Oh, questa poi me la voglio godere). (parte)

SCENA UNDICESIMA

Franceschino, Isabellae Lisetta

FRANC. Lisetta, che sia accaduto niente di male?

LIS. Oibò; niente.

ISAB. Questo discorrer piano fra voi e Nardo, tiene me ancora in qualche sospetto. Voglio andare dalla signora madre.

LIS. No, no, lasciate, che ci anderò io. Sapete che quando trattano d'interessi, non vogliono che i ragazzi ci sieno.

ISAB. Ditele ch'io non mangio senza di lei.

FRANC. Anch'io dite loro che piuttosto mi contento di andare alla scuola così.

LIS. (Poveri ragazzi, sono d'una gran bontà). (da sé, e parte)

SCENA DODICESIMA

Franceschino ed Isabella

ISAB. Mi dispiace che l'arcolaio è nella camera mia, e si passa per quella della signora madre. Se l'avessi qui, vorrei dipanare.

FRANC. In quel cassettino ci suol essere qualche libro. Voglio vedere, che ci divertiremo un poco. (Va al cassettino di un tavolino)

ISAB. Fossevi almeno qualche libro bello. Il Fior di virtù mi piace.

FRANC. Oh, sapete che c'è nel cassettino?

ISAB. Che cosa?

FRANC. Delle ciambelle, dei zuccherini e dei frutti.

ISAB. Chi le ha messe mai costì quelle buone cose?

FRANC. Il signor nonno, cred'io.

ISAB. Che le abbia messe per noi?

FRANC. Può essere: ne ha sempre di queste galanterie.

ISAB. Ora che ho fame, me le mangierei tutte.

FRANC. Anch'io, ma senza licenza non si toccano.

ISAB. No certo; mi ricordo ancora una volta, che la signora madre, per aver preso una pera, mi ha dato uno schiaffo.

FRANC. Io morirei di fame, più tosto che pigliare da me senza domandare.

ISAB. Ma vorrei che si andasse a tavola. È passata l'ora e di là dell'ora.

FRANC. Lisetta torna. Ci saprà dire.

SCENA TREDICESIMA

Lisetta e detti.

ISAB. E bene, Lisetta, che cosa dicono?

LIS. Dicono, che per obbedienza venghiate tutt'e due subito a desinare.

FRANC. Soli?

LIS. Soli.

FRANC. Pazienza. (parte)

ISAB. Non viene la signora madre?

LIS. Per ora non può venire.

ISAB. (Si mette il grembiule agli occhi singhiozzando, e parte)

LIS. Povera figliuola amorosa! Pur troppo ci son dei guai; ma tutto tutto non ho potuto sentire. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Anselmo e Costanza

ANS. Fatemi il piacere, consegnate a me quei pendenti e quell'anello che vi ha dato la signor'Angiola.

COST. Subito, signore, li vado a prendere. Voleva darli a mio marito, e non li ha voluti.

ANS. Recateli a me, e non pensate altro.

COST. (Va a prender le gioje)

ANS. Ma! gli animi delicati si conturbano per poco. L'irascibile è un appetito che, o molto o poco, da tutti gli uomini si fa sentire. Mi ricordo ancora aver letto che undici sono le passioni che si attribuiscono all'anima: sei appartenenti alla parte concupiscibile, e cinque all'irascibile, le quali sono... se la memoria non mi tradisce, la collera, l'ardire, il timore, la speranza, la disperazione. E quelle della concupiscibile quali sono? Mi pare... sì, queste sono: il piacere, il dolore, il desiderio, l'avversione, l'amore e l'odio. Grazie al cielo, in quest'età posso gloriarmi della mia memoria; e che cosa mi ha condotto ad una buona vecchiaia? Il non dar retta a questi appetiti; lo studio di moderare queste tali passioni; poca irascibile, e quasi niente, quasi niente di concupiscibile.

COST. Ecco le gioje, signore.

ANS. Non dubitate, che l'animo mi dice che tutto anderà bene, e che con vostro marito tornerete ad essere quella che foste il primo dì che vi prese.

COST. Sarebbe poco, se non ci amassimo per l'avvenire se non coll'amore del primo giorno. Noi allora appena ci conoscevamo, e l'amor nostro era più una virtuosa obbedienza, che una tenera inclinazione. Andò crescendo l'affetto nostro di giorno in giorno. Conoscendoci bene, ci credemmo degni d'amore, e questi era giunto al sommo della contentezza. Ma il cielo non vuol felici in terra; e quando le cose umane sono giunte all'estremo del male o del bene, vuole il destino che si rallentino, forse perché il cuor nostro non è capace di più, e non ha forza per trattenere fra i limiti il corso delle sue passioni.

ANS. Nuora mia carissima, voi parlate assai saggiamente, e pare impossibile che con tali princìpi possiate poi lasciarvi abbattere sino a tal segno.

COST. Tutto soffrirò, signore, ma non la disistima di mio marito. Ch'ei mi rimproveri d'avere arbitrato dei cento scudi, d'avermi arrogato la libertà di fare un'opera, creduta buona, senza il di lui consiglio, gli do ragione, mi pento d'averlo fatto, e non cesserò mai di domandargli perdono; ma che l'aver io ad onesto fine ricevuta nella mia camera la visita d'un uomo, possa farlo sospettare della delicatezza dell'onor mio, è un'offesa grandissima ch'egli mi fa, è un torto che fa a se medesimo, dopo l'essersi chiamato per tanti anni della mia compagnia contentissimo; ed è un sospetto di tal conseguenza, che terrà lui sempre inquieto, e produrrà nell'animo mio la più dolorosa disperazione.

ANS. No, signora Costanza, non dite così, che così non ha da essere, e così non sarà. Mio figlio potrebbe dire lo stesso di voi, che avete sospettato della sua buona fede, per aver egli ricevuto nella sua camera quella donna. Vi siete ambidue innanzi di me chiariti. L'ha egli ricevuta per civiltà, l'avete fatto voi per una spezie di convenienza. Anzi, per dirvela qui fra voi e me che nessuno ci sente, dal discorso vostro sincero e leale si raccoglie che voi vi siete lasciata persuadere a ricevere il signor Raimondo per un poco di curiosità, prevenuta da un falso sospetto che la di lui moglie vi dovesse dar ombra; e voi per questa parte, scusatemi, siete stata la prima ad offendere il caro vostro marito, che non è capace, no, di scordarsi di voi, del dover suo, della sua coscienza, per le frascherie del mondo. Orsù, tutto dee essere terminato. Voi avete depositato nelle mie mani le gioje. Farà lo stesso Fabrizio, che mi ha promesso di farlo, e qui me le recherà egli medesimo... Eccolo, che lo vedo venire. Rasserenatevi nuora, rasserenatevi per carità.

COST. Signore, che mi si tolga la vita, ma non l'amore di mio marito. (piangendo)

ANS. Via, per amore del cielo, non vi fate scorgere; non date ombra ai vostri figliuoli.

COST. Non mi ricordo d'aver figliuoli ora; mi preme dell'amore di mio marito.

ANS. (Oh amor coniugale, sei pur invidiabile, quando sei di quel buono!) (da sé)

SCENA QUINDICESIMA

Fabrizio colle gioje, e detti.

FABR. Eccovi servito, signore. Queste sono le gioje datemi dal signor Raimondo.

ANS. Mi avete portato altro?

FABR. Che altro vi doveva portare?

ANS. Che altro? Quello che voi solo dar mi potete; e nell'età in cui sono, mi abbisogna assai più del pane. Caro figlio, la pace, la tranquillità, l'amore.

FABR. Cose tutte, che dal canto mio ho procurato sempre di custodire in casa gelosamente; e la mia mala fortuna me le rapisce.

ANS. No, non è vero...

COST. Se son io la vostra mala fortuna, spero che il cielo ve ne libererà quanto prima.

ANS. Non occorre che così diciate... (a Costanza)

FABR. Avreste voi cuore d'abbandonarmi?

ANS. No, non è possibile. (a Fabrizio)

COST. Farà ch'io vi abbandoni la morte, che non mi pare da me lontana.

ANS. Via, dico.

FABR. Può essere ch'io vi prevenga.

ANS. Sei pazzo?

COST. Son certa però, che il mio cuore non ha niente da rimproverarmi.

ANS. Verissimo, che tu sia benedetta.

FABR. Né vi sarà chi possa imputare a me un pensiero d'infedeltà.

ANS. Metterei per te le mani nel fuoco.

COST. I miei difetti meritano molto peggio.

ANS. Quai difetti?

FABR. Per i miei, per i miei si patisce.

ANS. Agnello. (a Fabrizio)Colomba. (a Costanza)Anime belle, innocenti, non vi affliggete più!

COST. Ah! (sospirando)

FABR. Pazienza! (sospirando)

ANS. Non mi fate piangere, per carità.

SCENA SEDICESIMA

Nardo e detti.

NAR. Li ho trovati.

ANS. Dove son eglino?

NAR. Saliscono ora le scale. Li ho trovati in casa loro che quasi venivano alle mani; e quando mi hanno sentito dir delle gioje, facevano a gara ciaschedun di loro per venir primo. Il marito prese la scala più presto; la moglie, per timore la prevenisse, gli tirò dietro uno scanno, lo fe' cadere, si fece male, e intanto avanzò ella il passo. Zoppicando però ei la raggiunse, e sono qui tutt'e due colla miglior pace di questo mondo.

ANS. Che vengano innanzi. (Nardo parte)

COST. Chi signore? (ad Anselmo)

ANS. La signor'Angiola e il signor Raimondo.

COST. Da noi?

ANS. Zitto, zitto, lasciate operare a me.

SCENA DICIASSETTESIMA

Angiola, Raimondoe detti

ANG. Che novità c'è della roba mia?

RAIM. Signore, io sono il padrone di casa, e spetta a me il dominio delle cose...

ANS. Favorite acchetarvi, signori miei, che qui non siete venuti per mettere a soqquadro la casa nostra. Ecco le gioje, che voi e voi date avete in ipoteca a mio figlio, a mia nuora. Presso di loro non devono e non possono rimaner più. Sono passate nelle mie mani, e dalle mie, salvate le debite convenienze, passeranno alle vostre. Quali esser devono le convenienze che da noi si esigono? I cento scudi? I dugento scudi? No, no, e poi no. Queste maledette gioje hanno seco la mala peste, portatele vosco, non le vogliamo più.

RAIM. e ANG. (Allungano tutt'e due le mani per prendere le gioje)

ANS. Adagio un poco: il contagio vi fa poca paura, per quel ch'io vedo. La prima convenienza. A chi di voi s'avrebbono a consegnare?

ANG. Sono di ragione della mia dote.

RAIM. Io sono marito. Il padrone son io.

ANG. Non s'è mai sentito, che possa il marito disporre delle gioje della consorte.

RAIM. Sì signora, si è sentito e si sentirà.

ANG. Spettano a me, dico.

RAIM. A me sostengo io che spettano.

ANS. Non aspetteranno a nessuno, se fra di voi non vi accomodate.

ANG. Mi neghereste i pendenti e l'anello da me in questa casa portati?

RAIM. E non avrò io il gioiello? Non averò i spilloni?

ANS. Tutto averete, accomodati che siate fra di voi due.

RAIM. Per me mi contento della parte mia.

ANG. E io sarò cheta colla mia porzione.

ANS. Sia ringraziato il cielo! A ciascheduno la quota sua. Eccovi soddisfatti. (mostra le gioje)

RAIM. e ANG. (Allungano le mani nuovamente)

ANS. Adagio, che non sono terminate le convenienze. Ove sono i cento scudi? ove sono i dugento?

RAIM. Che occorreva che ci mandaste a chiamare?

ANG. Ci avete fatto venir qui per vederle?

COST. Caro signor suocero, liberatemi da un tal fastidio.

FABR. Io non ne posso più, signore. (ad Anselmo)

ANS. Flemma anche un poco. (a Costanza e Fabrizio)Non si chiedono da voi né i cento, né i dugento scudi: ma cosa che a voi costa meno, e per noi può valere assai più. Volete le gioje vostre? (ad Angiola)

ANG. Se me le darete, le prenderò.

ANS. Voi le volete? (a Raimondo)

RAIM. Perché no, signore, nello stato in cui sono?...

ANS. Rispondetemi a tuono. La vostra sincerità può essere il prezzo del ricupero delle gioje vostre. Signor'Angiola, che faceste, che diceste voi nella camera di mio figliuolo?

ANG. So che volete dire. Perdonatemi, signor Fabrizio se trasportata dalla miseria, ho usato con voi dell'arte per ricuperar le mie gioje. Consolatevi voi, signora Costanza, d'aver un marito il più savio, il più amoroso del mondo; e perdonatemi, se per un po' di spirito di vendetta, per aver voi manifestato lo sborso fattomi dei cento scudi, ho tentato l'animo dello sposo vostro: cosa che ora m'empie di confusione, e mi sarà di perpetuo rimorso al cuore.

COST. Credetemi, l'ho palesato senza intenzione di farlo.

FABR. E voi, Costanza mia, avete potuto di me pensare?...

COST. E voi, caro consorte, avete giudicato che il signor Raimondo...

RAIM. No, amico, non fate così gran torto alla moglie vostra. Ella mi ha ricevuto per la insistenza mia di voler seco discorrere sulle gioje affidatele da mia consorte. Confesso aver fatto un po' di esperienza, così per semplice curiosità, sul carattere del di lei cuore; e l'ho trovata onesta a tal segno, che a una parola sola equivoca e sospettosa partì sollecita, e si scordò fino la civiltà per la delicatezza d'onore.

FABR. Queste curiosità non si cavano nelle case de' galantuomini... (a Raimondo)

ANS. Basta così. Siete voi persuaso della probità illibatissima di vostra moglie? (a Fabrizio)

FABR. Ah sì, signore, mi pento de' miei temerari sospetti.

ANS. E voi siete contenta del marito vostro? (a Costanza)

COST. Così egli perdoni le debolezze mie, com'io son certa dell'amor suo.

ANS. Lode al cielo. Amici, ecco il tempo di ricuperare le gioje. (fa mostra di volerle dare)

ANG. e RAIM. (Allungano le mani per pigliarle)

ANS. Piano ancora che terminate non sono le convenienze. Quello che detto ci avete, è il prezzo della ricupera. Ci vuol l'interesse ancora: e l'interesse sia una promissione fortissima di favorirci per grazia di non venire né l'uno, né l'altro, mai più da noi.

ANG. Sì signore, vi servirò.

RAIM. Giustamente; ve lo prometto.

ANS. Capisco che le indigenze vostre v'inducono a sperare d'averle senza il contante; e qualche merito si è acquistata la confessione vostra e la vostra rassegnazione. Fabrizio, lasciatemi spender bene dugento scudi. Costanza, cento scudi li avanzate da me. Amici, eccovi le gioje vostre. (dà i pendenti e l'anello ad Angiola, e le altre gioje a Raimondo, i quali se le prendono avidamente)Se qualche piacere vi reca un atto prodotto dall'amor mio verso la mia famiglia, il quale torna in profitto vostro, vi chiedo ora una grazia. (ad Angiola e Raimondo)

RAIM. Comandate, signore.

ANG. Che non farei per un uomo della vostra bontà?

ANS. Prima di escire di questa casa, pacificatevi fra di voi; trattatevi con amore; e fatemi sperare che l'esempio nostro vi faccia un po' più conoscere i doveri dello stato coniugale, e della vita onesta e civile.

ANG. Caro marito, imparate dal signor Anselmo, dal signor Fabrizio.

RAIM. Cercate voi d'imitare la signora Costanza.

ANS. A voi, cari, non ci sarà bisogno d'insinuare... (a Costanza e Fabrizio)

COST. Caro marito, compatitemi.

FABR. Consorte mia, vi domando perdono. (s'abbracciano piangendo)

ANS. Fate lo stesso voi altri ancora. (ad Angiola e Raimondo)

RAIM. Prendete, sposa, un abbraccio. (ad Angiola)

ANG. Sì, marito; con tutto il cuore. (Son tanti mesi che non è passato fra noi un simile complimento). (da sé)

ANS. Oimè! non posso più. A desinare. Chi è di là?

SCENA ULTIMA

Nardo e Lisetta subito, da due portiere

LIS. e NAR. Signore.

ANS. Ah disgraziati, dietro la portiera, eh? Moderate la vostra curiosità, altrimenti sarete cacciati via.

LIS. Mai più, signore.

NAR. Mai più.

ANS. Andate in pace voi altri, che il cielo ve la conceda. (ad Angiola e Raimondo)E noi andiamoci a reficiare più colla quiete d'animo che col cibo. Andiamoci a consolare coi cari nostri figliuoli.

COST. Sia ringraziato il cielo, che tanto bene ci dona. Parmi esser rinata; torno da morte a vita. E voi, spettatori, fate plauso al buon esempio che vi si porge con una Buona Famiglia.

Fine della Commedia.