La buona madre

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Carlo Goldoni

La buona madre


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TITOLO: La buona madre AUTORE: Goldoni, Carlo TRADUTTORE: CURATORE: Ortolani NOTE:

DIRITTI D'AUTORE: no


LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza

specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/

"Tutte le opere"

di Carlo Goldoni;

a cura di Giuseppe Ortolani;

volume 7, seconda edizione;

collezione: I classici Mondadori;

A. Mondadori editore;

Milano, 1955

TRATTO DA:

CODICE ISBN: informazione non disponibile 1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 11 gennaio 2008

INDICE DI AFFIDABILITA'

': 1

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REVISIONE: Vittorio Bertolini,

PUBBLICATO DA: Claudio Paganelli,

ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO: Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

vittoriobertolini@inwind.it paganelli@mclink.it

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Carlo Goldoni

LA BUONA MADRE

Commedia veneziana di tre atti in prosa rappresentata per la prima volta in Venezia nel Carnovale dell'Anno 1761.

A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR STEFANO GUERRA

So che V. E. s'informa spesso di me, e dolcemente si lagna che io non le scrivo. Le sue doglianze provengono da quell'amore che ella benignamente mi ha sempre mai dimostrato, ed arrossisco di non avergli date maggiori prove della mia rispettosa riconoscenza. Prendo ora la penna in mano per iscriverle, per ringraziarla della bontà sua generosa, e per assicurarla della costante ossequiosa mia servitù; ma non so dove addrizzar la mia lettera. So che il viaggiare è in lei la passione predominante, non so dov'ella presente mente si trovi. Prendo per ciò il partito di stampar questo foglio, e di metterlo in fronte ad una Commedia che ho l'onore di dedicarle, sicuro che essendo Vostra Eccellenza associata alla mia Edizione, il Tomo le perverrà da per tutto. Io mi lusingo ancora di rivederla in Francia. Me lo ha ella promesso di qui partendo; e merita bene questo Paese, che un viaggiatore lo veda, lo riveda, e lo preferisca.

Ella ha veduto tutta l'Italia, ha fatto due volte il viaggio della Germania. È venuta in Francia, è passata in Londra, e prima di ritornare alla Patria, non ha potuto a meno di non ripassar a Parigi, ed ha preferito questo delizioso soggiorno a quelle Corti dov'ella fu sì teneramente accolta, e sì magnificamente trattata. Parigi, per chi ha danari, è il più bel Paese del Mondo. Per goderselo, bisogna potervi menare la vita ch'ella vi ha menato. Un buon appartamento, degli abiti da comparire, dei pizzi, dei diamanti, e dei luigi da spendere. Andar la mattina per la Città in abito di confidenza. Mettersi a mezzogiorno in parata, e far le visite di complimento. Andar agl'inviti, o dar da pranzo in casa. Andar il dopo pranzo ai passeggi, o ai Teatri. Passar la sera in Compagnie, o nobili, o geniali, o di confidenza.

Chi potesse leggere il diario ch'ella fa esattamente de' di lei viaggia, vedrebbe che la vita che si mena a Parigi, è la miglior vita del Mondo. Abbiamo visitato insieme quasi tutte le delizie Reali. Ma ne ne restano ancora a vedersi.

Venga a compir l'opera, e ne sarà ancor più contenta. Se per ragioni sue, o del rango ch'ella occupa, non può sì presto riprendere un nuovo viaggio, vorrei almeno ch'ella destasse ne' suoi concittadini il desio di viaggiare. Niente più contribuisce a formare lo spirito, ed a migliorare la società del proprio Paese. Basta non imitare il Cavaliere Ernold, ma osservare i precetti di Milord Bonfil

Vi è il buono, e vi è il ridicolo dappertutto ma il ridicolo di Parigi non è certamente quello che si crede in Italia. Bisogna vedere per assicurarsi della verità. In tre anni ch'io sono in Francia, non mi è ancora riuscito di scoprire un Petit Maître, che si accosti all'immagine che se ne formano gl'Italiani. O il carattere della Nazione è cangiato, o dicono il falso tutti quelli che ne hanno scritto e parlato. Le caricature in Francia sono in oggi sì delicate, che bisogna avere tutta l'acutezza di spirito per ravvisarle.

L'uniformità è quella che domina in questo Paese. Tutti cercano d'imitar gli altri, e quello che sarebbe portato a qualche caricatura, si maschera, e si fa forza per comparire uniforme. Malgrado 1o studio dell'unformità, traspira un poco il carattere particolare, ma la caricatura divien sì leggiera, che sfugge assai facilmente, agli occhi del forestiere. Vostra Eccellenza si ricorderà che abbiamo fatte insieme queste medesime osservazioni; ma s'ella ritorna qui, vedrà che ne ho raccolte ancor delle migliori, dopo che ho trasportato il mio soggiorno da Parigi a Versailles. La Corte è il centro della Nazione dove l'aria usa più di cautela, ma dove si sviluppano meglio le verità. Io ho l'onore di vivere fra Cortigiani, ma non saprò mai essere Cortigiano; amo la sincerità, l'ho ereditata dal mio Paese, la custodisco con gelosia, come custodisco gelosamente quel titolo, con cui ho l'onore di Sottoscrivermi ossequiosamente.

Di V.E.

Parigi li Febbraro 1766.

Umiliss. Devot. Obblig. Serv. Carlo Goldoni


L'AUTORE A CHI LEGGE

Io ho sempre compatito e compianto la gioventù mal condotta dall'inclinazione o dal mal esempio, poiché sono stato giovine anch'io, non libertino, ma incauto e condescendente. Non ho mai però compatito, anzi ho sempre detestato e abborrito i Genitori disattenti verso de' loro Figliuoli, e specialmente le Madri che per soverchio amore tradiscono la loro prole. Non dirò che il nostro Secolo abbondi più de' passati di tali femmine sconsigliate, poiché credo che il Mondo, poco più poco meno, sia sempre stato lo stesso; e lo dimostrano le Commedie antiche, le quali in ogni tempo hanno dipinto i costumi delle nazioni. Veggendo io non pertanto, che ai nostri giorni evvi per lo meno lo stesso male e lo stesso bisogno di correzione, non ho mancato di contribuire al rimedio quanto ho potuto col Padre di Famiglia, colla Putta onorata, colla Buona Famiglia, e con altre Commedie, nelle quali ho vivamente toccato questo punto essenziale, utile alla Società e alle Famiglie. Per maggiormente inveire contro la mala educazion delle Madri, e per uniformarmi allo stile degli Autori antichi e moderni, avrei dovuto formare una Commedia intitolata la Cattiva Madre, affinché dal ridicolo e dall'odiosità di tal carattere ne derivasse la correzione di quelle che sono di cotal numero. Ma io non amo di esporre il Protagonista odioso, e meno ancora scandaloso, onde ho pensato di dar al Pubblico l'esempio della Buona Madre, sperando che un tale argomento vaglia a produrre lo stesso effetto, facendo arrossir le cattive senza offendere la modestia e la delicatezza de' spettatori.

Non ho però lasciato di porre in confronto la cattiva Madre, come episodio; e in questa maniera vedesi il vizio punito, e la virtù trionfante. La Commedia è riuscita bene. Ha avuto dell'applauso, e molte rappresentazioni; cosa che mi ha consolato, e sempre più mi conferma nel credere aver torto coloro che pensano, come gli antichi, che il solo vizio sia l'argomento delle Commedie.

Personaggi

BARBARA vedova, e buona madre.

NICOLETTO figliuolo di Barbara.

GIACOMINA figlia di Barbara.

LODOVICA.

DANIELA figlia di Lodovica.

MARGARITA serva di Barbara.

AGNESE vedova, amica di Barbara.

ROCCO merciaio.

LUNARDO compare di Barbara.

Un giovane del merciaio, che non parla.

La Scena si rappresenta in Venezia, parte in casa di Barbara, e parte in casa di Lodovica.

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera in casa della signora Barbara.

Barbara stirando delle camiscie ed altre cose bianche sottili, e Giacomina che lavora;

poi Margarita

BARB. Margarita. (chiamando)

MARG. Siora. (di dentro)

BARB. Vardè, se quel altro fero xe caldo, portèmelo.

MARG. Siora sì, deboto[1]. (di dentro)

BARB. De diana[2]! co sto fredo i feri se giazza subito.

GIAC. Mi gh'ho le man inganfie[3] che me scampa l'ago dai déi.

BARB. Scaldèvele, cara fia.

GIAC. Come vorla che fazza?

BARB. No gh'avè scaldapìe?

GIAC. Siora sì, ma se me scaldo le man, no laoro, e per sta sera vorave fenir la capetta[4] a sti maneghetti.

BARB. Sì, sì, fia mia, deghe drio[5]. Se farè presto, se farè pulito, sior Rocco ve darà da laorar, e vadagnerè dei bezzetti, e ve li metterè intorno.

GIAC. Gh'ho tanta voggia de una traversa[6] d'indiana, de quele bele.

BARB. Laorè [7] che la gh'averè.

GIAC. Se sior Rocco me la volesse dar in credenza, sconterave col mio laorier.

BARB. Cara fia, sto tor la roba dai marzeri[8]in credenza, no torna conto. I dà la pezo roba che i gh'ha in bottega, e i vol quel che i vol, e co s'ha scomenzà una volta, no se se despétola più[9], se xe sempre al de sotto, se gh'ha sempre da dar; e no i xe mai contenti dei laorieri[10] che se ghe fa. No, no, fia mia, xe meggio far come che digo mi. Se suna i bezzi[11], se va in Marzaria[12], se varda, se cerne[13], se dise el fatto sóo, se tira[14] più che se pol, se ghe dà i so bezzi, se paga, e bondì sioria. Margarita, me porteu sto fero? (chiamando)

GIAC. La lassa, che anderò mi, che me desgiazzerò un pochetto le man.

BARB. Sì, cara fia, disèghe che la se destriga[15].

GIAC. Da quela via[16] me torò un pochetto de fogo. (s'alza, prende lo scaldapiedi, e parte)

SCENA SECONDA

Nicoletto e Barbara.

NICOL. Siora madre, me dala una camisa netta?

BARB. Oh caro, no ve l'oggio dada doménega?

NICOL. La varda, la xe sporca che la fa stómego[17].

BARB. E vu, co vegnì a casa, cavèvela, e non andè a fregar[18] i taolini coi maneghetti. La biancaria costa bezzi, e gh'è più dì che lugànega[19], e ogni lavada una fruada[20], e co la tela scomenza a andar, la va, fio mio, co fa la lesca impizzada. Stago tutto el zorno co l'ago in man a tegnirve suso quele quattro strazze de camise fine, che debotto no ghe n'è più filo, e ve le doveressi salvar per la festa, e no andar coi sbrìndoli[21] tuto el zorno, specialmente col tabarro de pano; quei pochi de maneghetti i se strapazza, i se inscartozza, e in t'un'ora che i portè, no i xe più da véder.

NICOL. Cara ela, la me daga una camisa netta. (a Barbara, pregandola)

BARB. Via, aspettè che fenissa de destirar, ve darò sti manegotti[22].

NICOL. Mi no vôi manegotti, mi no vôi camisette[23].

BARB. Dìsela dasseno, patron?

NICOL. Mi no vôi portar camisette, e no vôi che nissun me diga: sior mezza camisa[24].

BARB. Chi vede? Chi ve vien a vardar?

NICOL. No se pol saver i accidenti.

BARB. Oh certo! avèu d'andar a zogar al balon?

NICOL. De diana! gnanca se fusse....

BARB. Manco chiaccole, che son stuffa. In tanta malora[25], me porteu sto fero? (alla scena, con collera)

SCENA TERZA

Margarita e detti.

MARG. Son qua, son qua. Cara ela, nol giera caldo abbastanza.

BARB. Gnente, no i pensa gnente a sto mondo. I crede che la roba me vegna drento per i balconi, e

sì el gh'ha i ani de la discrezion. Disdott'ani sul cesto[26] el gh'ha, e nol pensa a gnente.

(stirando)

MARG. (Cossa xe stà?) (piano a Nicoletto)

NICOL. Gnente, perché gh'ho domandà una camisa, la va in colera in sta maniera. (a Margarita)

MARG. (No salo[27]? La xe cussì la parona, la va in colera facilmente; ma la xe de bon cuor, la ghe la darà). (a Nicoletto)

BARB. Quanto xe che no andè da vostro sior sàntolo[28]? (stirando)

NICOL. No so, no m'arecordo.

BARB. Andèghe, e raccomandeve. L'ha promesso de logarve[29], de metterve in t'un mezzà[30]; ma co no se ghe va, no i se lo recorda. (stirando)

NICOL. Vorla che vaga co sta camisa sporca?

BARB. Aspettè, adesso ve metterè i manegotti.

NICOL. Sia malignazo[31]! xeli fini almanco?

BARB. Me par de sì. Ho desfatto quattro camise de renso del poveretto de vostro sior padre, e v'ho cavà tre camisette e tre pera de manegotti, che no i gh'ha una macula[32] al mondo. Vardè, i gh'ha le so cordele, i se liga pulito; chi ve vien a véder cossa che gh'avè sotto la velada[33]?

MARG. Se i gh'avesse mi, me parerave d'aver una zoggia.

NICOL. (Cossa[34] che ghe li trarave volentiera in tel muso!) (da sé intendendo di Margarita) Se vado da sior sàntolo, me metto el tabarro bon.

BARB. Ghe l'avèu scovolà[35] el tabarro? (a Margarita)

MARG. Cara ela non ho avù tempo gnancora.

BARB. Mo za, co no fazzo mi, no gh'è pericolo che nissun fazza. Vestive, vestive, che anderò mi a scovolarlo. (a Nicoletto)

MARG. La lassa che anderò mi. (a Barbara)

BARB. E via, cara vu, che no fe gnente che staga ben. Anca l'altro zorno l'avè scovolà e po mi l'ho vardà el gh'aveva la lèa[36] tant'alta sul colarin. (a Margarita) Mo abbiè un poco d'avvertenza, caro fio, no dezzipè[37] la roba cussì. Nettèvelo sto sacchetto[38], se ghe cazza[39] drento la polvere in tel colarin, che no la vol andar via (a Nicoletto); e vu, col vien a casa, nettèlo[40]subito quel tabarro, no lo mettè via cussì che la polvere se ghe incatrama[41]. Eh, co no se fa le cosse de cuor! (a Margarita) Bisognerave che fusse per tuto, che fasse tuto, che gh'avesse cento man, cento teste; no so gnente, no se fa gnente, nissun fa gnente. (parte)

SCENA QUARTA

Nicoletto e Margarita.

MARG. E sì me par de no star de bando[42].

NICOL. Oe Margarita.

MARG. Sior.

NICOL. Me faressi un servizio[43]?

MARG. Che possa.

NICOL. Cara vu, no me disè de no.

MARG. Se nol me dise cossa che el vol...

NICOL. Sentì; imprestème un ducato.

MARG. Mi? dove gh'oggio i bezzi?

NICOL. Zitto, che siora madre no senta. Cara vu, imprestèmelo.

MARG. Debotto el me farave dir[44]. I gh'ho taccai al cesto i ducati[45].

NICOL. Sia malignazo, no se pol gnanca aver un servizio.

MARG. Perché no ghe lo domandelo a so siora madre?

NICOL. Perché, se ghe lo domando, no la me lo darà.

MARG. Basta che el ghe diga in cossa che l'ha da spender.

NICOL. Se ghe lo digo, no la vorà.

MARG. Cossa ghe ne voràvelo far?

NICOL. Me voggio comprar un per de scapini[46].

MARG. No gh'alo un bon per de scarpe?

NICOL. Siora no; voggio un per de scapini.

MARG. I scapini, la camisa netta, e el tabarro da festa, ho paura de sì mi, che sia vero quel che me xe stà dito.

NICOL. Cossa ve xe stà dito?

MARG. Gnente, gnente.

NICOL. Via, cossa ve xe stà dito?

MARG. Eh puto caro, se no gh'averè giudizio...

NICOL. Cossa voressi dir?

MARG. Disè: cossa andèu[47] a far in cale de l'Oca[48]?

NICOL. Mi in cale de l'Oca!

MARG. Poverazzo[49]! vardè[50] el vien rosso.

NICOL. Chi v'ha dito de cale de l'Oca?

MARG. Me xe stà dito.

NICOL. Siora madre sala gnente?

MARG. Poveretto vu, se la'l savesse.

NICOL. Vardè vedè, no me tradì, no me sassinè.

MARG. Cossa andèu a far da quela puta[51]?

NICOL. Mi? gnente.

MARG. Oh fio caro[52], in quela casa no se ghe va per gnente. La cognosso quela puta. Mi no stimo la puta, stimo la mare. La xe un boccon de mare! e la gh'aveva altre tre fie, e co la so polegana[53]la se le ha destrigae[54]. No vorave che a vu la ve petasse la quarta[55].

NICOL. Oh, a mi no gh'è pericolo.

MARG. Oh sì, sè furbo. (con ironia)

NICOL. Credeu che sia un pampalugo[56]?

MARG. I ghe l'ha fatta, fio mio, a de la zente che ve pol menar a scuola vu, e diese de la vostra sorte.

NICOL. Cossa volèu che i me fazza?

MARG. I ve la farà sposar.

NICOL. Oh giusto! (maravigliandosi)

MARG. Varè che casi[57]!

NICOL. No la torave gnanca[58]...

MARG. Gnanca, se i ve dasse una bona dota.

NICOL. No la ghe n'ha miga dota.

MARG. A mi me la contè?

NICOL. E no la xe gnanca tanto bela.

MARG. Oh, no se pol mo gnanca dir che la sia brutta.

NICOL. No, no digo che la sia brutta.

MARG. La gh'ha un bel sesto[59].

NICOL. Oh sì, po, la gh'ha un bellissimo sesto.

MARG. E la parla pulito.

NICOL. De diana, co la parla, la me fa restar incantà.

MARG. La gh'ha el so merito.

NICOL. Sì, che i diga quel che i vol, la xe una puta che gh'ha del merito.

MARG. Oe, compare; v'ho tirà zo pulito mi[60].

NICOL. Cossa? cossa m'avèu tirà zoso? de cossa?

MARG. De gnente. (con ironia)

NICOL. Me fe una rabbia.

MARG. Ma no vegnì rosso.

NICOL. Vegno rosso seguro, vegno rosso. Me fe rabbia. No volè che vegna rosso?

MARG. Per cossa ghe andèu da quela puta?

NICOL. Per compagnia, ghe vago.

MARG. Per compagnia de chi?

NICOL. Vedèu? Bisogna che sappiè, che sior Gasparo Latughetta... El cognossè sior Gasparo Latughetta.

MARG. Sì, lo cognosso.

NICOL. Vedèu? Sior Gasparo el xe uno che pratica, che cognosse; el m'ha menà elo. Da resto, mi? figurève. Gnanca per insonio[61].

MARG. Sior Gasparo xe un zovene che gh'ha el modo, e se el vol, el la pol sposar.

 NICOL. Sì nevvero? El la pol sposar?

MARG. Seguro. El gh'ha de l'intrada. El gh'ha negozio impiantà.

NICOL. E mi son zovene, no gh'ho impiego; mi no la posso sposar. (mortificato)

MARG. Ma quela zente, fio mio, la se tacca dove che la pol.

NICOL. Credemio che sior Gasparo la sposa?

MARG. Vu saverè meggio de mi.

NICOL. Mi no crederave che el la sposasse. (agitato)

MARG. No nevvero?

NICOL. Mi crederave de no.

MARG. Ve despiaserave che el la sposasse?

NICOL. Caspita, sè dretta, patrona[62]. Ma gnanca mi no son storto[63]. V'ho capio, voressi che cascasse zo col brenton[64]. Ma no casco, no casco, perché no ghe penso, perché no la xe per mi, perché vago là... cussì per cerimonia, per compagnia. Da resto... figurève... gnanca per insonio.

MARG. Gnanca per imaginazion. (con ironia)

NICOL. Oh, me deu sto ducato?

MARG. Sior sì! subito. (con ironia) No lo gh'ho, ma gnanca se lo gh'avesse, ve lo daria.

NICOL. Ve n'indormo[65].

MARG. Grazie.

NICOL. Sentì, savè, no ghe disè gnente a mia mare, che per diana de dia... (in aria di minaccia)

MARG. Cossa me fareu?

NICOL. Oe, vedèu sto cortelo? (le fa vedere un coltello da saccoccia)

MARG. El corteletto, patron?

NICOL. Siora sì, cossa semio? putei? Me l'ha dà sior Gasparo, e lo so portar, e lo voggio portar, e se parlerè, cospetto, cospetto, cospetto...

MARG. Bravo! (con ironia)

NICOL. No me volè dar sto ducato?

MARG. No ve vôi dar gnente. (in collera)

NICOL. Sieu maledetta vu, e chi ve calza[66]. (parte)

SCENA QUINTA

Margarita sola.

MARG. Maledetto ti, e chi te imbocca. Se pol dar, che giandussa[67]! el se arleva un bel fior de vertù, che la vaga là la parona, che la gh'ha un bel fio[68]. Poverazza, la strussia, la ranca[69] per i so fioi, e po, tolè suso[70], la se arleva sta bela zoggia. Ma i puti, co i se sa zolar le braghesse[71], i va fora de casa, i pratica, i sente, i fa, e i dise, e corèghe drio[72]. Oh quanto che xe meggio aver de le pute!... Vela qua per diana[73]. No so se ghe l'abbia da dir: se parlo, no vorave far mal; se taso, no vorave far pezo.

SCENA SESTA

Barbara e detta.

BARB. Via, cossa steu qua co una man sora l'altra[74]? De là no avè gnancora forbìo[75].

MARG. Vago, vago; ma ghe voleva dir una cossa.

BARB. Via, disèmela. (siede dove era Giacomina, e lavora nei maneghetti)

MARG. Xelo andà via sior Nicoletto?

BARB. No, el xe de là che el se veste. So sorela l'agiuta. Poverazza, che ghe fazza quattro ponti in sti maneghetti.

MARG. Eh, ela almanco no la perde tempo.

BARB. Imparè, no se sta de bando[76]. Via, cossa me volevi dir?

MARG. Eh ghe lo dirò, gh'è tempo. La lassa che fenissa de destrigar[77]. (No vorave che el diavolo fasse, che quela peste de puto vegnisse a ascoltar).

BARB. Se la xe cossa de premura, disèla.

MARG. Ghe dirò... l'aspetta che varda...

BARB. I batte...

MARG. Oh sì dasseno, i batte: vago a véder chi è; ghe dirò po, ghe dirò (manco mal, gh'ho gusto). (parte)

SCENA SETTIMA

Barbara, poi Margarita.

BARB. No vorave che custia me domandasse la so licenzia, o che la se maridasse, o che qualchedun la mettesse suso[78] per aver qualche do ducati a l'ano de più. Mi no posso véder pezo quanto aver da muar[79], e véderme in casa ogni terzo dì musi novi. Questa no la xe una cima de dona, ma almanco, quel che la fa, la fa volentiera. E quel che me piase, la xe zovene, ma no la xe moroseta. Gh'ho quel puto che el xe una pua[80], poverazzo, e se ghe fusse una massèra barona[81], la me lo poderave precipitar. Cara la mia zoggia, el xe inocente co fa una colomba. Sièstu benedetto. Lassa, lassa, fio mio, che se to mare vive, la farà tanto, che no la te lasserà senza un tocco de pan[82].

MARG. Sala chi xe?

BARB. Chi?

MARG. Sior'Agnese.

BARB. Gh'avèu tirà[83]?

MARG. Siora sì.

BARB. Ben; che la resta servida. Tolè, tolè, portèghe de là sti maneghetti a mia fia, disèghe che no la vegna, se no la chiamo.

MARG. Perché no vorla che sior'Agnese la veda?

BARB. No stè a cercar altro; a vu no v'ho da render sti conti.

MARG. Via, via, la me compatissa.

BARB. Xelo andà via Nicoletto?

MARG. Siora sì.

BARB. El sarà andà da so sàntolo.

MARG. Eh siora sì, da so sàntola. (con ironia, e caricata)

BARB. Sàntola? So sàntolo nol xe miga maridà.

MARG. Eh lo so.

BARB. Cossa diseu donca?

MARG. La me xe scampada[84].

BARB. Oh, no me stè a metter pulesi in testa[85].

MARG. Oh giusto. Vela qua sior'Agnese.

BARB. Se savè qualcossa, parlè.

MARG. No dasseno gnente. (Per adesso no ghe voggio dar sto travaggio[86]). (parte)

SCENA OTTAVA

Barbara, poi Agnese.

BARB. Ste strambe[87] le parla, e no le sa quel che le se diga. La m'aveva fatto vegnir el mio caldo[88]. Ma no gh'è pericolo. So chi el xe Nicoletto.

AGN. Padrona, siora Barbara.

BARB. Sior'Agnese, padrona. Che miracolo?

AGN. Cossa dìsela? Son vegnua a darghe incomodo.

BARB. De diana! la recevo per una finezza.

AGN. Gh'aveva proprio voggia de véderla.

BARB. Anca mi dasseno[89]. Ma mi, la sa che non vago mai fora de la porta.

AGN. Eh, nualtre povere vedoe avemo fenio.

BARB. Oh cara sior'Agnese, ela no s'ha da metter co mi. Ela no la gh'ha fioi, e la gh'ha el so bisogno; ma mi, poverazza, son qua con do creature da mantegnir, e no me vergogno a dirlo, bisogna che strussia[90] e che strolega[91] a mantegnirli con un pochetto de civiltà, e bisogna misurarla ben, e no se se pol cavar una voggia, e no se se pol tor un spasso, un devertimento; e no gh'ho gnanca un fià[92] de tempo da trarme[93] qualche volta al balcon.

AGN. E sì, in bon ponto lo posso dir[94], la xe qua bela, fresca, in ton[95], che la fa voggia[96].

BARB. Ghe dirò: mi no me togo travaggio de gnente. Za che ho da far, tanto fa che fazza de bona voggia. Poveretta mi, se lo fasse mal volentiera. Digo: el ciel me vuol per sta strada, sia fatta la so volontà. Cossa s'ha da far? Co ho fato i fatti de casa, me deverto col laorier, rido coi mi fioi, rido co la massèra. Gh'ho un gatto po, gh'ho un gatto che el xe el mio buffon; se la vedesse che cara bestia. Dov'estu miso, mascarin?

AGN. Mo sìela benedetta, co sto bel temperamento. In verità, la fa invidia.

BARB. Oh da mi[97], fia mia, no ghe xe gnente da invidiar.

AGN. Ghe scometto mi, che ghe sarà de queli che gh'averà otto o diese mile ducati d'intrada, che no i gh'averà el cuor contento, come che la gh'ha ela.

BARB. Certo che a sto mondo no sta ben chi no xe contenti. Per mi, ghe zuro, me contento de tuto. Me sta sul cuor ste do povere creature. Una puta da maridar, e un puto che no fazzo per dir[98], ma el xe una perla. Xe un pezzo che no la lo vede mio fio?

AGN. Cossa sarà? Tre o quattro zorni.

BARB. Cossa dìsela, che bon sesto de puto[99]?

AGN. Sì, dasseno el par un zentilomeneto[100].

BARB. E bon, sala; bon, che ghe prometto mi, che de quela bontà se ghe ne trova pochi. Sì ben; al dì d'ancuo[101] andèlo a trovar un puto de disdott'ani che staga sotto obedienza, che vegna a casa a bonora, che no gh'abbia pratiche, che no vaga in nissun liogo senza domandarme licenza, che se contenta de star senza un bezzo in scarsela[102]. Lu no beve un caffè, se mi no ghel pago, lu no va mai a un teatro, se nol vien con mi, una volta l'ano; nol sa zogar; nol cognosse gnanca le carte. E sì, sala? no la creda miga che el sia un alocco[103]. El gh'ha una testa che el so maestro no gh'aveva altro che dir: el xe stà principe, el xe stà imperator. Siora sì.

AGN. Cossa fala conto de farghe far a sto puto?

BARB. Ghe dirò, se gh'avesse el modo, lo voria far far l'avvocato; ma ghe vol de le spese, ghe vol del tempo, e po i xe tanti, che tuti me desconseggia. Ho pensà una de ste do per adesso: o sotofattor, o in mezza d'un marcante.

AGN. Saràvelo bon per fattor?

BARB. De diana! cossa dìsela? Se la lo vedesse a far conti! Lu in t'un momento xe capace de far un conto, che qualchedun no lo farave in tre ore.

AGN. Ma no basta miga saver far conti.

BARB. Oh siora sì; per comprar, per vender, per ordenar, el xe un oracolo[104]! In casa mia, poveretta mi se nol gh'avesse elo. Lu me scuode, lu va, lu vede, lu fa tuto. Co ghe digo, tuto, tuto.

AGN. Gh'ho gusto dasseno. No ghe mancherà qualche bon incontro.

BARB. La diga, sior'Agnese, gh'ala fattor ela?

AGN. Siora sì; gh'ho quelo che serviva el mio povero mario. El me l'ha raccomandà, e no lo posso licenziar. Daresto in verità, siora Barbara, lo torave mi quel puto.

BARB. La lo toga per sotofattor.

AGN. Magari. Ma el fattor, védela, el gh'ha so fio con elo, no ghe xe caso.

BARB. De diana, son ben sfortunada.

AGN. La lassa, che vederemo de trovar qualcossa. La lo manda da mi sior Nicoletto. La ghe diga che el me vegna a trovar.

BARB. Siora sì, da ela lo lasserò vegnir volentiera.

AGN. Xe peccà che un puto de quela sorte no gh'abbia del ben.

BARB. El xe zovene; vegnirà la sóa[105].

AGN. Quanti ani gh'alo?

BARB. Disdott'ani fenii ai dodese del mese passà.

AGN. Giusto i ani che m'ho maridà mi.

BARB. Vardè co presto che la xe restada vedoa.

AGN. Ma! cossa dìsela? Ghe vol pazenzia.

BARB. La se tornerà a maridar.

AGN. Chi sa? pol esser anca de sì. Ma se stenta tanto a trovar de star ben.

BARB. Ela, védela, tra quel che la gh'aveva, e quel che gh'ha lassà so mario, la sta da regina, e no la conseggio, se la se torna a maridar, a cercar grandezze de più de quel che la gh'ha. Basterave che la trovasse uno che gh'avesse voggia de far ben, che no ghe magnasse el sóo, e che ghe volesse ben. Sora tuto che ghe volesse ben, e poder dir: son parona mi, no dependo né da madona[106], né da missier[107]; mio mario conosse la so fortuna da mi; e godèrselo in santa pase, e no cercar Maria per Ravena[108]. Sì anca dasseno, che se fusse in ela, farave cussì.

AGN. Bisognerave che trovasse uno che vegnisse a star in casa con mi.

BARB. Oh, la ghe ne troverà de quei pochi.

AGN. Bisognerave che nol gh'avesse né padre, né madre.

BARB. Per cossa? Mi, védela, se a mio fio ghe capitasse una de ste fortune, ghe lo daria a man basada[109]. Ghe voggio ben; ma gnanca per questo no ghe impedirave de andar in casa de so muggier. Oh siora no, siora no; magari[110] ghe capitassela.

AGN. Cossa xe de siora Giacomina? Cossa fala? Stala ben?

BARB. Oh siora sì, la sta ben, la la vederà. (Oh la me va fora de carrizada)[111].

AGN. Se poderave darghe un baso in scampar[112]? (s'alza)

BARB. Vorla andar via? Gh'ala tanta pressa[113]?

AGN. Bisogna che vaga, perché gh'ho la dona[114] co mi, e a casa xe ancora da far i letti, da scoar[115], da far de tuto.

BARB. Che la manda a casa la dona e che la resta un pochetto con mi. Via, cara ela, la se cava zoso[116].

AGN. Chi vorla po che me compagna?

BARB. La compagnerà mio fio. El xe un ometto, sala. El xe el mio cavalier servente.

AGN. Ghe xélo sior Nicoletto?

BARB. No pol far che el vegna. El xe andà da so sior sàntolo.

AGN. Da so sior sàntolo?

BARB. Siora sì; da mio compare Ventura.

AGN. La diga, cara siora Barbara, la compatissa la curiosità. Sto sior sàntolo gh'alo pute in casa?

BARB. Oh no, la veda. Mio compare Ventura no xe maridà, nol gh'ha sorele, nol gh'ha nissun. Oh, se la savesse che omo che el xe! Le done nol le pol né véder, né sentir, el xe un omo da ben, che fa de le carità, e Nicoletto, per farse voler ben, no ghe xe altrettanto; che mignògnole[117]che el ghe fa! cosse in verità da magnarlo[118], da magnarlo in verità, da magnarlo. (con trasporto di tenerezza)

AGN. (Pol esser che no sia vero quel che me xe stà dito).

BARB. Per cossa m'ala domandà, se ghe xe pute da sior Ventura?

AGN. Gnente, cussì; me xe vegnù sto pensier.

BARB. (Per diana, che gh'ho bona speranza). (da sé, consolandosi)

AGN. Valo in altri loghi sior Nicoletto?

BARB. Oh mai! Nol va mai in nissun logo.

AGN. Xéla segura?

BARB. Son segurissima. Nol fa un passo, senza che mi lo sappia.

AGN. Vardè, quando che i dise, che ghe xe de le male lengue.

BARB. O poveretta mi! ali dito qualcossa de mio fio?

AGN. Giera stà dito che el gh'aveva una pratica, che l'andava da una puta...

BARB. Dove? quando? chi l'ha dito? (con ansietà)

AGN. No so po gnente più de cussì.

BARB. Oh care le mie raìse! elo pute? elo pratiche? Se la savesse, sior'Agnese! se la savesse cossa che l'è inocente[119]! Nol sa gnente, sala, gnente a sto mondo; no ghe dirò altro, che l'altro zorno l'ha dito che el voleva sposar so sorela. Ghe dìsela inocenza a questa?

AGN. Sì, sì, la xe inocenza, ma la xe una voggia de maridarse.

BARB. Baroni[120], sior'Agnese, baroni; i se inventa per far del mal a la povera zente. I vede che sto puto xe de bon sesto[121], i sa che sior'Agnese me vol ben a mi, e no ghe vol mal gnanca a elo, che ela xe vedoa, che lu xe da maridar. Tolè suso, i mette mal, per paura che un zorno... me capìssela?

AGN. In verità, la me fa da rider. (ride compiacendosi)

BARB. Cara ela, la se cava zoso.

AGN. Via, no voggio descontentarla.

BARB. La vegna qua; la lassa far a mi. Vardè che tocco[122]! mo vardè che ciera! Oh, se me toccasse una niora cussì, mio fio el poderave ben dir d'esser nassù co la camisetta[123]. (spogliandola)

AGN. Vago a dirghe a la dona, che la vaga a casa.

BARB. La la chiama.

AGN. No no, gh'ho da dir una cossa: con grazia.

BARB. La senta, la ghe vaga a far una burla[124] a mia fia.

AGN. Dove xéla?

BARB. In te la so camera.

AGN. No vorave che la disesse, che me togo troppa libertà.

BARB. Ste cosse la dise? No xéla parona de casa? No sala che tuti ghe volemo ben? Tuti, sala? Tuti, ma tuti, me capìssela?

AGN. Mo che morbin[125] che la gh'ha.

BARB. Sièstu benedetta! (le dà un bacio)

AGN. (Mo la xe una gran bona dona! mo la me fa de le gran finezze! Chi sa? no se pol saver). (parte)

BARB. Oh caro el mio Nicoletto! Se la me riuscisse, beato ti, fio mio; da mi no mancherà certo, e no gh'ho nissun scrupolo al mondo. La xe ricca, la xe sola, la xe zovene, la xe bona. Mio fio xe un puto che bisogna che el ghe piasa per forza. Anca a elo la ghe piaserà. Basta che ghe lo diga mi, la ghe piaserà. E po nol sa gnente, no l'ha fatto mai l'amor. Xe che sarò intrigada a darghe da intender cossa che xe sto amor. O care le mie viscere(126)[126]! non vedo l'ora, me batte el cuor. Xélo qua? Xélo elo? Oh no, xe la dona de sior'Agnese che va via. Vorave che el vegnisse; no gh'ho ben, no gh'ho requie[127]. Oh amor de mare, ti xe molto grando! (parte)

SCENA NONA

Camera in casa di Lodovica.

Lodovica e Daniela.

DAN. Staghio ben conzada[128] cussì, siora madre?

LOD. Sì, fia, ti sta pulito.

DAN. Sto garofolo me falo ben?

LOD. Chi te l'ha mandà quel garofolo?

DAN. Chi vorla che me l'abbia mandà?

LOD. Xélo fresco?

DAN. Oh giusto! fresco! no la vede che el xe de quei de Vicenza[129]?

LOD. Vardè vedè, el par taggià adesso zo da la pianta. Credeva che te l'avesse mandà sior Gasparo.

DAN. Oh, a sior Gasparo da un pezzo in qua no ghe casca più gnente[130].

LOD. Me par anca a mi, che el se sia un pochetto sfredio[131].

DAN. Oh assae.

LOD. Credistu che el se voggia cavar?

DAN. Se el se vol cavar, che el se cava, mi no lo tegno.

LOD. Dopo che vien per casa sior Nicoletto, sior Gasparo no xe più quelo, fia mia.

DAN. Cossa m'importa a mi? El l'ha menà elo[132] in casa. El doveva lassar star de menarlo.

LOD. Che bisogno mo ghe giera, che ti ghe fassi tante finezze?

DAN. Vardè vedè; no me l'ala dito ela, che ghe fazza de le finezze?

LOD. Siora sì, ma no tante.

DAN. Le finezze no le se misura col brazzolar[133].

LOD. Sior Gasparo a bon conto el gh'aveva bona intenzion.

DAN. E sior Nicoletto no xélo da maridar?

LOD. Sì, fia mia, ma ho paura che el sia molto giazzà[134].

DAN. Mi vedo che el xe un puto civil, che el xe ben vestio; per cossa alo da esser giazzà?

LOD. Gh'alo mai un bezzo in scarsela? Dopo che el vien qua, alo mai dito de pagarme un caffè? Me pòrtelo mai quattro buzzolai[135]?

DAN. Nol se deve ossar, poverazzo[136].

LOD. Vardè vedè. No ghe l'oggio dito mi tante volte che beverave un caffè? Alo mai averto la bocca a dir, se la comanda?

DAN. Mi, védela, ste cosse no le me piase. Sto domandar no lo posso soffrir.

LOD. Gnanca mi no me piase de domandar. Ma perché no lo fai senza che el se ghe diga? Senza caffè mi no posso star, e sto tra eretto [137]me despiase a spenderlo qualche volta.

DAN. Gran vizio che la gh'ha, de voler ogni mattina el caffè.

LOD. Vardè che gran casi! xéla la rovina de Troia?

DAN. Mi no voggio che la domanda gnente a nissun.

LOD. Oh, mi no voggio caìe[138] per casa mia.

DAN. Mi no chiamo nissun.

LOD. E no vegnirà nissun.

DAN. Che travaggi[139] che gh'averò!

LOD. E faressi meggio a laorar.

DAN. La me ne daga, che laorerò.

LOD. I batte.

DAN. Che i batta.

LOD. Andè a véder chi è.

DAN. Mi no, la veda.

LOD. Per cossa no volèu andar?

DAN. Perché, se xe qualchedun, mi no voggio tirar, e no voggio far malegrazie.

LOD. Frascona[140]. (incamminandosi)

DAN. La gh'ha rason.

LOD. Anderò mi, anderò mi a véder.

DAN. Sì, la vaga.

LOD. Se fusse almanco qualcun da mandar a tor un caffè. (parte)

DAN. Sì, sì, che la diga, che la gh'ha bon dir. La gh'ha rason che no son una de quele, da resto... novôi dir gnente. Se parlo, me taggio el naso, e me insangueno la bocca.

LOD. El xe qua, siora, la sarà contenta?

DAN. Chi xe?

LOD. Sior Nicoletto.

DAN. Gh'ala tirà? LOD. Siora sì.

DAN. Chi gh'ha dito, che la ghe tirà?

LOD. Gh'ho tirà per non far malegrazie. (con caricatura)

DAN. Mi mo, védela, son capace de andarme a serar in te la mia camera.

LOD. Via, no fe scene, stè qua, stè co se diè[141], e trattè come va trattà.

DAN. (Oh co bela che la xe)[142]. (ridendo da sé)

LOD. Ti ridi ah?

DAN. No vorla?

DAN. Via, via, ridi, sta aliegra, che qualcossa sarà.

SCENA DECIMA

Nicoletto e dette.

NICOL. Patrone, patrona, siora Daniela,

DAN. Patron, sior Nicoletto.

LOD. Sioria, fio mio.

NICOL. Siora Lodovica, patrona.

LOD. V'aveu sentìo a businar[143] in te le recchie?

NICOL. Quando?

LOD. Za un poco.

NICOL. Dasseno, me minzonàvele([144]?

LOD. Xe tanto che parlemo de vu, nevvero, fia? (a Daniela)

DAN. Oh siora sì, xe vero.

NICOL. Songio vegnù a bonora? (toccandosi colla mano un nastro, che finge essere dell'orologio)

DAN. Oh no tanto gnanca.

LOD. Xe tanto che ve aspettemo.

NICOL. Che ora xe? (come sopra)

DAN. Mi credo che sarà disdott'ore.

LOD. Ho paura che le sarà debotto disnove.

NICOL. Ho vardà za un poco, no le giera altro che disdotto e un quarto. (come sopra)

LOD. Oe, cossa distu, Daniela? El gh'ha el relogio sior Nicoletto.

DAN. Bravo, bravo, me ne consolo.

LOD. Lassè véder mo. (a Nicoletto)

NICOL. Oh cossa serve? Una bagattela.

DAN. L'alo comprà?

NICOL. Siora sì.

LOD. Quanto gh'avèu dà?

NICOL. Oh poco, l'ho avù de foravia[145].

LOD. Ma pur quanto gh'avèu dà?

NICOL. Poco ghe digo, trenta zecchini.

LOD. Poco ghe disè? Xélo d'oro?

NICOL. Siora sì, d'oro.

LOD. Caro vu, lassèmelo véder.

NICOL. Cossa vorla véder? No l'ha mai visto relogi? Cossa vorla, che vegna qua a far mostra de una strazzarìa d'un relogio?

DAN. Via, che nol vaga in colera; co nol vol, che el lassa star.

LOD. (Mi ghe scometto mi, che a quela cordela el gh'ha taccà una medaggia).

NICOL. Xe un pezzo che la xe levada?

DAN. Oh, sarà debotto do ore.

NICOL. Sia malignazo, voleva vegnir avanti, e non ho podesto.

LOD. Avèu marendà a casa?

NICOL. Siora sì.

LOD. Dovevi vegnir qua a marendar.

NICOL. Ho bevù la chioccolata con sie pandoli e quattro pani de Spagna.

LOD. E a mi m'avèu portà gnente?

NICOL. Sia malignazo, voleva vegnir qua a bonora, voleva che marendessimo insieme; ma ho

aspettà el sartor, e el m'ha fatto star fin adesso.

DAN. Se falo qualche cossa da novo?

NICOL. Siora sì, me fazzo un abito de un pano fin fin, che se suppia via; coi so bottoni d'arzento che i luse, che i par diamanti. E una camisiola[146] de ganzo[147] superbonazza, guarnia con quattro dea de galon.

DAN. Oh, da quando in qua se guarnìssele le camisiole de ganzo?

NICOL. Moda, moda, Paris, moda, Paris.

LOD. Disè, sior Nicoletto, seu gnente bombardier[148]?

NICOL. Per cossa bombardier?

LOD. Sbareu gnente[149]?

NICOL. Varè vedè, chi crédela che sia, qualche scalzacan[150]? Son paron mi, sala, e le mie intrae me le manizo mi, e gh'ho domile ducati d'intrada, e mia siora mare la gh'ha sedesemile ducati de dota; ma mi, co me marido, no voggio dota; mi no gh'ho bisogno de dota, voggio una puta che me piasa, che me voggia ben, no cerco altro.

DAN. Oh che caro sior Nicoletto!

NICOL. Oh sièstu benedetta! (vuol toccar la mano a Daniela)

LOD. Oe oe, patron, come la magnémio[151]? (sgridandolo)

NICOL. Oh benedetta sta nona[152]! (fa finezze a Lodovica, volendo prenderla per mano)

LOD. Tegnì le man a casa, ve digo.

NICOL. Stamattina propriamente me sento in gringola[153].

LOD. So anca mi, che ve sentirè in gringola. Gh'avè el corpo pien de chioccolata, de buzzolai. Nualtre, poverazze, no avemo gnancora bevù el caffè.

NICOL. Debotto xe ora de disnar.

LOD. Debotto? Se xe disdott'ore e un quarto.

NICOL. Oh giusto. (mostra di guardar l'orologio in disparte)

LOD. (Procura di vederlo)

NICOL. Via, ala visto?

LOD. Mi non ho visto gnente.

NICOL. Xe disnov'ore sonae.

LOD. De diana! nol se pol véder quel relogio? Gh'alo paura che ghe lo magnémo?

NICOL. Xe disnov'ore sonae; cossa vorla véder altro? xe disnov'ore sonae.

DAN. (Mo che dona! la me fa una rabbia!)

NICOL. Gh'ala relogio ela, siora Daniela?

DAN. Mi no.

NICOL. Vorla che ghe ne paga uno?

DAN. Oh, le pute no porta relogi.

NICOL. Ghe lo darò co la se mariderà.

DAN. Co me mariderò, me lo pagherà mio mario.

NICOL. So mario? Chi saralo mo so mario?

DAN. Mi no so, la veda. (con tenerezza affettata)

NICOL. Lo gh'ala in cantier[154] so mario?

DAN. Oh el gh'ha bon tempo lu, sior Nicoletto.

NICOL. Ah! (le tira una stoccata colla mano)

DAN. Cossa falo?

 NICOL. Gh'oggio fatto paura?

LOD. Gran morbin[155] che gh'avè.

NICOL. Ah! son in gringola. (a Lodovica)

LOD. Oh, so ben mi cossa che ghe voria a farve passar el morbin.

NICOL. Cossa?

LOD. Una novizza[156].

NICOL. Oh benedetta sta nona! (abbracciando Lodovica)

LOD. Mo via, lassème star.

NICOL. Me despiase, che bisogna che vaga via.

DAN. Cussì presto?

NICOL. Gh'ho un interesse. Bisogna che vaga a Rialto a scuoder una partia de sette o ottocento ducati.

LOD. Andè, scuodèla, e po vegnì qua.

NICOL. Siora sì, se vederemo.

DAN. Arecordève de mi.

NICOL. Caro quel muso[157]!

LOD. Vegnì presto.

NICOL. Cara la mia cara nona! (vuol abbracciarla)

LOD. Via, insolente. (si difende)

NICOL. Sièstu benedetta! (come sopra, e gli casca la mezza camiscia)

LOD. Lassème star; vardè, che perdè el manegotto.

NICOL. Sia maledetto sti manegotti. Patrone. (parte)

LOD. Oe, el gh'ha mezza camisa.

DAN. Cossa importa? El gh'ha ben i abiti galonai.

LOD. E se le fusse tute panchiane[158]?

DAN. E ben, magnerolo elo? magnerò anca mi. (parte)

LOD. Sì ben, cuor contento, e schiavina in spala[159]. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Camera in casa di Barbara.

Barbara, Agnese e Giacomina.

BARB. Ànemo, ànemo[160], via, desmettè el laorier[161]. Feghe compagnia a sior'Agnese. Cossa volèu che la diga? Che la xe vegnua qua a immufirse[162]? (a Giacomina)

AGN. Oh, per mi no la gh'abbia nissun riguardo. Co son a casa, gnanca mi no son de quele che staga de bando.

GIAC. Cara ela, la me fassa dar altri do ponti. La varda, a fenir sto maneghetto no me manca altro che mezza quarta[163].

AGN. Sì, fia mia, la lo finissa.

BARB. Poverazza, la se vorave tor una traversa d'indiana.

AGN. Dasseno?

GIAC. Ma fina la voggio.

BARB. Oh fia mia, se ti la vol fina, bisogna che ti laori un pezzetto.

AGN. Cara siora Barbara, se no fusse per farghe torto, me torave una libertà.

BARB. De cossa, sior'Agnese?

AGN. La lo riceva per bon cuor, sala, per bona amicizia, no mai per farghe affronto.

BARB. Mo via, cara ela, con mi no ghe xe bisogno de ste espression.

AGN. Se la se contentasse, se la se degnasse, ghe la vorave pagar mi una traversa a sta puta.

GIAC. Oh giusto! perché mo ela? (Me vien le brisiole sul viso)[164].

BARB. Cara sior'Agnese, no xe miga de dover, che la se toga ela sto incomodo.

AGN. Che incomodo xélo? De diana! Se la se degna de torla, lo ricevo mi per una finezza.

BARB. Cossa diseu, Giacomina?

GIAC. Cossa vorla che diga? (si asciuga gli occhi piangendo)

AGN. Oh poveretta mi! l'oggio mortificada? Cara ela, ghe domando perdon.

BARB. Cara sior'Agnese, la la compatissa. Si ben che la xe zovene, come che la vede, qualche volta, poverazza, la se recorda che la xe nata ben, e che le desgrazie del so povero padre n'ha ridotto in sto stato; no la gh'ha gnancora tanto giudizio che basta, per destinguer che de una bona amiga no s'avemo da vergognar. Certo che se contentemo de magnar pan e polenta, piuttosto che far de quele figure che no xe da far, e in casa mia no ghe vien nissun, e piuttosto moriria dal desasio[165]. Ma co sior'Agnese? Tanto come se la fusse una mia sorela. Sì, fia mia, lassa che la te la paga; ringràziela del so bon amor, no te vergognar. Perché, sastu, vita mia? tanto xe mal el domandar con ardir, quanto el recusar per superbia.

AGN. In verità, siora Barbara, che debotto la me fa pianzer anca mi.

BARB. Cussì tenera la xe de cuor?

AGN. Oh sì po, dasseno son amorosa, che no fazzo per dir, ma de cuor no ghe la cedo a nissun.

BARB. Anca nualtre, la veda. In verità dasseno semo proprio de bone viscere; e mio fio? poveretto, nol pol véder a far insolenze a una mosca. El xe impastà de zuccaro, nol gh'ha fiel in corpo: e sì, sala, col xe de voggia, el xe el più caro mattarelo del mondo. De diana! Se el fusse in altro stato, parerave proprio che sior'Agnese fusse fatta per elo.

AGN. Tanto el sta a vegnir a casa?

BARB. Bisogna che so sàntolo l'abbia menà con elo. El xe proprio innamorà in quel puto.

AGN. La diga, vorla che mandémo a véder de sta traversa?

BARB. Quel che la comanda.

AGN. Come la voràvela, siora Giacomina? Via, cossa serve? no la se vergogna, la diga.

BARB. Via, parlè, che ve dago licenza.

GIAC. Vorave de quele bele, coi fiori sguardi[166].

AGN. No le se usa più, sala, coi fiori sguardi.

GIAC. Oh n'importa, a mi i me piase.

AGN. Vorla che mandémo a chiamar el marzer[167]), che la se poderà sodisfar?

GIAC. Podémo mandar da sior Rocco.

BARB. El xe quelo, sala, che ghe dà da laorar. Quei maneghetti la li fa per elo. Ma el ghe dà tanto poco.

GIAC. No vadagno gnanca sie soldi al zorno.

AGN. Sto sior Rocco xelo quelo a l'insegna del Granzo?

BARB. Siora sì, giusto quelo.

AGN. Oh sì, la xe una bottega che gh'ha de tuto. Me servo anca mi qualche volta da elo.

BARB. Oh, in pochi ani el s'ha tirà suso pulito[168].

AGN. Quelo, védela, siora Barbara (la senta mo), quelo sarave un negozietto a proposito per la so puta.

BARB. Andè de là, fia, disèghe a Margarita che la vaga al balcon, che la chiama Spìsima, e che la ghe diga che el vaga da sior Rocco marzer, e che el ghe diga che el porta qua de l'indiana de do o tre sorte.

GIAC. Siora sì, subito. (parte)

SCENA SECONDA

Barbara e Agnese.

BARB. L'ho mandada via, sala, perché...

AGN. Oh l'ha fato da dona...

BARB. Per dirghe la verità, per parlarghe da amiga, su sto sior Rocco gh'aveva anca mi i occhi adosso; e anca elo, me par, me par che el ghe traga de occhio a la puta, si ben, sala, che col vien qua, ghe le demo curte, ma curte, e Giacomina no la gh'ha mai dito una mezza parola, e se el ghe va darente per véder el laorier, co ghe dago un'occhiada mi, el gh'ha una paura che el trema.

AGN. Oh cara siora Barbara. No bisogna po esser tanto tanto...

BARB. Oh cara fia! Co i sa che una puta xe poveretta, i se tol de le boneman[169], e presto se fa, e presto se dise, e va fora la nomina[170], e su le botteghe se parla.

       AGN. Xe vero; ma bisogna pensar anca al modo de maridarla.

BARB. La senta; ghe digo la verità, come se fusse davanti al Prencipe. Mi ho avù, co m'ho maridà, quattromile ducati de dota. Co xe morto el povero mio mario, ho fatto pagamento de dota, e son restada scoverta de domile ducati. I domile che s'ha podesto recuperar, i xe in Zecca, e con quel poco de pro[171], e con un pochetto de dimissoria[172] che m'ha lassà un mio barba, e con un pochetto de laorier, se andemo mantegnindo come che se pol. Se podesse logar mio fio, se sto povero puto se podesse mantegnir senza aver bisogno de mi, i domile ducati mi ghe li darave a la fia. Ma la vede ben, in ancuo[173] mi no posso tor al puto, per dar a la puta. Ma gh'ho speranza che el cielo l'agiuterà. El xe tanto un bon puto, che gh'ho speranza certo, che la fortuna lo assisterà. Cossa dìsela, sior'Agnese? Me dala anca ela bone speranze?

AGN. Mi sì, fia, el cuor me dise che sior Nicoletto ha da far de le fortunazze[174].

BARB. Oh! che sia benedetto el so cuor!

SCENA TERZA

Giacomina e dette.

GIAC. Siora madre, xe qua Nicoletto.

BARB. Oh, ho ben da caro[175]. Dove xélo?

GIAC. Gh'ho tirà adesso.

BARB. Gh'avèu dito a Margarita?

GIAC. Siora sì. Spìsima no ghe giera, l'ha mandà Giandussa.

AGN. Che razza de nomi xéli questi?

BARB. Zente de campo[176], fia mia. Putazzi che me fa qualche servizio, per no mandar la dona a

torzion[177]. Dove xélo Nicoletto?

GIAC. L'anderà a despoggiarse.

BARB. Avanti che el se despoggia, disèghe che el vegna qua.

GIAC. Siora sì.

BARB. E vu aspettè de là, che co vegnirà sior Rocco, ve chiamerò.

GIAC. Quel che la comanda. (Ogni tanto la vien fora[178] con dei discorsi, che mi non ho da sentir). (parte)

SCENA QUARTA

Barbara, Agnese, poi Nicoletto.

AGN. E adesso perché la mandela via?

BARB. Perché, védela, co la xe qua, l'ascolta, la se incocalisse[179] e no la laora.

AGN. De diana! la la tien bassa dasseno.

BARB. Velo qua, velo qua la mia zoggia.

NICOL. Patrone.

AGN. Patron, sior Nicoletto. (Mo che bon sesto de puto!)

BARB. Vegnì qua mo, sior baron, dove seu stà fin adesso?

NICOL. Da sior sàntolo.

BARB. Sempre da sior sàntolo sè stà?

NICOL. Sempre, co so andà via de qua fin adesso.

BARB. Vardè che el saverò, vedè.

NICOL. La ghe domanda.

BARB. (Oh, no gh'è pericolo, sala). (piano ad Agnese)

AGN. (Oh, se vede). (piano a Barbara)

BARB. Cossa falo sior compare?

NICOL. El sta ben, el m'ha dito che la reverissa.

BARB. Cossa falo de la so doggia[180]?

NICOL. La ghe xe passada.

BARB. Dasseno? Gh'ho ben a caro che la ghe sia passada. Camìnelo pulito?

NICOL. Pulito. (Oh quante busie che ghe péto!)

BARB. Seu stà fora de casa con elo?

NICOL. Siora sì.

BARB. Via, contèghe a sior'Agnese dove che sè stà.

NICOL. Cossa ghe importa a sior'Agnese de saver dove che son stà?

AGN. Sì, caro fio, gh'averò gusto anca mi de sentir. So che parlè tanto pulito. Contème qualcossa.

NICOL. Semo stai in tanti loghi, che no m'arecordo.

BARB. Mo via, qualcossa ve arecorderè.

NICOL. Semo stai in Piazza[181], e po semo andai de longo per la riva dei Schiavoni, e avemo voltà zoso per l'Arsenal, e semo andai fina in Barbaria de le Tole. Dopo avemo tirà zo per le Fondamente nove, e zo per cale de la Testa, e semo andai al Fontego dei Todeschi, e po fina in Canareggio, e avemo passà traghetto a riva de Biasio, semo andai a far un servizio ai Tre Ponti, e po per el ponte de Rialto semo andai a trovar un amigo in cale de le Balotte[182].

AGN. Ih ih, avè fatto tre mia de strada.

BARB. Come alo fatto mio compare a caminar tanto?

NICOL. De diana! el camina, che malistente[183] ghe posso tegnir drio.

BARB. Mo bisogna ben che el sia varìo[184] pulito. E sì, sala, l'ha abù una doggia che l'ha tegnù do mesi inchiodà in t'un letto, e no xe altro che otto zorni, che el va fora de casa. (ad Agnese)

AGN. E la vol che l'abbia fatto sto boccon de viazo? Oh, no pol star[185].

BARB. Oh, mio fio no dise busie.

NICOL. Mi busie? no so gnanca de che color che le sia le busie.

BARB. Poveretto elo, se el disesse busie!

AGN. Me compagneralo a casa, sior Nicoletto?

NICOL. Siora sì, volentiera.

AGN. Nol xe stracco?

NICOL. Oh, mi stracco!

BARB. Oh, i zoveni no se stracca mai, fia mia; e po no la vede che colosso che el xe?

AGN. Oh sì, el gh'ha ben messi i so ani[186].

NICOL. La varda se son stracco. Ah ah ah. (salta e balla)

BARB. Oh che te sièstu[187]! cossa dìsela, co bravo che el xe?

AGN. I xe i so ani[188].

NICOL. Ah ah. (come sopra)

BARB. Oe oe, cossa xe quele cordele[189]? (osserva nel luogo dell'orologio)

NICOL. Gnente, gnente. (Sia malignazo, no m'ho recordà?)

BARB. Gh'astu el relogio?

NICOL. Oh giusto!

BARB. Anca sì, che sior sàntolo t'ha donà el relogio?

NICOL. Siora sì, me l'ha donà sior sàntolo.

BARB. Lassa véder mo. (si accosta a Nicoletto)

NICOL. Oh giusto!

BARB. Via, volémo véder quel relogio.

NICOL. Cossa vorla véder?

BARB. Ànemo, no me fe andar in colera.

NICOL. (La toga via, la varda). (mostra una chiave, in segreto)

BARB. Anca de queste, sior paronzin?

NICOL. (No la me fazza svergognar da sior'Agnese).

AGN. Coss'èlo? un relogio de piombo? (forte)

BARB. Siora no; una chiave. (con sdegno)

AGN. Oh siora sì, ghe n'ho visto dei altri.

BARB. Coss'è ste cargadure? Cossa xe ste ambizion? No le voggio assolutamente: fe che la sia la prima e l'ultima; m'aveu capio? (a Nicoletto) (Le xe cosse da zoveni). (piano ad Agnese)

AGN. (Eh sì, freddure). (a Barbara)

BARB. Un zorno, se gh'averè giudizio, poderè anca vu comparir co fa i altri, e gh'averè el relogio, e gh'averè tuto el vostro bisogno. Nevvero, sior'Agnese?

AGN. Certo, se el vorà, se el tenderà al sodo[190].

NICOL. Songio cattivo adesso?

BARB. Sta cossa la m'ha despiasso. E no par bon, e no sta ben, e ve lo digo da mare, e ve lo digo in fazza de una che me pol insegnar, e che gh'ha de l'amor per la nostra casa.

NICOL. Me vorla ben, sior'Agnese?

AGN. Sior sì, ve ne voggio anca a vu, come a vostra siora madre e a vostra sorela.

NICOL. Ma più a mi però.

AGN. Per cossa più a vu?

NICOL. Cara ela, la diga de sì.

AGN. (El gh'ha la so bona malizia per altro). (piano a Barbara)

BARB. (Gnente, sala, nol sa gnente). (piano ad Agnese)

SCENA QUINTA

Giacomina lavorando, e detti.

GIAC. Xe qua el marzer.

BARB. Che el vegna.

NICOL. Chi xélo?

GIAC. Sior Rocco.

NICOL. (Per diana, no vorave che el disesse dei do fazzoletti che ho tolto in credenza). Con grazia. (in atto di partire) Vago a far un servizio.

AGN. Arecordève che m'avè da compagnar a casa. (a Nicoletto)

NICOL. Siora sì, vago e vegno. (parte)

SCENA SESTA

Barbara, Agnese, Giacomina, poi Rocco col Giovine che porta le merci.

BARB. Cossa dìsela de quela frascaria del relogio? (ad Agnese)

AGN. Oh, la xe una cossa da gnente.

BARB. Oh, mi son sutila[191], la veda, sutila co fa l'oggio. No ghe ne passo una, no ghe ne fazzo bona nissuna. E per questo el me teme, e no gh'è pericolo che el me lasca un tantin[192], e posso star coi mi occhi serai, e col se mariderà, chi el ghe tocca, poderà dir, me tocca oro colà. Oro colà, sior'Agnese, oro colà.

AGN. (Oh, bisogna che vaga via, perché la me ne dise tante, che debotto, debotto[193]...)

ROC. Patrone.

BARB. Sior Rocco.

AGN. Sior Rocco.

ROC. Patrona, siora Giacomina, patrona.

GIAC. Patron.

ROC. Ala fenio i maneghetti?

GIAC. Debotto.

ROC. Fala pulito? La lassa che veda mo. (si accosta)

BARB. Oh via, tendène a nu, sior[194]. (a Rocco)

AGN. De diana! el l'ha malistente[195] vardada. (a Barbara)

ROC. No la vol che varda i fatti mii[196] gnanca? (a Barbara)

BARB. I varderè co i sarà fenii.

ROC. Mo co cattiva che xe sta siora Barbara!

BARB. No lo savèu che incendo[197]? (scherzando)

AGN. E sì la ve vol ben, vedè. Se savessi cossa che la m'ha dito de vu.

ROC. Cossa gh'ala dito?

BARB. Oh via, avèu portà ste indiane?

ROC. Siora sì; ghe ne vorla assae?

BARB. El nostro bisogno, né più, né manco (con asprezza)

ROC. Séntela, che ben che la me vol? (ad Agnese) Vien qua dame una man, tiremo avanti sto taolin. (al Giovine) (Mo co bela che la xe!) (a Giacomina, passando)

GIAC. Più de vu, certo, vedè.

BARB. Oe, digo... (a Rocco e Giacomina, sgridandoli)

AGN. (La tasa). (a Barbara) (Ghe parlo brutto sior Rocco?) (a Giacomina)

GIAC. (Ghe parlo belo a ela?) (ad Agnese)

AGN. (Se siora madre ghe lo dasse per mario, no la lo torave?) (a Giacomina)

GIAC. Co siora madre me lo dasse per mario, no varderia che el fusse né belo, né brutto. (ad Agnese)

AGN. (Caspita! la m'ha resposo da savia sibilla)

ROC. Oh son qua. De che qualità la voràvela?

AGN. Lassè véder.

ROC. Per cossa ala da servir?

AGN. Per una traversa.

ROC. Caspita! grasso quel dindio[198]!

BARB. Credevi che ve despoggiessimo la bottega[199]?

ROC. Oh gnente; le comandi pur, son a servirle. Le xe patrone, se le ghe ne vol anca un brazzo. Per chi ala da servir, se è lecito?

AGN. Per quela puta. (accennando Giacomina)

ROC. Oh, co l'ha da servir per quela puta, la lassa far a mi. No voleva metter man a una pezza, ma co se tratta de ela, tuto: parona de tuto.

GIAC. Anca sì, che averè portà de le strazze?

ROC. Mo la gran desfortuna che gh'ho in sta casa! se la madre xe cattiva, la fia xe pezo.

AGN. Chi sprezza vol comprar, vedè, sior Rocco.

ROC. Brava, sior'Agnese. Anca mi, védela, de le volte digo: roba cattiva; ma se podesse comprar, compreria.

BARB. E cussì? vienla fora sta gran bela cossa d'indiana?

ROC. Oh vela qua[200]. Questa xe la sóa[201]. La varda mo, se de sta sorte la ghe n'ha più visto?

BARB. Oh quanta cola!

AGN. Questa, co la xe lavada, la deventa una strazza[202].

GIAC. E che fiori smorti [203]che la gh'ha.

ROC. Ho inteso, ho inteso. Méttila via. (al Giovine) La varda questa.

GIAC. Oh che roba!

BARB. Ste strazze ne mostrè?

ROC. No le vaga in colera, via, no le vaga in colera: le varda st'altra.

GIAC. Oh che roba da vecchia!

AGN. Questi xe scarti[204].

BARB. Siora sì, tuti scarti.

ROC. Scarti le ghe dise? Vorave avérghene assae de sti scarti. La toga, questa no la dirà che el xe un scarto: ghe n'ho vendù stamattina vintiotto brazza per una novizza. Via, che la toga de questa per bon augurio. (a Giacomina)

AGN. Ghe piàsela, siora Giacomina?

GIAC. Cussì e cussì.

ROC. Mo la xe molto difficile da contentar.

BARB. No gh'è miracoli; ma la xe meggio de le altre.

AGN. Za, el meggio i lo tien sempre indrio[205].

BARB. I vol dar via le caìe[206], se i pol.

ROC. Mi lasso che le diga. Ma de sta sorte de indiane in sto paese voggio che le stenta a trovarghene.

AGN. Quanto al brazzo de questa?

ROC. Vorla che fazza una parola sola?

BARB. Via, sentìmo sta parola.

ROC. A qualchedun altro ghe domanderave sie lire al brazzo; ma con ele, quel che le comanda,cinque lire e mezza, e la so bona grazia.

AGN. Ih ih, cinque lire e mezza?

BARB. Se no la ghe ne val gnanca quattro.

ROC. Cinque lire ghe le darave mi, se le ghe n'avesse cinquanta pezze, e vorave chiapar tanti bei da diese[207].

AGN. La deu con quattro lire e mezza?

ROC. I me dà de più, se la porto in ghetto[208].

BARB. Oh, no la le val quattro lire e mezza.

GIAC. Za con nualtre el butta più carìgolo[209] che coi altri.

ROC. La xe patrona per gnente, se la comanda, ma co se tratta de negozio, no posso far torto a la mercanzia.

AGN. Mo andè là, che sè un gran gazabin[210].

ROC. Oh cara, sìela benedetta! quanta ghe ne comàndela?

AGN. Tre brazza, nevvero, fia?

ROC. Oh, la xe granda, sala, ghe ne vol tre e mezzo per ela.

BARB. Oh, i basta tre brazza.

AGN. Sior no, sior no, tre e mezzo.

ROC. Brava, è meggio che ghe ne avanza, che che ghe ne manca; dè qua la forfe[211]. (al Giovine)

BARB. Ma quanto? (a Rocco)

ROC. Se giusteremo.

BARB. Gnanca un bezzo più de quattro lire e mezza.

ROC. Le me daga de più tuto quel che le vol. La toga via, quattro e quindese.

BARB. Sior no, sior no, quattro e mezza.

ROC. Voggio servirla, come che la comanda. Tanto xe mercante quel che vadagna, come quel che perde. La vegna qua, la tegna ela el brazzoler[212]. (a Giacomina)

BARB. Sior no sior no, lo tegnirò mi.

ROC. Quel che la comanda. (misura)

AGN. Oe, no ve mesurè le ongie[213].

ROC. Oh poveretto mi!

GIAC. Vardè ben, che voggio la bona mesura.

ROC. Anca la bona mesura?

BARB. Taggiè qua. (accenna dove vuole che tagli)

AGN. Qua, qua. (per averne un poco di più)

GIAC. Un pochetto più in qua. (per averne ancora di più)

ROC. Oh che bon vadagno che fazzo! (taglia) La toga, che la gh'ha una traversa da sposa.

AGN. Quanto gh'avémio da dar?

ROC. Le fazza el conto. A so modo, a quattro lire e mezza. (piegando)

AGN. Quattro e quattro otto, e quattro dodese. Dodese lire.

ROC. E mezza; e po ghe xe el mezzo brazzo.

BARB. Che fa in tuto quattro e quattro otto, e do diese, e do dodese, e do quatordese e cinque.

ROC. No, la veda; fa quindese e cinque, co la vol saver.

GIAC. Mo sior no, quattro lire e mezza, e quattro lire e mezza, fa otto e una nove, e quattro lire emezza fa nove, e una diese, e una undese e mezza; e do, quanto fa?

AGN. Aspettè mi, aspettè mi[214]. Se i fusse quattro brazza saria sedese, e una disisette, e una disdotto. Batter mezzo brazzo, che fa do e cinque; batter do e cinque, me par che le resta quindese.

BARB. Siora no, la ghe dà de più.

GIAC. No, la ghe dà de manco.

BARB. Tasè là, vu, siora dottora.

ROC. Co la me vol dar el me giusto, me vien quindese e quindese.

AGN. Tolè donca. Do ducati d'argento[215].

GIAC. Un tràiro indrio.

ROC. Gh'ala paura che no ghel daga? la toga. Se la ghe lo vol donar a sto puto.

AGN. Sì, sì, via, dèghelo.

BARB. Andè là, che savè far pulito. (a Rocco)

ROC. Comàndele altro da mi?

BARB. Gnente altro per adesso.

ROC. Se le comanda, gh'ho de la cambrada bellissima, e a bon mercà. Vorle véderla?

BARB. No, no, no volémo altro.

ROC. Le la toga, le me la pagherà co le vorà. Sconteremo co la fattura dei maneghetti.

GIAC. No, no, sior, co ho fenio el laorier, me piase de tirar i mi cari bezzetti.

ROC. Quando vorla che vegna?

BARB. Ve li manderemo a bottega.

ROC. No le vol che vegna? Pazenzia. Le m'ha in cattivo concetto. E sì, sale? spero ancora de maridarme.

AGN. Quando la feu, sior Rocco?

ROC. Più presto che poderò.

AGN. Gh'avèu gnente gnancora?

ROC. Per adesso no.

AGN. Volèu che mi ve la catta[216]?

ROC. Magari.

AGN. Quanti bezzi volèu?

ROC. Véder el pezzo, e po contrattar.

AGN. Ve basteravelo un mieretto de contai[217])?

ROC. La senta; lassando le burle, mi son povero fiol, ma i bezzi no me fa gola. No digo, che se sa, che qualcossa ghe vol, ma piuttosto mile da una che me piasesse, che quattromile da una che no me piasesse.

AGN. Per esempio, i mile qua da sta banda ve piaseràveli? (accenna Giacomina)

ROC. Son qua, carta, penna e calamar.

BARB. Ànemo, ànemo, fenimo sti stomeghezzi[218].

ROC. Vela qua, sempre cussì la me tratta.

AGN. Sior Rocco, vegnime a trovar.

ROC. Quando?

AGN. Ancuo. Portème dei fazzoletti.

ROC. De quali vorla?

AGN. Portèmene de do o tre sorte.

ROC. Da naso?

AGN. Da naso.

ROC. Vorla de queli che gh'ho dà a sior Nicoletto?

BARB. A che Nicoletto?

ROC. A so fio. (a Barbara)

BARB. A mio fio gh'avè dà fazzoletti?

ROC. Siora sì, a so fio, e el me li ha anca da pagar.

SCENA SETTIMA

Nicoletto e detti.

NICOL. Siora, siora sì, xe vero. I ho tolti per sior sàntolo.

BARB. (Voleva ben dir mi). Perché no me l'astu dito?

NICOL. M'ho desmentegà[219].

ROC. Oh patrone; ancuo vegnirò da ela. (ad Agnese)

AGN. Sì, v'aspetto.

ROC. Siora Giacomina, patrona.

GIAC. Patron.

ROC. Patrona, siora Barbara. (con affettazione)

BARB. Patron, sior Rocco! (caricandolo)

ROC. Sìela benedetta. Chi sa? Basta. (Se credesse che la gh'avesse i mile ducati... Xe che ho paura, che no la gh'abbia gnanca mile fanfani[220]). (parte)

SCENA OTTAVA

Barbara, Agnese, Giacomina e Nicoletto.

GIAC. Grazie, sala, sior'Agnese.

AGN. Oh cossa dìsela? Per ste minchionerie no se ringrazia gnanca.

BARB. Védistu, fio? Sior'Agnese la gh'ha pagà una traversa a to sorela.

NICOL. E a mi me dónela gnente?

AGN. Cossa vorlo che ghe dona?

NICOL. Anca mi una traversa. (ridendo)

BARB. Oh che matto! séntela co buffoncelo che el xe? (ad Agnese)

NICOL. (Magari che la me la dasse! la porterave in cale de l'Oca).

AGN. Oh, se la me permette, siora Barbara, vago a casa.

BARB. Dirave, se la vol restar a far penitenza[221], ma la penitenza la saria troppo granda per ela.

AGN. Grazie, grazie, siora Barbara. Bisogna che vaga a casa, che aspetto zente. Oe, la diga, se vien sior Rocco, vorla che intaolemo[222] gnente el discorso?

BARB. Oh cossa vorla intaolar? In ancuo[223] come vorla che ghe prometta mile ducati de contai, e po tuto quelo che ghe vien drio?

AGN. Mo no m'ala dito dei domile ducati?

BARB. E mio fio, poverazzo?

AGN. Per so fio qualcossa sarà; no la pensa a so fio. La me daga la vesta e el zendà.

BARB. Via, servìla, Giacomina.

GIAC. Subito. (prende la roba, e l'aiuta)

BARB. (Oh el cielo lo voggia! mi credo che moriria de consolazion). Via, vate a metter el tabarro. (a Nicoletto)

NICOL. Subito. (Per diana gh'ho a caro, farò un'altra sbrissadina[224] in cale de l'Oca). (parte)

BARB. Védela con che allegria che el la serve? (ad Agnese)

AGN. Oh, quel puto lo volemo far un ometto. (vestendosi)

BARB. Altri che ela no lo pol agiutar.

AGN. Se se savesse la so intenzion. (come sopra)

BARB. La so intenzion? La so intenzion no xe altro che de esser bon, e de far tuto quelo che se ghe dise.

NICOL. Son qua, vorla che andémo? (col mantello)

AGN. Sì, andémo. Patrone.

BARB. Patrona.

GIAC. Patrona.

BARB. Daghe man, sastu, zo per le scale. (a Nicoletto)

NICOL. Siora sì.

AGN. Eh, el farà pulito.

BARB. Caspita! la lassa far a elo.

NICOL. (Se ghe podesse cavar qualcossa!)

AGN. A bonreverirle. (parte con Nicoletto)

BARB. Patrona.

SCENA NONA

Barbara e Giacomina.

GIAC. (Spiega l'indiana e la guarda)

BARB. Vedèu? Gh'avevi voggia de una traversa, e el ciel v'ha provisto.

GIAC. Vorla che me la fazza?

BARB. Fenì i maneghetti.

GIAC. Cara ela, la lassa che me fazza sta traversa.

BARB. Via, fèvela.

GIAC. Co bela che la xe! La me daga de le azze[225].

BARB. Mi no so se ghe n'abbia. Per diana, m'ho desmentegà de farmene dar da sior Rocco. Adesso, adesso, vôi mandar da elo, e vôi che sora sto marcà el me daga de le azze.

GIAC. Intanto laorerò in tei maneghetti. (siede e lavora)

BARB. Margarita.

      

SCENA DECIMA

Margarita e dette.

MARG. Siora.

BARB. Vardè se ghe xe qualchedun da mandar da sior Rocco, che el me manda un poco de azze da cuser la traversa de indiana.

MARG. Vorla che vaga mi in t'un salto?

BARB. Sì, andè vu, ma fe presto.

MARG. La diga, ala savesto dei do fazzoletti?

BARB. Che fazzoletti?

MARG. Che ha tolto sior Nicoletto.

BARB. Chi ve l'ha dito?

MARG. El zovene de sior Rocco.

BARB. Eh lo so, el li ha tolti per so sàntolo.

MARG. Per so sàntolo?

BARB. Siora sì; seu qua co le vostre solite maraveggie?

MARG. Eh, no digo altro. (La se ne accorzerà ela). (parte)

BARB. (No vorave che custia fusse inamorada de mio fio, e che perché el xe un bon puto, che no tende a ste cosse, la lo tolesse a perseguitar. Oh, averzirò ben i occhi).

MARG. Sala chi xe?

BARB. Chi xe?

MARG. So sior compare Lunardo.

BARB. Gh'ho ben a caro dasseno.

MARG. La ghe domanda dei fazzoletti.

BARB. Via, via, siora dottora, disèghe che el resta servido.

MARG. (La xe orba a sto segno, poverazza). (parte)

GIAC. Vorla che vaga de là?

BARB. No, no, fia, stè pur. (Sior compare so che omo che el xe; de diana, me fiderave de elo, se ghe n'avesse diese pute, se no basta una; el xe un omo da ben, e po el xe in un'età, che no gh'è pericolo che nissun possa dir).

GIAC. (Gh'ho una rabbia co sto mio sàntolo, che no lo posso soffrir. El me dise certe parole, el me fa certi atti... no ghe l'ho gnancora dito a siora madre, ma in verità, se el seguita, ghe lo digo).

BARB. El sta molto assae a vegnir dessuso!

GIAC. Bisogna che el stenta per la so doggia.

BARB. No avèu sentìo Nicoletto, che el xe varìo affatto? che l'ha caminà debotto[226] mezza Venezia?

GIAC. Siora sì, no me recordava.

BARB. Velo qua, velo qua.

SCENA UNDICESIMA

Lunardo e dette.

LUN. Siora comare, patrona. (col bastone, zoppicando)

BARB. Patron, sior compare.

LUN. Fiozza, sioria, fia mia. (dolcemente)

GIAC. Patron.

LUN. Me fale la carità de darme una carèga da sentar?

BARB. Cossa gh'alo?

LUN. No sala, siora comare? La mia solita doggia.

BARB. Via, daghe una carèga. (a Giacomino)

GIAC. Siora sì, subito. (va a prenderla)

BARB. Mo no gièrelo varìo?

LUN. No, fia; da tre o quattro zorni in qua stago pezo che mai. Ma, bisogna aver pazenzia! el cielo vol cussì, per mortificarme. Grazie, fia, sieu benedetta. (a Giacomina) Ahi ahi. (sedendo)

BARB. E perché alo fatto stamattina quel boccon de caminada?

LUN. Cara fia, giera un pezzo che no ve vedeva. Da casa a qua gh'averò messo do ore.

BARB. E nol xe stà a Castello, a l'Arsenal, su le Fondamente nove, a Rialto...

LUN. Ih, ih, gnanca in t'un mese no fazzo tuta sta strada.

BARB. (Oh poveretta mi!) Ala visto mio fio stamattina?

LUN. Siora no, sarà quindese zorni che nol me vien a trovar.

BARB. (Oh poveretta! mi! oh poveretta mi!)

GIAC. (Oe! le busie gh'ha curte le gambe).

BARB. La diga, caro sior compare, gh'ala ordenà do fazzoletti a mio fio?

LUN. Cara siora, no ve dighio che xe quindese dì che nol vedo?

BARB. Ma avanti, ghe li avévelo ordenai?

LUN. No, fia, no gh'ho ordenà gnente.

BARB. (Ah sassin! ah infame! ah traditor de la to povera mare!)

LUN. Coss'è, siora comare? Cossa xe stà?

BARB. Giacomina.

GIAC. Siora.

BARB. Presto, vame a tor la mia vesta e el mio zendà.

GIAC. Siora sì, subito. (Oh poverette nu! no ghe mancarave altro, che mio fradelo buttasse mal). (parte)

SCENA DODICESIMA

Barbara e Lunardo.

BARB. (Voggio andar da sior'Agnese; subito, no vorave che el me scampasse. Can, ladro, sassin, me lo voggio frantumar[227] sotto i piè).

LUN. Via, siora comare, se pol saver cossa che la gh'ha?

BARB. Oh, sior compare, son desperada.

LUN. No, siora comare, no la diga cussì; no bisogna mai desperarse.

BARB. Se tratta de un fio, de un fio che m'ho arlevà con tante strussie, che m'ho contentà de patir mi per elo, che ho magnà più lagreme che bocconi de pan; e co credo de avérghene consolazion, lo scoverzo busiaro[228], pien de cabale, pien de invenzion. E no la vol che diga? E no la vol che me despiera?

LUN. Oh, zoventù benedetta! Gh'alo pratiche?

BARB. No so gnente, ho paura de sì.

LUN. Oh, ste pratiche le xe la rovina de la zoventù.

BARB. (Me despiase che no ghe xe Margarita. Certo, certo la sa qualcossa. Quela cale de l'Oca me dà da sospettar).

SCENA TREDICESIMA

Giacomina e detti.

GIAC. La toga; dove vorla andar, siora madre? (le dà vesta e zendale)

BARB. Gnente, gnente, aspettème, che adesso vegno. (vestendosi)

GIAC. Stala un pezzo?

BARB. Vago da sior'Agnese, e torno. I xe quattro passi.

GIAC. No ghe xe gnanca Margarita. La xe andada dal marzer.

BARB. Ve lasso sior Lunardo; fin che vegno, el ve farà compagnia, nevvero? (a Lunardo, vestendosi)

LUN. Co se trata de servirla...

GIAC. Eh no no, se el vol andar, che el vaga, mi no gh'ho paura.

LUN. Eh no, fia, le pute in casa no le sta ben sole. Starò mi, starò mi.

BARB. Con so bona grazia, sior compare; la me aspetta, che adesso torno. Vardè sto zendà; come xélo? No so gnanca quel che fazza, né quel che diga. Son fora de mi. Prego el cielo che me tegna le man. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Lunardo e Giacomina.

LUN. (Vardè, quando che dise dei accidenti. Sto bon incontro nol me xe più capità).

GIAC. (Lavorando nei manichetti)

LUN. Cossa fala, siora Giacomina?

GIAC. Nol vede? Laoro.

LUN. Perché no se séntela?

GIAC. Perché no son stracca.

LUN. Via, che la se senta.

GIAC. Oh n'importa.

LUN. Via, che la se senta. Per obbedienza. El sàntolo se obbedisse; che la se senta.

GIAC. Sior sì, obbedirò. (tira la sedia lontana, e siede)

LUN. Cussì lontan la se tira?

GIAC. Ghe vedo meggio.

LUN. La gh'ha rason. Me tirerò un pochetto anca mi. (vuol accostarsi colla sedia, e la doglia l'incomoda) Ahi, ahi, malignaza sta doggia!

GIAC. (Nol me fa gnente de peccà[229]).

LUN. Fiozza[230], che dizial[231] gh'avèu?

GIAC. Oh, un strazzetto de laton.

LUN. Disè, volèu che ve ne paga un d'arzento?

GIAC. Grazie, grazie; gh'ho questo, che me fa e me strafà[232].

LUN. Lassè che veda mo sto bel laorier[233]. (si mette gli occhiali)

GIAC. Oh, no ghe xe gnente de belo.

LUN. Eh, ghe xe ben qualcossa de belo lu. (guardando la giovine)

GIAC. (Oh co stuffa che son!)

LUN. Cara fia, lassè che toga la misura del vostro dizial.

GIAC. Sior no.

LUN. Mo via.

GIAC. La fenimio? (s'alza)

SCENA QUINDICESIMA

Margarita e detti.

MARG. Son qua co le azze.

GIAC. Dè qua, dè qua.

MARG. Dove xe la patrona?

GIAC. No la gh'è. Adessadesso la vien. (in atto di partire)

LUN. Dove andèu, fiozza?

GIAC. Vago a taggiar una traversa.

LUN. Volèu che vegna anca mi? (vuol alzarsi, e non può)

GIAC. Sior no, sior no.

LUN. Dème man che me leva suso.

GIAC. (Eh, che el vaga in malórzega[234]). (parte)

SCENA SEDICESIMA

Lunardo e Margarita.

MARG. Vorlo che mi l'agiuta?

LUN. Sì, fia, feme la carità.

MARG. Volentiera. (gli dà mano)

LUN. Sieu benedetta. Cussì me piase le bone putele, de bon cuor. Vu almanco no sè rustega[235] co fa siora Giacomina.

MARG. De diana! co se pol far un servizio!

LUN. Nevvero, fia? Cara vu, dème man.

MARG. Vorlo andar via?

LUN. Vien de l'aria da sto balcon, vorave tirarme un pochetto più in là.

MARG. Cossa gh'alo, che nol pol caminar?

LUN. Una doggia in t'un zenocchio.

MARG. Da cossa ghe xela vegnua?

LUN. No so, fia mia; el mal, col vol vegnir, el vien. E sì savè, de mi no se pol dir gnente. M'ho sempre governà.

MARG. El xe un omo tanto da ben.

LUN. Chi ve l'ha dito, fia, che son un omo da ben?

MARG. La patrona.

LUN. Per grazia del ciel gh'ho sto bon concetto. Tireme in qua la carèga.

MARG. Volentiera. (gli dà la sedia)

LUN. Ahi, ahi. (sedendo)

MARG. Poverazzo, el me fa peccà.

LUN. Sentève anca vu arente de mi.

MARG. Vorla, sì? La toga. (siede)

LUN. Seu da maridar?

MARG. Sior sì.

LUN. Perché no ve maridèu?

MARG. Perché son poveretta, e nissun me vol.

LUN. Se ne marida tante, anca senza dota.

MARG. Se fusse bela!

LUN. Mo andè là, che gh'avè do occhi che brusa[236].

MARG. Dìselo dasseno?

LUN. Se savessi cossa che me piasè[237]!

MARG. Con tuta la doggia?

LUN. Vardè mo, ve piàselo sto bel fazzoletto?

MARG. Belo, belo, dasseno.

LUN. Se volè, sè parona.

MARG. Grazie, receverò le so grazie. (lo prende)

LUN. Cossa gh'avèu nome?

MARG. Margarita.

LUN. Margarita, me volèu ben?

MARG. No se salo? (Oh che te pustu[238]! Vardè dove che se cazza l'ira[239]).

LUN. No ghe disè gnente, savè, a la vostra parona.

MARG. Oh sior no, nol s'indubita.

LUN. Me vegnirèu a trovar?

MARG. Oh, cossa vorlo che diga la zente?

LUN. Son da maridar anca mi.

MARG. Alo intenzion de volerse maridar?

LUN. Perché no?

MARG. (Se nol gh'avesse la doggia).

LUN. Sentì, son ricco, savè.

MARG. Oh, xe qua la parona. (s'alza)

LUN. No parlè, vedè.

MARG. Oh, no parlo.

SCENA DICIASSETTESIMA

Barbara e detti.

BARB. Xélo vegnù a casa mio fio? (a Margarita)

MARG. Siora no.

BARB. Ah poveretta mi! dove mai saralo?

MARG. No xélo andà a compagnar sior'Agnese?

BARB. Siora sì, son stada da ela. La m'ha dito, che malistente[240] el l'ha compagnada a la porta, l'è

corso via, e no so dove che el sia; poveretta mi, no so dove che el sia.

MARG. El sarà in cale de l'Oca.

BARB. Mo da chi in cale de l'Oca? Se savè qualcossa, parlè.

MARG. Mo, cara ela, se parlo, no la me crede, la ne salta[241], la me dise che vôi metter mal.

BARB. Cara Margarita, se me volè ben, disème tuto, disème quel che savè. Za vedo che mio fio no xe più quel che el giera. L'ho scoverto busiaro, no ghe credo più. Ma remediémoghe, se se pol; anca elo, sior compare, in tel caso che son, nol me abbandona per carità.

LUN. Son qua in quel che posso. (Anderave pur via volentiera).

MARG. Vorla che ghe conta?

BARB. Sì, contème.

MARG. Co la vol che ghe conta, ghe conterò. La sappia che sior Nicoletto in cale de l'Oca el va da una puta, e sta puta la gh'ha so mare. Ma so mare la gh'ha maridà altre tre fie senza dota, e sior Nicoletto i do fazzoletti el ghe li ha donai uno a la fia, e uno a la mare. E sala chi l'ha menà in sta casa? Sior Gasparo Latughetta, un zogador, un scavezzacolo, e so fio, sala, el voleva che mi ghe imprestasse un ducato, e perché no ghe l'ho dà, el m'ha maledio, e l'ha dito cospetto, e vorla che ghe ne conta una granda? El gh'ha el corteletto in scarsela...

BARB. Chi?

MARG. Sior Nicoletto...

BARB. Mio fio?

MARG. Sì, anca da quela che son.

BARB. Povera dona mi! ala sentìo, sior compare?

LUN. Ho sentìo mi.

BARB. Ghe dìsela poco travaggio a questo?

LUN. Ah, l'ho sempre dito. Le done xe la rovina del mondo.

MARG. (Ma gnanca a elo no le gh'incende[242]).

BARB. Savèu dove che le staga ste done in cale de l'Oca? (a Margarita)

MARG. Sala chi lo sa? chi le cognosse? e che m'ha contà tuto? La lavandera, che ghe lava anca a ele, e se la vol, se la ghe dona un da trenta[243], m'impegno che la la mena[244] fina a la porta, e la ghe fa anca tirar[245], e la la mena de suso[246].

BARB. Dove se porla trovar la lavandera?

MARG. Adesso co son vegnua via dal marzer, ho visto che la se metteva al mastelo[247].

BARB. Andèla a chiamar, disèghe che la vegna con mi; ghe darò un da trenta, ghe darò un ducato, ghe darò tuto quel che la vol.

MARG. Siora sì, vago subito. (Malignazonazo[248]! ti imparerà a maledir). (parte)

BARB. Sior compare, la me fazza la carità de vegnir con mi.

LUN. Come vorla che fazza? No sala che no posso caminar?

BARB. Anderemo in barca.

LUN. Cara ela, la me despensa.

BARB. No la me abbandona, no la fazza che dava in qualche desperazion.

LUN. Oh poveretto mi! (Stenta ad allontanarsi)

BARB. La me daga man. (l'aiuta)

LUN. In casa de done mi no paro bon, no me piase…

BARB. Cossa gh'alo paura? el vien con mi. Presto, sior compare.

LUN. Ma se stento a caminar.

BARB. Andémo, che ghe darò man. (gli dà mano) Chi l'avesse mai dito! un puto de quela sorte!  (camminando e parlando con calore, dà degli urti a Lunardo, ed egli si duole)

LUN. Ahi.

BARB. El giera le mie viscere, la mia consolazion. I me l'ha rovinà.

LUN. Ahi.

BARB. Sior compare, per carità. (agitata lo spinge, e parte)

LUN. Siora comare, no me precipitè. (traballa, e zoppicando parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera in casa di Lodovica.

Lodovica, Daniela e Nicoletto.

LOD. Bravo, bravo, sior Nicoletto, avè fatto ben a tornar.

NICOL. E ela gh'ala a caro[249] che sia tornà? (a Daniela)

DAN. No vorlo? Magari stasselo sempre con mi.

LOD. Chi sa? pol esser che un zorno el ghe staga; nevvero, fio mio?

NICOL. Per mi gh'ho bona speranza.

DAN. Se el me volesse ben.

NICOL. No la crede che ghe ne voggia?

DAN. Un pochetto.

NICOL. Oe, un pochetto la dise? (a Lodovica)

LOD. No védistu, fia, se el te vol ben? El xe andà a Rialto el xe andà a far i so servizietti, da ometto, e po subito el xe tornà. Disè, sior Nicoletto, i avèu scossi i bezzi a Rialto?

NICOL. Siora no, no i ho scossi.

LOD. Mo perché no i avèu scossi?

NICOL. Perché quel che li aveva da dar, nol giera gnancora vegnù, e mi m'ho stuffà de aspettar, e son vegnù via.

LOD. Vedèu? avè fatto mal, dovevi aspettarlo.

NICOL. M'ha premesto de vegnir qua. No vedeva l'ora de tornar a véder siora Daniela.

LOD. No seu stà qua tuta stamattina? Che bisogno ghe giera, che lassessi star de far i vostri interessi? Queste le xe putelae[250].

DAN. Poverazzo! Se vede che el me vol ben.

LOD. Oh el ben, el ben... ghe vol altro che ben. Se l'avesse scosso i so bezzi, se el fusse vegnù qua coi sie o settecento ducati in scarsela l'averave parso più bon.

NICOL. Crédela che no gh'abbia bezzi? Se la vedesse quanti che ghe n'ho a casa!

LOD. E adosso no ghe ne portè?

NICOL. No ghe ne porto, perché son troppo ladin[251]; gh'ho le man sbuse[252]. Co ghe n'ho, no i xe mii. Se i me ne domanda, no me posso tegnir. Averò d'aver o tre o quattro mile ducati de bezzi imprestai.

LOD. Mi ho pensier, sior Nicoletto, che siè una bela panchiana[253].

DAN. Via, no la ghe diga ste cosse.

NICOL. Mi panchiana? Per cossa?

LOD. Perché sta vostra generosità in casa nostra no l'avemo gnancora vista.

NICOL. Cossa vorla che fazza? La diga.

LOD. Oh, mi no vôi gnente, vedè. Né mi, né la mia puta, no semo de quele. Ma co se pratica, co se vol ben, e co se ghe n'ha, e co se gh'ha cuor, se procura de farlo cognosser con civiltà, con bona maniera, e no se vien a far de le spampanae[254]: gh'ho questo, e gh'ho st'altro. Se li gh'avè, petèveli.

NICOL. Da una banda la gh'ha rason. Se non ho fatto, farò. (mortificato)

LOD. Ve n'avèu per mal, fio? Ve parlo da mare[255], savè. Perché, vedèu? vorave che Daniela fusse segura, che ghe volè ben.

NICOL. Se no ghe volesse ben, no vegnirave qua.

LOD. Oh sì, sì; ma se va cussì, de le volte, per devertirse.

DAN. Se no fusse segura che el me volesse ben, me vorave andar a negar[256].

NICOL. De diana! ghe ne voggio tanto.

LOD. Ma che intenzion gh'avèu? Spieghève.

NICOL. Cossa vorla che diga? No sala?

DAN. Oe, sta a vu, vedè. Per mi no digo de no seguro.

LOD. Oh, no sta né a vu, né a elo, patrona. Bisogna veder se mi voggio.

NICOL. Mo cossa no vorla?

LOD. Mi no voggio morosetti per casa. Ho fatto la guardia a le mie pute tanto che basta. Ghe n'ho maridà tre, fio caro, e con tuti ho dito cussì. O drento, o fora[257].

DAN. O che el dise dasseno, o che el dise da burla. Se el dise dasseno, tanto fa che se destrighemo.

NICOL. (Cossa che me trema le gambe!)

LOD. Da chi dependèu?

NICOL. Da nissun.

DAN. Ghe comàndela so siora madre?

NICOL. Oh giusto? no son miga un putelo.

DAN. Perché vorlo tirar avanti?

LOD. Perché el te vol poco ben.

DAN. Se nol me vol ben, che el me lassa star. (con passione)

LOD. Co no se vol, e co no se pol, no se vien a metter suso le pute.

NICOL. De diana! non ho miga dito de no volerla.

LOD. Ma no avè gnanca dito de torla.

NICOL. Siora sì, la torò.

DAN. Oh sièstu benedetto! l'ha dito che el me torà.

LOD. Ghe promettèu?

NICOL. Ghe prometto.

DAN. E mi, Nicoletto, ve prometto a vu.

NICOL. E mi a vu.

LOD. Sentì, savè, arecordève ben, che avè promesso a mia fia, che avè promesso a una puta poveretta, sì, ma onorata, che per vu l'ha lassà tre o quattro partii, che se mai ghe manchessi, prima de tuto el cielo ve castigheria, o po ghe xe bona giustizia, e mi, savè, gh'ho de la protezion in sto paese, che ve farave tremar.

DAN. De diana! se el fasse una cossa de sta sorte, ghe vorave cavar el cuor.

NICOL. Cara ela, la me daga da sentar. (a Lodovica)

LOD. Cossa gh'avèu? (gli dà una sedia, e Nicoletto siede)

DAN. Ve vien mal?

NICOL. Siora no. (si asciuga la faccia)

LOD. Seu pentio fursi!

NICOL. Oh cossa che la dise!

DAN. Oe no gh'è più remedio, vedè.

LOD. Quando ghe darèu l'anelo?

NICOL. Un de sti zorni.

DAN. Vardè ben che el sia belo, vedè!

LOD. E destrighève, e menévela a casa.

NICOL. (Oh poveretto mi! cossa dirà mia mare?)

LOD. E arecordève che mia fia no gh'ha gnente, che bisogna che principiè fina da la camisa.

NICOL. Oh siora sì, faremo.

DAN. Vederò se me volè ben.

LOD. Se avè da far de le spese, conseggiève con mi, dème i bezzi a mi, che vederè quanto che ve farò sparagnar.

NICOL. Siora sì, siora sì, la farà ela.

DAN. E vostra siora madre?

NICOL. Oh n'importa.

DAN. Dirala gnente?

NICOL. Cossa volèu che la diga?

LOD. No la ve comanda miga.

NICOL. Oh giusto!

LOD. I ha battù, me par.

DAN. M'ha parso anca mi.

LOD. Va a véder chi xe.

NICOL. Cara vu, vardè chi xe. (con timore)

DAN. Chi gh'avèu paura che sia?

NICOL. No so, mi no gh'ho paura de gnente.

DAN. Se vien qualche intrigabisi[258], lo mando via. (parte)

LOD. Oh in casa mia, fio mio, no ghe vien nissun.

NICOL. Sior Gasparo ghe vienlo più?

LOD. Oh, Daniela l'ha licenzià. Per vu, savè, la l'ha licenzià. E sì, el la voleva a tute le vie[259]; e anca con elo la sarave stada da regina. Ma bisogna dir che la sia stada destinada per vu.

NICOL. (Mi no so in che mondo che sia).

DAN. Son qua.

LOD. Chi xe?

DAN. Xe la lavandera.

LOD. Cossa vorla?

DAN. La gh'ha un cesto. La porterà de la roba.

LOD. Mi no gh'ho dà gnente sta settemana. Gh'astu tirà?

DAN. Siora sì.

NICOL. No vorave che la me vedesse.

LOD. Oh, no ve tolè suggizion.

DAN. Oh, gnente a sto mondo.

LOD. Oe, dona Fùrega. (chiamando)

NICOL. Dona Fùrega?

LOD. Sior sì, la cognosseu?

NICOL. La xe la nostra lavandera de casa.

DAN. Vardè, vedè, no la ne l'ha miga mai dito.

NICOL. Me scoverzirala?

DAN. Con chi? De chi gh'aveu paura?

LOD. No s'alo da saver[260]? Vegnì avanti, dona Fùrega.

SCENA SECONDA

Barbara e detti, poi Lunardo.

BARB. Patrone reverite.

NICOL. (Oh poveretto mi!)

LOD. Chi èla? (a Barbara)

DAN. Come xéla vegnua? (a Barbara)

BARB. Cossa fala qua, patron? (a Nicoletto)

NICOL. Gnente. (tremando)

LOD. La me responda a mi. Chi xéla? (a Barbara)

BARB. Co la vol saver chi son, son la madre de sto puto, patrona.

LOD. Oe, la xe to siora madona. (a Daniela)

DAN. Gh'ho ben a caro, dasseno.

BARB. Coss'è sta to siora madona? Me maraveggio che una mare de fioi gh'abbia tanto cuor de sassinar un puto in sta forma.

DAN. Come parlela, patrona?

LOD. No la ne perda el respetto, che semo zente da ben.

BARB. Se fussi zente da ben, no tratteressi cussì.

DAN. Chi l'ha chiamà so fio?

LOD. Chi gh'ha dito, che el vegna a tirar zo la mia creatura?

BARB. Ànemo, sior desgrazià, sior poco de bon, fora subito de sta casa.

NICOL. Siora sì, vegno.

DAN. Siora sì, ghe disè?

LOD. Siora sì, ghe disè?

DAN. Gh'avèu paura a dirghe che m'avè promesso?

LOD. Gh'avèu suggizion de dirghe che la xe la vostra novizza?

BARB. Oh poveretta mi! novizza? promesso? Can desgrazià, sassìne, sassìne. (alle due donne)

LOD. Oe oe.

DAN. Come parlela?

LUN. Zitto, zitto, creature. No ve fe smattar.

DAN. Col bravo la xe vegnua[261]?

LOD. No ti vedi, che nol pol star in pìe?

BARB. Povero desgrazià! povero senza giudizio! Ti ha abù sto cuor de sassinarte ti, e de sassinar la to povera madre? Maridarte? Ti maridarte? e tor una senza gnente a sto mondo? Come farastu a mantegnirla furbazzo? Ti no ti gh'ha intrae, ti no ti gh'ha impiego; fin adesso t'ho mantegnù mi co la mia poca de dota; col mio laorier, con quelo de la to povera sorela; s'avemo contentà de despoggiarse nu per vestirte ti. Ti sa quel che ho fatto per ti. No me vergogno de dirlo; ho domandà, se pol dir, la limosina, per arlevarte con civiltà, per mantegnirte a scuola, perché ti comparissi da quel galantomo che ti xe nato. Oh poveretto ti, sul fior de la to zoventù, sul prencipio de le to speranze, ti te precipiti in sta maniera, ti te scavezzi el colo cussì? Ah creature, compatime. Compatime, creature, e pensèghe ben anca vu. Costù xe un sassin, el m'ha sassinà mi, e el ve sassina anca vu. Vu sposerè un pitocco. Sarè una miserabile. E mi povera vedoa, e mi povera madre, dopo aver tanto strussià e tanto pianto, averò el dolor de véder el mio sangue a penar, e dir: quel pan che m'ho levà da la bocca, ha nutrio un barbaro, un traditor. (tutti piangono, uno alla volta, principiando Nicoletto, poi Daniela, poi Lunardo, poi Lodovica)

NICOL. (Sia maledetto quando che son vegnù qua).

LUN. Co vedo done a pianzer, no me posso tegnir.

BARB. Nicoletto. (tenera sospirando)

NICOL. Siora. (mortificato)

BARB. Vardème.

NICOL. (Dà in un dirotto pianto)

BARB. Ti pianzi ah! ti pianzi. Xéle lagreme da fio, o xéle lagreme de cocodrilo?

NICOL. Sento che me schioppa el cuor.

LOD. Ve schioppa el cuor ah? Sior cabulon, sior busiaro; vegnir qua a metter suso sta povera inocente; e mi bona dona, che non ho mai volesto pettegolezzi per casa, el m'ha inzinganà, no so come che l'abbia fatto, el m'ha inzinganà.

BARB. Cara siora, questo xe un mal che ghe xe remedio. L'alo sposada vostra fia?

LOD. Nol l'ha sposada, ma el gh'ha promesso de sposarla, e l'ha lassà per elo dei altri partii, e tuti lo sa, e se nol la sposa, poveretta ela.

DAN. Se tratta de dir, che una puta de la mia sorte sia menada per lengua, che se diga l'ha fatto l'amor col tal, e el gh'ha anca promesso, e co no l'ha tolta, bisogna che ghe sia de la gran rason.

BARB. Mo no avèu sentìo in che stato che el xe?

DAN. Mi no m'importa gnente. Sotto una scala, pan e aggio, ma lo voggio.

LOD. E se tratta de la nostra reputazion.

LUN. (Poverazza! la me fa compassion).

BARB. Orsù da sto nostro discorso se vede che sè zente desperada. Mio fio nol l'ha tolta, e cospetto de diana! nol la torà.

LOD. Se el gh'averà fià in corpo, bisognerà che el la toga.

BARB. Ànemo, vegnì a casa con mi. (a Nicoletto)

NICOL. Siora sì, vegno.

DAN. Nicoletto, fio mio, ànema mia.

NICOL. Uh! (si pesta la testa)

BARB. Sior aseno, sior bestia. (gli dà un scopelotto)

NICOL. La me daga, la me coppa, che la gh'ha rason.

LOD. Xéla una bela azion d'una mare? (a Barbara)

BARB. Tasè, vedè, tasè, e sto nome de mare respettèlo, e se el vostro cattivo cuor no ve fa destinguer el debito d'una mare, imparèlo da mi. (a Lodovica) (Ànemo, vien via con mi). (a Nicoletto, prendendolo per la mano)

DAN. Ah, no gh'è più remedio.

LOD. In sta maniera no anderè via de sta casa. (a Nicoletto, lo prende per l'altra mano per trattenerlo)

BARB. Vien con mi, e no pensar altro. (lo tira)

LOD. Ve digo che ve fermè. (lo tira)

LUN. Via, madona, lassèlo andar. (a Lodovica)

LOD. No vogio. (lo tira)

BARB. El xe mio fio. (tira)

LOD. L'ha da tor mia fia. (tira)

BARB. El torà el diavolo che ve porta. (dà una spinta a Lodovica, che va addosso a Lunardo, e cadono in terra tutti due, e Daniela si getta sopra la sedia, e Barbara parte correndo, strascinando seco Nicoletto)

SCENA TERZA

Lunardo, Lodovica e Daniela.

LUN. Oh poveretto mi! agiutème. (in terra)

LOD. Dame man, Daniela.

DAN. Oh cara siora, no gh'ho fià da star in piè.

LOD. Oh povera dona mi! (s'alza)

LUN. Se no me dè man, mi no levo suso.

LOD. Via, storna, vien qua, agiùtelo sto galantomo, che elo te pol far del ben. Se el xe un omo giusto, el farà che Nicoletto te mantegna quel che el t'ha promesso.

DAN. Oh, mi son nata desfortunada. (fra le due donne aiutano Lunardo ad alzarsi)

LUN. El cielo ve renda merito de la carità che m'avè fatto. (va a sedere)

LOD. Dime, cara ti. Senti, xestu mo tanto inamorada de quel puto? (piano a Daniela, tirandola in disparte)

DAN. Mi no ghe digo de esser inamorada, inamorada, ma ghe voggio ben; e po penso che ogni ano passa un ano, e se perdo sta occasion, vàtela a cerca[262] co me marido.

LUN. (Me podeva succeder de pezo?) Se no me passa sto dolor, mi no posso andar via.

LOD. Senti, o bisognerà che el te sposa, o che qualcossa el te daga.

DAN. Ghe vôi far lite. Co nol me tol mi, no vôi che el toga altre seguro.

LOD. (Sentìmo cossa che dise sto galantomo. El me par un omo da ben).

DAN. (El sarà so parente, el ne sarà contrario).

LOD. (Sentìmo, fémoghe de le finezze. Chi sa?) (s'accosta a Lunardo)

DAN. (Oh, la xe molto dura. Esser in sti ani, volerse maridar, e non poder! (da sé, poi s'accosta a Lunardo)

LOD. S'alo fato mal?

LUN. Un pochetto.

DAN. Cossa gh'alo a sta gamba?

LUN. Se m'ha calà una flussion, che xe do o tre ani, ma st'ano la me tormenta de più. Son stà in letto do mesi, che no me podeva voltar. Da do o tre zorni in qua stava meggio; ma adesso, co sta cascada che ho fatto, no so come che la sarà.

LOD. Poverazzo! Xélo so parente sior Nicoletto?

LUN. Siora no. El xe mio fiozzo.

LOD. Cossa dìsela de sto caso?

LUN. Povera puta! dasseno la me fa peccà.

LOD. Cossa ghe par? Xéla una puta da strapazzar in sta forma?

LUN. (Si mette gli occhiali) Volèu che ve la diga, che la xe un tocco che la fa voggia?

DAN. Tuta so bontà, mi no gh'ho sti meriti.

LOD. E mi ho da soffrir, che per causa de un fio baron e de una mare inspiritada[263], sta povera puta m'abbia da andar de mal?

LUN. No, fia, el cielo provederà. Sentève, creature, no stè in pìe; mi no me posso levar.

DAN. Eh n'importa, che el se comoda pur.

LOD. Ghe dol assae?

LUN. Adesso no tanto; ma co son cascà, son squasi andà in accidente[264].

DAN. Vorlo un gotto de acqua?

LOD. No, ghe farave meggio un caffè.

LUN. Me faràvelo ben el caffè?

LOD. Caspita! vorla che lo mandémo a tor?

LUN. La me farave servizio.

LOD. Adesso; chiamerò una putela che ne sta in fazza, e lo manderò a tor.

LUN. Anca per ele, sala.

LOD. Séntistu, Daniela?

LUN. Daniela, mo che bel nome!

DAN. Oh, per mi lo ringrazio. Caffè no ghe ne voggio.

LUN. Cossa voràvela?

DAN. Gnente.

LOD. (Mo che morgnona[265]!)

LUN. Cara ela, qualcossa. (a Daniela)

LOD. Eh sì, sì, anca per ela. Con grazia. (parte)

SCENA QUARTA

Lunardo e Daniela.

DAN. (Quela mia madre per un caffè no so cossa che la farave).

LUN. Mo perché non se séntela?

DAN. Perché vôi vegnir granda.

LUN. Ih ih, un pochetto de più, de diana! No gh'arrivo gnanca a vardarla. (si mette gli occhiali) Cara ela, la me daga man.

DAN. Volentiera. (l'aiuta)

LUN. Mo la gh'ha una gran bela man!

DAN. Oh cossa che el dise!

SCENA QUINTA

Lodovica e detti.

LOD. Ho mandà. Brava, me consolo! Ti t'ha po sentà.

DAN. Che la se senta anca ela.

LUN. Oh, se l'ha da far qualcossa, n'importa.

LOD. Me senterò fina che i porta el caffè. (siede) Me despiase che l'è vegnù in t'una zornada cattiva, che semo cussì tavanae[266]; da resto ghe faressimo un poco più de accetto[267].

DAN. Se el savesse! son cussì mortificada, che no ghe posso fenir de dir.

LUN. Sentì, fia, da una banda ve compatisso; ma da l'altra sappiè che quelo no giera negozio per vu. Cossa volèu che fazia un povero puto, che no gh'ha gnente a sto mondo?

LOD. Se l'avesse sentìo quante spampanae che l'ha fatto!

DAN. El n'ha dito cossazze, el n'ha dito.

LUN. La zoventù del tempo d'adesso no gh'ha altro che chiaccole. Oh mi, fia, se m'avessi cognossù in ti mi boni tempi!

LOD. Xélo maridà?

LUN. Siora no.

LOD. Dasseno, nol xe maridà?

LUN. Co ghe digo de no.

DAN. Perché no s'alo mai maridà?

LUN. Ve dirò, fia; fin che giera san, no gh'aveva bisogno de maridarme. Adesso che son cussì, nissuna me vol.

LOD. Oe, Daniela; nissuna lo vol.

DAN. Oh, se dise cussì per modo de dir.

LUN. Chi vorla che me toga in sto stato che son?

LOD. Gh'alo altro che la flussion?

LUN. Per grazia del cielo, mi no gh'ho altro.

LOD. Chi gh'alo in casa, che lo governa?

LUN. Oh se la savesse! no gh'ho nissun dal cuor. Son in man de una serva e de un servitor, che me fa desperar.

LOD. Séntistu, Daniela? El gh'ha serva e servitor.

DAN. No se vede che el xe un signor de proposito?

LOD. Poverazzo! el gh'averave bisogno de una che lo governasse!

LUN. (Che boccon de galiotta che xe sta vecchia!)

LOD. Oh, xe qua el caffè. Vegnì avanti...

LUN. No, no, la vaga ela a torlo, no se femo véder da costori.

LOD. Sì, sì, la dise ben. (Oh, el xe un omo de garbo!) (va, e torna col caffè)

LUN. Bisogna aver riguardo per amor de la zente. (a Daniela)

DAN. Oh, el dise ben.

LOD. Vorlo troppo zucchero? (vuotando il bisogno)

LUN. Le se serva ele.

LOD. Sior no, prima elo. Fa ti, Daniela, che ti sa far pulito. Oh se el savesse che donetta de casa che xe quela puta!

DAN. Va ben cussì? (gli mostra il zucchero)

LUN. Siora sì, pulito. (si versano le tre chicchere, e frattanto si parla)

LOD. El diga, cossa gh'alo nome?

LUN. Lunardo. Lunardo Cubàtoli, per servirla. Omo cognito in sto paese, che vive d'intrada, e che per grazia del cielo, xe tegnù in concetto de un omo da ben, che no fa mal a nissun, che fa del ben a tuti, se el pol.

DAN. Alo mai fatto l'amor?

LUN. In publico mai.

LOD. E in secreto?

LUN. Co ho podesto.

LOD. Mo che omo bon! mo che omo gustoso!

DAN. Che el diga, caro elo, per cossa xelo vegnù qua ancuo?

LUN. Mia comare m'ha strassinà ela per forza.

LOD. Per amor de so fio, nevvero?

LUN. Per amor de so fio.

DAN. Ma, el me l'ha fatta!

LOD. Oh via, no parlemo altro. Quelo ti te l'ha da desmentegar. Nol giera per ti. El cielo el fa tuto per el meggio. Se ti averà d'aver fortuna, ti la gh'averà. Védistu? De sta sorte de omeni ghe voria per ti.

DAN. Oh, mi no son degna de tanto!

LUN. (La gh'ha un certo patetico sta puta, che me pol assae!)

LOD. Che porta via le chicchere?

LUN. Siora sì, quel che la vol.

LOD. Che licenzia el puto?

LUN. La lo licenzia pur.

LOD. (La sarave bela, che l'avesse da pagar mi el caffè!)

LUN. Dasseno, siora Daniela...

LOD. Gh'alo monea elo?

LUN. Oh in verità dasseno, che me desmentegava. Giera tanto incantà in sta puta, che me andava de mente.

LOD. No gh'è altro. Mi no so cossa che la gh'abbia. Tuti chi la vede, s'incanta.

LUN. La toga, xélo un da quindese?

LOD. Sior sì. (Astu visto quanti bezzi che el gh'ha? altro che quel cagariola[268]!) (piano a Daniela, e va a portar le chicchere)

DAN. (Oh, se el me volesse, no m'importeria de la doggia).

LUN. (Voggio far una prova. Voggio véder de che taggia che xe sta zente).

LOD. Son qua con ela. (a Lunardo, ritornando)

LUN. Siora... coss'è el so nome?

LOD. Lodovica, per servirla. (siede)

LUN. Siora Lodovica, vedo che tanto ela, quanto sta puta, le gh'ha de la bontà per mi; vorave farghe una proposizion.

LOD. La diga. Son dona, sala, che si ben che la me vede cussì... basta, no fazzo per dir...

LUN. Mi, come che diseva, son solo in casa...

LOD. Ascolta anca ti, Daniela.

DAN. Oh ascolto.

LUN. No gh'ho nissun da poderme fidar, e in sto stato che son, gh'ho bisogno de esser assistio, de esser governà.

LOD. De diana! mia fia xe un oracolo. Lo faravistu volentiera, Daniela?

DAN. No vorla? eccóme!

LUN. E anca vu poderessi dar una man. (a Lodovica)

LOD. Mi? Védelo mi? Cussì vecchia come che son, no gh'averia travaggio[269] de torme l'insulto[270]de governar una casa.

LUN. Ben donca, se le vol vegnir a star con mi tute do, no ghe mancherà el so bisogno; ghe darò el manizo de la casa; ghe passerò un tanto a l'ano per vestirse, e po le gh'averà tuto quelo che le vorà.

LOD. Sior sì, no la me despiase.

LUN. Ah cossa diseu, fia? (a Daniela)

DAN. In che figura me voràvelo, sior?

LUN. Da dona de governo.

LOD. Sior sì, dona de governo.

DAN. Me maraveggio, che a una puta la vegna a far sta sorte de esibizion. Son zovene, ma no son tanto alocca come che el crede. Le pute da ben no le va per done de governo con un omo solo, con un omo che fa l'amor in secreto. Xe vero che ghe sarave mia madre, ma mia madre, che la me compatissa, la gh'ha manco giudizio de mi. Patron. (parte)

SCENA SESTA

Lunardo e Lodovica.

LUN. (La m'ha coppà).

LOD. (Frasca!) La burla, salo.

LUN. Siora no, no la burla. La dise dasseno, e dirò dasseno anca mi. Ma vu, siora... agiutème a levar suso.

LOD. Son qua, cossa gh'alo con mi?

LUN. Andémo de là da vostra fia, che ghe vôi parlar.

LOD. Sior sì, andémo.

LUN. (Ho cognossù che la xe una puta che gh'ha giudizio).

LOD. Vegnirémio a star con elo?

LUN. Ela sì, e vu no. (parte zoppicando)

LOD. Oh slancadon[271] del diavolo! voggio magnar anca mi. (parte)

SCENA SETTIMA

Camera in casa di Barbara.

Giacomina e Margarita.

GIAC. Cara vu, no me stordì altro de sto mio fradelo. Me despiase de siora madre, che no la vedo gnancora a tornar.

MARG. Xe lontan, sala, dove che la xe andada.

GIAC. Xe anca un bel pezzo che la xe via.

MARG. La xe andada in cale de l'Oca.

GIAC. Mi no so dove che la sia.

MARG. E po! chi sa cossa che xe nato!

GIAC. Mo via, no me fe star zo el cuor[272].

MARG. Se la savesse che done che le xe!

GIAC. Mo se no lo vôi saver.

MARG. La gh'averave una gran bela cugnada! (con disprezzo)

GIAC. Spero che no la gh'averò.

MARG. Porlo far pezo quel puto per precipitarse?

GIAC. Siora madre ghe remedierà.

MARG. La ghe crede troppo a so fio.

GIAC. Nol ghe n'ha mai fatto[273].

MARG. La ghe vol troppo ben.

GIAC. El xe so fio.

MARG. El xe un baroncèlo.

GIAC. Sentì, savè, no strapazzè mio fradelo, che ghel dirò a siora madre, e ve farò mandar via.

MARG. Za, subito se parla de mandar via. Ogni mendeché[274], ve manderò via. Anderoggio su la strada per questo? Me mancherà a mi de andar a servir? Per cossa ghe staghio qua? Perché gh'ho chiapà amor. Ma no fazzo gnente, no son reconossua per gnente. Tuti me cria, tuti me strapazza, anca quel frasca m'ha dito, sièstu malede...

GIAC. El v'ha dito?

MARG. Siora sì che el me l'ha dito. Ma no me fa caso de elo, me dago de maraveggia de ela, che la sa che ghe voggio tanto ben, che no so cossa che no faria, e perché ho dito cussì, subito la me salta, e la me dise che la me farà mandar via. (piangendo)

GIAC. No, Margarita, no, fia, ho dito cussì in colera. (piangendo)

MARG. Oh za, lo vedo che no la me vol più ben. (come sopra)

GIAC. Mo via po, no me fe pianzer. (come sopra)

MARG. Oh, no son più la so cara, no. (come sopra)

GIAC. Siora sì, che lo sè. Vegnì qua. (si baciano, e si asciugan gli occhi)

MARG. I batte.

GIAC. Oh magari che fusse siora madre!

MARG. Figurarse se la xe siora madre! Ghe ne vol avanti che la vegna! Chi sa che diavolezzi che xe successo! Chi sa che no le abbia fatto baruffa! Me aspetto de sentir qualche gran precipizio. (parla camminando, e facendosi sentire a Giacomina, poi parte)

SCENA OTTAVA

Giacomina, Margarita, poi Agnese.

GIAC. Mo la xe una gran puta! la vol dir certo, vedè, la vol dir certo. Conosso ben anca mi che la parla per amor, e che la passion la fa dir, ma no la gh'ha riguardo de darme travaggio a mi.

MARG. Xe sior'Agnese.

GIAC. Anca ancuo la vien?

MARG. Bisogna che la gh'abbia qualche gran premura.

GIAC. Me despiase che no ghe xe siora madre.

MARG. E chi sa quando che la vien?

GIAC. No ghe disè gnente, vedè, a sior'Agnese.

MARG. Oh no parlo.

AGN. Patrona, siora Giacomina.

GIAC. Patrona

AGN. Dove xe siora Barbara?

MARG. No la ghe xe, la veda.

AGN. Dove xéla andada?

GIAC. La xe andada in t'un servizio poco lontan.

AGN. Tornerala presto?

GIAC. Mi crederave de sì.

MARG. Figurarse, no l'ha gnancora disnà.

GIAC. (Che bisogno mo ghe giera, che la ghe disesse che no avemo disnà?)

AGN. Gnancora no le ha disnà? Bisogna ben che la gh'abbia de le cosse de premura.

MARG. Oh se le xe de premura!

GIAC. (Tossisce per farsi sentire a Margarita)

MARG. (Tossendo risponde a Giacomina)

AGN. Sior Nicoletto ghe xélo? (a Giacomina)

MARG. Siora no. (risponde subito ad Agnese)

AGN. Dove xélo? (a Margarita)

GIAC. Con so siora madre. (risponde presto ad Agnese)

AGN. Oh bela! co parlo a una, me responde quel'altra.

GIAC. Cara vu, feme un servizio, andème a dar do ponti in te la mia traversa. (a Margarita)

MARG. (Ho capio, la vol che vaga via, acciò che no parla. Xe meggio che vaga, perché se stago qua, no taso seguro). (parte)

SCENA NONA

Giacomina e Agnese.

AGN. Vorave ben, che i vegnisse a casa.

GIAC. Gh'ala qualcossa da dirghe a siora madre?

AGN. Siora sì.

GIAC. E mi no posso saver?

AGN. Oh, la saverà anca ela. Tanto fa che me cava zoso. (si leva il zendale)

GIAC. Sì, sì, la se cava. (l'aiuta)

AGN. Siora Giacomina, ho speranza che l'abbiémo fatta novizza.

GIAC. Mi?

AGN. Giusto ela.

GIAC. Oh via.

AGN. Sì anca dasseno.

GIAC. Con chi, cara ela?

AGN. Co sior Rocco.

GIAC. Co sior Rocco?

AGN. Sarala contenta?

GIAC. Co xe contenta siora madre, e che sia segura d'aver da star ben, mi sarò contentissima.

AGN. Mo la vaga là, che la gh'ha massime veramente da fia d'una mare de quela sorte.

GIAC. (Oh almanco che la vegnisse!)

AGN. E sior Nicoletto xe via con ela donca?

GIAC. Siora sì.

AGN. Poverazzo! el xe el gran bon puto! Ho amirà una cossa in elo; col m'ha compagnà a casa, el m'ha compagnà fina a la porta, e da paura che so siora madre ghe cria, l'è corso via, che no l'ha gnanca aspettà che i me averza.

GIAC. (Prego el cielo che no se scoverza).

AGN. Xélo vegnu a casa subito?

GIAC. Mi no so, la veda, ché mi laorava. (Patisso a dir busie, propriamente patisso).

SCENA DECIMA

Margarita e dette.

MARG. Xe qua siora madre. (a Giacomina)

GIAC. Sì? oh che a caro che gh'ho!

AGN. E sior Nicoletto?

MARG. Anca elo. Sbasìo[275], fio mio, se vedessi.

AGN. Perché no l'ha disnà, poverazzo.

MARG. Eh siora sì, perché no l'ha disnà. (con ironia)

GIAC. Mo via, andeghe incontra. Vardè se la vol gnente.

MARG. Siora sì, vago, vago, no la gh'abbia paura. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Agnese, Giacomina, poi Barbara.

GIAC. (Mo una gran chiaccolona!)

AGN. La resterà, co la me vede!

GIAC. Certo.

AGN. E sior Nicoletto?

GIAC. Anca elo.

BARB. Oh qua, sior'Agnese?

AGN. Son qua mi a darghe incomodo.

GIAC. Patrona, siora madre. (le bacia la mano)

BARB. Bondì, fia. (le cade qualche lagrima, e si asciuga)

AGN. Cossa gh'ala, siora Barbara?

BARB. Gnente, fia, el vento per strada, che dà in ti occhi.

AGN. Dove xe sior Nicoletto?

BARB. El xe de là, che el se despoggia. (afflitta)

AGN. La me lo dise in t'una certa maniera.

BARB. No ho disnà, sala, no gh'ho fià da star in pìe.

AGN. Per interessi nevvero?

BARB. Siora sì, per interessi.

AGN. Mi no voggio tegnirla incomoda, che la vorà andar a tola, e la gh'ha rason. Ghe digo do parole, e po vago via.

BARB. Andè de là, Giacomina.

AGN. Eh no, che la resta pur, che za gh'ho dito qualcossa.

BARB. No, no, andè pur de là, fia.

GIAC. Siora sì, subito. (parte)

SCENA DODICESIMA

Agnese e Barbara.

AGN. Siora Barbara, ho parlà co sior Rocco, e cussì burlando, ho speranza che femo dasseno. Mi so de seguro, che quel omo sta ben assae.

BARB. Cara ela...

AGN. La me lassa dir. L'ha eredità quel negozio da un so barba, che gh'averà lassà sie grossi mile ducati; e lu a st'ora el l'ha aumentà. Sala cossa che vol dir aumentà?

BARB. Capisso, ma la me creda...

AGN. La me lassa fenir. El l'ha aumentà de altretanti, e fursi, fursi de più. Onde mi ghe digo, che la puta starave ben...

BARB. Sior'Agnese...

AGN. La senta. Se pol darghe manco de mile ducati de contai, e quattrocento de strazze? Dei do mile ghe ne resta siecento per ela.

BARB. Ala fenio?

AGN. So cossa che la me vol dir. La me vol dir, che se el puto no xe logà, no se pol saver, no se pol disponer. Cara siora Barbara, altre do parole sole, e ho fenio. La vegna qua, la me daga un baso. La sa quanto amor che gh'ho per ela. So come che l'ha arlevà i so fioi; quel puto, so che puto che el xe. Son qua, ghe averzo el cuor; el me piase, ghe voggio ben, e se la xe contenta...

BARB. Oh sior'Agnese, sior'Agnese! Tegnìme che casco, che no posso più.

AGN. Mo via, cara siora, star fina ste ore senza magnar, bisogna andar in debolezza per forza.

BARB. No, fia, no la xe debolezza. La xe doggia de cuor.

AGN. Coss'è stà? Cossa ghe xe successo?

BARB. La lassa che me quieta un pochetto, e ghe parlerò.

AGN. Vorla un poco de spirito de melissa?

BARB. Siora sì, lo beverò volentiera.

AGN. La toga. El xe de quelo del Ponte del Lovo[276]. La sa, che là no se vende altro che roba bona. (le dà la boccietta)

BARB. (Beve lo spirito) La toga. Grazie. (le rende la boccietta) Sior'Agnese, cognosso veramente che la me xe amiga, e gh'ho tante obligazion con ela, che no le pagherò mai fin che vivo.

AGN. Eh via, cara ela, cossa dìsela?

BARB. E mi, che son una dona d'onor, no m'ho da abusar de la so amicizia, ma gh'ho debito de parlarghe con quela sincerità, con quela schiettezza che se convien. Ela se esibisse de sposar mio fio, e questa doverave esser per mi la consolazion più granda che podesse aver a sto mondo. Mazor fortuna no poderave desiderar a mio fio. La xe quela cossa che drento de mi ho tanto desiderà, che anca con qualche stratagema ho procurà mi de sveggiar, e el cielo fursi me vol castigar per el troppo amor per mio fio, e per qualche artifizio che in sto proposito posso aver praticà. Qua bisogna che ghe confessa la verità; no la voggio tradir, no la posso adular. Mio fio che xe stà sempre obbediente a so madre, tanto lontan da le pratiche, tanto fora de le occasion, el xe stà sassinà, el xe stà menà in casa de una puta; i l'ha incinganà, i me l'ha tirà zo, el gh'aveva anca promesso, e son andada mi a trovarlo sul fato, a pericolo de precipitar; e me l'ho chiapà, e me l'ho menà via, e gh'ho crià, e gh'ho dà, e gh'ho fato de tuto e l'ha pianto con tanto de lagreme. El se m'ha buttà tanto in zenocchion el m'ha tanto domandà perdonanza, el m'ha tanto dito: no farò più; l'ha fina zurà, e no so se sia l'amor che me orba, o la pratica che gh'ho de quel puto, me par certo certo de esser segura. Ma gnanca per questo no ghe dirò a sior'Agnese: la'l toga. Son segura che mal con quela puta no ghe ne xe stà. Son segura che nol la varderà più, che el se la desmentegherà affato. Ma sior'Agnese l'ha da saver. Mi ghe l'ho da dir, che no vôi che un zorno la me possa rimproverar: lo savevi, e me l'avè sconto. Pazienza sarà quel che el cielo vorà. Se ho da penar, penerò, patirò mi, patirà mia fia, patiremo tuti, e quel povero desgrazià per un cattivo compagno, per un falo de zoventù, el perderà la so sorte, e el sarà un miserabile in vita sóa. (si asciuga gli occhi)

AGN. (Dopo aver taciuto un poco, asciugandosi gli occhi) Mo no dìsela che el xe tanto pentio?

BARB. Se el xe pentio? Se la'l vedesse, in verità dasseno el fa compassion.

AGN. Ghe dirò siora Barbara: prima de tuto la ringrazio del bon amor che la me mostra, e de la confidenza che la m'ha fatto, e in questo una dona de la so sorte no podeva far differentemente. Ghe dirò po una cossa: anca mi son vedoa, e so cossa che xe mondo, e i zoveni al tempo d'ancuo ghe ne xe pochi che no fazza qualche putelada, e se sol dir per proverbio: chi no le fa da zoveni, le fa da vecchi. Finalmente un fior no fa primavera. Se la me segura che co sta puta no ghe xe stà mal, che sior Nicoletto l'abbia veramente lassada, e che el sia veramente pentio, la ghe perdona ela, che ghe perdono anca mi.

BARB. Ah sior'Agnese, questa xe la maniera de dar la vita a una povera madre, e de redimer una fameggia che giera affato precipitada. Mi no so cossa dir, el ben che la me fa a mi, la staga segura che el cielo ghe lo darà a ela moltiplicà.

AGN. La lo chiama sior Nicoletto.

BARB. Oh cara ela, el xe tanto intimorio, che se mi lo chiamo, e se el vien, e che ghe sia mi, nol farà altro che pianzer, e no ghe caveremo una parola de bocca. Piuttosto anderò de là, e ghe lo manderò qua da ela. La senta, la lo fazza parlar; la varda se ghe par de poderghe creder, e mi la lasso giudice ela se el merita, o no, la so bona grazia. Posso dirghe più de cussì?

AGN. Ben, la lo fazza vegnir.

BARB. La senta, un'altra cossa bisogna che ghe diga, acciò che no la ghe ariva nova. Come che ghe diseva, sto frasconazzo, senza pensar, senza saver gnanca cossa che sia, el gh'ha dito a quela puta: ve torò. E quele done le dise che el gh'ha promesso. Ma la vede ben, che promission che xe queste. No ghe xe carta, no ghe xe testimoni, no ghe xe, se la m'intende.

AGN. Xe vero, ma le ne farà bacilar[277].

BARB. Eh, in quanto a questo, le xe de quele che co se ghe fa dir le parole, le se giusta presto.

AGN. Basta, ghe vorà pazenzia, e aspettar.

BARB. Volévela destrigarse presto?

AGN. Fursi sì anca.

BARB. Oh sièla benedetta!

SCENA TREDICESIMA

Margarita e dette.

MARG. Xe sior Rocco marzer.

AGN. Oh, adesso mo el ne vien a intrigar. La fazza cussì, siora Barbara. La vaga de là ela co sior Rocco. La senta quel che el ghe dise, perché el m'ha dito de domandàrghela[278]. La se regola ela, e la fazza quel che ghe par.

BARB. Siora sì, la dise pulito. Adesso ghe mando mio fio. Cara ela, ghe lo raccomando.

AGN. Eh no la se indubita, che el xe ben raccomandà.

BARB. Sì, sì, me fido. (De diana! la ghe xe incocalia[279]. Ma la xe una gran providenza!) (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Agnese e Margarita.

MARG. Ala savesto?

AGN. Ho savesto.

MARG. Cossa dìsela?

AGN. Cossa volèu che diga?

MARG. Chi se l'averave mai figurà?

AGN. A sto mondo no bisogna farse maraveggia de gnente.

MARG. Cossa dìsela de sta bagattela? (mostra il coltello che avera Nicoletto)

AGN. Coss'è quel cortelo?

MARG. So siora madre ghe l'ha tolto fora de scarsela.

AGN. A Nicoletto?

MARG. A sior Nicoletto. Oe, velo qua, velo qua; vago via. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Agnese, poi Nicoletto.

AGN. No so quala far, ghe ne sento tante. Xe che ghe voggio ben e xe un pezzo che ghe voggio

ben. Ma no vorave averme da pentir. Sentiremo cossa che el sa dir.

NICOL. Sior'Agnese, patrona. (mortificato)

AGN. Patron.

NICOL. Cossa comàndela?

AGN. Reverirla. (sostenuta)

NICOL. Oh no, no reverirme, piuttosto criarme.

AGN. Perché criarve? se sè tanto bon. (con ironia)

NICOL. Sì, sì, bon! cara ela, no la me fazza pianzer, che ho tanto pianto, che debotto no ghe vedo più.

AGN. Ma, seu mo veramente pentio?

NICOL. De diana! co m'arecordo mia siora madre, che xe vegnua a trovarme là in quela casa, me vien i suori fredi.

AGN. Ve despiase de lassar quela puta?

NICOL. Mi no, la veda; co penso a la minchioneria che voleva far, me par de esser un prencipe.

AGN. Ma ghe volevi ben però.

NICOL. Oh ben! gh'aveva gusto de devertirme. Andava là qualche oretta. Ghe contava de le faloppe.

AGN. Ma perché prometterghe?

NICOL. No so gnanca mi.

AGN. Vardè, un puto de la vostra sorte, andarve a perder cussì miseramente. Se ve volè maridar, no podèu farlo con vostro decoro, e con sodisfazion de vostra siora madre?

NICOL. Oh, che no i me parla più de maridarme, che no me marido gnanca se i me liga co le caene.

AGN. No ve volè più maridar?

NICOL. Siora no.

AGN. Anca sì che lo fe per mantegnir la fede a quel'altra?

NICOL. De dia! se la vedo, scampo tre mia lontan.

AGN. Perché gh'avèu chiapà tanto odio?

NICOL. Se l'avesse sentìo cossa che m'ha dito mia madre.

AGN. (Vardè cossa che fa una correzion a tempo). Donca no ve volè più maridar?

NICOL. Siora no, ghe digo.

AGN. Mo per cossa?

NICOL. Perché m'arecordo che m'ha dito siora madre, che son un povero puto, che no gh'ho gnente a sto mondo, che no me posso mantegnir mi; la varda po se poderò mantegnir la muggier.

AGN. E se trovessi una muggier che ve mantegnisse vu?

NICOL. Ghe ne xe de le muggier che mantien i marii?

AGN. Ghe ne xe; ma ghe ne xe de più sorte. Disè, no la v'ha dito gnente vostra siora madre?

NICOL. De cossa?

AGN. Che la ve vol maridar.

NICOL. Eh cara ela, no la me fazza andar in colera, che son tavanà[280] che basta.

AGN. De mi no la v'ha dito gnente?

NICOL. De ela? gnente.

AGN. (Che ghe l'abbia da dir mi, no la va miga ben)

NICOL. Mi ghe ne dirò ben una granda.

AGN. Via mo.

NICOL. Che non avemo gnancora disnà.

AGN. Volèu vegnir a disnar con mi?

NICOL. Se siora madre se contentasse.

AGN. Ghe vegniressi volentiera con mi?

NICOL. Mi sì, la veda.

AGN. Ghe staressi con mi?

NICOL. Se siora madre volesse...

AGN. Ma no ve volè maridar, nevvero?

NICOL. De diana! gnanca per insonio.

AGN. (Stemo freschi).

NICOL. Mo perché me dìsela sempre de maridarme?

AGN. Perché, se volessi, ghe saria l'occasion.

NICOL. Ma ghe digo, che no ghe ne voggio saver. (Oh, la fa per tirarme zozo).

AGN. (Son mal intrigada, co l'è cussì. Oh ve' qua[281] siora Barbara; co no la ghe mette ela del sóo, no femo gnente).

SCENA SEDICESIMA

Barbara, Rocco, Giacomina e detti; poi Margarita.

BARB. Semo qua, sior'Agnese.

ROC. Semo qua, la veda. Ai tanti del mese, sior sì e ste cosse, l'avemo fatta. (in aria scherzevole) AGN. Dasseno? Brava, siora Giacomina, me ne consolo.

GIAC. Grazie.

BARB. E ela, come vala?

AGN. Oh, me par che la vaga mal.

BARB. Come mal?

AGN. La senta. (El dise che assolutamente nol se vol maridar). (piano a Barbara)

BARB. (Bisogna compatirlo. El xe ancora cussì spaventà. El gh'ha paura de mi. Adesso, adesso lo desmissieremo[282]). Nicoletto.

NICOL. Siora.

BARB. Védistu? sior Rocco xe el novizzo de to sorela.

NICOL. Se maridela mia sorela?

BARB. No séntistu cossa che te digo?

NICOL. (Tuti se marida, e mi no i vorà che me marida).

ROC. Sior cugnà, dème un baso.

NICOL. (Caro vu, compatime dei fazzoletti).

ROC. (Eh gnente, adesso se tira tressa a tute le partie).

BARB. Vien qua, Nicoletto.

NICOL. Cossa comàndela?

BARB. E ti, te marideressistu volentiera?

NICOL. Mi siora? mi no, la veda. (con timore)

BARB. Se te la dasse mi la novizza, la toréssistu?

NICOL. Oh giusto ela!

BARB. Se te dasse sior'Agnese?

NICOL. Oh sior'Agnese! (vergognandosi)

AGN. Mi donca no me toressi?

NICOL. Mi sì che la torave (piano ad Agnese)

AGN. Oe, l'ha dito de sì, che el me torave. (a Barbara ridendo)

NICOL. Oh, subito la ghe lo va a dir.

BARB. Via, via, fio mio. A monte[283] tuto quel che xe stà. Sior'Agnese gh'ha de l'amor per mi, e gh'ha de l'amor per ti, e se ti xe contento, mi te la dago, e la sarà ela la to novizza.

NICOL. Oh sièla benedetta! (salta e l'abbraccia)

BARB. Inocenza, sala! tuta inocenza. (ad Agnese)

AGN. Vedèu, che disevi che no ve volevi maridar? (a Nicoletto)

NICOL. No saveva miga gnente mi, no saveva.

AGN. Seu contento?

NICOL. Mi sì, quando?

AGN. Mo! quando che se poderà.

BARB. La lassa far a mi, sior'Agnese, che procurerò...

AGN. E arecordève ben, che corteli no ghe n'avè da portar.

NICOL. Chi gh'ha dito del cortelo?

AGN. Margarita.

NICOL. Che schittona[284]!

BARB. Margarita gh'ha sto vizio; ma ghe lo leverò mi.

MARG. Siora patrona...

BARB. Anca del cortelo ghe sè andada a dir.

MARG. Oh sì, altro che cortelo! Sala chi ha battù? Sala chi ghe xe a la porta?

BARB. Chi?

MARG. Quele done de cale de l'Oca.

NICOL. Oh poveretto mi.

BARB. Tirèghe, tirèghe, lassè pur che le vegna; in casa mia no le farà le matte.

AGN. Ve batte el cuor, fio? (a Nicoletto)

NICOL. Gnanca in te la mente[285].

SCENA ULTIMA

Lodovica, Daniela, poi Lunardo e detti.

LOD. Patrona reverita.

BARB. Patrona.

DAN. Serva.

BARB. La reverisso. Cossa comàndele, patrone?

LOD. Semo vegnue a dirghe, sala, che semo persone onorate, che in casa nostra no se fa zoso la zoventù. Che de so fio no savemo cossa farghene, e che mia fia xe novizza.

 BARB. Gh'ho ben a caro dasseno.

DAN. Siora sì, son maridada, e acciò che no se diga de mi, perché me preme la mia reputazion, gh'ho menà el mio novizzo.

BARB. Dov'èlo sto novizzo?

LUN. Siora comare, patrona. (zoppicando)

BARB. Xélo elo, sior compare, el novizzo?

LUN. Mo son mi mi.

NICOL. Anca sior sàntolo xe novizzo?

AGN. Co la doggia?

GIAC. Me lasseralo star?

MARG. Me diralo più, che lo vegna a trovar?

LUN. Care creature, compatime. Son anca mi de sto mondo. In tel stato che son, gh'aveva bisogno de governo. El cielo non abbandona nissun.

BARB. Ma in casa mia, sior compare, la me farà grazia de no ghe vegnir.

LUN. Gh'avè rason, fia, gh'avè rason. Ma considerè almanco, che avendo mi sposà sta puta, ho messo in libertà vostro fio.

AGN. Sior sì, xe la verità. Adesso sior Nicoletto me pol sposar.

NICOL. Magari.

BARB. Deve la man, se volè.

AGN. Son qua, fio.

NICOL. Anca mi. (si danno la mano) Son maridà. Son omo, son maridà. (saltando)

ROC. E mi, siora Barbara?

BARB. Sì anca vu.

ROC. Vorla, siora Giacomina?

GIAC. Cossa dìsela, siora madre?

BARB. Sì, fia; deghe la man a sior Rocco.

GIAC. Son qua; volentiera (si danno la mano)

ROC. Volentiera?

GIAC. Sior sì.

ROC. Cara la mia zoggia!

LOD. Oh quante nozze! oh quanti novizzi! me ne vegnirave voggia squasi anca a mi de farme novizza.

LUN. Vu, vedèu! sè una vecchia matta, e in casa mia no ghe stè a vegnir. Ve darò vinti soldi al zorno per carità. Magnéveli dove che volè, ma da mi no ve voggio. Patroni. (parte con Daniela)

LOD. (Oh, con vinti soldi al dì me marido). Patroni. (parte)

AGN. Dasseno dasseno, la xe andada ben, che no la podeva andar meggio.

BARB. Vedèu, fia mia? Co se opera con bona intenzion, el cielo agiuta, e le cosse va ben. Mi ho fatto da Bona mare, vu avè fatto da bona amiga, e semo contenti nu, e sarà contenti i mi cari fioi.

Fine della Commedia


[1] Or ora.

[2] Come se dicesse: per bacco.

[3] Intirizzite dal freddo.

[4] L'orlo fatto a festone.

[5] Badateci, lavorate.

[6] Grembiale.

[7] Lavorate.

[8] Merciai.

[9] Non si arriva mai a sbarazzarsi.

[10] Dei lavori.

[11] Si raccolgono, e si mettono a parte i danari.

[12] In Merceria, che è la strada di Venezia, ove si trovano più mercanti.

[13] Si sceglie.

[14] Si contratta.

[15] Che si spicci.

[16] Nel medesimo tempo.

[17] Che fa nausea, che non è portabile.

[18] A levar la polvere.

[19] Vi sono più giorni che salsiccia: proverbio che significa, convien risparmiare.

[20] Altro proverbio: ogni lavata, una stracciata.

[21] Coi ciondoli, e intende dei manichetti.

[22] Mezze maniche di camicia coi manichetti, per risparmiar le camicie intere.

[23] Una parte di camicia che serve per coprir il davanti della persona, per la ragione suddetta.

[24] Frase di disprezzo, usata in Venezia.

[25] Espressione che spiega l'impazienza.

[26] Sul di dietro.

[27] Non lo sa?

[28] Patrino.

[29] Di impiegarvi.

[30] In uno studio.

[31] Maniera di quasi maledire per collera, ma onestamente.

[32] Che non avevano alcun difetto.

[33] Sotto il giustacuore.

[34] Quanto volentieri.

[35] Spazzolato.

[36] Il letame, la sporcheria.

[37] Non sciupate.

[38] La borsa dei capelli, o della parrucca.

[39] Vi si caccia.

[40] Ripulitelo.

[41] Vi penetra come la pece.

[42] Di non istare in ozio.

[43] Mi fareste un piacere.

[44] Or ora mi fareste dire.

[45] Frase bassa e vile, che vuol dire, non ho denari.

[46] Scarpe fini e leggere.

[47] Andate.

[48] Calle in Venezia vuol dir vicolo, strada: e la calle dell'Oca è una strada conosciuta.

[49] Poverino.

[50] Guardate.

[51] Da quella fanciulla.

[52] Figlio caro, termine di amicizia.

[53] Politica.

[54] Se n'è liberata, e s'intende che le ha maritate.

[55] Vi appoggiasse la quarta, cioè ve la facesse sposare.

[56] Uno sciocco.                                    

[57] Non sarebbe maraviglia.

[58] Non la sposerei nemmeno...

[59]    Buona grazia.

[60]   Vi ho fatto cadere con arte.        

[61]    Nemmeno per sogno, cioè, per conto mio non ci anderei.

[62]  Capperi! Siete accorta, signora!

[63]   Ma io non lo sono meno di voi.

[64]  Il brentone s'intende per il fiume Brenta, quanto è pieno e violento nel corso; dunque cascar col brenton, è un
proverbio che significa lasciarsi tirar giù da qualcheduno.

[65]   Vi ringrazio, ma con disprezzo, e per ironia.

[66]    Maledetta voi, e chi vi calza, vuol dire maledetta voi due volte.

[67] Che animale!

[68] Un figlio di merito.

[69] Si affatica.

[70] Ecco qui.

[71] Affibiarsi i calzoni.

[72] E teneteli, se lo potete.

[73] Eccola qui davvero.

[74] Colle mani in mano, senza far niente.

[75] Ripulito, levata la polvere.

[76] Non si sta in ozio.

[77] Di sbarazzar la camera.

[78] La consigliasse.

[79] Da cangiar servitù.

[80] Innocente.

[81] Una serva poco di buono.

[82]    Senza il tuo bisogno.

[83]    Le avete aperto? Avete tirata la corda?

[84]    M'è caduto di bocca, senz'avvedermene.

[85]    De' pulci in capo, de' sospetti.

[86]    Dolore, dispiacere.

[87]    Queste imprudenti.

[88]    Mi aveva fatto montar il sangue alla testa.

[89]    Davvero.

[90]    Che affatichi.

[91]    E che studi.

[92]    Un poco.

[93]    Da gettarmi.

[94]    Questa è una frase, che deriva da una spezie di superstizione popolare. Dicendo a qualcheduno che sta bene, che è
grasso, che ha buona ciera, crederebbero ch'ei dovesse cader malato, se non aggiungessero qualche preghiera al cielo.

[95]    Grassa.

[96]    Che è un piacere a vederla.

[97]   Nella mia persona.       

[98]    Non lo dico per vantarmi.

[99]    Che bella figura.

[100] Un picciolo gentiluomo.

[101] Al giorno d'oggi.

[102] Senza un soldo in tasca.

[103] Uno sciocco.

[104] Egli è un prodigio pieno d'abilità.

[105] Verrà la sua sorte.

[106] Suocera.

[107] Suocero.

[108] Cercar Maria per Ravenna è proverbio, che significa cercar di più di quel che conviene.

[109] Volentieri.

[110] Magari risponde all'Utinam latino, Dio volesse.

[111] Fuor di carreggiata, cioè di proposito.

[112] Alla sfuggita, in partendo.

[113] Prescia.

[114] Qui la donna vuol dir la serva.

[115] Spazzar.

[116] Cioè, che si levi il zendale.

[117] Carezze, buone grazie, finezze.

[118] Espressione tenera e caricata, volendo dire che suo figlio è sì manieroso, che se fosse mangiabile, tutti vorrebbero mangiarlo.

[119] Quanto è innocente.

[120] Bricconi, parlando di quelli che dicon mal di suo figlio.

[121] Di buona mina e di buona condotta.

[122] Che bel pezzo di donna.

[123] D'esser nato con la camicia, cioè fortunato.

[124] Che vada a sorprenderla.

[125] Allegria.

[126] Caro il mio core, il mio bene.

[127] Non ho la mia quiete.

[128] Parla dell'assettatura del capo.

[129] Cioè fatto di bozzoli, di che a Vicenza lavorano perfettamente.

[130] Non gli cade niente di mano, cioè non dona più niente.

[131] Che sia raffreddato, che non mostri l'affetto ed il calore di prima.

[132] L'ha condotto egli.

[133] Le finezze non possono misurarsi con tanta esattezza.

[134] Spiantato, rifinito.

[135] Ciambelle.

[136] Non oserà, poverino.

[137] Moneta antica, che valeva cinque soldi di Venezia, ed anche in oggi una moneta nuova dello stesso valore conserva
lo stesso nome.

[138] Spiantati.

[139] Che affanni! E qui vuol dir, non ci penso.

[140] Impertinente.

[141] Come conviene.

[142] Bella, cioè singolare, stravagante, parlando da sé di sua madre.

[143] Buccinare.

[144] Mi nominavano?

[145] Per incontro.

[146] Sottoveste.

[147] Di broccato guernita con quattro dita di gallone.

[148] Bombardieri dicesi agli artiglieri che si esercitano a tirar le bombe.

[149] Sparate mai? Cioè fate voi dalle sparate, dite delle bugie per far l'uomo d'importanza?

[150] Villano.

[151] Frase bassa e burlesca; significa che maniera è questa, che confidenza?

[152] La chiama nonna, perché è vecchia.

[153] In brio, in allegria.

[154] Se lo ha pronto.

[155] Allegria, bel tempo.

[156] Una sposa.

[157] Come se dicesse viso bello.

[158] Bugie.

[159] Proverbio il quale significa, che chi ha il cuor contento, soffre anche la miseria, fino ad aver bisogno per coprirsi di
una schiavina.

[160] Andiamo, andiamo.

[161] Tralasciate di lavorare.

[162] Ad annoiarsi.

[163] Mezza spanna.

[164] Mi vengono i rossori sul viso.

[165] Di necessità, di miseria.

[166] Rossi.

[167] Il merciaio.

[168] Si è messo bene in piedi, fa una bella figura.

[169] Delle libertà.

[170] E va fuori, e si sparge la voce.

[171] Col frutto de' 2000 ducati.

[172] Così si chiama in Venezia quel bene che possiede la donna maritata in virtù di donazione, o di legato, e
indipendentemente da suo marito

[173] In oggi.

[174] Fortuna grande.

[175] Ho gran piacere.

[176] Gente di piazza, vagabondi che s'impiegano per l'uno e per l'altro, ma non vogliono assoggettarsi a nessuno.

[177] A gironi.

[178] Trova da far de' ragionamenti ecc.

[179] S'incanta.

[180] Come sta del suo dolore?

[181] S'intende la Piazza di San Marco.

[182] La è dove dimorava in quel tempo l'autore della commedia.

[183] Che appena.

[184] Guarito bene.

[185] Non può essere

[186] Gli anni ben messi, vuol dire che la statura corrisponde bene all'età.

[187] Maniera di applaudire, bassa e confidenziale.

[188] Quel che fa, è adattato alla di lui età.

[189] Nastri.

[190] Se avrà buona condotta.

[191] Delicata, rigorosa.

[192] Che mi manchi in niente.

[193] Or ora, or ora.

[194] Badate a noi.

[195] Appena.

[196] Gli affari miei.

[197] Che sono amara, cioè severa.

[198] Gran cosa! Gran provvigione! In senso ironico.

[199] Credevate che si volesse comperare tutto quel che avete nella vostra bottega?

[200] Eccola qui.

[201] Cioè a proposito, buona per la giovine.

[202] Un cencio.

[203] Pallidi, cattivi colori.

[204] Roba venduta, e rifiutata da altri.

[205] Indietro.

[206] Il peggio.

[207] Da dieci.

[208] Cioè, se vado a metterla in pegno.

[209] Vuol vendere a più caro prezzo.

[210] Accorto, vantaggioso.

[211] Forbice.

[212] Il braccio, misura di Venezia e di Lombardia, che corrisponde all'incirca alla mezza canna, e alla demi aune di
Francia.

[213] Unghie.

[214] Lasciate fare a me. Farò io il conto.

[215] Il ducato d'argento, cioè ducato in spezie, effettivo, vale lire otto in Venezia, ed il ducato,che si dice corrente, ma
che non esiste in spezie, vale sei lire e quattro soldi.

[216] Che vi trovi una sposa.

[217] Sarete contento di un migliaio di ducati in denaro contante.

[218] Scioccherie, ragazzate.

[219] Mi sono scordato.

[220] Fanfano è cosa di niun valore. Mille fanfani vuol dire niente.

[221] Se vuol restare a pranzo.

[222] Che intavoliamo.

[223] In oggi.

[224] Scappatina.

[225] Mi dia del filo.

[226] All’improvviso.

[227] Stritolare.

[228] Bugiardo.

[229] Non mi fa compassione.

[230] Figlioccia.

[231] Ditale per lavorare.

[232] Ho questo che mi basta.

[233] Questo bel lavoro.

[234] Quasi alla malora, ma modestamente.

[235] Selvaggia.

[236] Che ardono, cioè due begli occhi.

[237] Se sapeste quanto mi piacete!

[238] Oh che tu possa ecc.

[239] Guardate dove si caccia l'ira; maniera di maravigliarsi.

[240] Appena.

[241] Va in collera, mi grida.

[242] Però le donne non dispiacciono nemmeno a lui.

[243] Trenta soldi.

[244] Che la conduce.

[245] Le fa aprir la porta.

[246] E la conduce di sopra, cioè in casa.

[247] Cioè principiava il bucato.

[248] Bricconcello! Parlando di Nicoletto.

[249] Ha piacere.

[250] Ragazzate.

[251] Troppo facile, generoso.

[252] Ho le mani bucate.

[253] Uno spaccone, bugiardo.

[254] Sparate, grandezze.

[255] Come una madre.

[256] Affogare.

[257] O dentro o fuori.

[258] Qualcheduno a disturbarci.

[259] In ogni modo, assolutamente.

[260] Non si ha da sapere?

[261] È venuta in compagnia di un bravaccio.

[262] Sa il cielo quando mi mariterò.

[263] Pazza furente.

[264] Quasi svenuto.

[265] Senza spirito.

[266] Afflitte, agitate.

[267] Migliore accoglienza.

[268] Quel ragazzaccio.

[269] Difficoltà.

[270] L’assunto.

[271] Stroppiataccio.

[272] Non mi accrescete la pena.

[273] Cioè, non ha mai fatto altre leggerezze.

[274] Ad ogni istante, per ogni picciola ragione.

[275] Pallido, mortificato.

[276] S'intende della bottega accreditata del droghiere Carissimi, dove si vende lo spirito di melissa dei Padri Carmelitani Scalzi di Venezia, che passa per simile a quello des Carmes Déchaussés de Paris.

[277] Ci daranno delle inquietudini.

[278] Di domandarle la figlia per isposa.

[279] Innamorata.

[280] Afflitta. Agitata.

[281] Oh ecco qui.

[282] Lo sveglieremo.

[283] Si cancellano.

[284] Chiaccherona, che dice tutto.

[285] Non ci penso nemmeno.