La buona moglie

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LA BUONA MOGLIE

LA BUONA MOGLIE

COMMEDIA VENEZIANA

IN SEGUITO DELL’ALTRA INTITOLATA

LA PUTTA ONORATA

di Carlo Goldoni

A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR

NICCOLA BEREGAN

PATRIZIO VENETO

Mi sia permesso, Eccellentissimo Signore, di presentarmi per chiedervi quel favore che benignamente mi fu conceduto dagli altri miei Padroni. Soffrite ch’io dia fregio col vostro nome ad una delle povere mie Commedie. Questa permissione io vi supplico d’accordarmi, ond’io possa significare a voi ed agli altri quell’interno senso d’ossequiosa riconoscenza ch’io vi professo, e che mi ricorda sempre quelle tante gentilezze, che con proprio onore riportai dalla vostra bontà, e per cui questa ancora all’altre vorrete aggiungere graziosamente.

Io protesto di conoscere quanto siate per iscostarvi dal vostro rigoroso genio di pensare, se chiedendovi umilmente di poter farlo, vorrete usar meco la distinzione di compiacermi, ma non temete, Eccellentissimo Signore, ch’io sia per abusarmene e farvi con ciò dispiacere. So quanto ad un certo genere di officiosità, sebben sincere e dovute, si opponga la vostra modestia; so quanto seriamente vi siete spiegato alle occasioni di non voler significazioni espresse di lode, e quanto nell’ordine delle qualità umane amiate più di possederle che di farle apparire. Prometto però, Eccellentissimo Signore, d’obbedirvi, non seguirò il comun uso, non uscirò dal dover mio; se fornito siete di rari talenti, se i vostri studi, se la poesia, la storia, l’erudizione, se i più vasti e più gravi argomenti sopra de’ quali e così facilmente e tanto ordinatamente avete impreso di scrivere, non sono che un vostro sollievo, una disposizione dell’ore d’ozio e di riposo, che vi si permettono dalle pubbliche vostre incombenze, se all’uso della civile prudenza e della privata consuetudine unite felicemente i più veri caratteri del Cavaliere e del Cittadino: io lascierò tutte queste immagini, impresse come elle sono perfettamente nell’animo di chiunque ha l’onore di conoscervi, e degli amici vostri singolarmente, che ne sono gli ottimi conoscitori, né mi farò lecito d’appressare la mano a quel velo, con cui così gelosamente volete voi ricoprirle.

Io però che mi confesso non abituato a così fino e squisito modo di pensare, non senza interno rincrescimento mi adatto a nascondere altrui in questo incontro quanto sia pregevole per le sue tante e così distinte condizioni quell’umanissimo Padrone, che si degna di riguardarmi con benignità e con amore. Accerto l’E. V. che solo in qualche parte mi consola l’ubbidienza che le presto in tal congiuntura. Accordatemi però, Eccellentissimo Signore, il favore che umilmente vi chiedo, e permettetemi ch’io possa, lo dirò semplicemente, porre in fronte ad una delle mie Opere il vostro veneratissimo nome, concedendomi ch’io vi baci devotamente le mani.

Di V. E.

Torino, li 8 di Maggio 1751.

Umiliss. Devotiss. ed Obbligatiss. Serv.

Carlo Goldoni


LETTERA DELL’AUTORE

AL BETTINELLI

Scrittagli da Torino l’anno 1751, mandandogli la presente Commedia.

Intorno alla presente Commedia intitolata la Bona muggier, o sia Buona moglie, non ho a dirvi forse di più di quello che già vi dicessi intorno alla Putta onorata, da cui questa ha un’intera e naturale dipendenza. Nasceranno le difficoltà medesime per li vocaboli Veneziani, e con le stesse poche dichiarazioni potranno in parte essere spianate. Usata una tale diligenza, forse accaderà che leggendola questa sia più gradita dell’altra, perciocché gli affetti che in essa vengono maneggiati, anno minor forza quanto al ridicolo; ma quanto alla passione sono più veementi. Il ridicolo, aiutato da’ gesti, dall’intelligenza del dirlo a tempo, e dalla voce stessa degli Attori, spicca più e prende maggior lume; ma nelle scritture in gran parte si perde; poiché ciascheduno che legge, non può penetrare in quella picciola occasioncella preveduta dall’Autore, o fatta nascere con industria da’ periti Recitanti per commovere il riso. Ciò della gagliarda passione certamente non avviene, poiché quantunque una gran parte nel leggere se ne svanisca, pure tanta ne rimane ancora, che fa impressione nell’animo del Leggitore, ed eccita in lui quelle agitazioni, che negl’introdotti Personaggi si leggono. E certamente, che se verun’altra mia rappresentazione ha avuto forza di commovere, è stata la presente Commedia; perché quasi esempio di cose vere, ha prodotto sull’animo di qualche uditore mirabile effetto. Onde io son certo che nella scrittura non possa totalmente mancare il vigore delle passioni in essa maneggiate. Sembrerà forse ad alcuni che i caratteri sieno un poco troppo gagliardi, e spinti alquanto oltre alla naturalezza; ma tra per l’esser questa una cosa non ancora sentenziata, se si debba o non si debba ingrandirli, e tra gli esemplari di buoni Autori che ci rimangono, e quel ch’è più per la sperienza, che fa vedere il buon esito di tale scelta, io non fo difficoltà veruna di valermi talvolta fra gli altri di questo artifizio.

Dal pensare sempre in un modo nascono quasi sempre opere uguali, e si perde il frutto della varietà tanto necessaria sul Teatro. Oltrediché, chi volesse esaminare i caratteri da me nella mia Commedia imitati, troverebbe per avventura che non solamente non gli ho sospinti più là di quello che natura porti; ma forse gli ho di qua trattenuti. Perciocché là dove vizio o virtù si voglia imitare, trovansi originali virtuosi e viziosi alle volte, che vanno più avanti di quello che si soglia fare comunemente, co’ quali ultimi chi volesse confrontare i due personaggi, supponiamo Ottavio e Lelio, troverebbe che i finti sono inferiori a molti de’ veri, come ancora chi volesse paragonare la bontà, l’amore e la sofferenza d’alcune mogli alla buona moglie della mia Rappresentazione, vedrebbe quanto quelle in sì fatte virtù la sopravanzino.

Ma di ciò sia detto a bastanza; e soltanto quanto basti per rendervi qualche conto in ogni mio lavoro della mia forma di pensare, non già per illustrare le mie Commedie; alle quali non desidero il merito che può nascere dalle prefazioni, ma quello di farsi con benignità sofferire dagli ascoltanti.


Personaggi

Bettina, moglie di

Pasqualino, scoperto figlio di

Pantalone de’ Bisognosi mercante.

Ottavio, marchese di Ripaverde.

La marchesa Beatrice, sua moglie.

Lelio, scoperto figlio di messer Menego Cainello.

Catte, sorella di Bettina.

Arlecchino, suo marito.

Brighella, servitore del marchese.

Momola, serva di Bettina.

Messer Menego Cainello, gondoliere.

Nane, gondoliere.

Tita, gondoliere.

Un Cameriere d’osteria che parla.

Un Cantiniere.

Sbrodegona, Donna che parla.

Malacarne, Donna che parla.

Sbirri che non parlano.

La Scena si rappresenta in Venezia.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera in casa di Bettina.

Bettina a sedere, che fa le calze e sta cullando un bambino, poi Momola.

BETT. (Cullando canta) Sto putelo no vol dormir. No so cossa mai che el gh’abia. No gh’ho mai un’ora de ben. Uh, quanto che stava megio da maridar! Almanco dormiva i mi soni, laorava co ghe n’aveva vogia, e andava a spasso co voleva. Me recordo che el me lo diseva el sior Pantalon, mio missier: Betina, magnerè el pan pentio. Oh! lo magno, lo magno. No credeva mai che Pasqualin me avesse da far sta cativa vita. Malignaze le cative pratiche! No gh’è caso: sto putelo no vol dormir. Momola. (chiama)Adesso vita mia, sangue mio, te farò far la papa, sa, caro. Momola. Momola. Anca sì che sta frasconazza xe sul balcon! Momola.

MOM. Siora. (di dentro)

BETT. Vien qua; dove diavolo estu ficada?

MOM. Son qua, siora, cossa vorla? (esce)

BETT. Tuto el zorno su quel malignazo balcon.

MOM. Son andada a chiamar el scuazer([1]).

BETT. Sì ben, careta, el scuazer. Sastu cossa che t’ho da dir? Che se ti vol magnar el mio pan, vogio che ti staghi drento dei to balconi.

MOM. Cara siora parona, che mal fazzio a andar un poco al balcon?

BETT. No vogio che ti fazzi comarezzo([2]) co le visine. I fati mii no vogio che nissun li sapia.

MOM. Mi no parlo co nissun.

BETT. Eh via, che lo so che ti xe una petegola. Ti conti tuto.

MOM. Cossa ogio dito, via, cossa ogio dito?

BETT. Ti ghe xe andada a contar a la frutariola, che mio mario m’ha dà una slepa([3]).

MOM. Oh! mi no gh’ho dito gnente. L’ha sentio ela el crior a star al balcon.

BETT. Busiara! Se mi no gh’ho gnanca parlao. Co mio mario me dà, no alzo gnanca la ose.

MOM. Mi ghe digo che no gh’ho dito gnente se la vol creder, che la lo creda, se no la lo vol creder, che la lassa star.

BETT. Senti sa, frasca, te manderò da to mare.

MOM. E mi gh’anderò; cossa m’importa a mi?

BETT. Tiolè su. Questo xe quel che s’avanza a far del ben a ste sporche. T’ho tiolta in casa, che ti gieri piena de vermenezzo([4]). No ti gh’avevi camisa al cesto, e adesso che ti xe vestia e desfamada, ti parli cussì ah, frasconazza?

MOM. Mo se sempre la me cria.

BETT. No t’importa andar da to mare, ah? No ti te recordi el ben che t’ho fato? Ti me vol impiantar, n’è vero?

MOM. Mi no, siora parona; vogio star con ela, se la me vol.

BETT. Via, anemo, va là, va a meter suso la panada per el putelo.

MOM. Vago, siora.

BETT. A quel balcon no vogio che ti ghe vaghi.

MOM. Siora no, no gh’anderò più.

BETT. E sora tuto, se ti vol star con mi, coi omeni no se parla.

MOM. No, siora?

BETT. Siora no, siora, siora no. Mi, co giera puta, no parlava co nissun.

MOM. Avè pur parlà co sior Pasqualin.

BETT. Sì ben, ho parlà con elo, co so stada in stato da maridarme; anca ti, co sarà el tempo, ti farà quel che fa le altre.

MOM. Ghe vol assae, siora?

BETT. Via, che ti spuzzi ancora da late.

MOM. Da late?

BETT. Via pissota, va a meter su la panada.

MOM. (No vedo l’ora de vegnir granda. Me lo vôi trovar anca mi, varè, un toco d’ometo). (da sé, e parte)

SCENA SECONDA

Bettina sola.

BETT. Vardè dove se cazza l’ira. Le pute del tempo d’adesso le nasse co la malizia in corpo. Ghe ne xe de quele, che le sa più de quel che so mi. Sento cosse che me fa drezzar i cavei. Tuto causa le mare. No le gh’ha gnente de riguardo, co le parla coi so marii. Le se lassa sentir a dir de le brute parole. Le pute ascolta; la malizia opera, e el diavolo laora. Mia mare no ha fato cussì, povereta. La m’ha arlevà anca massa ben, e se la fusse stada viva ela, fursi no m’averia maridà. Povera mare! Se la fusse viva, almanco gh’averave compagnia, e no starave qua sola co fa una bestia, a deventar mata co una massera che no gh’ha giudizio. Vardè se son stada una stramba a tiorme sta bissa in sen. Bisogna che ghe fazza la vardia come se la fusse mia sorela o mia fia. So l’obligo mio, so che le parone le gh’ha debito de arlevar ben le massere zovene, perché el pare e la mare se fida de ele; e se le buta mal, le parone le ghe n’ha da render conto. Me despiase che gh’ho sto putelo, da resto non vorave gnanca tegnir serva. Le xe tute a un modo. I primi zorni leste co fa gati, ma presto le deventa poltrone, e se ghe disè gnente, le ve mena per lengua cosse che fa paura. Dormi, dormi, vita mia; fa la nana, caro el mio ben, che ti magnerà la papa. (canta cullando)

SCENA TERZA

Catte col zendale, e detta.

CAT. Betina! Cossa fastu, fia?

BETT. Oh! bondì sioria; grandezza degnarse; chi ha bezzi, s’i tegna([5]).

CAT. Cara ti, ho buo da far. Gieri ho fato el pan, ho fato lissia, figurete se podeva vegnir.

BETT. Anca mi ho fato el pan stamatina.

CAT. Astu fato fugazza? Me ne dastu un poca?

BETT. No ho fato gnente.

CAT. Tiolemo un pan; metemolo in fuogo e magnemolo.

BETT. El xe al forno.

CAT. Aspeterò ch’el vegna. Me piase tanto el pan fresco.

BETT. El vegnirà tardi tardi. Sarà ora de disnar.

CAT. Ben, starò a disnar co ti! Cossa gh’astu paura? Ti sa pur che mi magno puoco.

BETT. Oh, ti la farà magra, sorela cara.

CAT. Vienlo ancuo to mario?

BETT. Chi sa? Xe do zorni che no lo vedo.

CAT. Ma dove stalo tuto el dì e tuta la note?

BETT. A ziogar.

CAT. El giera tanto un bon puto! Come mai alo fato a deventar cussì cativo?

BETT. Le male pratiche.

CAT. Quel malignazo de quel sior Lelio.

BETT. Sì ben, giusto elo, che sielo impalao. Ma senti, Cate, to mario me l’ha fato zoso la so bona parte.

CAT. Chi? Mio mario? Ti xe mata, sorela cara. Mio mario tende ai fati soi. Nol xe omo da far zoso nissun.

BETT. Chi l’ha menà, se ti m’intendi, altri che elo? Oh! ch’el m’ha fato trar tante lagreme quel desgrazià.

CAT. Senti sa, parla ben de mio mario, che se desgusteremo.

BETT. Ma za, no bisogna tocarghela quela zogia.

CAT. Dormelo el putelo?

BETT. El me fa deventar mata.

CAT. Cara ti, lassa che lo veda.

BETT. Tiolemolo suso; za vôi ch’el magna la papa.

CAT. Vien qua, vita mia; vien qua, vissere mie. (leva il bambino dalla culla) Caro costù. Varè co belo ch’el vien. Chi dirave che sto putelo gh’ha un ano? In veritae, vara, ch’el mostra squasi do ani.

BETT. E co spiritoso ch’el xe. Oe, el me cognosse tanto ben, che del mondo. El dise mama schieto schieto.

CAT. Sì, caro, sì, la la la, mi son la la la, cara la la, cara. (lo accarezza)

BETT. E la mama, dov’ela la mama?

CAT. Ta ta. (scherza col bambino)

BETT. La mama, sì, vissere mie; sì, sangue mio. Vien qua da la to mama. (lo vuol prendere dalle braccia di Catte)

CAT. Lassa star. (a Bettina)

BETT. Via, dèmelo.

CAT. Siora no, lo vogio mi.

BETT. Varè che sesti! L’ho fato mi, siora.

CAT. Uh, che fantolina! Tiolè, via, no pianzè. (glielo dà)

BETT. Povereto el mio Pantalonzin, povereto!

CAT. No ti gh’ha gnanca sesto de tegnir i fioi.

BETT. La xe la prima volta; imparerò.

CAT. Oe, no ti senti? Bisogna desfassarlo. (fa cenno che sentesi mal odore)

BETT. Oh, sì, in veritae. Momola. (chiama)

CAT. Presto, Momola.

BETT. Momola, in malorzega.

SCENA QUARTA

Momola e dette.

MOM. Son qua, siora, son qua.

BETT. Anca sì che ti gieri al balcon?

MOM. Mi al balcon?

CAT. Sì, che t’ho visto mi, co son vegnua (a Momola)

BETT. L’avè vista?

CAT. Seguro.

MOM. Uh che schitona([6])! (a Catte)

CAT. Senti sa, baronzela, te darò de le sculazae, sa.

MOM. Marmeo, squaquerà.

BETT. Via, via, a monte. Meti a scaldar do pezze, che vogio infassar el putelo.

CAT. Daghelo a ela, che la lo desfazza.

BETT. Sì ben; seu mata?

CAT. Mo perché?

BETT. Una puta volè che lo desfassa? (piano a Catte)

CAT. Oh varè che casi!

BETT. No, no, in casa mia no se fa ste cosse.

CAT. Ben!

BETT. Ben! Anemo, andè a scaldar ste pezze.

MOM. Siora sì, subito. Vorla che lo desfassa mi?

BETT. Siora no: varè che novitae.

MOM. L’ha dito siora Cate. (parte)

SCENA QUINTA

Bettina e Catte

BETT. Sentiu? Basta dir una parola, le sta con tanto de rechie.

CAT. Ti me fa da rider.

BETT. Oh sorela, le xe cosse da rider, che de le volte le fa da pianzer.

CAT. Cara ti, metilo zo sto putelo.

BETT. S’el ghe volesse star in cuna.

CAT. Per un puoco el ghe starà.

BETT. Caro el mio ben. Cara la mia colona, che te vôi tanto ben, le mie vissere. (lo rimette nella culla)

CAT. Donca to mario el fa pezo che mai!

BETT. Oh, se ti savessi, el zioga co fa un desperà. El s’ha ziogà deboto mile ducati, che gh’ha dà so pare da negoziar. Ogni tanto el va a la cassa a tior bezzi. L’altro zorno l’ha portà via el resto, e perché mi no voleva, el m’ha dà una slepa; el xe andà via, xe do zorni che no lo vedo, che me sento schiopar el cuor. (piange)

CAT. Uh povera mata! Ti pianzi? Ch’el vaga in malora sto puoco de bon.

BETT. Ti sa che gh’ho volesto tanto ben, che l’ho tiolto con tanto amor, che ghe n’ho passà tante, che co l’ho sposà son fin andada in acidente per la consolazion; e véderme senza de elo, me sento morir. (piange)

CAT. Cossa dise sior Pantalon?

BETT. Cossa vustu ch’el diga? El xe desperà. Ti sa che Pasqualin no l’ha volesto star in casa de so pare, che l’ha volesto meter su casa, e quel povero vechio ha speso e spanto, e no l’ha fato gnente. Adesso el me manda lu da magnar, e se nol fusse elo, morirave da la fame.

CAT. Perché no vastu a star co to missier?

BETT. El voria elo che gh’andasse, ma mi no vogio.

CAT. Mo perché?

BETT. Perché vogio star co mio mario.

CAT. Ti vol star co to mario, e nol vien gnanca a casa?

BETT. Ancuo fursi el vegnirà.

CAT. Ti xe ben mata, veh, a patir per causa soa.

BETT. Oh cara Cate, se ti savessi quanto ben che ghe vogio.

CAT. Ancora ti ghe vol tanto ben?

BETT. E come! Me contenteria a star su la pagia, purché fusse con elo.

CAT. Varda come ch’el te corisponde pulito.

BETT. Son stada una bestia mi a farlo andar in colera.

CAT. Sì ben, ti vedi a portar via i bezzi, e ti ha da taser?

BETT. Cossa m’importa a mi dei bezzi? Caro el mio Pasqualin, dove xestu, anema mia? Mo vien a casa, vien a consolar la to povera Betina. Vien; tiò i manini, tiò anca el sangue, se ti lo vol.

CAT. Eh via, che ai marii no bisogna volerghe tanto ben.

BETT. Cara sorela, co s’ha fato l’amor con un solo, no se pol far de manco de no volerghe tuto el so ben.

CAT. Anca mi ghe vôi ben a mio mario, ma no fazzo de ste scamofie.

BETT. Eh, el mio matrimonio no s’ha da meter col vostro.

CAT. Perché? Cossa voressi dir?

BETT. Cara vu, no me fe parlar.

CAT. Me recordo, che anca da puta ti me davi de ste mustazzae([7]). Son stada una puta da ben, sastu.

BETT. Uh, quanto che avè fato pianzer la mia povera mare!

CAT. Adessadesso ti me faressi vegnir caldo.

SCENA SESTA

Momola e dette.

MOM. Siora padrona, le pezze xe calde.

BETT. Vegno, vegno. Vien qua, vissere mie. (leva il bambino di culla) Vardè, se nol fa vogia? Vardèlo che toco! Tuto el mio Pasqualin. Tuto so pare. Tiò, siestu benedio. (lo bacia)

CAT. Via, che ti l’ha basà che basta.

BETT. Ti no ti sa cossa che sia amor de fioi; perché no ti ghe n’ha mai abuo. Oh che amor che xe quelo de mare!

CAT. Cara ti, dime una cossa. A chi ghe vustu più ben? A to mario, o a to fio?

BETT. A tuti do.

CAT. Ma a chi ghe ne vustu più?

BETT. No so.

CAT. Se ti avessi da perder uno de lori, chi perderessistu più volentiera?

BETT. Senti, sorela, dei fioi come questo ghe ne poderia aver dei altri, ma dei marii come Pasqualin no ghe ne troverave mai più. (parte)

SCENA SETTIMA

Catte e Momola

CAT. Oh che bela mata! Momola, cossa distu de sti spropositi che dise la to parona?

MOM. Mi, siora, no me n’intendo. (adirata)

CAT. Xestu in colera co mi?

MOM. Varè: subito andarghe a dir che m’avè visto al balcon!

CAT. Te n’astu abuo per mal? No ghe dirò più gnente. Fa quel che ti vol; no te dubitar.

MOM. Anca mi, grama puta, me devertisso un puoco. Stemo sempre qua serae.

CAT. Di, Momola, fastu l’amor?

MOM. Oh, mi l’amor! (vergognandosi)

CAT. Via, via, no te vergognar. Senti, se ti gh’ha genio de maridarte, confidete in mi e no te dubitar.

MOM. Me fe vegnir rossa.

CAT. Ah matazza veh, te cognosso. Dime, gh’astu gnente de bon da marenda?

MOM. Gh’ho un’ala de polastra, che me xe avanzada giersera.

CAT. Polastra? Caspita! La se stica.

MOM. Sior Pantalon ghe n’ha portà una cota in manega.

CAT. Xela bona?

MOM. Preziosa.

CAT. Cara ti, sentimola.

MOM. Volentiera. Andemo. Disè: me volè maridar?

CAT. Sì, co ti vorà.

MOM. Oh che cara siora Cate. (parte)

CAT. O de ruffe, o de raffe, vogio magnar seguro. (parte)

SCENA OTTAVA

Camera del marchese Ottavio.

Il marchese Ottavio in veste da camera, poi Brighella.

OTT. (passeggia alquanto, battendo i piedi, poi chiama) Brighella.

BRIGH. Lustrissimo.

OTT. (seguita a passeggiare e non parla)

BRIGH. M’ala chiamado?

OTT. Sì

BRIGH. Cossa comandela?

OTT. Non lo so nemmen io.

BRIGH. Co no la ’l sa ela, chi l’ha da saver?

OTT. Sei stato dal macellaro?

BRIGH. Son stà mi.

OTT. E bene, cos’ha detto?

BRIGH. Che nol ghe vol dar gnente.

OTT. E il fornaio che dice?

BRIGH. Che se la ghe darà i so bezzi, el ghe manderà del pan.

OTT. E intanto un cavaliere par mio ha da morir dalla fame?

BRIGH. Sta rason no i la vol sentir.

OTT. Bricconi, se metto loro le mani attorno, farò loro veder chi sono.

BRIGH. Bastarave darghe qualcossa a conto, onzerghe la man, e far che i tirasse de longo.

OTT. Che dare? Che mi parli di dare? Lo sai pure che non ho un soldo. Quando ne ho, ne do, e quando non ne ho, non ne posso dare.

BRIGH. E i botteghieri, co no la ghe n’ha, no i ghe ne vol dar.

OTT. Va là, digli che gli farò un pagherò a chi presenterà.

BRIGH. Sior padron, no faremo gnente.

OTT. Perché non faremo niente?

BRIGH. Perché i botteghieri no i vol carta, i vol bezzi.

OTT. Dimmi un poco, come se la passa Pasqualino? Mi pare che non stia più con suo padre.

BRIGH. Sì, è verissimo. L’ha messo su casa da so posta, che sarà do mesi. So padre gh’ha dà mile ducati, acciò che el se inzegna, acciò che el negozia, ma credo che a st’ora el li abia fati saltar tuti.

OTT. Sì, mi è stato detto che giuoca e spende alla generosa. Però mille ducati in due mesi non li averà consumati.

BRIGH. Crederave de no anca mi.

OTT. Egli è un giovine di buon cuore. Se gli dimando un servizio, spero non me lo negherà.

BRIGH. Vorlo domandarghe dei bezzi in prestio?

OTT. Sì; voglio vedere se vuol prestarmi otto o dieci zecchini.

BRIGH. L’è un bon puto; se el li averà, el ghe li darà.

OTT. Fa una cosa, procura di ritrovarlo, e digli che venga da me, che gli voglio parlare.

BRIGH. La me perdona, lustrissimo. Voler un servizio da una persona, e po anca incomodarla, no la me par bona regola. Piuttosto diria che ela la lo andasse a trovar.

OTT. Come! Io doverei avvilirmi a tal segno d’andar a pregar sino a casa il figlio d’un mercante? Un cavaliero par mio merita bene che un inferiore s’incomodi per aver l’onore d’esser pregato.

BRIGH. Mi me credeva, che chi ha bisogno, pensasse in t’un altra maniera.

OTT. E poi ti dirò, se io vado a casa di Pasqualino, non gli vorrei cagionar gelosia. Sai che io ero innamorato di sua moglie quando era fanciulla, e tuttavia non me la posso scordare, anzi l’amo con maggior impegno, e forse forse con maggiore speranza.

BRIGH. Come intendela mo con maggior speranza?

OTT. Perché ora ch’è maritata, sarà più facile e condescendente.

BRIGH. Anzi la xe fedelissima al so Pasqualin.

OTT. È una cosa rara trovar una moglie fedele dopo due anni di matrimonio.

BRIGH. E pur questa la xe cussì.

OTT. Catte sua sorella mi ha promesso d’introdurmi da lei senza saputa di Pasqualino, e forse di condurla in mia casa.

BRIGH. La vol l’amicizia de Betina, e la vol domandar dei bezzi in prestio a Pasqualin?

OTT. Perché non posso far l’uno e l’altro?

BRIGH. Moda niova! farse dar dei bezzi dal mario per pagar la mugier.

OTT. Orsù, meno ciarle. Vammi a trovar Pasqualino.

BRIGH. Farò de tutto per trovarlo, ma el tempo passa. Deboto xe ora de disnar, e el fogo no s’impizza. La padrona la cria, la sbrufa, la buta sotosora la casa.

OTT. Maledetta colei! È causa della mia rovina.

BRIGH. E ela sala cossa che la dise?

OTT. Che cosa dice?

BRIGH. Maledeto colù! È causa del mio precipizio.

OTT. Lo so io quanto mi costa. Ma concludiamo questa faccenda. Vuoi andare, o non vuoi andare?

BRIGH. Mi anderò, ma no faremo gnente. Mi diria che la fasse cussì. Sior Pasqualin el pratica sempre a Rialto, al caffè sotto ai porteghi. La poderia andar là con scusa de bever el caffè, mostrar de trovarlo a caso, e dirghe el so bisogno senza avilirse.

OTT. Non dici male. Lo potrei fare, ma io a Rialto non ci posso andare.

BRIGH. Perché no ghe porla andar?

OTT. Dovrei, per andar a Rialto, passar dinanzi alle botteghe de’ miei creditori; tutti mi fermano; tutti mi tormentano; io m’impaziento, e non vorrei esser obbligato a caricarli di bastonate.

BRIGH. Se l’è per questo, la fazza quel che fa tanti altri, e no la dubita gnente. I è pieni de cuche che i fa vogia, e pur i va per tuto senza una sugezion imaginabile. I sa tute le strade de Venezia; i va per le calesele: i zira o de qua, o de là, e i scampa mirabilmente tute le boteghe dei so creditori. Se i ghe ne vede qualchedun per strada a la lontana, i fa finta che ghe sia vegnù qualcossa a la memoria improvisamente; i se volta con furia, e i va zo per un’altra banda. Se l’incontro sucede in logo che no i se possa voltar, i tira fuora una lettera, i finze de lezerla con atenzion, e se i li chiama, i tira de longo e no i ghe responde. Se i xe in necessità de passar da qualche botega dove i gh’ha del debito, i procura de meterse al fianco de qualche persona più granda de lori, ovvero i finze de stranuar e col fazzoleto i se coverze la metà del viso, che varda la botega del creditor. Co vien po le maschere, vien la cucagna dei debitori. I va per tuto con libertà, e quando che i passa davanti le boteghe de chi ha d’aver, i se ferma; i varda ben i creditori in tel muso, e i esamina da l’idea, chi sia quelo che ghe possa far più paura.

OTT. Ma questa è una vita miserabile. Vado vedendo che sarò costretto andarmene improvvisamente da questa città.

BRIGH. Questa po l’è la vera maniera de pagar tuti. L’invenzion no l’è niova, e se no la volesse andar solo, la troverà dei compagni. Ma la me diga, cara ela, dove mai vorla andar per star megio de qua? In qualche altro paese, se arriva un forastier, subito i lo esamina da cao a pie, e i vol saver chi el xe. I varda come el se trata; come che el vive; s’el magna ben, s’el magna mal; s’el zioga, s’el fa l’amor; i vol saver tuto. In t’una città granda, piena de popolo e de foresteria, ognun vive come ch’el vol e come ch’el pol, senza servitù, senza tratamento, e nissun ghe abada. Qua chi ha un mezzo ducato da spender in t’una gondola, per quel zorno l’è cavalier come un altro; e chi gh’ha inzegno e prudenza, se la passa otimamente ben, podendo dir con verità e giustizia, che chi no sa viver a Venezia, no sa viver in nissuna parte del mondo.

OTT. Tu dici bene, ma io ho consumato tutto il mio patrimonio: e se il marchese mio fratello non mi fa la finezza di crepare per amor mio, non ho speranza di essere sovvenuto.

BRIGH. La sa pur che l’è etico marzo; poco el pol viver.

OTT. Ma intanto?

BRIGH. Intanto, la me perdona, ghe vol spirito e inzegno.

OTT. Che posso fare per vivere, e vivere con decoro? Vediamo se vi fossero degli sgherri, de’ malviventi, che volessero godere la mia protezione. Darò loro delle patenti di miei servitori.

BRIGH. Eh, lustrissimo patron, questo no xe el paese da viver con prepotenza. Sotto sto benedetto cielo i sgherri e i malviventi no i trova protezion, e certe bulae, che se usa lontan de qua, a Venezia no le se pratica, e no le se pol praticar.

OTT. Dunque tu, che mi consigli a restare, suggeriscimi il modo di potervi sussistere.

BRIGH. La fazza una cossa. La se metta a far quela onorata profession, che ha fato tanti altri bei spiriti come ela. Che la daga da intender de saver el lapis philosophorum.

OTT. Ma io non ne so né meno i princìpi.

BRIGH. Ghe l’insegnerò mi. Basta imparar a memoria trenta o quaranta nomi d’alchimia. Trovar qualchedun de queli che ghe piase supiar; farghe veder qualche bela operazion a uso de zaratani, e ghe zuro che l’anderà ben.

OTT. Non vorrei con questa meccanica professione avvilire il carattere di cavaliere.

BRIGH. Me maravegio, l’è un mistier nobilissimo. Anzi l’è un mistier che ne la zente bassa nol pol aver credito; e chi lo fa, e no xe nobile, finge d’esser nobile per megio imposturar.

OTT. Ma io non voglio soffiare, non voglio faticare, non mi voglio rompere il capo.

BRIGH. Se vede veramente che vussustrissima l’è un gran cavalier.

OTT. Perché?

BRIGH. Perché no ghe piase far gnente.

OTT. Son avvezzato a vivere nobilmente.

BRIGH. La diga, cara ela, sala zogar a le carte?

OTT. Che domande! Sai pure quanto ho giocato.

BRIGH. Ala imparà gnente da queli che le sa tegnir in man?

OTT. Pur troppo ho imparato a mie spese.

BRIGH. Vedela? Anca in sta maniera la se poderave inzegnar.

OTT. Questa non è cosa che mi dispiaccia. Il punto sta che non ho denaro per far un poco di banco.

BRIGH. La ricorra da Pasqualin.

OTT. Se intanto la marchesa mia moglie volesse aiutarmi, ella potrebbe farlo.

BRIGH. Ala dei danari?

OTT. Eccola, eccola. Ritirati, e lasciami solo.

BRIGH. E a disnar come vala?

OTT. C’è tempo, ci penseremo.

BRIGH. Faremo cussì, compreremo qualcossa dal luganegher. Se la savesse quanti lustrissimi se la passa con un piatto de sguazzeto e quatro soldi de pesce frito, e per pan, no miga polenta, ghe ne fusse. (parte)

SCENA NONA

Il marchese Ottavio, poi la marchesa Beatrice.

OTT. Se non avessi moglie, so io quel che farei. Mi porrei indosso una veste da pellegrino, e me ne anderei per il mondo. Ecco il mio tormento. (osserva la moglie)

BEAT. E così, signor marchese, oggi non si desina?

OTT. Signora marchesa, ho paura di no.

BEAT. Oh questa sì che sarebbe da ridere.

OTT. Rida pure, che è così senz’altro.

BEAT. Ma per qual ragione oggi non si desina?

OTT. Per quattro ragioni, una più bella dell’altra. La prima, perché non ho denari da comprarne; la seconda, perché senza denari non mi vogliono dar niente; la terza, perché non v’è più né da vendere, né da impegnare; e la quarta, perché abbiamo mangiato in un mese quello che ci doveva bastare per un anno.

BEAT. Il vostro poco giudizio ci ha ridotti in questo stato.

OTT. Il mio poco giudizio, e la vostra buona condotta.

BEAT. Avete speso per le cicisbee quello che dovevate spendere per la moglie.

OTT. E voi avete perso al gioco quello che doveva servire per vostro marito.

BEAT. Le mie gioje sono andate.

OTT. Non ne avete avuta ancor voi la vostra parte?

BEAT. Era meglio impegnarle.

OTT. Se s’impegnavano, le mangiava l’usura. È meglio che le abbiamo mangiate noi.

BEAT. Il palazzo si è venduto, ed io non ho veduto un quattrino.

OTT. Il palazzo non l’ho venduto io.

BEAT. E chi l’ha venduto?

OTT. L’hanno fatto vendere i miei creditori.

BEAT. Tutti debiti fatti per i vostri vizi.

OTT. Per i miei e per i vostri.

BEAT. Eccomi qui senza gondola.

OTT. L’acqua le fa male; è meglio per la sua salute.

BEAT. Non ho altro che questo straccio di andrien nero.

OTT. L’andrien nero! Va benissimo: è il vestir più nobile che si possa usare.

BEAT. E le mie gioje?

OTT. Le gioje? Si usano le pietre false.

BEAT. Anco la cameriera se n’è andata, perché non le si dava il salario.

OTT. Meglio per noi; una bocca di meno.

BEAT. E chi farà il desinare?

OTT. Lo farà Brighella, se ve ne sarà.

BEAT. Se ve ne sarà?

OTT. Signora sì; per le quattro ragioni ch’ella ha sentito.

BEAT. Ma io ieri sera non ho cenato.

OTT. Né men io.

BEAT. E non avete denari?

OTT. Né anche un soldo. Ma ella, signora marchesa, non avrebbe qualche minuzia? Qualche avanzo della conversazione?

BEAT. Ecco qui, non posso mai avanzarmi un soldo. Tutta la mia ricchezza consiste in questo mezzo filippo. (lo caccia di tasca)

OTT. Cosa vuol fare? Vi vuol pazienza. Per oggi, chi vuol mangiare, conviene spenderlo.

BEAT. Sia maledetto! Tenete. (glielo dà)

OTT. Questo mezzo filippo mi par di conoscerlo, mi par sia di quelli che avete rubati a me. (lo mette nel taschino)

BEAT. V’ingannate. Quello l’ho avuto per resto di un zecchino, che ho perso al gioco.

OTT. Brighella.

SCENA DECIMA

Brighella e detti.

BRIGH. Lustrissimo.

OTT. Questa mattina non si va a spendere? Che fai che non vai a comprarci da desinare?

BRIGH. Oh bella! Cossa vorla che vaga a comprar?

OTT. Un cappone, un pezzo di vitello, qualche cosa di buono.

BRIGH. Bezzi, e gh’è de tutto.

OTT. Danari? Ecco danari. Prendi questo mezzo filippo. A me non mancano danari. (lo tira fuori con aria e lo dà a Brighella)

BRIGH. Me ne ralegro infinitamente. Come ala fato a trovar bezzi.

OTT. Meno confidenza. Quello è mezzo filippo; va a spendere.

BRIGH. (Tiolè, mezzo felipo l’ha messo in superbia. Sti siori, co no i gh’ha bezzi, i xe tutti umiltà; co i gh’ha do soldi, no i se pol soffrir). (da sé) Ma la diga, lustrisimo, cossa vorla che toga?

OTT. Quel che comanda la marchesa.

BEAT. Quel che vuole il signor marchese.

OTT. Prenderai una buona pollastra; tre libbre di vitello da fare arrosto; un paio di piccioni ed un pezzo di cascio parmigiano.

BRIGH. Con mezzo felipo?

OTT. Con mezzo filippo.

BRIGH. Do lire de la polastra, quarantaotto soldi de vedèlo, che fa quatro lire e otto soldi, do lire dei colombini fa sie e otto, e mezzo felipo val cinque lire e mezza de moneda veneziana.

OTT. Due la pollastra, due e cinque il vitello, fa quattro e cinque, avanzano venticinque soldi, facciam di meno dei piccioni; prendi mezza libbra di formaggio, e il resto frutta.

BEAT. Vorrei un poco d’uva fresca di Bologna.

BRIGH. Benissimo. E per el pan e per el vin ghe vol dei altri bezzi.

OTT. Oh appunto, non me ne ricordava. Quanto vi vorrà per il pane e per il vino?

BRIGH. Una lira de vin, e diese soldi de pan.

OTT. Lasciamo stare il formaggio e i frutti.

BEAT. La mia uva la voglio certo.

BRIGH. E menestra no i ghe ne vol?

OTT. Oh diavolo! La minestra.

BRIGH. E le legne da cusinar?

OTT. Lasciamo star l’arrosto, e prendi la pollastra sola.

BRIGH. E per sta sera? Polastra, pan, vin, menestra, legne, sal, candele e l’uva de Bologna, mezzo felipo el va tutto sta matina.

OTT. Fa una cosa, compra due libbre di carne di manzo, una libbra di riso, e fa che vi sia da cena per questa sera.

BEAT. Ma che vi sia l’uva fresca di Bologna.

BRIGH. Se ghe piase la uva, per spender manco, ghe porterò un per de zaletti col zebibo. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Il marchese Ottavio e la marchesa Beatrice

BEAT. Che temerario! Non lo posso soffrire. Da dama che io sono, non lo voglio più al mio servizio.

OTT. Credo che uno di questi giorni se n’anderà, senza che lo mandiamo.

BEAT. Ne troveremo un altro.

OTT. Sapete chi potremo prendere, che ci darà poca spesa? Il servitore del signor Orazio.

BEAT. E chi è il servitore del signor Orazio?

OTT. Pulcinella colla testa di legno.

BEAT. Ma che! dovremo sempre essere miserabili?

OTT. Se non muor mio fratello, non so dove ci rivolgeremo.

BEAT. Non avete amici?

OTT. Li ho tutti intaccati.

BEAT. I vostri patriotti?

OTT. Non ve n’e uno, che da me non sia stato frecciato.

BEAT. Dunque che dobbiam fare?

OTT. Questo è quello che vo pensando, e non so che sperare.

BEAT. Se io sapessi come, m’ingegnerei.

OTT. Possibile, che di tanti serventi che avete, non ve ne sia uno che abbia dieci zecchini da prestarvi?

BEAT. Se non me ne avessero prestati degli altri, direste bene.

OTT. Sicché ancor voi vi siete portata bene coi vostri amici.

BEAT. Ho fatto quello che m’avete insegnato voi.

OTT. Le donne hanno una grande abilità per imitar i mariti viziosi.

BEAT. Ancorché le donne siano buone, quando hanno i mariti cattivi, diventano pessime.

SCENA DODICESIMA

Brighella e detti.

BRIGH. Lustrissima.

BEAT. Hai qualche altra impertinenza da dirmi?

BRIGH. Ghe xe do che voria farghe una visita.

BEAT. E chi sono?

BRIGH. Uno xe el sior Pasqualin, e l’altro el xe quel Lelio, fio de missier Menego Cainello.

BEAT. Falli un poco aspettare, e poi li riceverò.

BRIGH. Perché mo li vorla far aspettar?

BEAT. Perché non voglio riceverli, se prima non mi fanno anticamera.

BRIGH. Chi gh’averzirà la portiera?

BEAT. Tu l’aprirai.

BRIGH. Mi vado a comprar le do lirette de carne de manzo. Ghe dirò, se i vol vegnir, che i vegna, e se no i vol vegnir, che i vaga.

BEAT. Sei un temerario.

BRIGH. Oh quanta spuzza! E sì no la magna tropo. (parte)

BEAT. Costui mi vuole tirar a cimento.

OTT. Se l’ho detto io. Il servitor del signor Orazio.

BEAT. Sa tutti i fatti nostri, e per questo si prende tanta libertà.

OTT. Così è; quando i padroni non ne hanno, i servitori li burlano.

BEAT. Se non ne abbiamo, ne abbiamo avuto.

OTT. Vi è una gran differenza dal passato al presente.

BEAT. E ne averemo.

OTT. Oh, qui sta il punto. Sentite, signora marchesa, vi è Pasqualino che ha del denaro. Vi consiglio farvelo amico.

BEAT. Ha del denaro? Facciamolo passare.

OTT. Gioca volentieri.

BEAT. Facciamolo giocare.

OTT. Se avessi del denaro, gli taglierei.

BEAT. Egli è piuttosto semplice, ma quel Lelio è accorto, non lo lascierà giocare.

OTT. Vado a dir loro quattro buone parole, e ve li mando. Trattateli dolcemente. Queste genti basse si gonfiano, quando si vedono trattati da pari nostri.

BEAT. Sì, ma Lelio si prende troppa confidenza.

OTT. Quando si ha bisogno, conviene soffrir qualche cosa. Ve lo dico che nessuno ci sente. È un brutto impegno sostenere la nobiltà in camera, quando le cose vanno male in cucina. (parte)

SCENA TREDICESIMA

La marchesa Beatrice, poi Lelio e Pasqualino

BEAT. Non credeva mai di dovermi ridurre a questo passo. Mio marito non mi ha confidata la verità. Se sapeva che dovesse andare così, avrei procurato di mettere qualche cosa da parte. Avrei rovinato più presto mio marito, ma ora almeno non avrei bisogno di lui.

LEL. Servo della signora marchesa.

PASQUAL. Servitor umilissimo de vussustrissima.

BEAT. Vi riverisco; che fate, Pasqualino? Che fa la vostra moglie?

PASQUAL. Mia mugier credo che la staga ben. Xe do zorni che no la vedo.

BEAT. Due giorni? Perché?

PASQUAL. Avemo un poco crià, e son vegnù via in còlera. Voleva tornar a casa a giustarla, ma sior Lelio m’ha desconsegià. El m’ha dito che bisogna star su le soe e farse desiderar.

LEL. Certo, il maggior castigo che si possa dare a una moglie, è quello di non andare a dormir a casa.

BEAT. Ma voi trattate male quella povera figliola. È tanto buona che non lo merita.

PASQUAL. Certo che de ela no me posso lamentar.

LEL. È una dottoressa, che se fosse mia moglie, la bastonerei come un cane. Ogni volta che Pasqualino vuol prender danari, gli fa mille correzioni, gli dà mille avvertimenti che fan venire il vomito. Se va a casa tardi, grida; se si diverte, borbotta; se va un galantuomo in casa sua, non lo guarda in faccia. È veramente fastidiosissima.

PASQUAL. Caro amigo, feme un servizio, no disè mal de mia mugier.

LEL. Io non fo per dir male, ma vorrei un poco illuminarvi. Che diavolo di figura volete fare al mondo, se siete perso e incantato nella moglie?

BEAT. Siete stato in casa mia, Pasqualino; avete veduto quante carezze mi faceva il marchese? I mariti poco guardan le loro mogli.

PASQUAL. Mo mi mo, ghe voleva ben.

LEL. Ma con tutto il ben che le vuole, le ha dato l’altra sera un potentissimo schiaffo.

BEAT. È vero? (a Pasqualino)

PASQUAL. Ghe l’ho dao, lustrissima sì. (si asciuga gli occhi)

BEAT. Che avete che piangete?

LEL. Piange per lo schiaffo che ha dato alla moglie. Oh caro! Oh come siete dolce di cuore! Un altro dategliene, ma buono.

BEAT. Povero Pasqualino! È poi di buon cuore, io gli ho sempre voluto bene. Vi ricordate che son stata io quella che vi ha fatto sposar Bettina?

PASQUAL. Me recordo de quel bocon de spagheto che ho abuo in quela camera a scuro.

BEAT. Ma poi tutto contento.

PASQUAL. La s’imagina; giera là che sgangoliva.

BEAT. Io ho procurato che Bettina fosse vostra moglie, per troncar i disegni di mio marito; e vi sono stati dei critici che hanno detto che io vi ho fatto la mezzana contro il mio carattere di dama.

LEL. Chi volesse badar alle critiche, troppo ci vorrebbe. Anche di me è stato detto che ho avuto poco cervello a credere alle parole di donna Pasqua mia madre; che doveva sostenere di esser figlio del signor Pantalone, fino che la cosa fosse stata meglio provata, e non perdere così placidamente uno stato comodo, per acquistarne un peggiore. Ma io che avevo dell’aborrimento per quel vecchio che mi voleva mandar prigione, e non voleva che vivessi a modo mio, l’ho rinunziato volentieri, e ho creduto di poter meglio passarmela col barcaruolo.

BEAT. Che fa messer Menico?

LEL. Credo sia a un traghetto. Dappoiché è stato licenziato di qua, non ha più voluto servire.

BEAT. Ma voi non state con lui?

LEL. Non mi ha voluto riconoscer per figlio, onde adesso son senza padre. Finché è vissuta mia madre, mi ha assistito, ma poverina, per mia disgrazia è morta.

BEAT. E voi che mestiere fate?

LEL. Sinora non ne fo nessuno.

BEAT. Non volevate fare il barcaruolo?

LEL. Volevo farlo. Mi son provato, e non ci riesco; e poi chi è avvezzo a non far nulla, fatica per un poco e s’annoia presto.

BEAT. Pasqualino è stato più fortunato. Sono stata causa io della sua fortuna.

PASQUAL. Mi certo ghe son obligà a sta zentildona, che la m’ha fato aver la mia Betina.

BEAT. Figliuoli, vorrei darvi un poco di divertimento. Volete giocare?

PASQUAL. Mi ghe ne so poco, ma ziogherò.

LEL. Lasci dire, signora marchesa, che Pasqualino gioca perfettamente.

BEAT. Rosina, Angiolina, Brighella, Pasquale, Filiberto, diavolo: di tanti mangiapani non ve n’è uno. Faremo da noi. Lelio, Pasqualino, tirate avanti quel tavolino e quelle sedie.

PASQUAL. Subito la servo.

LEL. Signora marchesa, fa male tener tanti servitor. Sarebbe meglio tenesse Brighella solo.

BEAT. Perché?

LEL. Perché si vede solamente Brighella, e gli altri sono invisibili.

BEAT. (Un gran forcone è costui). (da sé) A che vogliamo giocare?

PASQUAL. A bazzega.

BEAT. Avete danari, Pasqualino?

PASQUAL. Se gh’ho bezzi! La varda mo. Questi i xe zechini, e ghe ne ho dei altri. (tira fuori una borsa, e mostra il denaro)

BEAT. Bravo, me ne rallegro. Venite qua, giochiamo a bazzica di due lire la partita. (siedono)

PASQUAL. Anca de tre, se la vol.

LEL. Io starò a vedere. (Non mi degno di questi piccoli giuochi). (da sé)

BEAT. Brighella.

LEL. Comanda qualche cosa?

BEAT. Brighella.

LEL. Perché non chiama Pasquale o Filiberto?

BEAT. Maledetti! Quando si vuole un servizio, non v’è nessuno.

LEL. Comanda? La servirò io.

BEAT. Mi sento un gran male di stomaco. Beverei volentieri la cioccolata.

LEL. E bene, anderò io a ordinarla al caffettiere vicino.

PASQUAL. Anderò anca mi, se la vol.

BEAT. No no, è meglio che vada Lelio. Noi faremo intanto due partite.

LEL. Mi dispiace che non ho moneta.

PASQUAL. Voleu? Sè paron.

LEL. Sì, datemi qualche cosa.

PASQUAL. Tiolè sto zechin.

LEL. Signora marchesa, vado a prendere la cioccolata. (Ce la beveremo la metà per uno). (da sé) Pasqualino, aspettatemi, che ora torno.

PASQUAL. Caro vu, vegnì; no m’impiantè. No vago a casa senza de vu.

LEL. Oh che caro bambino! Ha paura che la moglie gli dia. Verrò con voi, e se vorrà fare la pazza, ecco, lo vedete? Quest’è il rimedio per farle far giudizio. (mostrando il suo bastone, e parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

La marchesa Beatrice e Pasqualino

PASQUAL. Sior Lelio me va metendo suso che bastona mia mugier, ma mi no gh’ho cuor. Poverazza! Cossa me fala? No vedo l’ora d’andar a casa e de far pase co ela, e de dar un baso al mio putelo, che ghe vo tanto ben.

BEAT. So che Pasqualino è un giovine di buon cuore, che ha dell’amore per la nostra casa, onde vorrei che mi faceste un piacere.

PASQUAL. La me comanda pur in quelo che son bon.

BEAT. Vorrei comprarmi un abito, senza che lo sapesse mio marito. La mia mesata non me la darà che da qui a dieci giorni, onde intanto vorrei che mi prestaste dodici zecchini, che subito ve li renderò.

PASQUAL. Patrona: me maravegio, la se serva, anzi mi gh’ho ambizion a servirla. (le dà i dodici zecchini)

BEAT. Da vero che vi son obbligata.

PASQUAL. Gh’ho tante obligazion con ela: possio far de manco?

BEAT. Siete un giovine molto proprio. Veramente pareva impossibile che foste figlio d’un servitore.

SCENA QUINDICESIMA

Il marchese Ottavio e detti.

OTT. Oh, che si fa? Si gioca?

PASQUAL. Lustrissimo. (si alza)

OTT. No, state fermo; non vi movete. (si accosta alla moglie, che gli dà in mano sei zecchini)

PASQUAL. La lustrissima siora marchesa se degna de ziogar con mi.

OTT. A che gioco giocate?

PASQUAL. A bazzega, per servirla.

OTT. Oibò. Questo è un gioco da ragazzi. Venite qua, giochiamo a un gioco più bello.

PASQUAL. Anca ela vol ziogar?

OTT. Anch’io giocherò con voi.

PASQUAL. La se degna de ziogar con mi?

OTT. Sì, siete un mercante; siete un galantuomo; potete stare a tavolino con me. Non siete più il figlio di Catinello.

PASQUAL. Grazie a la bontà de vussustrissima. A che ziogo vorla ziogar?

OTT. A un gioco facile, facile. Alla bassetta.

PASQUAL. Ghe ne so poco, e sempre perdo.

OTT. Ora vincerete. Ecco sei zecchini di banco.

PASQUAL. O co beli! I par tuti dei mii.

OTT. Li ho riscossi ora da un affittuale.

BEAT. Via, tagliate, che metterò anch’io. (al Marchese)

PASQUAL. La m’insegnerà ela a meter.

BEAT. Sì, fate come faccio io. Due a un zecchino.

PASQUAL. Un zechin xe tropo. (il Marchese va mescolando le carte)

BEAT. Eh, che lo vogliamo sbancare questo signor tagliatore, e poi voglio che facciamo una bella merenda.

PASQUAL. Son qua. Do a un zechin. (il Marchese fa il taglio, sfoglia, e il due vien primo)

OTT. Due ha perso.

BEAT. Va due a due zecchini.

PASQUAL. Va anca mi. (il Marchese seguita a sfogliare)

OTT. Ecco il due: avete perso.

BEAT. Va il terzo due a quattro zecchini.

PASQUAL. Va, caspita, a quattro zechini.

OTT. Va, non mi fate paura. Eccolo. Avete perso. (come sopra)

BEAT. Se siete giocatore, va il quarto.

OTT. Oh, il quarto non voglio.

BEAT. Non sapete giocare.

OTT. Eh, qui dentro non v’è nissuno. Va. (come sopra)

BEAT. Va sei zecchini. Pasqualino, metteteli su.

PASQUAL. E ela?

BEAT. Non mi voglio scaldare con mio marito. Metteteli voi.

PASQUAL. Va al quarto do sie zechini.

OTT. Ecco il quarto, avete perso.

PASQUAL. Oh maledeto do!

OTT. Va il quinto.

PASQUAL. Dov’èlo el quinto?

OTT. Ne metterò dentro uno.

PASQUAL. Sì ben. Va do a diese zechini. (il Marchese mette un due nel mazzo, e sfoglia)

OTT. Siete sfortunato. Ecco il quinto due.

PASQUAL. Va il sesto.

OTT. No basta così. Vedo che vi scaldate. Non voglio che perdiate troppo. Un’altra volta giocherete con più fortuna. (si alza)

PASQUAL. Maledeto do.

BEAT. Anch’io ho perso per conversazione.

PASQUAL. Cossa disela de quel do? El quarto do, el quinto do.

OTT. Accidenti del gioco.

PASQUAL. E tuti i me toca a mi. Perdo sempre. Ah, mia mugier dise ben! No ziogar, che ti perderà la camisa.

OTT. Questa che avete fatto con me, non è perdita che vi possa incomodare.

PASQUAL. Uno e do tre, e quattro sette, e sie tredese, e diese vintitrè zechini in un tagio no xe poco.

OTT. Almeno li avete persi con un cavaliere; almeno potrete dire: ho giocato a tavolino col marchese di Ripaverde. (parte)

PASQUAL. Da qua diese zorni la me li darà, n’è vero, i mii dodese zechini? (alla Marchesa)

BEAT. Ve li darò. Di che avete paura? Non è poco onore per voi l’aver prestato denari ad una dama mia pari. Potrete gloriarvi di aver fatto un piacere alla marchesa di Ripaverde. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Pasqualino solo.

PASQUAL. Certo che el xe un gran onor, ma el me costa un pocheto caro. La borsa xe molto calada, e fenidi questi, no ghe n’è altri. Ma cossa dirà Betina, che no la me vede? Poverazza! la pianzerà, e mi ho tanto cuor de tratar mal con una che me vol tanto ben? Squasi squasi malediria l’ora e el ponto che ho cognossù Lelio. Mi no saveva che cossa fusse né ziogo né osteria né altri vizi, e lu me li ha insegnai; e lu m’ha fato chiapar gusto a la cativa vita che fazzo. Mi no pensava altro che a mia mugier e al mio putelo; obediva mio pare; tendeva ai mii interessi; no butava via un bezzo. Lelio xe stà causa che ho strapazzà e ho dà a mia mugier, e per causa de Lelio ho speso, ho spanto, e deboto ho consumà mile ducati, che gh’aveva da negoziar. Qua bisogna resolverse de muar vita. Farò pase co mia mugier; domanderò perdonanza al mio povero vecchio; tenderò al sodo; lasserò el zogo; lasserò le pratiche, tornerò quel che giera. Ma cossa dirà i mii camerada? Cossa dirà i amici? Tuti me burlerà; tuti dirà: varè quel gnoco de Pasqualin, el gh’ha paura de la mugier, e el gh’ha sugizion de so pare. Se no ziogo più, no me referò mai de quel che ho perso. Se no vago a l’ostaria, i dirà che vogio far el chietin([8]). Se no vago più a le conversazion, i dirà che gh’ho ancora del barcariol. Vago vedendo che xe pur tropo vero quelo che me diseva un omo da ben: Sto mondo xe una scala; sul primo scalin ghe sta la vertù, su l’ultimo ghe sta el vizio. Per passar da la vertù al vizio, se va zo per la scala a tombolon; ma per tornar dal vizio a la vertù, bisogna far un scalin a la volta; se se straca, se fa fadiga, e poche volte se ghe pol arivar. (parte)

SCENA DICIASSETTESIMA

Camera in casa di Bettina.

Bettina, poi Pantalone

BETT. Oh povereta mi! Cossa mai xe sta cossa? Pasqualin no se vede. Che ghe sia sucesso qualche desgrazia? Se savesse dove andarlo a cercar, anderia. Xe do zorni ch’el me manca; do zorni xe che sto sassin me fa sgangolir([9]). Mo ché cuor gh’alo? Mo che coscienza gh’alo? Ma cossa mai xeli sti omeni, che i xe cussì baroni? I gh’ha del vin in caneva, e i vol andar a bever al magazen. I gh’ha la mugier in casa, e no ghe basta, i ghe ne vol un’altra fora de casa. Ma Pasqualin che giera tanto bon che nol gh’aveva un vizio a sto mondo, ch’el primo ano el me tratava come una rezina, adesso el gh’ha tuti i vizi, nol me vol più ben, nol ghe pensa più de mi; el me strapazza, el me dà, e gnanca nol vien a casa? (piange) Malignaze pratiche, malignazo ziogo, malignaza mi, co m’ho maridà.

PANT. Oe, dove seu, siora niora? Seu qua? (di dentro)

BETT. Uh! sior Pantalon. (No vogio ch’el me veda a pianzer. No vogio ch’el sapia gnente de so fio). (si asciuga le lagrime). Son qua, son qua, sior missier. Che la resta servida.

PANT. Cossa feu, fia mia, steu ben?

BETT. Benissimo, per grazia del cielo. E elo?

PANT. Cussì da vecchio. Cossa xe de mio fio?

BETT. El xe andà fuora de casa za un poco.

PANT. Xelo stà a disnar a casa?

BETT. Sior sì; no vorlo?

PANT. Vardè che male lengue! Me xe stà dito, che xe do zorni che nol vien a casa.

BETT. Giusto! Do zorni che nol vien a casa? Cara ela chi ghe l’ha dito?

PANT. La furtariola.

BETT. Cossa sala i fati mii la furtariola?

PANT. La dise che ghe l’ha dito Momola.

BETT. Frasconazza! L’avrà dito per rider.

PANT. Cara vu, diseme la verità. Ve tratelo ben mio fio?

BETT. No vorla ch’el me trata ben? Cossa ghe fazzio mi, ch’el m’abia da tratar mal?

PANT. Zioghelo più?

BETT. Sior no.

PANT. Gh’alo pratiche?

BETT. Oh sior no.

PANT. Valo più con quei scavezzacoli che l’andava?

BETT. Gnanca.

PANT. Ve crìelo?

BETT. No da seno.

PANT. Ve strapazzelo?

BETT. Gnanca per ombra.

PANT. E pur ho savesto ch’el v’ha dà una slepa.

BETT. Una slepa? Chi ghe l’ha dito?

PANT. Momola me l’ha dito.

BETT. Momola xe in cusina. Dove l’alo vista? Dove gh’alo parlà?

PANT. Ho batuo: la xe vegnua al balcon, e avanti de tirar, la me l’ha dito a forte, che tutti ha sentio: No la sa sior Pantalon? El paron ha dà un schiaffo a la parona.

BETT. Petegola monzua! Ghe vogio tirar la peta([10]) come che va.

PANT. E la furtariola che ha sentio cussì, la m’ha contà el resto.

BETT. Tute busie, sior missier; no la creda gnente.

PANT. So che vu sé una bona mugier; ma no vorave ch’el tropo amor che gh’avè per el vostro mario, ghe filasse el lazzo([11]), e lo fasse deventar più cativo.

BETT. Mi de Pasqualin no me posso lamentar.

PANT. Cossa vol dir che no gh’avè el vostro bisogno, e che ogni zorno bisogna che ve manda da disnar?

BETT. Ogni zorno la dise? Xe da poco in qua solamente. Pasqualin, coi bezzi che la gh’ha dà, l’ha comprà de la roba per tornarla a vender; adesso nol gh’ha bezzi, e per questo nol me ne dà.

PANT. Coss’alo comprà de belo?

BETT. Mi no so i fati soi.

PANT. Betina, Betina, vu lo volè coverzer, ma mi so tuto.

BETT. El saverà più de mi.

PANT. Faressi megio a tornar a casa mia.

BETT. Se ghe vien mio mario, ghe vegno anca mi.

PANT. No lo vogio più quel furbazzo. Per un ano el xe stà bon, e savè quanto ben che ghe voleva. Co l’ha scomenzà a praticar, el m’ha roto el scrigno, el m’ha portà via la roba de casa; e per no sentirme a criar, l’ha volesto cavarse de casa mia. L’ho lassà andar, sperando ch’el fasse giudizio, e ha parso ch’el se drezzasse un pocheto. Gh’ho dà mile ducati da negoziar, ma i dise che deboto nol ghe n’ha più. No vogio, sti quattro zorni che ho da star a sto mondo, reduserme a domandar la limosina per causa soa. Se vu volè vegnir, sé parona, ma lu no certo.

BETT. Se nol vien elo, gnanca mi seguro.

PANT. Ben, starè mal tutti do.

BETT. Pazienzia. El xe mio mario, bisogna che staga con elo.

PANT. Anca se nol ve dasse da magnar?

BETT. Anca s’el me fasse morir da fame.

PANT. Anca s’el ve bastonasse?

BETT. Anca s’el me copasse.

PANT. Andè là, che sè una gran bona mugier; pecà che gh’abiè un cattivo mario.

BETT. Per mi el xe ben.

PANT. Co nol vien a dormir a casa, nol sarà tropo bon.

BETT. (Le massere e le galine xe quele che insporca le case). (da sé)

PANT. Disè, fia mia, cossa fa el putelo?

BETT. El sta ben. Se la lo vedesse, el vien tanto fato.

PANT. Cara vu, lassemelo veder.

BETT. Volentiera. L’ho infassà che xe poco. Momola.

SCENA DICIOTTESIMA

Momola e detti.

MOM. Siora. (di dentro)

BETT. Dormelo el putelo?

MOM. Siora no. (di dentro)

BETT. Portelo qua che so nono lo vol veder.

MOM. Adesso, siora, lo porto.

BETT. El xe la più cara cossa del mondo. Co el sente a vegnir el papà, el sbate le man e i pie co fa un ometo; e co schieto che el dise papà.

MOM. Velo qua, sior nono, velo qua. (porta il bambino a Pantalone)

PANT. Vien qua, le mie vissere, vien qua, sangue mio. Vardè se no el me someggia tuto.

BETT. Certo, el gh’ha tuti i so ochi.

PANT. (Fa carezze al bambino.)

BETT. (Baroncela, ti gh’ha dito de la schiaffa, ah?) (a Momola)

MOM. (Mi no gh’ho dito gnente, siora). (a Bettina)

BETT. Tasi, che ti me la pagherà.

MOM. No in veritae gnanca. Oe, mi gh’ho dito, sior Pantalon... (a Pantalone)

BETT. Via de qua, frasconazza.

MOM. Sia malignazo! Sempre la me cria. (parte)

PANT. Pantaloncin, Pantaloncin, el nono, el nono, tanto ben al nono, tante carezze al nono. El nono, col sarà grando, el ghe farà tante bele cosse. Sentì, niora, co sto putelo gh’ha tre ani, subito ve lo tiogo.

BETT. Perché me lo vorlo tior?

PANT. Perché no vogio che vostro mario lo arleva mal. I putei da picoli bisogna arlevarli ben, chi vol che da grandi i sia boni; e un pare che gh’ha dei vizi, ai fioi no pol insegnar le virtù. Mi lo arleverò come che va, mi lo manderò a scuola, mi lo farò un ometto.

BETT. Basta, da qua tre ani ghe xe tempo; ma el sangue mio lo vogio con mi.

PANT. Vela qua. Le mare le vol con ele el so sangue; le spasema, le delira e le xe causa de la rovina dei fioi. Vustu el nono, caro, vustu vegnir a star col nono? Sì ben, tolè, el dise de sì. Oh caro! Siestu benedio! (lo bacia)

BETT. Mo via, nol lo basa più, che deboto el gh’ha fato la schiza([12]).

PANT. Lassè che me lo strucola ancora un poco. I pari no i gh’ha altra consolazion al mondo che veder i fioi dei so fioi. Oh, quanto che pagherave a veder nassui anca i fioi de Pantaloncin.

BETT. Momola. (leva il bambino a Pantalone)

MOM. Siora.

BETT. Tiò sto putelo, metilo in cuna.

MOM. Siora sì. Xe qua siora Cate.

PANT. Tiò sto altro baso, Pantaloncin.

MOM. Vardè, el gh’ha lassà suso le bave. (parte)

PANT. Scagazzera! Mi no gh’ho bave. M’ha parso che la diga che xe qua siora Cate.

BETT. Sior sì, la xe ela.

PANT. Se v’ho da dir la verità, sta vostra sorela no la me piase gnente; no gh’ho gnente de gusto che la ve pratica per casa.

BETT. La sarave bela, la xe mia sorela.

PANT. Le sorele, le mare, le cugnae, le zermane, le xe quele che mete su le mugier. Mi, se m’avesse più da maridar, vorave tior una mula([13]).

SCENA DICIANNOVESIMA

Catte col zendale sulle spalle, detti.

CAT. Patron, sior Pantalon. (passeggiando in collera)

PANT. Bondì sioria, siora.

BETT. Coss’è che ti xe cussì scalmanada?

CAT. Oh, t’ho da contar. (come sopra)

BETT. De cossa mai?

CAT. De le bele cosse de to mario.

BETT. Oh povereta mi! Cossa mai sarà?

PANT. Via, siora, abiè un poco de giudizio. Se savè qualcossa, se tase; a la mugier no se ghe dise tuto. (a Catte)

CAT. Sì ben, vogio taser. Uh povera negada! Certo che ti gh’ha un bon mario, vara! (a Bettina)

BETT. Mo via, coss’alo fato?

PANT. Via, butèla fora a la prima([14]): coss’alo fato?

CAT. Cossa che l’ha fato? Ho scoverto tuto. Dei mile ducati nol ghe n’ha deboto più. E saveu dove el li ha consumai? Indivinèla mo?

BETT. Al magazen?

CAT. Oh giusto!

BETT. In cale del Carbon?

CAT. In casa de la lustrissima siora marchesa. El xe là perso, morto, incocalio([15]). Lori i xe al giazzo, e lu spende. Ti, povera grama, ti zuni, e là se tripudia.

BETT. Pussibile sta cossa?

CAT. Sì anca varenta i mii ochi([16]), vara.

PANT. Siora marchesa de Ripaverde, mugier de quelo che giera inamorà de Betina?

CAT. Giusto quela.

BETT. Una persona civil fa de sta sorte de azion?

CAT. La fame, cara sorela, fa far de tuto.

BETT. Ma se i giera tanto richi?

CAT. No xe miga oro tuto quel che luse. Se ti savessi quanti che ghe xe che fa fegura de richi, e i va frizendo! Tuti i gropi i vien al pètene([17]), e bisogna che i daga el preterito in tera.

BETT. Pussibile che el mio Pasqualin me fazza sto torto?

CAT. S’el t’ha fato torto? E come!

PANT. Che no la sia qualche falopa([18]), compagna de quela de la turchese e del tabaro comprà su le stiore. So che sè una busiara.

CAT. Coss’è sta busiara? Me maravegio de ela, che la parla in sta maniera. La s’ha negà mia sorela a tior so fio, che nol giera degno d’averla.

BETT. Ma da chi l’aveu savesto ch’el pratica in quela casa?

CAT. Brighela l’ha dito in confidenza a Arlechin mio mario, perché i xe patrioti, che i se cognosse; e mio mario me l’ha confidà a mi, perché el sa che no parlo.

PANT. E vu mo l’aveu dito a nessun?

CAT. No l’ho dito a altri che a la fornera, che ti sa che dona che la xe.

PANT. No passa doman, che tuta Venezia lo sa.

BETT. Me despiase, che tute le me dise: tiolè, vedeu? Avè volesto? Vostro dano. Pazienza! Tuto me toca a mi.

PANT. Vogio andar a veder, se trovo sto desgrazià; siben che l’è maridà, son ancora so pare, e troverò la maniera de castigarlo. Vardè chi l’avesse dito! Con quanta consolazion ho recevesto da dona Pasqua la niova, che in vece de Lelio, Pasqualin giera mio fio! M’ha parso d’aver vadagnà un tesoro. Giera tanto apassionà per i costumi indegni de Lelio, e giera tanto inamorà de queli de Pasqualin, che senza cercar altre prove de quelo che dona Pasqua m’ha dito, gh’ho credesto a ochi serai, parendome de vadagnar anca quando la m’avesse inganà. Pur tropo per sta cossa son stà criticà; pur tropo xe stà dito che no ghe doveva creder cussì facilmente, che doveva cercar prove più chiare de la verità. E se dona Pasqua fusse più viva, vorave cercar ancuo quelo che non ho cercà za do ani, co la speranza de poderme tacar a qualche anzin, e liberarme anca da st’altro fio. Ma no, che siben che l’è deventà scavezzo,([19]) la natura me parla in so favor, e piutosto che perderlo cativo, bramo recuperarlo bon. Betina, abiè pazienza. Cerchelo vu, che lo cercherò anca mi. Procureremo, vu co le lagreme de mugier, e mi con quele de pare, de remetterlo in carizada([20]). No ve stufè de considerarlo per vostro mario, che mi no me stracherò d’arecordarme ch’el xe mio fio. Gh’ho el cuor ingropà, no posso più. Niora, el cielo ve benediga e ne daga pazenzia. (parte)

SCENA VENTESIMA

Bettina e Catte

BETT. Povero pare! El me fa pecà.

CAT. Povero pare? Povera mugier, ti doveressi dir. Ma mi, se fusse in ti, la vorave far bela.

BETT. Cossa voressi far, cara vu?

CAT. Vorave con una fava chiapar do colombi. Voria refarme de Pasqualin, e vendicarme de quela lustrissima de faveta.

BETT. Come mai poderavio far?

CAT. Sior marchese ancora te vol ben; vorave farlo vegnir in casa, e in sta maniera ti te vendicheressi de so mugier e de to mario.

BETT. Povera senza cervelo, che bisogna che ve lo diga. Un bel rimedio che m’insegnè. Dei vostri soliti consegi che me davi da puta.

CAT. Lo fala siora marchesa? Ti lo pol far anca ti.

BETT. Mi no vardo quel che fa i altri, ma so quelo ch’ho da far mi.

CAT. A bon conto to mario te abandona.

BETT. Se lu me abandona mi, mi no l’abandonerò elo.

CAT. I bezzi xe andai.

BETT. Pazenzia.

CAT. La roba el la venderà.

BETT. N’importa.

CAT. El te darà de le bastonae.

BETT. E mi le torò.

CAT. El sarà sempre un cativo mario.

BETT. E mi sarò sempre una bona mugier.

CAT. Ti xe una mata.

BETT. Gh’ho più giudizio de vu.

CAT. Mi no te vegnirò più in ti versi.

BETT. Farò de manco de vu.

CAT. Sior Pantalon se stuferà.

BETT. Ghe vorà pazenzia.

CAT. Ti sarà abandonada da tuti.

BETT. No me mancherà la providenza del cielo.

CAT. Vago via.

BETT. Andè a buon viazo.

CAT. Ti vol desgustar una sorela che te vol ben, per un mario che te trata mal?

BETT. El vostro ben l’è pezo del mal che me fa mio mario.

CAT. Povera sporca.

BETT. Povera senza giudizio.

CAT. Te vederò ancora andar a cercando.

BETT. Piutosto anderò cercando, che far una cativa azion.

CAT. Ti è stada mata da puta, e ti xe mata maridada.

BETT. Son stada una puta onorata, adesso vogio esser una bona mugier.

CAT. La zente dise che xe dificile.

BETT. Lo dise la zente cativa, no la zente bona.

CAT. Orsù, son stufa de ti.

BETT. E mi son agra de vu.

CAT. Fa a to modo, che ti viverà de più.

BETT. Se no viverò de più, viverò megio.

CAT. Se ti vedi Pasqualin, saludelo da parte mia.

BETT. Se no lo vedo, lo saludo col cuor.

CAT. Ti ti lo saludi col cuor, e elo te farà un prindese co siora marchesa. (parte)

SCENA VENTUNESIMA

Bettina sola.

BETT. Che i diga quel che i vol, no m’importa. Pasqualin se stuferà de far la vita ch’el fa; el tornerà a far giudizio; el se pentirà de tuto quel ch’el m’ha fato, e alora, pensando al ben che gh’ho volesto, a la fede che gh’ho conservà, el me chiaperà sempre più a ben voler, e el me darà tante consolazion, quanti baticuori ch’el m’ha fato provar. Remeto la mia causa al cielo, a quelo racomando el mio Pasqualin, racomando el mio povero putelo, fruto inocente del nostro amor. El cielo remedierà, el cielo provederà. Chi se confida in tel cielo, no pol perir. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Camera d’osteria con tavola preparata con piatti, vino, ecc.

Lelio, Pasqualino, Arlecchino, Sbrodegona, Malacarnee due compagnoni, tutti a tavola, che mangiano, bevono e stanno in allegria.

LEL. Alla salute di questa bella ragazza. (beve)

TUTTI Evviva.

PASQUAL. Evviva sta bela puta. (beve)

TUTTI Evviva.

ARL. A la salute de ste do verginele. (beve)

TUTTI Evviva.

LEL. Che ne dite, eh, Pasqualino? Questo si chiama vivere, questo si chiama godere il mondo.

PASQUAL. Oh che gusto! Oh che spasso! Oh che bel divertimento! Magnar ben, bever megio, e aver arente de sta sorte de tochi, bisogna star aliegri per forza. (accenna le due femmine)

ARL. Ma! gran mi! Mi son quelo che trova fora de sta sorte de roba.

LEL. Evviva Arlecchino. Beviamo alla sua salute. Evviva Arlecchino. (bevono tutti)

PASQUAL. Evviva Arlechin.

TUTTI Evviva, evviva.

SBR. Che bel anelo, che gh’ha sior Pasqualin.

PASQUAL. Ve piaselo, Sbrodegona? Sè parona.

SBR. Magari ch’el me lo donasse.

PASQUAL. Tiolè, cara, ve lo dono volentiera. (le dà un anello)

SBR. Grazie.

MALAC. E a mi, sior Lelio, me donela gnente!

LEL. Volete bere? Ecco un bicchier di vino.

MALAC. Vardè! Sbrodegona ha abuo un anelo, e mi gnente.

LEL. Un anello poi lo vorrei impiegar un poco meglio.

PASQUAL. Tiolè via, tasè, tiolè sta scatola. (dona una tabacchiera a Malacarne)

MALAC. Grazie, sior Pasqualin. A lu ghe n’indormo. (a Lelio)

LEL. Ed io v’ho in tasca.

SBR. Caspita! La scatola che ha abuo Malacarne, val più de l’anelo.

MALAC. Ti te voressi meter con mi?

SBR. Chi estu ti?

MALAC. E ti chi estu?

SBR. No ti xe degna de zolarme le scarpe.

MALAC. Povera sporca, no ti me cognossi.

SBR. A mi sporca?

MALAC. A ti, sì ben, a ti.

SBR. Vustu zogar che te tiro un piato in tel muso?

MALAC. Te sfriso co sto goto, vara.

SCENA SECONDA

Cameriere d’osteria e detti.

CAM. Zitto, che siate maledette! Sempre strepiti sull’osteria. Favoriscano, signori, chi è di lor signori che ha nome Pasqualino?

PASQUAL. No me cognossè? Mi gh’ho nome Pasqualin.

CAM. Compatisca, son forestiere. È poco che io sono in Venezia, non la conosco.

PASQUAL. Cossa voleu da mi?

CAM. Vi è un certo vecchio colla veste nera e la barba lunga, che cerca di vossignoria.

PASQUAL. Oh povereto mi! Mio pare.

LEL. Ditegli che non c’è. (al Cameriere)

PASQUAL. Sì, diseghe che no ghe son.

CAM. Io, che so vivere, gliel’ho detto, ma egli vuole salire assolutamente.

PASQUAL. Cossa farogio, povereto mi? Cari amici, lassè che me sconda.

ARL. Basta che la se contenta de pagar el disnar, e la se sconda quanto che la vol.

PASQUAL. Sì ben, pagherò. Lasseme sconder; andè via, lasseme qua mi; pagherò mi.

LEL. Non abbiate soggezione...

PASQUAL. Velo qua ch’el vien. (si asconde sotto la tavola)

SCENA TERZA

Pantalone e detti.

PANT. Buon pro, patroni. (va guardando se vede Pasqualino)

ARL. Comandela, sior Pantalon? La resti servida; la senta sto vin, s’el ghe piase. (s’alza da tavola con un bicchier di vino)

PANT. No, ve ringrazio; fra pasto no bevo.

ARL. No la me fazza sto torto. (gli offre un bicchiere di vino)

PANT. Ve son obligà, come se l’avesse recevesto. (E pur i m’ha dito de seguro ch’el ghe xe). (da sé, osservando l’intorno)

ARL. Per favor, per finezza, la ghe meta suso la boca. (come sopra, gli offre il vino)

PANT. Via, receverò le vostre grazie. (lo vuol prendere)

ARL. A la so salute. (egli stesso lo beve)

PANT. (Che creanza da aseno! Quelo xe el tabaro de Pasqualin). (vede il tabarro di Pasqualino, attaccato alla parete)

LEL. Vuol favorire, signor padre? (a Pantalone)

PANT. Per grazia del cielo, no son più vostro pare, e se fussi stà veramente mio fio, a st’ora saressi un pezzo lontan de qua.

LEL. In Levante a drittura mi volevate mandare?

PANT. Vardè che bela cossa! Missier Menego vostro pare, poverazzo, el se sfadiga, el xe a un tragheto per vadagnarse el pan, e vu qua a l’ostaria co le squaquarine.

SBR. Coss’è ste squaquarine, sier vecchio mato?

MALAC. Parlè ben, savè, perché se no scoverzirò tuti i vostri petoloni([21]).

PANT. Via, tasè là.

MALAC. So tuto, savè, e siben che sè vecchio...

PANT. Via, me maravegio dei fati vostri.

LEL. Sarà meglio che ce n’andiamo nell’orto, e che lasciamo questo vecchio pazzo.

SBR. Andemo pur dove che volè.

MALAC. Andemo a chiapar un poco d’aria, che gh’ho la testa calda. (Lelio e i compagni partono, dando mano alle donne)

SCENA QUARTA

Pantalone, Arlecchinoe Pasqualino sotto la tavola.

PANT. Vardè che roba! Vardè che razza de zente! Vardè dove e come se perde la zoventù! (osservando quelli che partono)

ARL. Sior Pantalon, comandela un altro goto?

PANT. No, vecchio, ve rengrazio. Piutosto, se volè che ve ne paga una grossa, lo farò volentiera.

ARL. La me farà grazia; la beverò a la prosperità de la so decrepitezza.

PANT. Disè quel che volè, che no ghe penso. Tiolè, questa xe una lirazza([22]), ma feme un servizio, diseme se qua ghe giera Pasqualin mio fio.

ARL. Se el ghe giera, no vol miga dir se el ghe xe?

PANT. Mo no certo.

ARL. Donca nol ghe giera.

PANT. Quel tabaro de chi xelo?

ARL. El me par el tabaro de sior Pasqualin.

PANT. Donca Pasqualin giera qua.

ARL. El qua va ben; ma l’è quel giera che no va ben.

PANT. Ma cossa ogio da dir?

ARL. Disè quel che volè, che no m’importa gnente.

PANT. Mi ve domando de mio fio.

ARL. E mi ve respondo de vostro fio.

PANT. Xelo stà qua a disnar con vu?

ARL. Sior no: mi son stà a disnar con elo.

PANT. Donca avè disnà insieme.

ARL. Insieme.

PANT. Donca el giera qua.

ARL. E mi ve digo che nol giera qua.

PANT. Ma vu dove aveu disnà?

ARL. Mi ho disnà qua.

PANT. E avè disnà con mio fio?

ARL. Ho disnà con vostro fio.

PANT. Donca mio fio giera qua.

ARL. Donca vostro fio no giera qua.

PANT. Mo va là, che ti xe un gran alocco.

ARL. Mo andè là, che sè un bel aseno.

PANT. Te compatisso, perché ti xe un toco de mato. Vien qua, e respondeme a ton. Mio fio ha disnà qua.

ARL. L’ha disnà qua.

PANT. E dopo disnar dove xelo andà?

ARL. In nissun liogo.

PANT. Donca el xe ancora qua.

ARL. Oh! el xe va un poco megio de el ghe giera.

PANT. Ma dove xelo?

ARL. Zitto, vegnì qua da mi. (lo tira in disparte) Deme un’altra lirazza, e saverè cossa che vol dir el ghe giera, e el ghe xe.

PANT. Tolè pur. (gli dà una moneta, volgarmente detta una lirazza)

ARL. El ghe giera col giera a tola, el ghe xe adesso sotto la tola. (parte)

SCENA QUINTA

Pantalone e Pasqualino, come sopra.

PANT. Oh siestu maledio col ghe giera e col ghe xe! Adesso l’intendo. Sto furbazzo el m’ha sentio mi, e el s’ha sconto. (Adesso lo vogio giustar co le zeolete). (Da sé; va furioso verso la tavola, poi si ferma) Ma no xe megio andar co le bone? De le volte un’amorosa corezion gh’ha più forza de un severo castigo. Lo farò vegnir fora, ghe parlerò da pare, e sarò veramente pare, s’el se resolverà de tratar da fio. (Pantalone s’accosta alla tavola, alza la tovaglia e scopre Pasqualino, che senza dir nulla esce, e fa una riverenza a Pantalone, e va per prendere il suo tabarro e per andarsene, e Pantalone lo ferma) Fermeve; no andè via. No son qua né per criarve, né per manazzarve, e molto manco per castigarve. Finalmente son pare, e ad onta de tuto quelo che m’avè fato, ancora ve vogio ben. Vedo pur tropo, che per causa de la zente cativa che v’ha messo su, no son più in istato de comandarve. Ve prego donca, ve prego per carità de ascoltarme. Ve domando un mezzo quarto d’ora per cortesia; ve posso domandar manco, dopo de tuto quelo che ho fato per vu? Me ascoltereu, respondeme, me ascoltereu?

PASQUAL. Sior sì, v’ascolterò. (con voce sommessa e tremante)

PANT. Metè zo quel tabaro.

PASQUAL. Ve cognosso che me volè dar. (come sopra)

PANT. No, Pasqualin, te lo zuro da pare che te son, no te dago e gnanca no te crio. Me basta che ti m’ascolti, e no vogio altro.

PASQUAL. Son qua, ve ascolto, e no me movo.

PANT. Dame una cariega.

PASQUAL. Subito. (Tremo da cao a pie). (da sé, e gli porta una sedia)

PANT. Vustu sentarte anca ti?

PASQUAL. Mi no son straco.

PANT. Via, caro fio, vien qua, sentete anca ti arente de to pare. Za no ghe xe nissun, e el camerier m’ha promesso che, fin che ghe son mi, no vegnirà altri. Séntete, fame sto servizio.

PASQUAL. Per obedirve, me senterò. (No so in che mondo che sia). (da sé, prende una sedia e siede anch’esso)

PANT. (El scomenza a chiapar fià; spero un poco la volta de tornarlo a drezzar). (da sé)Dime, Pasqualin, sastu adesso dove che semo?

PASQUAL. Credeme, sior pare... (tremante)

PANT. Respondime a quel che te domando. Sastu dove che semo?

PASQUAL. A l’ostaria.

PANT. Cossa distu, che bel devertimento che xe l’ostaria! Te par ch’el sia un liogo proprio e civil per un puto che xe nato ben? Per un fio d’un marcante onorato e de credito? Te par che l’ostaria sia a proposito per un omo maridà, per un pare de fioi, per un zovene de boni costumi che gh’ha giudizio, e che gh’ha fin de reputazion? Varda, caro el mio Pasqualin, varda chi pratica l’ostaria, varda con chi ti perdi el to tempo, con chi ti prostituisci la to estimazion, el to onor, quelo de la to casa e quelo del to povero pare. Lelio, fio d’un barcariol; Arlechin sportariol([23]), imbriagazzo e mezzan; do baroni de piazza, che sarà forsi do spioni, do bari da carte, o do sicari, do done avanzae da l’ospeal o dal lazzareto. E ti tuto aliegro e contento ti godi, ti ridi, ti te deverti in mezzo a sta sorte de zente? Senza pensar a una mugier zovene, bela, onorata, e che te vol tanto ben? Senza refleter a to pare, che xe in istato de fenir co desperazion i so zorni per causa toa? Senza arecordarte del to sangue, de quella povera creatura inocente, che per mancanza de alimento se nutrisse co le lagreme de so mare? Ah Pasqualin, ah fio mio, se no ti ghe pensi de mi, se la mugier no la te toca el cuor, almanco quel povero putelo te mova a compassion; ma più de tuto ancora pensa a ti medemo, varda in che stato che ti te trovi pensa a quel che ti pol deventar. Varda, caro fio, fin che ti xe stà bon, el cielo t’ha volesto ben, per i to boni costumi el s’ha mosso a pietà de ti, e l’ha fato che se scoverza to pare per megiorar la to condizion. Xela questa la recompensa a le grazie del cielo? Cussì ti te servi de quella fortuna ch’el ciel t’ha dà? Varda Pasqualin, che l’ingratitudine xe el vizio più detestabile de la umanità. Remedieghe fin che gh’è tempo, lassa le male pratiche, buta da banda i vizi, torna quel che ti gieri con mi, e mi sarò quel che giera con ti; prometime de scambiar vita, d’esser bon, de voler ben a la to cara mugier, e mi son qua, te esebisso la mia casa, el mio scrigno, el mio sangue, se ti lo vol.

PASQUAL. Ah, sior pare, no posso più!... (si getta a’ suoi piedi piangendo)

PANT. Via, fio mio, no pianzer. Fate anemo, fate coraggio. Quel che xe stà, xe stà. No ghe ne parleremo mai più.

PASQUAL. Ve domando perdon... (come sopra)

PANT. A mi no vôi che ti domandi perdon, perché t’ho perdonà. Domanda perdon al cielo, e fa cognosser ch’el to pentimento xe vero col scambiar vita.

PASQUAL. Vederè quel che farò... (come sopra)

PANT. Via, levete suso; no me far intenerir d’avantazo.

PASQUAL. Lassè che ve basa la man. (gli bacia la mano, e s’alza)

PANT. Sì, caro, tiò. Xe stà grando el contento che ho abuo za do ani, acquistandote per mio fio; ma xe ben più grando el contento che provo ancuo, tornandote a recuperar dopo che t’aveva perso.

PASQUAL. Mia mugier cossa dirala co la me vederà?

PANT. La te trarà i brazzi al colo: la pianzerà da la consolazion.

PASQUAL. A Rialto cossa diseli de mi? Me vergogno a lassarme veder.

PANT. Gnente, fio mio, ti vegnirà con mi, e tuti te vederà volontiera.

PASQUAL. I mile ducati i xe deboto andai.

PANT. N’importa gnente. Son qua mi; son to pare; ti vederà quel che farò per ti.

PASQUAL. Oh, sior pare, no me credeva mai che me volessi tanto ben!

PANT. Senti, Pasqualin, te vogio ben, e ti lo vedi da la maniera che adesso te trato. No creder però miga che sia un pare de stuco, che no sapia come se fa a castigar i fioi. Sta volta t’ho perdonà, ma no te assicurar che in t’un caso simile tornasse a perdonarte; anzi in tel tempo istesso che ti ricevi el mio perdon, trema de la mia còlera, e di’: Se mio pare xe stà tanto bon a perdonarme sta volta, el sarà tanto più fiero a castigarme se mai più falerò.

PASQUAL. No, certo, mai più, sior pare...

PANT. Basta cussì. Andemo.

PASQUAL. Andemo da mia mugier. No vedo l’ora de dar un baso al mio caro fio.

PANT. Ah Giove, deme grazia ch’el diga la verità!

SCENA SESTA

Cameriere dell’osteria e detti.

CAM. Signore, prima di partire, mi favorisca di pagare il conto. (a Pasqualino)

PANT. A vu toca pagar? (a Pasqualino)

PASQUAL. Sior sì, ho dito che pagherò mi.

PANT. Vedeu! cussì se usa da sta sorte de zente. Se magna, se beve, se gode la machina, e el gonzo([24]) paga. (a Pasqualino)Lassè veder a mi quel conto. (al Cameriere)

CAM. Prenda pure. (gli dà la lista del conto)

PANT. Che diavolo! Trentacinque lire?

CAM. Hanno bevuto due secchi di vino di Vicenza.

PANT. Ma questo xe un conto tropo alterà. Savè che avè da far con un grezzo([25]) e ve prevalè de l’ocasion? Con vinti lire el conto xe pagà.

CAM. Io non c’entro. Parli col padrone.

PANT. Sì ben, anderò mi al banco a parlar con elo. Pasqualin, aspeteme qua che vegno. Vardè cossa che me toca far in tempo de mia vechiezza! Su per le osterie a far i conti co l’osto. Gramarzè al mio sior fio. Sarala fenia? (a Pasqualino)

PASQUAL. Oh fenia, ve lo zuro.

PANT. Prego el cielo, che la sia cussì. (parte col Cameriere)

SCENA SETTIMA

Pasqualino solo.

PASQUAL. Che confusion! Che vergogna! Co mio pare la xe giustada, come anderala co mia mugier? Ma via, anca co la mugier la se giusterà, ma cossa dirà el mondo de mi? I mii amici, i mii camerada cossa dirali? Come! Me lasserò vencer dai respeti umani, e me farà più paura le parole dei vagabondi de quel che sia la colera de mio pare e le lagreme de mia mugier? No, ho promesso, vogio mantegnir, vogio muar vita. Se seguitava sta strada, la giera el mio precipizio. Ringrazio el cielo, che m’ha iluminà. Ringrazio mio pare, che m’ha dà la man per tirarme fuora da un laberinto, dal qual da mia posta no me podeva mai liberar.

SCENA OTTAVA

Lelio e detto.

LEL. Pasqualino, che diavolo fate? Siamo nell’orto che v’aspettiamo, e voi non venite?

PASQUAL. Caro amigo, lasseme star. (confuso)

LEL. Che cosa avete? Vi ha ritrovato vostro padre?

PASQUAL. Pur tropo el m’ha trovà.

LEL. Vi avrà dato una potentissima gridata.

PASQUAL. No, nol m’ha crià, el m’ha parlà con amor. Gh’ho promesso de muar vita. Bisogna che vaga con elo.

LEL. Come! Pianterete così la conversazione? Vi par questa una azione da galantuomo? Quei buoni amici vi aspettano, le donne vi sospirano; e voi avrete sì poca creanza di non venire, di burlarci e di mancar di parola?

PASQUAL. Mio pare m’ha dito e m’ha fato tocar con man, che l’ostaria no la xe da persone civili.

LEL. Vostro padre è un vecchio pazzo. Quand’era giovine, non diceva così. All’osteria vi vanno cavalieri, titolati, nobili, cittadini, di tutti i ranghi, di tutte le condizioni; e non si perde niente, quando si spendono i suoi quattrini onoratamente.

PASQUAL. Sì, ma co quela sorte de zente?

LEL. Sono due galantuomini; sono due donne proprie e civili. Ma lasciamo andar queste istorie. Se vedeste come ballano quelle due ragazze; fanno proprio cader il cuore per dolcezza. Che brio! che grazia! Quella poi ch’era presso di voi, va dicendo: Dov’è Pasqualino, dov’è il mio caro Pasqualino? Non posso vivere senza di lui. Sarebbe una discortesia, un’azion troppo barbara, se non veniste a darle nemmeno un addio.

PASQUAL. La me minzona([26])? La me cerca? (si va rasserenando)

LEL. Sospira, delira per voi.

PASQUAL. E la bala cussì pulito?

LEL. A perfezione. Brilla con quel piè piccolino, che farebbe innamorare i sassi.

PASQUAL. E mia mugier che m’aspeta?

LEL. Un giorno più, un giorno meno, non importa. Anderete a casa domani.

PASQUAL. Oh Dio! Mio pare cossa diralo?

LEL. Vostro padre dica quello che vuole; già poco può vivere, e la sua roba ha da essere vostra, voglia o non voglia. Cosa serve l’esser ricco, se non si gode? Il mondo è bello per chi lo sa prendere. Vagliono più quattr’anni di gioventù bene spesa, che trenta di vecchiaia stentata e affaticata. Fate a mio modo, prendetevi spasso fin che potete; a far da vecchio v’è tempo. Andiamo a ritrovare le nostre ragazze.

PASQUAL. Vegniria volentiera, ma mio pare me fa paura.

LEL. Cosa vi può fare vostro padre? Non siete più un ragazzo da bastonarvi.

PASQUAL. El me farà tior suso dai zaffi.

LEL. Sì, come voleva fare a me quando mi credeva suo figlio. Io verrò con voi, né avremo più paura di cento sbirri. Tenete questo stilo e non dubitate. (gli dà uno stilo)

PASQUAL. Cossa ogio da far de sto stilo?

LEL. Mettetevelo in tasca, e alle occorrenze v’insegnerò io come si mette in opera.

PASQUAL. Vien mio pare. (tremando)

LEL. Andiamo presto. Tenete il vostro tabarro.

PASQUAL. No gh’ho coragio.

LEL. Siete troppo vile.

PASQUAL. No so cossa risolver.

LEL. Quella giovine per voi sospira.

PASQUAL. Via, andemola donca a trovar.

LEL. Bravo.

PASQUAL. Oimè, se mio pare no me trova più...

LEL. E se quella donna muore per voi?

PASQUAL. Povereta! andemola a consolar. (partono)

SCENA NONA

Il Cameriere, incontrandosi con Lelio che parte, parla verso la scena.

CAM. Sì, signore, non dubiti che sarà servita. Nell’orto non ci verrà. Dirò che sono andati via per la porta di strada. Gran bella vita fanno questi giovinotti, ma dura poco, perché i danari finiscono; perdono la salute, e si mettono a viver bene, quando non hanno più il comodo di viver male.

SCENA DECIMA

Pantalone e detto.

PANT. Quanta fadiga che gh’ha volesto... Pasqualin, dov’estu? Pasqualin. Disè, quel zovene, dov’elo andà Pasqualin?

CAM. È andato fuori dell’osteria, in compagnia del signor Lelio e degli altri suoi camerata.

PANT. Come! l’è andà con Lelio?

CAM. Sì, signore, con lui.

PANT. E coi altri camerada? Anca co le done?

CAM. Non lo volevo dire. Anco con le donne.

PANT. Oh povereto mi! Cossa me toca sentir.

CAM. Vuol altro da me, signore?

PANT. Andè in malora anca vu.

CAM. Quando suo figlio verrà all’osteria, verrò da lei a portare il conto. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Pantalone solo.

PANT. Burleme, che gh’havè rason. Strapazzeme, che lo merito. Spueme in tel muso, che ve perdono. Mio fio ha fato pezo. Quel can m’ha tradio; quel infame m’ha asassinà. Butarse ai mii piè; pianzer con tanto de lagreme; suspirar, domandarme perdon, e po burlarme in sta maniera? Prometerme de muar vita, e da un momento a l’altro tornar da cao, far pezo che mai? Com’èla sta cossa? Come se pol dar una iniquità de sta natura? Xelo stà un finto pentimento, o xela una pessima recidiva? Ah, che quel desgrazià de quel Lelio l’ha tornà a precipitar! Quatro parole d’un cativo compagno val più de tute le più tenere corezion. Per varir una piaga, no basta un vaso d’unguento; per incancherirla poco ghe vuol. L’avessio menà con mi, no l’avessio mai lassà qua! Chi l’averave mai dito? Cussì presto? Cussì facilmente el s’ha lassà inganar, el s’ha lassà menar via? Effetto de l’animo vizioso abituà. Ma za che vedo che no giova l’amor, che xe inutile la compassion ti proverà la mia colera, te farò veder chi son, e se son stà fin adesso un pare amoroso, sarò in avegnir el to nemigo, el to flagelo, el to più acerimo persecutor. (parte)

SCENA DODICESIMA

Camera in casa del marchese Ottavio.

Il marchese Ottavio in veste la camera, e Brighella

OTT. Accostati e di’ piano. La marchesa è fuori di casa?

BRIGH. Lustrissimo sì. Quando l’ha bezzi no la sta in casa. Fin che la ghe n’ha uno, no la se vede più.

OTT. Hai cambiati i dodici zecchini?

BRIGH. I ho cambiadi. Questi xe trentadò ducati d’arzento. (gli dà una borsa con i ducati)

OTT. Dodici zecchini fanno trentatré ducati d’argento, e non trentadue. I zecchini erano tutti di peso.

BRIGH. El scambia monede non ha da vadagnar gnente?

OTT. Che! anco si paga per cambiar le monete?

BRIGH. Siguro. El xe un mistier a parte, anzi l’è un mistier più belo dei altri. Chi negozia, chi investe, rischia el capital, ma chi cambia monede, tira el pro, senza che el capital se parta dal banco.

OTT. Gran bella industria dell’uomo! Gran sottigliezza della natura umana! Tira avanti quel tavolino, e dammi una sedia.

BRIGH. La servo subito. (tira avanti il tavolino e la sedia)

OTT. Trentadue ducati d’argento fanno più figura di dodici zecchini. (si pone a sedere a tavolino)

BRIGH. Sala chi ghe xe da basso?

OTT. Chi mai? Qualcheduno che vuol danari? Digli che non ci sono.

BRIGH. Pol esser che quela persona vogia dei bezzi, ma credo che la ghe ne daria volentiera.

OTT. Chi è? Dimmelo.

BRIGH. Una donna.

OTT. Una donna? (con allegria) È forse Bettina?

BRIGH. No la xe Betina, la xe siora Cate so sorela.

OTT. Venga, venga. Averà qualche buona nuova da darmi.

BRIGH. (Vardè! L’è miserabile; el gh’ha sti quatro soldi mal acquistai, e l’è capace de butarli via per cavarse un capricio. E po, do lirete de carne de manzo). (da sé, e parte)

SCENA TREDICESIMA

Il marchese Ottavio, poi Catte, e poi Brighella

OTT. Con tre T si fa tutto. Tempo, testa e testoni. Le donne si vincono o colle monete, o colla servitù. Bettina è stata inflessibile da fanciulla, non lo sarà forse da maritata.

CAT. Serva sustrissima.

OTT. Buon giorno, siora Catte.

CAT. Cossa fala? Stala ben? Cossa fa la so zentildona?

OTT. Bene, bene; tutti bene.

CAT. Me consolo tanto. In veritae, lustrissimo, ch’el gh’ha una ciera ch’el fa vogia.

OTT. Volete sedere?

CAT. Quel che la comanda.

OTT. Prendetevi una sedia.

CAT. Son un poco straca, no digo de no. Sia benedio sti zentilomini cussì degnevoli. Ghe ne xe de quei che xe rusteghi, che no i se degna de dir gnanca bestia. I crede de farse stimar, e i fa pezo. Nualtri ordenari stimemo più chi ne trata più ben.

OTT. Che buone nuove mi date della nostra Bettina? (getta dal sacchetto i ducati, e fa strepito)

CAT. Oh quanti bezzi! Oh che bei ducati!

OTT. Ah! che ne dite? Sono belli?

CAT. I consola el cuor. Ma a mi i me xe stai sconti.

OTT. Perché?

CAT. Perché no ghe n’ho mai uno.

OTT. E così, che nuove mi date di Bettina?

CAT. Betina xe una mata, ostinada come una mussa.

OTT. Non ne vuol saper niente?

CAT. Se la savesse quante ghe n’ho dito: me son tanto inrabiada, che so vegnua via; ha bisognà che vaga dal spizier a bever de l’acqua de tuto cedro, e ho speso un da vinti. Ghe son andada a parlar tante volte, che ho fruà un per de scarpe. Sta matina, in tel vegnir via de mia sorela, avemo criao per causa de vussustrissima, ho intacà col zendà bon in t’un chiodo, e gh’ho fato tanto de sbrego.

OTT. Mi dispiace di tutte queste disgrazie. Bettina dunque non vuol ch’io vada a farle una visita?

CAT. No gh’è remedio, no la vol.

OTT. Le avete detto ch’io sarò generoso?

CAT. Caspita se ghe l’ho dito! Anzi, co m’ho sbregà el zendà, la m’ha dito: tiò su, che ti ha avanzà questo a vegnir a parlarme per quel lustrissimo; e mi gh’ho dito: cossa credistu? Se ho sbregao el zendà per causa soa, el me ne pagherà un niovo.

OTT. Sì, tutto va bene, ma non vi è bastato l’animo di ridurla.

CAT. Cossa vorla che ghe diga? La sorte va drio a chi no la merita. Se m’avesse tocà a mi sta fortuna, no me l’averave miga lassada scampar.

OTT. Voi almeno siete una donna di buon gusto.

CAT. La senta, mi son una dona da ben e onorata, che nissun pol dir gnente de mi; ma certi stomeghezzi no i me piase. Un cavalier vol far un finezza, la se aceta. Se pol voler ben senza far mal. Mi almanco la intendo cussì.

OTT. Voi la intendete assai bene. Volete che ve la dica, che mi piacete più di Bettina?

CAT. Oh, mi no son bela, come la xe ela: e sì, no fazzo per dir, ma co giera puta, gh’aveva tanti morosi quanti cavei che gh’ho in testa.

OTT. Avete un certo brio vivo e disinvolto, che mi va a genio. Vostra sorella è bella, ma è una bellezza troppo malinconica; e poi è troppo giovine. Voi siete una donna di giudizio.

CAT. Oh, cossa credelo che ghe sia de diferenza de ani da ela a mi? Gnanca uno.

OTT. Eppure voi mostrate di più.

CAT. Xe i patimenti che se fa. Se la savesse! Quel malignazo de mio mario quante ch’el me ne fa passar! Gnanca ancuo el m’ha portà da disnar. Gh’ho una fame che no ghe vedo.

OTT. Volete che vi faccia portar qualche cosa?

CAT. Oh magari!

OTT. Brighella.

BRIGH. Lustrissimo. (di dentro)

OTT. Porta una bottiglia di vin di Cipro con quattro biscottini.

CAT. Eh, no vôi buzzolai, no; porteme un paneto.

OTT. Oh che cara signora Catte! Mi dispiace aver gettato via il mio tempo con Bettina.

CAT. Ma! mi no giera degna. (con vezzo)

OTT. Ditemi, vostro marito è geloso?

CAT. Oh! nol xe zeloso, perch’el sa che dona che son. Nissun se pol vantar d’averme tocà un deo d’una man.

OTT. E sì avete una bella manina.

CAT. Xe che me dezzipo([27]) a lavar i piati, daresto gh’aveva una man, che tuti la vardava per maravegia.

OTT. Da vero che mi piacete.

CAT. La diga, lustrissimo, me paghela sto zendà?

OTT. Sì, volentieri. Bastano dieci ducati d’argento?

CAT. Per un de quei ordenari pol esser che i basta. (El xe foresto, nol sa gnente). (da sé)

OTT. Se non bastano dieci, ve ne darò dodici, venti, tutto quel che volete, la mia cara Cattina.

SCENA QUATTORDICESIMA

Brighella con una bottiglia ed un bicchiere da licori sopra un tondo, e un pane; e detti.

BRIGH. L’è servida, patrona. La so gran botiglia e el so gran paneto. (con sprezzatura a Catte, ponendo sul tavolino ogni cosa)

CAT. Grazie, vecchio, grazie. (Gran invidiosi che xe sti servitori). (da sé)

OTT. Va via, non occorr’altro. (a Brighella)

BRIGH. (Nol pol aver Pasquin, el se taca a Marforio). (da sé, e si ritira)

OTT. Sentite quel vin di Cipro che è prezioso.

CAT. Me faralo ben al stomego? (empie il bicchiere)

OTT. Anzi benissimo.

CAT. Farò soppa con un poco de pan.

OTT. Quel che volete, siete voi la padrona.

CAT. Quanto me darala per el zendà?

OTT. V’ho detto che vi darò...

BRIGH. Lustrissimo, l’è qua la padrona. (si ritira)

OTT. Poter del mondo! Nascondetevi, per amor del cielo. Se vi trova qui, poveretta voi.

CAT. Dove m’ogio da sconder?

OTT. In quel camerino. Non v’è pericolo ch’ella vi vada.

CAT. La me daga...

OTT. Presto, nascondetevi.

CAT. I ducati per el zendà...

OTT. Andate, che vi venga la rabbia.

CAT. E sto vin...

OTT. Il diavolo che vi porti.

CAT. Oh povereta mi! (va nella camera)

OTT. Presto, presto, (mette i denari nella borsa) che la signora marchesa non li veda.

SCENA QUINDICESIMA

La marchesa Beatrice, il marchese Ottavio e Catte nascosta

OTT. Ben venuta la signora marchesa.

BEAT. Ben trovato il signor marchese.

OTT. E bene, com’è andata?

BEAT. Il solito destino. Li ho persi tutti.

OTT. Buon pro le faccia.

BEAT. Buon pro faccia a lei, che si divertisce col vino di Cipro.

OTT. Che vuol fare! Mi sentiva lo stomaco debole, voleva un poco ristorarmi.

BEAT. Seguiti, mangi pure la sua zuppa.

OTT. Si serva vossignoria, non m’importa.

BEAT. Io non ne voglio.

OTT. Né men io. Brighella.

BRIGH. Lustrissimo.

OTT. Dammi da vestire.

BEAT. Perché son venuta io, non volete altro.

OTT. Ehi, dammi il vestito con gli alamari d’oro.

BRIGH. (Nol ghe n’ha altri). (da sé. Va e torna coll’abito)

BEAT. Che diavolo! vi sono odiosa?

OTT. Brighella, la finisci?

BRIGH. Son qua. (lo veste)

BEAT. Denari non vi sarà più caso d’averne.

OTT. Tira ben su da questa parte. (con collera)

BEAT. Datemi almeno il mio mezzo filippo.

OTT. La spada. (a Brighella, che lo va servendo)

BEAT. Vi ho pur prestati io quattro zecchini.

OTT. La spada, il cappello, il bastone. (a Brighella, alterato)

BEAT. Fate il sordo? Non mi rispondete?

OTT. (La Catte... se la trova... eh, non m’importa) (da sé)

BEAT. Andate via?

OTT. Per servirla. (le fa una riverenze, e parte con Brighella)

SCENA SEDICESIMA

La marchesa Beatrice e Catte nascosta, poi Brighella

BEAT. Maledetto giuoco! Maledettissimo giuoco! Sempre perdere, sempre perdere. Che fatalità è questa? Ma chi sa che chi mi ha guadagnati i miei denari, non li abbia guadagnati come ha fatto mio marito al povero Pasqualino? Io ho sempre quel vizio di caricar sempre i terzetti e i quartetti, e se vi è qualcheduno che sappia fare delle fattucchierie colle carte, appunto le può praticare nel far venire i terzetti e i quartetti primi.

BRIGH. Lustrissima, xe sior Pasqualin che voria riverirla.

BEAT. L’ho mandato a chiamare, ed è stato puntuale. Venga pure.

BRIGH. Gh’ogio da far far anticamera?

BEAT. Ti dico che venga subito.

BRIGH. Domandava. (parte)

BEAT. Voglio vedere se mi riesce di farmi prestar degli altri denari. (siede)

SCENA DICIASSETTESIMA

Pasqualino e detta, poi Brighella

PASQUAL. Fazzo riverenza a vussustrissima.

BEAT. Buon giorno, il mio caro Pasqualino. Chi vi vuole, conviene che vi mandi a chiamare. Venite molto poco a vedermi.

PASQUAL. Son stà sta matina. Cossa me comandela?

BEAT. Volete un bicchierino di vin di Cipro? Ecco, quella zuppa l’ho preparata per voi.

PASQUAL. Per mi? Grazie infinite. (La m’averave fato più servizio a prepararme i dodese zechini, che no ghe n’ho più gnanca un). (da sé)

BEAT. Via, mangiate, bevete.

PASQUAL. In verità, no ghe n’ho vogia.

BEAT. Mi fate torto. Questa bottiglia l’ho messa a mano per voi.

PASQUAL. Co l’è cussì, receverò le so grazie. (s’accosta per mangiare)

BEAT. Questo è vero Cipro. (Sa il cielo che roba è!) (da sé)

PASQUAL. Adesso lo sentirò...

BRIGH. Lustrissima. (ansante)

BEAT. Cosa c’è?

BRIGH. Sala chi è?

BEAT. Chi mai?

BRIGH. Betina, mugier de sior Pasqualin.

PASQUAL. Mia mugier? (lascia la zuppa)

BEAT. Cosa vuole?

PASQUAL. Per amor del cielo, la me sconda.

BEAT. Dille che non ci sono.

BRIGH. Gh’ho dito che la ghe xe.

BEAT. Hai fatto male.

BRIGH. No so cossa farghe.

PASQUAL. Cara ela, la me sconda. No vogio che nassa sussuri.

BEAT. Ritiratevi in quel camerino.

PASQUAL. Tremo co fa una fogia. (va nella stanza dov’è nascosta Catte)

BEAT. Fa pur ch’ella venga.

BRIGH. Oh che bei pastizzi! Oh che bei matrimoni! (parte)

BEAT. Che diavolo vorrà costei? Se mi perderà il rispetto, se ne pentirà.

SCENA DICIOTTESIMA

Bettina col zendale e detti.

BETT. Lustrissima siora marchesa.

BEAT. Oh Bettina! Che buon vento qui vi conduce?

BETT. Son vegnua a darghe un poco d’incomodo.

BEAT. Mi fate piacere. Come state? State bene?

BETT. Eh! cussì, cussì.

BEAT. Avete qualche male?

BETT. No gh’ho mal, ma gh’ho una passion al cuor, che me destruze.

BEAT. Perché mai avete questa passion di cuore?

BETT. La se pol imaginar.

BEAT. Io? Che volete che sappia dei fatti vostri?

BETT. La diga, lustrissima, quanto xe che no l’ha visto mio mario?

BEAT. Pasqualino? Oh, sono dei mesi tanti.

BETT. Dei mesi tanti! E pur me xe stà dito, che xe poche ore che la l’ha visto.

BEAT. Mi maraviglio. Guardate come parlate.

BETT. Cara lustrissima, no la vaga in còlera, la senta la mia rason, e po, se gh’ho torto, la me daga torto. Se i ghe vegnisse a dir a ela, che so mario vien in casa mia, ch’el spende, ch’el zioga, ch’el perde i bezzi e che, eccetera, cossa diravela?

BEAT. Pur troppo mio marito è stato innamorato di voi; lo è ancora, che lo so benissimo, e può darsi che venga da voi, e spenda, e giuochi, e che so io.

BETT. No, la veda, da mi nol ghe vien so mario. Se recordela cossa che giera da puta? Mo son cussì anca da maridada. In casa mia no ghe vien nissun. Mi lasso star i marii de le altre, e vogio che le altre lassa star mio mario.

BEAT. In casa di una dama si parla così?

BETT. Mi no so gnente né de dama, né de pedina. Ghe digo liberamente che la me lassa star mio mario, se no anderò dove che se va.

BEAT. Pettegola, sfacciata, che ne voglio far io di tuo marito?

BETT. Che ne voglio fare, che ne voglio fare? La me lo lassa stare.

BEAT. Vostro marito in casa mia non ci viene.

BETT. E mi so che ci viene. (affettando il toscano con caricatura)

BEAT. Chi ve l’ha detto che viene in casa mia?

BETT. Mia sorela me l’ha dito, che ghe l’ha contà so mario che l’ha sentio a dir da Brighela.

BEAT. Bricconi quanti siete... (esce Catte dalla camera)

CAT. A mi una schiafa? Toco de baron, una schiafa a mi? (verso la porta ov’era rimpiattata)

BEAT. Che fate qui voi? Con chi l’avete?

CAT. Senti, sa, ti m’ha dà una schiafa, ti me la pagherà. (come sopra)

BETT. Sorela, chi t’ha dao? (a Catte)

BEAT. Che cosa fate voi in questa casa?

CAT. Son vegnua a tior i drapi sporchi.

BEAT. Voi non siete la lavandaia di casa.

CAT. Dona Menega no l’ha podesto vegnir ela, la m’ha mandà mi.

BEAT. Cosa facevate in quella camera?

CAT. Fava le pontae([28]). La varda l’ago e le azze.

BEAT. Chi v’ha dato uno schiaffo?

CAT. Pasqualin me l’ha dao.

BETT. Pasqualin?

CAT. Sì ben, vostro mario, quel toco de desgrazià.

BETT. Dove xelo?

CAT. Là drento. La lustrissima se l’ha sconto([29]).

BETT. Dov’estu, sassin, dov’estu? (vuol entrar nella camera ed esce Pasqualino irato)

PASQUAL. Cavève, che ve dago un pugno. (a Bettina)

BETT. Màzzeme, càveme el cuor, bevi el mio sangue, se ti lo vuol.

BEAT. (Oimè, la mia riputazione. Manderò Brighella a cercare mio marito). (parte)

CAT. A mi una schiafa, toco de furbazzo?

PASQUAL. A vu sì, dona petegola. Cossa ghe seu andada a dir a mia mugier?

CAT. Sentistu? Perché t’ho contao che el vegniva qua, baron, infame. Oimè, me sento che no posso più. Deboto crepo. (beve il vin di Cipro)

BETT. Anema mia, no ti me vol più ben?

PASQUAL. Lasseme star.

CAT. Lasselo star, quel can, quel bogia; me vôi refar, se credesse che i me tagiasse l’osso del colo. (parte)

BETT. Deboto tre zorni senza vegnir a casa? Xela questa casa vostra? Stala qua vostra mugier?

PASQUAL. Manco chiacole, siora, manco chiacole.

BETT. Dove xela la vostra reputazion?

PASQUAL. No vôi sentir altro. (va per andar via)

BETT. No, no ve lasso andar.

PASQUAL. Se me vegnì drio, ve fazzo tanto de muso. (parte)

BETT. Vardè cossa che l’è deventà! Nol me pol più veder. El dà, el manazza([30]). S’el farà cussì, el se precipiterà e l’anderà in preson. Povereta mi! No posso più. Lo seguiterò da lonzi([31]) per no farlo precipitar. (parte)

SCENA DICIANNOVESIMA

Strada con veduta della casa del marchese.

Il marchese Ottavio e Brighella

BRIGH. Sussuri grandi. Pasqualin s’ha sconto dove che giera siora Cate. El gh’ha dà una schiafa. Betina ha strapazzà la padrona. Cosse grande!

OTT. Briccone! Pasqualino ha perduto il rispetto a casa mia? Me ne renderà conto. Lo voglio far cacciar in una prigione.

BRIGH. La varda che i sbiri no vegna per ela.

OTT. Perché?

BRIGH. Perché! come gh’ho dito ancora, quatro creditori gh’ha levà el capiatur.

OTT. A un mio pari non si farà un simile affronto. Sei un pazzo; va via di qua.

BRIGH. (Per mi fazzo conto che da lu no vogio altro; se tiremo de longo ancora un poco, paron e servitor morimo da fame tuti do). (da sé, e parte)

SCENA VENTESIMA

Il marchese Ottavio, poi Catte che esce dalla casa di lui.

OTT. Domani partirò da Venezia. Qui non ci posso più stare senza pericolo.

CAT. Oh! giusto ela, sior marchese. Pasqualin m’ha dà una schiafa in casa soa. L’ha dito un mondo de roba a la lustrissima. Toca a ela a castigarlo, e farghe pagar quel che l’ha fato e quelo che l’ha dito.

OTT. Lasciate fare a me. Vedrete se saprò vendicar voi e me nello stesso tempo.

CAT. La se recorda del zendà.

OTT. Ecco quel briccone, che esce di casa mia.

SCENA VENTUNESIMA

Pasqualino di casa del marchese, e detti; poi Bettina

PASQUAL. (Parla voltato verso la casa, non vedendo il marchese Ottavio) Sia maledeta sta casa, quando ghe son vegnù! Maledeto el so paron e la so parona!

OTT. Galantuomo, una parola. (a Pasqualino)

PASQUAL. La compatissa, che son fuora de mi. (con timore)

OTT. Briccone, indegno, così parli d’un cavaliere par mio? Così perdi il rispetto a casa mia? Così tratti una dama? Se non temessi di avvilire il mio bastone, vorrei romperti l’ossa.

PASQUAL. No la me daga, perché, sala? Sangue de diana... (fingendo bravura)

CAT. (La ghe daga do bastonae). (piano ad Ottavio)

OTT. Temerario! Ancora minacci? Ancora ardisci dire che io non ti dia? Ah giuro al cielo, che ti voglio... (alza il bastone)

PASQUAL. Indrio, sangue de diana, indrio. (mette mano allo stilo)

CAT. Oe, custion. Capo de contrada. (parte)

OTT. Giù quello stilo.

PASQUAL. Indrio quel baston.

BETT. (Esce di casa di Ottavio, e grida) Agiuto, fermeve. Sior marchese, per amor del cielo, la prego, la vaga via.

OTT. Lo voglio ammazzare quel temerario. (mette mano alla spada, e va contra Pasqualino che s’intimorisce, e Bettina si pone in sua difesa)

BETT. Vien qua, vissere mie; lassa ch’el me mazza mi.

OTT. Levatevi di là. (a Bettina)

BETT. No sarà mai vero che lassa el mio Pasqualin.

OTT. Giuro al cielo, m’avventerò contro di voi.

BETT. Moriremo tuti do insieme.

OTT. Difendete un ingrato.

BETT. Difendo mio mario.

OTT. Non merita l’amor vostro.

BETT. Son obligada a volerghe ben.

OTT. Ve ne pentirete.

BETT. No me pentirò mai d’una cossa giusta.

OTT. (Costei mi muove a compassione). (da sé) Va, in grazia di una sì buona moglie, ti dono la vita. (parte)

SCENA VENTIDUESIMA

Bettina e Pasqualino

BETT. Sia ringrazià el cielo, che l’ho liberà da la morte.

PASQUAL. (Oimei! respiro). (da sé)

BETT. Pasqualin, fio mio, astu avù paura?

PASQUAL. Mi paura? Se no gieri vu che me secavi la mare, vedevi vu cossa che fava a quel sior. S’el torna, povereto elo.

BETT. Caro Pasqualin, meti zo quel stilo; metilo zo se ti me vol ben; ma so che no ti me vol più ben, so che no son più la to cara Betina. So che per amor mio no ti lo vorà far. Te prego per l’amor che ti porti a la to creatura; per amor de quel caro putelo, che ogni momento chiama el so caro papà. Se i zaffi te trova, i te liga, i te mena via. Cossa sarave de mi; cossa sarave de quel povero inocente? Via, Pasqualin, dame quel stilo. Gnanca per el to sangue no ti te movi a pietà? Falo almanco per amor too, varda in che pericolo che ti è. Falo per amor del cielo; son qua, te lo domando in zenochion. (s’inginocchia) O dame quel stilo, o cazzemelo in tel sen; caveme el cuor; saziete in tel mio sangue. (piange)

PASQUAL. (Mostra segni di tenerezza)

BETT. No me leverò suso de qua, se no ti me dà quel stilo, o se no ti me mazzi. Pussibile che ste lagreme no te mova a compassion?

PASQUAL. (Si lascia cadere lo stilo)

BETT. Ah siestu benedio! Velo qua, ch’el me l’ha dà. Presto, presto, che no vegna i zaffi. (lo prende di terra, e corre a gettarlo in canale)

PASQUAL. (Si asciuga gli occhi)

BETT. Me par, oimei! d’esser respirada. Se no ti me vol ben, pazenzia. Almanco che no te veda precipità.

PASQUAL. Che bela cossa! Butarlo in canal! Songio un putelo? (adirato)

BETT. Te despiase? Ogio fato mal? Te domando perdonanza.

PASQUAL. Basta dir che siè done.

BETT. Di’, Pasqualin, viestu a casa?

PASQUAL. Siora no.

BETT. No ti gh’ha vogia de veder el to putelo?

PASQUAL. Cossa falo? Stalo ben?

BETT. Sta note no l’ha fato altro che pianzer. El cercava el so papà; el voleva el so papà; e co ghe diseva: l’è qua el papà, sentilo, vita mia, ch’el vien, el se quietava. E po, co nol te vedeva, el dava in t’un deroto de pianto. Pianzi lu, pianzi mi, no te digo gnente che note che avemo fato.

PASQUAL. (Poverazza!) (da sé)

BETT. Da gieri in qua son ancora a dezun([32]), no ho cercà gnanca un fià de acqua. Sento proprio ch’el stomego me va via.

PASQUAL. Via, andè a magnar qualcossa; no stè cussì.

BETT. Mi a magnar? Gnanca per insonio. Se no ti vien ti, mi no magno.

PASQUAL. Voleu morir da la fame?

BETT. Cossa m’importa a mi? Se ho da viver in sta maniera, vogio piutosto morir.

PASQUAL. Vegni qua; andemo a la malvasia.

BETT. A la malvasia mi no ghe son mai stada, e no ghe vogio gnanca andar.

PASQUAL. Andemo dal scaleter([33]).

BETT. A cossa far dal scaleter? Quei vinti o trenta soldi che volè spender, no xe megio che i magnè a casa vostra co le vostre creature?

PASQUAL. Mi a casa no ghe vogio vegnir.

BETT. Mo perché no ghe voleu vegnir? Volè far sempre sta vita? No sè gnancora stufo de farme pianzer, de farme sgangolir?

PASQUAL. Cossa voleu che vegna a far a casa? Mi no gh’ho gnanca un bezzo.

BETT. N’importa; vien a casa, fio mio, che fin che ghe xe roba, magneremo. Sior Pantalon xe tanto de bon cuor, ch’el ne agiuterà.

PASQUAL. Mio pare xe in colera; el me vorà castigar. No vogio che el me trova; a casa no ghe vogio vegnir.

BETT. Mo vien sora de mi, no aver paura. Ti vederà che tuto se giusterà. Basta che ti sii bon; che ti tendi al sodo; che ti me vogi ben.

PASQUAL. Fegureve, che quando mio pare sa che gh’ho dei debiti, cossa ch’el dirà.

BETT. Ti gh’ha dei debiti?

PASQUAL. Seguro che ghe n’ho.

BETT. Assae?

PASQUAL. Trenta o quaranta ducati.

BETT. Povereta mi! No voria che t’intravegnisse qualche desgrazia. Fio, tiò, vissere mie, tiò sti manini, impegneli, vendeli, fa quel che ti vol e paga i to debiti. Vogio viver queta, no vogio altri afani de cuor. (si leva gli smanigli e li dà a Pasqualino)

PASQUAL. Ti me dà i manini?

BETT. T’ho dao el cuor, no ti vol che te daga i manini?

PASQUAL. E ti ti vol star senza?

BETT. Cossa m’importa a mi? Fazzo più capital de mio mario, che de tuto l’oro del mondo.

PASQUAL. Cossa dirà la zente?

BETT. Che i diga quel che i vol. Se ti vien a casa ti, no me scambio con una rezina.

PASQUAL. Povera Betina!

BETT. Caro el mio caro mario!

PASQUAL. E pur te vogio ben.

BETT. Distu dasseno, anema mia?

PASQUAL. Sì, cara; lassa che te abrazza.

BETT. Benedeto el mio Pasqualin. (si abbracciano)

SCENA VENTITREESIMA

Lelio e detti.

LEL. Bravi! Me ne rallegro; evviva!

BETT. Via sior, el xe mio mario; cossa diressi?

LEL. E non vi vergognate a dar in simili debolezze? Far carezze alla moglie in pubblico, che tutti vedono?

PASQUAL. Perché? Coss’ogio fato de mal?

BETT. Son so mugier.

LEL. Non sapete che in oggi un marito che accarezzi la moglie si rende ridicolo?

BETT. Caro sior, la tenda a far i fati soi, che la farà megio.

LEL. A voi non bado. Pasqualino, sentite, v’ho da parlare. (lo tira in disparte)

PASQUAL. Son qua.

BETT. Vogio sentir anca mi.

LEL. Vedete! Le donne quando si vedono accarezzate, dicono subito quella bella parola: voglio.

PASQUAL. Tireve in là. Vu non avè da sentir. (a Bettina)

BETT. Varda, Pasqualin, ch’el te farà zo.

LEL. E voi sopportate una simile impertinenza? (a Pasqualino)

PASQUAL. Voleu aver giudizio? (a Bettina)

BETT. Vardè che bela carità, vegnir a desviar la zente! Meter suso el mario, ch’el trata mal so mugier! Che conscienza gh’aveu?

LEL. Io non ho veduta una petulante simile, e voi ve la passate con disinvoltura. (a Pasqualino)

PASQUAL. Voleu taser? Sè una petulante (a Bettina)

BETT. Sentilo come ch’el tiol suso ben le parole del so caro amigo.

LEL. Io, se fosse mia moglie, la bastonerei come un asino. (a Pasqualino)

PASQUAL. Andè via, che adesso adesso ve dago. (a Bettina)

BETT. Deme, via, deme; consolelo quel sior. (El diavolo me l’ha mandà qua). (da sé)

LEL. (Amico, vi è una bella occasione per rifarci di tutte le nostre perdite). (piano a Pasqualino)

PASQUAL. (Oh magari)! (piano a Lelio)

LEL. (V’è un forestiero pieno di danari, che vuol giuocare. L’ho condotto a casa di quella amica, e son venuto a posta in cerca di voi, perché venghiate a profittare di sì bella fortuna). (come sopra)

PASQUAL. (Salo zogar?) (come sopra)

LEL. (Niente; li perde tutti). (come sopra)

BETT. (Quanto che pagherave sentir cossa che i dise). (da sé)

PASQUAL. (Me despiase che adesso no gh’ho bezzi). (come sopra)

LEL. (Oh male; perdete un bell’incontro). (come sopra)

PASQUAL. (Gh’ho sti manini, li podemo impegnar). (come sopra)

LEL. (Oh sì, sì, andiamo subito). (come sopra)

PASQUAL. Andè a casa, che adessadesso vegnirò anca mi. (a Bettina)

BETT. A casa mi no ghe vago senza de vu.

PASQUAL. E vu stè qua.

BETT. Vegnirò con vu.

PASQUAL. Certo, che bela cossa!

LEL. (Eh, cacciatela via colle brusche). (a Pasqualino, come sopra)

PASQUAL. Andè via, no me fe andar in colera. (a Bettina)

BETT. Sior Lelio, sior Lelio, el vol far poco bon fin.

LEL. Io poco buon fine! Perché?

BETT. Perché le lagreme che ho trato e che trago per causa soa, le domanda vendeta al cielo; el cielo che xe giusto, ghe le farà pagar, quando manco ch’el se lo pensa.

LEL. Voce d’asino non va in cielo.

PASQUAL. Oh bravo! Oh co a tempo! Vedeu? Tolè su. (a Bettina)

BETT. Sì ben, bravo, bravo. Tirè de longo, che me la saverè contar. Me despiase de ti, povero Pasqualin.

PASQUAL. Anemo, andè a casa, ve digo.

BETT. Sior no, vogio star qua.

PASQUAL. Steghe, e mi anderò via.

BETT. Ve vegnirò drio...

PASQUAL. Se me vegnì drio, povereta vu. (parte)

LEL. Rabbia, crepa, scoppia, pettegola. (parte)

SCENA VENTIQUATTRESIMA

Bettina sola.

BEAT. No me vôi far nasar, da resto ghe responderia come ch’el merita sto desgrazià de Lelio. Basta dir che de do pari uno l’ha refudà, e l’altro nol lo vol cognosser per fio. Tiolè su, me pareva d’esser una principessa col mio Pasqualin; l’aveva reduto a vegnir a casa; l’ha infina pianto; el m’ha abrazzà; sto sassin sul più belo xe vegnù a menarmelo via. E i mii manini, povereta mi? No me li recordava più. Fegureve! Altro che pagar i debiti! Ghe li magnerà quel baron. Oh, vogio andarghe drio, se credesse ch’el me copasse.

SCENA VENTICINQUESIMA

Bettina e Pantalone

PANT. Dove andeu, niora?

BETT. Mi vago a casa, sior missier.

PANT. Aveu visto vostro mario?

BETT. Sior sì.

PANT. Cossa diselo?

BETT. Adessadesso el vegnirà a casa anca elo.

PANT. No credo gnente. V’alo dito la baronada ch’el m’ha fato?

BETT. Oh, ch’el xe tanto pentio!

PANT. I soliti pentimenti.

BETT. L’ha infina pianto.

PANT. Anca co mi l’ha pianto, e po l’ha fato pezo.

BETT. Sta volta el dise dasseno.

PANT. No no, no ghe credo più. Niora, andè a tior el putelo, e vegnì a casa mia.

BETT. Senza de Pasqualin?

PANT. Lassè ch’el vaga quel desgrazià.

BETT. Oh mi no, sior missier, senza de lu no vegno.

PANT. E dove xe i vostri manini? (osservandole le braccia)

BETT. I manini? I ho lassai a casa.

PANT. A casa i avè lassai? Dove i aveu messi?

BETT. In cassa.

PANT. In cassa? Deme mo la chiave de la cassa.

BETT. Oh, la me compatissa. La chiave de la mia cassa no la dago a nissun.

PANT. No ve fidè de mi? Cossa gh’aveu paura?

BETT. Gh’ho de la roba in cassa, che no vôi che nissun la veda.

PANT. Gh’aveu contrabandi?

BETT. Nualtre donne gh’avemo de le tatare che i omeni no le ha da veder.

PANT. E mi gh’ho paura che i manini sia andai.

BETT. Come andai?

PANT. Che ve li abia magnai vostro mario.

BETT. Oh giusto, mio mario gnanca per insonio.

PANT. Zurèlo mo?

BETT. Cossa vorlo che zura? Mi ghe digo la verità.

PANT. Ho capio tanto che basta. Tegnì da lu. Sè do mati insieme. Fe quel che volè, no ghe penso gnente. Fe conto che sia morto. Andeve a far benedir. (parte)

SCENA VENTISEIESIMA

Bettina sola.

BETT. Tiolè, anca lu va in colera, anca lu me abandona. Pazenzia! Avevio mo da zurar? Fina qualche busia, per far ben, la se pol dir, ma zurar, no seguro. Fazzo quel che posso per no far mal, e se falo, falo per ignoranza. Anca sto interompimento de mio missier m’ha fato perder d’ochio mio mario. Adesso no so più dove trovarlo. Anderò a casa, aspeterò fin che la sorte lo manderà. Intanto me consolerò col mio fantolin. Povera mugier travagiada! Povera Betina sfortunada! Imparè, pute, vualtre che no vedè l’ora de maridarve, e che a star in casa vostra ve par de star in galìa. Imparè da mi. Vardè a quante desgrazie xe sogeta una puta che se marida. El mario ve tormenta, i fioi ve strussia, le massere ve fa deventar mate, i parenti ve rimprovera, la zelosia ve consuma. Adesso cognosso quanto che stava megio da puta; e pur ghe vôi tanto ben al mio Pasqualin, che siben ch’el me trata cussì mal, lo tioria de bel niovo, e per elo me contenteria de morir. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Strada con canale ed una gondola legata alla riva comune.

Nane montato in terra, poi messer Menego con altra gondola.

NANE Ma! chi nasse sfortunai, ghe tempesta sul cesto a star sentai. Al tragheto no gh’ho fortuna. Boni noli no ghe ne fazzo mai. Su sta fondamenta de Canaregio no se vadagna gnanca la sonza([34]) da onzer la forcola([35]).

MEN. (Arriva colla sua gondola vicino a quella di Nane)

NANE Tuti laora e mi gnente.

MEN. (Lega la sua gondola a quella di Nane)

NANE Olà! Come gh’andemio? In rio ghe xe dei pali. Perché ve ligheu a la mia barca?

MEN. Gnente, fradelo, lassè che desmonta, e co volè, ve dago liogo. (smonta)

NANE (A sto sior da regata ghe la mando a torzio da galantomo). (da sé)

MEN. Compatime, compare Nane, la vostra barca no la sta ben cussì ligada.

NANE Percossa?

MEN. Compatime, ve digo, el fero xe in boca del rio, e i ve darà drento.

NANE Lassè che i fazza; za no la xe mia. L’ho tiolta a nolo.

MEN. Dove seu, compare, de tragheto?

NANE Al Buso.

MEN. Gh’aveu nolo?

NANE Aspeto la fortuna.

MEN. Anca mi son per quela.

NANE Com’èla, missier Menego, anca vu sè a tragheto?

MEN. Sì ben, el paron ha fenio l’ogio([36]), e mi me son butao a la ventura.

NANE El vostro marchese xelo giazzao([37])?

MEN. El xe impetrio([38]).

NANE Come alo fato a andar zoso?

MEN. Come che fa tanti altri. Con do tropi e con do pochi. Tropa boria e tropo vizio. Pochi bezzi e poco giudizio.

NANE Perché no seu andà a servir un altro paron?

MEN. Co giera zovene, tuti me voleva mi. Cainelo no stava un zorno senza paron. Adesso che son un puoco avanzao in etae, tuti i me scarta([39]). Vago a vedendo ch’el nostro el xe un bruto mistier. Quanto che xe megio el mistro de casa, el cuogo o el spendidor! Almanco i pol robar da zoveni, per mantegnirse da vecchi. Nualtri, co semo a paron, no podemo robar altro che qualche lira de sonza.

NANE Gnanca a star a tragheto no ghe xe più da far ben. Tuti i va co la manco spesa. Ghe ne xe tanti, che i xe in Canaregio, e per andar a Riva de Biasio, i va per el tragheto dei cani([40]).

MEN. Astu mai trovà nissun, che te porta via la parada([41])?

NANE Sì ben, de sti lustrissimi co la peruca de stuco([42]). I se stravaca([43]) in trasto, i se neta le scarpe sui stramazzeti, e po i se la bate senza i do soldi. E se se ghe dise: sutissimo([44]), dove ala messo i bezzi? i responde con aria: sier aseno, cerchèli, che i troverè. Intanto che se va sotto el felze([45]) a cercarli, i alza la gamba levantina([46]) e i volta bordo. Qualche volta se ghe va drio, ma invece de la gazeta, andemo a risego de tior suso de le peae.

MEN. L’altro zorno vien un musico sul pontil([47]). Quel che giera de volta, el dise: qua, se la comanda; qua, cara ela. El ghe dà una lumada, el vede che nol gh’ha la zenia([48]) da festa, nol se degna, e el monta in te la mia barca. Credo ch’el vogia andar a chiapar i freschi, e ghe domando: dove comandela che la serva? El se volta con aria: de là, sior, de là, sior. I mii camerada, che i se n’ha acorto, ha scomenzao a criar: paron Menego, grasso quel dindio; e mi ghe respondo: nol xe dindio, el xe capon([49]). El m’ha inteso, l’ha scomenzao a strapazzar in musica, e mi col remo ho batuo la solfa([50]).

NANE Mi una volta ho servio un musico, e son stà tratà molto ben.

MEN. No vustu che i li spenda volentiera? I li vadagna cantando. Anca mi una volta ho servio una cantatrice. La gh’aveva tre merloti che la serviva; mi tirava el salario da tuti tre, senza che un savesse de l’altro, e in fin del mese spartivimo co la mare de la vertuosa.

NANE Ti spartivi co so mare?

MEN. Giusto con ela.

NANE Gierela mo veramente so mare?

MEN. Mi crederave de sì, perché ho sempre sentio a dir: mare segura e pare de ventura.

NANE Mi mo ho cognossuo de le vertuose, che gh’ha de le mame postizze.

MEN. Caro ti, dime, come astu fato a saverlo?

NANE Co le xe in colera, le dise tuto. A star in casa se scoverze i più bei petoloni([51]) del mondo! A quanti marii, a quanti fradeli ho sentio co ste rechie a muar el nome!

MEN. T’arecordistu de quel foresto, che ti ha servio za do ani, ch’el gh’aveva la machina?

NANE De quelo che me dava un ducato al zorno?

MEN. Siben, de quelo, come xela andada?

NANE L’ha piantà la nosa([52]), e l’è andà a Ferrara.

MEN. E ela?

NANE E ela la xe restada a Venezia.

MEN. A cossa far?

NANE A far dei passaporti per Franza([53]).

MEN. La farà poche facende.

NANE Perché?

MEN. Perché al dì d’ancuo co trenta soldi se va in Franza, e con un ducato se torna indrio.

SCENA SECONDA

Tita barcaruolo, con un’altra gondola, e detti

TITA Oe. (di dentro)

NANE Vien a pian, vien a pian.

TITA Oe. (dà dentro nella gondola di Nane)

NANE Premi([54]) che te casca la testa.

MEN. No ve l’ogio dito? (a Nane)

TITA Chi v’ha insegnao a ligar le barche in boca de rio? (avanzandosi con la gondola)

NANE No ti ghe vedi, fio d’una fata e dita?

TITA Cossa vustu che ghe veda co sto caligo([55])? Gh’aveva una peata a premando.

MEN. Dà drento anca in te la mia, se ti vol aver gusto. (a Tita)

TITA El rio xe streto, e tuti se vol ligar a sta riva.

NANE Via, tira de longo. (a Tita)

TITA Made; qua me vogio ligar.

MEN. E po ti me darà liogo.

TITA Sì ben, ve darò liogo. Mi no cato da criar varè, fradei. (scende in terra)

NANE El fero a fondi squasi ti m’ha butao.

TITA Compatime, compare Nane, no l’ho fato a posta.

MEN. Via, che cade? El parla da omo. (a Nane)

NANE Parlo sul merito del descorso.

TITA Savè pur che l’acqua core che la fulmina; no ho podesto né siar([56]), né premer.

NANE No digo su l’ordene de la bota, me despiase l’afronto.

MEN. Via, butè a monte.

NANE A monte, a monte. A tanto intercessor nulla si neghi.

MEN. Compare Tita, da dove vegniu?

TITA Vegno da la Zueca.

MEN. Bon nolo?

TITA Gnente; ho vogao de bando.

MEN. Perché de bando?

TITA Xe vegnù a levarme de tragheto un zovene de Marzaria. Semo andai a levar una machina, e l’avemo menada in t’un orto. Xe arivao el so paron; el gh’ha tiolto la scanaura del squeloto([57]), e el n’ha impiantà a muso seco; el zovene xe andà a Venezia con un batelo; mi son vegnù via co le pive in tel saco, e quela patrona la xe restada da l’ortolan in pegno per la salata.

NANE Se nun fusse i zoveni de botega, povereti nu, no faressimo gnente.

MEN. Ma, che non è, i so paroni li manda via.

NANE Cossa importa? I ghe ne tiol dei altri, e i xe tuti compagni.

MEN. E pur ghe xe dei puti ben arlevai, che no xe cativi.

NANE Sì, ma co i scomenza andar in t’una botega, i se fa coi altri, e i deventa maledeti co fa le pistole. Vardè quel Pasqualin, che col giera vostro fio, el giera el più bon puto del mondo. Co l’ha scomenzà a praticar, el s’ha fato un scavezzacolo.

MEN. Quel desgrazià de Lelio l’ha fato zoso.

NANE Chi? Vostro fio?

MEN. Tasè là. No l’ho mai volesto recognosser per fio.

NANE Mi no gh’ho mai credesto. Pur tropo se ne dà de sti casi, che le mugier fa mantegnir dai poveri marii i fioi de qualche pare postizzo.

SCENA TERZA

Il marchese Ottavio e detti, poi gli sbirri.

OTT. Gondola (chiama forte)

MEN. La servo.

(tutti e tre in gara si esibiscono)

NANE Son qua.

TITA Son qua mi.

NANE Dove andeu? A mi me toca. (ai due)

MEN. Via, caveve, che toca a mi.

TITA E mi ve digo che a mi me toca.

OTT. Presto, o l’uno o l’altro, spicciatevi che ho premura. (Mi sento gli sbirri alle spalle). (da sé)

MEN. El xe el mio paron, toca a mi a servirlo.

NANE El vostro paron el xe stao, adesso nol xe più. Mi son prima barca.

TITA Coss’è sta prima barca? Qua no ghe xe né prima, né segonda. A sta riva xe do ani che ghe son mi, e per aver sto posto, servo de bando sta lustrissima che sta in campielo.

OTT. Ma! presto, per amor del cielo. (Or ora gli sbirri mi trovano). (da sé)

MEN. Che la resti servida. (vuol condurlo alla sua gondola)

NANE Fermeve, sier vecchio mato. (a Menego)

TITA Mi la servirò, se la comanda. (ad Ottavio)

OTT. Che siate maledetti. O l’uno o l’altro, non m’importa.

MEN. Me vorla mi?

OTT. Sì, Catinello, andiamo.

MEN. Sentiu? El me vol mi.

NANE No xe vero gnente. L’ha chiamao gondola.

TITA Sì ben, a mi me toca. Sto posto xe mio.

MEN. Cossa xe too?

TITA Sta riva.

NANE La riva xe publica, cossa me contistu?

OTT. Presto, che non v’è più tempo.

MEN. Son qua.

(ognuno vuol essere il preferito e scaccia l’altro).

TITA Son qua.

NANE Indrio, cagadonai.

(Gli sbirri fermano il Marchese, e gli mettono il mantello in testa)

OTT. Tocca a me, tocca a voi; maledetti, ha toccato a me. (parte, condotto dagli sbirri)

SCENA QUARTA

I tre barcaruoli suddetti.

MEN. Varè che bela azion che avè fato! (passeggiando)

NANE Mio el giera el nolo; per cossa l’avevio da perder? (passeggiando)

TITA Vualtri vegnì a magnar el sangue dei povereti. (passeggiando)

NANE Con chi parlistu, toco de tuto aseno?

TITA Xe do ani che me vadagno el pan a sto posto, e vualtri me vegnì a vogar sul remo.

NANE Questo nol xe tragheto; qua no se paga libertae; semo tuti paroni.

TITA Sangue de diana, che ve mandarave de là da Stra.

NANE Vustu ziogar che con un pugno te buto le coste in corpo?

TITA Se gh’avesse adosso le mie tatare([58]), no parleressi cussì.

MEN. Siben che son vecchio, me vien vogia de cavarve el figao.

TITA Con chi parlistu?

NANE Con chi la gh’astu?

MEN. Con tuti do.

NANE E mi tuti do no ve gh’ho gnanca in la mente.

MEN. E mi no ve stimo un figo.

TITA Adesso, fionazzi d’una sgualdrina. Vago a tior el mio pistolese.

NANE Soto pope gh’ho tanto de stilo.

MEN. Con una palossada ve scavezzo tuti do in t’una volta. (tutti saltano nella loro barca, la slegano e montano sulla poppa)

NANE Vara ve’, te lo fico in tel centopezzi([59]). (mostra il paloscio)

MEN. Lo vedistu? Te tagio el gargato. (mostra uno stocco)

TITA Velo qua, varè. Ve sbuso co fa crieli. (mostra uno stilo)

(S’allontanano a poco a poco, e se ne vanno colle loro gondole)

NANE Ah porchi!

MEN. Cortesani d’albeo!

TITA Scarcavali!

MEN. Via, aseni.

TITA Ah sporchi!

NANE Chiò. (fa un versaccio colla bocca)

MEN. Via! (Oà. Oà.)

TITA Via! (Oà. Oà.)

(Sgridandosi si allontanano, e vogando partono)

SCENA QUINTA

Camera di Bettina.

Bettina e Catte parlando insieme.

BETT. Andè via, lasseme star.

CAT. Mo via, cara ti, vustu morir da la fame!

BETT. Tasè; za che el putelo dorme, lasselo dormir.

CAT. Come pustu viver? Xe da gieri in qua che no ti magni; mi, se stago do ore senza magnar, crepo.

BETT. Ah sorela, gh’ho altra vogia che magnar!

CAT. Almanco sorbi un vovo frescu. Momola te lo cusina.

BETT. Se lo beverò, lo buterò fuora; no posso tegnir gnente in stomego.

CAT. Bisogna sforzarse.

BETT. Mi no vogio altri sforzari. Co no posso, no posso.

CAT. Ti poderessi anca dir: co no vogio, no vogio.

BETT. Quel che volè. Lasseme star, che me farè servizio.

CAT. Anca co mi ti la gh’ha? Cossa t’ogio fato?

BETT. Sè causa vu, che m’ho maridà. Se fussi stada con mi una sorela cossediè, che avessi abuo un puoco più de giudizio e che gh’avessi volesto tegnir conto de mi, fursi fursi no me averia maridà.

CAT. Sì ben! Se ti gieri inamorada co fa una gata.

BETT. Sè stada vu, che m’ha fato inamorar. A forza de supiarme in te le rechie, m’ho incapricià de Pasqualin.

CAT. Mi ah, son stada, ah, che t’ho fato inamorar? Povereta! T’arecordistu cossa che ti m’ha dito co ho parlà de Pasqualin? Coss’è sto vederemo? Dovevi dirghe de sì. Se lo perdo, povereta vu. Oe! Mi son stada.

BETT. Basta; m’intendo mi, co digo torta.

CAT. Donca ti è pentia d’aver tiolto Pasqualin?

BETT. Mi no, perché ghe vogio ben, ma se no m’avesse inamorà, no l’averave tiolto.

CAT. Se no ti l’avessi tiolto elo, ti ghe n’averessi tiolto un altro.

BETT. Co me recordo co giera viva mia mare, povereta, che ani che giera queli! Che spasso che aveva su quel’altana! No vedeva l’ora d’aver fenia la mia tasca, per andarme a solazzar. La festa, che gusto che gh’aveva a ziogar a la semola, a ziogar a le scondariole! Con che gusto che balava quele furlane! Adesso, tiolè, son qua, povereta, abandonada da tuti. El mario no me vol più ben, el missier no me vien più a trovar; me destruzo in lagreme, e no gh’è nissun che me compatissa.

CAT. No ghe songio mi, sorela?

BETT. E vu no pensè altro che a vu, fia cara. Se cognossemo.

CAT. Oh, ti me cognossi puoco.

SCENA SESTA

Momola coll’ovo fresco, e dette.

MOM. El vovo xe coto: lo vorla?

BETT. Mo, se no ghe n’ho vogia.

CAT. Lassa veder, l’astu coto ben? (a Momola, e prende l’ovo)

MOM. Oh, adessadesso no saverò gnanca cusinar un vuovo.

CAT. Sì ben, sì ben, el sta pulito. Tiò, fia, bevilo.

BETT. Mo via, che me fe voltar el stomego.

CAT. Tiolo, se ti me vol ben.

BETT. Se savessi che rabia che me fe.

CAT. Cara ti, fazzo per to ben. Vustu morir?

BETT. Se moro, cossa v’importa a vu?

CAT. Senti, ti gh’ha da pensar ti, veh. No ti lo vol?

BETT. Ve digo de no.

CAT. Ben, lo beverò mi. To dano. (lo beve)

BETT. (Magari tanta scatà). (da sé)

CAT. Oe, co no se beve drio ai vuovi freschi, i fa mal; andemo, Momola, vieme a dar da bever. (parte)

BETT. No ghe dar gnente. (a Momola)

MOM. Siora no, siora no. (Oh, se ghe ne vôi dar. La m’ha impromesso de maridarme). (da sé, parte)

SCENA SETTIMA

Bettina, poi Catte

BETT. Mo che femena che xe quela mia sorela! Purché la magna e che la beva, no la ghe pensa altro. Mi ogni puoco de travagio, me desconisso. Fegurarse come che sta el mio cuor senza de le mie vissere, senza del mio Pasqualin, no gh’ho vogia de gnente. Deboto no me recordo più gnanca del mio putelo. Son più morta che viva.

CAT. Oh sorela, vustu rider?

BETT. Oh, ghe vol assae a farme rider.

CAT. Sastu chi xe?

BETT. Via mo, chi?

CAT. La lustrissima siora marchesa, sola co fa una mata.

BETT. Gh’aveu tirà?

CAT. Mi sì.

BETT. Cossa vorla da mi?

CAT. Indevinela ti grilo.

BETT. Che la vegna pur, sentiremo.

CAT. Oe, se la fa la mata, per diana che la scufia va in tochi.

SCENA OTTAVA

La marchesa Beatrice e dette.

BEAT. Vi saluto, Bettina.

BETT. Serva, lustrissima.

BEAT. Buon giorno a voi, signora Catte.

CAT. Strissima, strissima. (sussiegata)

BEAT. Voi stupirete, o Bettina, vedendomi in casa vostra, e molto più stupirete, quando saprete il motivo, che qui da voi mi conduce.

BETT. La vien in t’una povera casa, ma da ben e onorata.

BEAT. Io sono la più infelice dama di questo mondo.

BETT. Cossa vol dir? Cossa ghe xe sucesso?

BEAT. È stato carcerato il marchese mio consorte; i creditori mi hanno spogliata la casa, mi hanno levato tutto, ed una dama di condizione è costretta a mendicare sostentamento e ricovero.

CAT. Sorela, gh’astu farina zala? (a Bettina)

BETT. Da cossa far?

CAT. No ti senti? Don’Ana spasiza per portego([60]).

BEAT. Molte dame forestiere conosco, e a molti cavalieri potrei ricorrere, ma, confesso il vero, arrossisco e non ho coraggio di presentarmi a persone di qualità, per timore di essere rimproverata e derisa.

BETT. E la vien da mi? A cossa far? No sala che son una povera dona?

BEAT. Vengo da voi, perché conosco il vostro buon cuore. Nello stato in cui presentemente mi trovo, poco basta per sovvenirmi. Deh, concedetemi che io possa qui da voi ricoverarmi, fino che, giunta la nuova della mia disgrazia a’ miei parenti, possa essere da essi soccorsa. Se mi negate il letto, dormirò su di una sedia. Venderò questo mio vestito per vivere, ma, per amor del cielo, cara Bettina, non mi abbandonate.

CAT. Se la vol vender quel strazzeto d’andriè, ghe lo venderò mi. Lo venderò a un baretin; el xe giusto bon da far baretoni.

BETT. Siora marchesa, me stupisso che con tuto quelo che xe passà tra ela e mio mario, la vegna a recorer in casa mia, e no vorave ch’el fusse un pretesto per corer drio a Pasqualin.

BEAT. Vi giuro da dama d’onore che mai non ho pensato a vostro marito, se non per pregarlo ch’ei me prestasse qualche denaro.

CAT. No se salo? La fava l’amor a la borsa.

BEAT. Non m’insultate che, benché povera, son ancor dama. Bettina, mi raccomando alla vostra pietà.

BETT. Siben che per causa soa ho tribulà, no gh’ho cuor de abandonarla, e dove che posso, l’agiuterò. Vorla star in casa mia? La xe patrona. Se no vegnirà Pasqualin, se la se degnerà, la dormirà in tel mio leto co mi. S’el vegnirà elo, ch’el cielo lo vogia, caverò un stramazzo del leto, e vederemo de comodarse. Quel che magnerò mi, la magnerà anca ela. Se gh’averò un pan lo spartiremo mezzo a per omo. Pur tropo me posso reduser anca mi in sto stato, e vogio far con ela quel che piaserave che fusse fato con mi. Mi son sempre stada nemiga de la vendeta; a chi m’ha fato del mal ho sempre procurà farghe del ben, e son segura che le bone operazion, se no le xe premiae da la zente del mondo, le xe certo certo compensae dal cielo.

BEAT. L’opera di pietà che usate meco, non può essere più meritoria.

CAT. (Poverazza! Sastu cossa che ti pol far? Ti pol mandar via la Momola, che la farà ela). (piano a Bettina)

BETT. Cussì ti parli d’una lustrissima?

CAT. Vustu darghe da magnar de bando?

BETT. Me lo caverave da la boca a mi per darghelo a ela. La fame xe granda in tuti, ma la xe più granda in chi xe avezzo a star ben. La zente ordenaria domanda el so bisogno, senza aver sugizion. I pitochi, se no i ghe ne trova da uno, i ghe ne trova da un altro, ma i poveri vergognosi, queli merita esser assistii, e quel poco che se ghe dà, i lo paga caro, con tanto sangue che ghe vien sul viso per la vergogna. Siora marchesa, la resta servida. Son Betina, son veneziana, e le veneziane xe de bon cuor; e pur tropo tante e tante per tropo bon cuor, le fa dele volte dei scapuzzoni. (parte)

BEAT. Imparate a vivere da vostra sorella. Ella, benché nata vile, ha massime da eroina. (a Catte, e parte)

CAT. Mi no gh’è caso. Ste lustrissime descazue no le posso veder. Co no le gh’ha el so bisogno, le vien quachie quachie, ma co le torna gnente gnente a refarse, le gh’ha una spuzza che no le se pol sofrir. (parte)

SCENA NONA

Camera d’osteria.

Messer Menego, Nane, Tita, poi il Cantiniere

MEN. Camerieri.

CANT. Eccomi.

MEN. Caro sior eccomi, portè una grossa de molesin.

CANT. Che cosa è questo molesino?

MEN. Oe, no l’intende cossa che vol dir molesin. Vin dolce, vin dolce.

CANT. Vi servo subito. (parte)

NANE Sti foresti no i sa parlar. I xe tanti papagai.

MEN. Via, che femo sta pase.

NANE Mi son amigo dei amici.

TITA Anca mi crio, ma po la me passa.

MEN. Can che baia, no morsega.

NANE Mare de diana, che no vogio però che nissun me zappa su i pie.

MEN. Tra de nualtri se disemo roba, se demo co la ose; ma, co dise el proverbio, can no magna de can.

NANE Sì ben, ma a l’osteria no se va senza le so tatare. No se sa cossa che possa suceder.

TITA Se vien l’ocasion, piutosto dar che tior suso.

(Viene il Cantiniere colla boccia di vino e tre bicchieri)

CANT. Eccomi. (versa il vino nei bicchieri, e parte)

MEN. Evviva el sior eccomi.

(bevono)

NANE Pare, sana.

TITA Evviva nu.

MEN. Vegnì qua, mazzémo un turco([61]). Viva i amici. (si toccano i bicchieri)

TUTTI Evviva.

MEN. Oe, amici, sta grossa la zoghemio?

NANE Sì ben, zoghemola.

TITA A cossa?

MEN. A la mora.

TITA So qua, come stemio?

MEN. Mi solo contra vualtri do.

NANE Sior no, a batifondi. Tuti per le soe.

MEN. Ai quanti?

NANE Ai sie.

TITA Sì ben, ai sie.

MEN. Al toco a chi ha da scomenzar. Toco mi, butemo. (buttano tre per uno, e Menego conta)

MEN. Pare, toca a nu.

NANE Anemo, e no me fe scaleta.

MEN. Mi vegno real, compare. (giocano tre o quattro colpi)

MEN. E uno. A vu, compare Tita.

TITA A mi. Ve chiapo a la prima. (giocano come sopra) A vu, sier Nane.

NANE Co mi? Sè in cotego([62]). (giocano)

SCENA DECIMA

Lelio e Pasqualino, Arlecchinocon tabarro e spada, e detti.

LEL. Buon pro, signori.

ARL. Pro fazza, patroni.

MEN. Velo qua sto cagadonao. (verso Lelio)

LEL. Si può? Si può? (cerca di bere)

ARL. Comandele favorir? (fa lo stesso)

NANE Sè patroni.

MEN. Schiavo, siori. (vuol partire)

NANE Dove andeu? (a Menego)

MEN. Co gh’è colù, mi me la bato. (accenna Lelio)

LEL. Che signor padre garbato! Voi partite per causa mia, ed io appunto veniva in traccia di voi.

MEN. Mi no son vostro pare. Andelo a cercar vostro padre.

ARL. Al dì d’ancuo l’è un poco dificile a trovar so padre.

LEL. Donna Pasqua mia madre mi ha dichiarato per vostro figlio, e voi, per sottrarvi dall’obbligo di mantenermi, non mi volete riconoscere.

MEN. Dona Pasqua, bona memoria, xe stada una dona mata. No gh’ho mai credesto, no ghe credo, e vu, sior, no ve cognosso per gnente.

ARL. Come? No le volì recognosser per fio? (a Menego)

MEN. Mi ve digo del missier no.

ARL. Nol ve vol recognosser per fio? (a Lelio)

LEL. Non senti?

ARL. Vegnì con mi. (a Lelio)

LEL. Dove mi vuoi condurre?

ARL. Vegnì con mi.

LEL. Ma dove?

ARL. A l’ospeal dei muli.

LEL. Ora non è tempo di facezie. Messer Menico, o padre, o non padre, voi mi avete da mantenere. Per causa di vostra moglie non son più figlio di Pantalone. Voi siete stato cheto, dunque lo avete accordato. Avete rinunziato a Pantalone Pasqualino, dunque dovete riconoscer me per vostro figlio. Io non ho mestiere, io non ho con che vivere, voi ci dovete pensare.

ARL. Sior sì, vu n’avè da dar da magnar, da bever, da zogar e da mantegnir la machina. (a Menego)

MEN. E mi no ve vogio dar gnanca l’aqua da lavarve le man.

LEL. Se non me ne volete dar per amore, me ne darete per forza.

ARL. Sangue de mi, se no me ne darè, se ne toremo.

MEN. Coss’è sto per forza: coss’è ste bulae? Se no gh’averè giudizio, ve darò un fraco de legnae.

ARL. Obligatissimo a le so grazie.

LEL. A me legnate? Giuro al cielo, se non mi volete conoscer per figlio, non vi conoscerò per padre, e vi leverò dal mondo.

ARL. Bravo, cussì me piase; sior sì, ve leveremo dal mondo.

MEN. Mi, sior, no gh’ho paura de bruti musi.

PASQUAL. (Oimei! Qua se taca barufa! Me despiase d’esser in compagnia). (da sé)

LEL. Amici, non mi abbandonate. (a Pasqualino ed Arlecchino)

PASQUAL. Son qua, no me vedè?

ARL. Fideve de mi, e no ve dubitè.

MEN. Fradei, no me lassè. (ai barcaruoli)

NANE Pugna pro patria, e traditor chi fugge.

TITA Sarò qual mi vorrai, scudier o scudo.

LEL. Alle corte. Mi volete dar dei denari, sì o no? (a Menego)

MEN. Anca mi a le curte. No ve vogio dar gnente.

LEL. Siete un cane, un assassino del vostro sangue.

MEN. A mi?

NANE Oe, come parlela, sior?

TITA Qua no se alza la ose, patron.

LEL. Che pretendete da me? Bricconi quanti siete. Pasqualino, Arlecchino, pronti.

NANE Coss’è sti briconi? Sier peruca de stopa.

TITA Parlè megio, sier mandria.

LEL. Eh, giuro al cielo. (alza il bastone contro i barcaruoli)

NANE Indrio, sier cagadonao. (caccia mano a un stilo)

TITA Via, che te sbuso. (sfodera un pugnale)

LEL. V’ammazzerò quanti siete. (mette mano alla spada. Pasqualino e Arlecchino fuggono. Siegue zuffa tra Lelio e Nane e Tita; Menego vorrebbe dividerli, ma non s’arrischia; finalmente Nane dà una stilettata in petto a Lelio, il quale barcollando va a morire dentro la scena.)

NANE L’è morto, l’è morto.

TITA Coss’avemio fato?

MEN. (Si mostra confuso senza parlare, e parte)

NANE Andemo, andemo. (parte)

TITA Scampemo via. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Strada con porta d’osteria.

Pasqualino ed Arlecchino dall’osteria.

PASQUAL. Cossa mai sarà?

ARL. Gnente. Son qua mi, e no abiè paura.

PASQUAL. No vorave precipitar.

ARL. Se i vien fuora, i mazzo quanti che i xe.

SCENA DODICESIMA

Nane e Tita dall’osteria, e detti.

ARL. Salva, salva. (fugge via)

PASQUAL. Veli qua che i vien. (si nasconde)

NANE Andemose a retirar.

TITA Come sarala?

NANE Gnente; la giusteremo. Lu xe stà el primo. L’avemo mazzà per defesa de la nostra vita.

TITA E intanto cossa magneremio? Tiolè; vardè cossa che s’avanza a andar a l’ostaria.

NANE E pur xe vero, se no gh’avevimo arme, no tachevimo sta barufa.

TITA Maledeto vizio!

NANE Maledete bulae!

TITA Mai più ostaria. (parte)

NANE Mai più stilo. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Pasqualino solo.

PASQUAL. Come! Cossa sentio! Lelio xe morto? Povero Lelio! Cussì miseramente l’ha fenio i so zorni? Ma! la morte el se l’ha comprada. L’ha volesto far tropo da bulo. Ma mi che giera in so compagnia, ho scorso l’istesso pericolo. Anca mi podeva esser mazzà; e se moriva, o se restava ferio su l’ostaria, cossa saria stà de mi? Cossa saria stà de la mia povera mugier, del povero mio fio? Se fusse morto a l’ostaria, averia perso oltre la vita anca la reputazion. Mio pare, i mii parenti, no i staverave gnanca degnà de vegnirme a veder, e no averia trovà un can che s’avesse mosso a pietà de mi, per farme dar sepoltura. Che spasemo che me sento in tel cuor! Oh che tremazzo, che me vien da la testa ai pie. La vita de Lelio xe stada quela che m’ha fato prevaricar. La morte de Lelio xe quela che me fa iluminar, e se la vita de Lelio xe stada causa del mio precipizio, la morte de Lelio sia motivo del mio pentimento. Che spassi ogio abuo; che devertimenti ogio provà, dopo che me son dà a sta vita cussì cativa? Ogio mai abuo un piaser senza desgusto? Ogio mai ridesto senza motivo de pianzer? Dove xe andà quela pase che godeva, avanti che me butasse al baron? Dov’è quela quiete d’anemo co la qual andava in leto la sera, e me levava su la matina? Lelio xe stà causa de la mia rovina, ma l’ha pagà el fio dei so scandali, dei so mali esempi. Toca a mi adesso a pagar el fio de le mie baronade, de le mie iniquità; ma avanti che ariva el fulmine a incenerirme, tornerò a muar vita: me buterò ai pie del mio povero pare: domanderò perdon a la mia cara mugier; me racomanderò de cuor a la protezion del cielo, e spero trovar agiuto, se no per me, che nol merito, almanco per una mugier onorata, per un putelo inocente, che co le so lagreme domanda pietà per un cativo mario, per un pare crudel. (resta piangendo)

SCENA QUATTORDICESIMA

Menego, dall’osteria, e detto.

MEN. (Esce mesto senza parlare, asciugandosi gli occhi)

PASQUAL. Com’èla, missier Menego?

MEN. Ah, Pasqualin! El povero Lelio xe restà su la bota. El giera tristo, el giera scelerato, ma però la natura no pol far de manco de no me far pianzer la morte cussì cativa d’un fio cussì scelerato.

PASQUAL. Donca l’avè recognossuo per vostro fio?

MEN. Adesso digo ch’el giera mio fio.

PASQUAL. Adesso ch’el xe morto?

MEN. Sì ben, el fin che l’ha fato; fa che lo recognossa per fio. El cielo castiga i fioi che perde el respeto a so pare; Lelio m’ha perso el respeto a mi, el cielo l’ha castigà, el cielo l’ha fato morir; donca Lelio giera mio fio.

PASQUAL. (Poverazzo, el me fa pecà). (da sé)

MEN. Fio mio, tiolè esempio da lu; siè bon, respetè vostro sior pare, fe conto de vostra mugier, perché questo xe el fin de la zente trista. El cielo no paga a setimana. O tardi, o a bonora, el ne ariva, e una le paga tute.

PASQUAL. Pur tropo disè la verità. E se ’l cielo me darà tempo, farò cognosser al mondo che son pentio, ma de cuor. Ma del povero Lelio cossa sarà? Nissun lo farà sepelir?

MEN. Gh’ho dà a l’osto tuti i mii aneli, tuti i mii arecordi, e do zechini che gh’aveva in scarsela, acioché el lo fazza sepelir.

PASQUAL. E quei povereti che l’ha mazzà?

MEN. Mi, che so pare del morto, ghe darò la pase. Quei de l’osteria i sarà testimoni che lu xe stà el primo a dar. Farò che i se presenta, e gh’ho speranza che con puoco i se libererà.

PASQUAL. E intanto Lelio xe morto.

MEN. No me lo vorave più recordar. Me sento el cuer ingropà, no miga perché el sia morto, ma perché el xe morto malamente e da poco de bon. (parte)

PASQUAL. Presto, no vôi perder tempo. Vago da mia mugier. Vogia el cielo che me perdona mio pare. Ah, l’ha dito pur ben quel poeta!

«In questa vita lagrimosa e amara,

Felice quel che all’altrui spese impara.» (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Camera di Bettina.

Bettina e la marchesa Beatrice

BETT. Via, la staga aliegra, che tuto se giusterà. Ho mandà a chiamar mio sior missier, gh’ho fato contar tuto al mario de la furtariola, e el m’ha fato dir che adessadesso el vegnirà qua. El xe con mi un puoco in colera, ma el xe tanto bon, che gh’ho speranza ch’el l’agiuterà ela e ch’el m’agiuterà anca mi.

BEAT. Cara Bettina, quanto sono tenuta al vostro bel cuore!

BETT. Oh, in materia de bon cuor no la cedo a nissun. Povereta, ma schieta e sincera. Quel che gh’ho in cuor, gh’ho in boca, e co posso, fazzo del ben a tuti.

BEAT. Il cielo vi benedica.

SCENA SEDICESIMA

Catte e dette.

CAT. Sorela, astu sentio a bater?

BETT. Mi no.

CAT. Sastu chi xe?

BETT. Chi? Sior Pantalon?

CAT. Oh giusto. Xe Pasqualin.

BETT. Pasqualin? Oh siestu benedeto! Dov’èlo le mie vissere? Vienlo de su?

CAT. Gh’ho paura che nol se ossa.

BETT. Mi, mi gh’anderò incontra. Caro el mio ben, el cielo me l’ha mandao. Oh Dio, che no posso più! (parte)

CAT. Siora marchesa, andemo in st’altra camera.

BEAT. Perché?

CAT. No la sente che xe qua Pasqualin?

BEAT. E per questo? Che importa?

CAT. No la sa che xe tre zorni che nol vien a casa de so mugier?

BEAT. Cara signora Catte, mi fate ridere, benché non ne ho voglia. (parte)

CAT. Fegurève se Betina vol sugizion! So come che la xe fata co so mario. (parte)

SCENA DICIASSETTESIMA

Bettina e Pasqualino

BETT. Vien qua, le mie vissere, vien qua, el mio cuor. Cossa gh’astu, che ti me par sbatuo?

PASQUAL. Oh, cara mugier...

BETT. Cara mugier ti me disi? Cara mugier? Benedeta quela boca! Me vustu ben?

PASQUAL. No gh’ho fià de parlar. Se savessi cossa xe sucesso?

BETT. No me far morir, vita mia. Cossa xe stà?

PASQUAL. Lelio xe stà mazzà.

BETT. Poverazzo! Distu dasseno? Ghe gieristu ti?

PASQUAL. Giera poco lontan.

BETT. Astu abuo paura? Fate trar sangue. Oe, Cate.

SCENA DICIOTTESIMA

Catte e detti

CAT. Cossa gh’è?

BETT. Cara ti, va a chiamar el barbier.

PASQUAL. Lassè star, lassè star. No gh’è bisogno.

CAT. Cossa volevistu far del barbier?

BETT. Pasqualin ha abuo paura. Porteghe un goto d’acqua.

CAT. Oh giusto acqua. El vol esser vin bon. Dame la chiave de la caneva.

PASQUAL. No gh’ho bisogno de gnente. La paura me xe passada.

CAT. Voleu de l’aqua per el spasemo? Deme diese soldi, che ve ne vago a tior.

PASQUAL. Ve ringrazio, no vogio gnente. Cara Betina, cossa feu? Steu ben?

BETT. Sì, caro, co ti xe a casa ti, stago da rezina.

PASQUAL. Cossa fa el putelo?

BETT. El dorme. Vustu che lo desmissia?

PASQUAL. No no, lasselo dormir. Quanto xe che no vedè mio pare?

BETT. L’aspeto qua adessadesso. Oh, se ti savessi chi ghe xe in casa nostra!

PASQUAL. Chi ghe xe?

BETT. Siora marchesa, miserabile, povereta, che la fa pietà; so mario xe in preson, e ela la xe vegnua a racomandarse che se ghe daga alozo per carità.

PASQUAL. Mandela via subito.

BETT. No, Pasqualin, no la vogio mandar via. La carità xe sempre bona. Chi sa ch’el cielo no m’abia dà la consolazion che ti torni a casa, per la carità che ho fato a sta povera zentildona!

CAT. Se vedessi come la mastega ben! (a Pasqualino)

PASQUAL. Mugier, no so da che banda prencipiar a domandarve perdon dei mali tratamenti che fin adesso v’ho fato...

BETT. Zito, no disè cussì, che me fe cascar le lagreme. (piange)

PASQUAL. I bezzi i xe fenii.

BETT. No m’importa.

PASQUAL. I manini xe andai.

BETT. No ghe penso.

PASQUAL. I debiti ancora ghe xe.

BETT. No ve stè a aflizer, che i pagheremo.

PASQUAL. Mio pare no me vorà più.

BETT. Chi sa? Pol esser de sì.

PASQUAL. No gh’ho coragio de andar da lu.

BETT. Adesso el vegnirà qua.

PASQUAL. No so come far a parlar.

BETT. Lasseme parlar a mi.

PASQUAL. Cara mugier, me racomando a vu.

BETT. Sè el mio caro mario: no ve dubitè.

CAT. I bate.

BETT. Andè a veder.

CAT. Oh, son deboto stufa. Momola, dormistu? (parte)

SCENA DICIANNOVESIMA

Bettina e Pasqualino, poi la marchesa Beatrice

PASQUAL. Oh, se podessimo tornar in casa de mio sior pare!

BETT. Oe, el xe elo! Momola gh’ha averto. (osservando dalla porta)

PASQUAL. No vogio ch’el me veda.

BETT. Scondeve là, e co ve chiamerò, vegnirè.

PASQUAL. Ah, pur tropo lo confesso, mi no meritava una mugier cussì bona. (si nasconde)

BETT. Siora marchesa, dov’èla? (chiama la Marchesa)

BEAT. Son qui, mi rallegro con voi delle vostre consolazioni.

BETT. Grazie. Xe qua mio missier.

BEAT. A voi mi raccomando.

SCENA VENTESIMA

Pantalone e detti.

PANT. Strissima, siora marchesa.

BEAT. Serva, signor Pantalone.

PANT. Schiavo, niora. (a Bettina)

BETT. Patron, sior missier. La lassa che ghe basa la man. (gli bacia la mano)

PANT. (Poverazza! La me fa peccà!) (da sé) Siora marchesa, ho sentio tuto, e per le racomandazion che m’ha fato far mia niora, son andà subito a la preson, dove che ghe xe el sior marchese. L’ho trovà confuso, tra el dolor e l’alegrezza. Dolor de vederse là drento, dolor pensando a la so zentildona aflitta e apassionada: ma el xe alegro e contento, perché sta letera che mi ghe porto per so consolazion, ghe dà aviso de la morte de so fradelo, dal qual l’eredita diesemile scudi d’intrada a l’ano. Cognosso el mercante che scrive la letera, onde mi ghe farò piezeria; e doman el vegnirà fuora, e ghe darò dei bezzi per far i fati soi. Lu el protesta de voler muar vita, per no tornarse a redur in sto stato miserabile e vergognoso. La fazza anca ela l’istesso; la se regola, la se governa: perché se la tornerà in sta miseria, se la se abuserà de la providenza, no la troverà più né agiuto, né compasion.

BEAT. Rendo grazie al cielo della nuova felice che mi arrecate, ancorché mi costi pena sentir la morte di mio cognato. Protesto che sarò cauta per l’avvenire, e farò che mi servano di regola le mie presenti calamità.

PANT. Gran bel libro xe sto mondo! S’impara de le gran bele cosse! Betina, aveu savesto de Lelio, che xe stà mazzà?

BETT. Sior sì, l’ho savesto.

PANT. Aveu mo savesto, che in quela baruffa ghe giera anca vostro mario?

BETT. El giera poco lontan.

PANT. Perché la paura l’ha fato andar via.

BETT. El cielo se serve de sti mezzi per far reveder la zente.

PANT. Vostro mario no se revederà mai.

BETT. E pur ghe zuro che l’è pentio.

PANT. No ghe credo mai più.

BETT. Caro sior missier, la prego per amor del cielo...

PANT. No me stè a parlar de colù.

BETT. Siora marchesa, la senta. (le parla nell’orecchio)

BEAT. Volentieri. (parte)

BETT. Sior missier, son qua ai so pie a domandarghe pietà. Se nol remete Pasqualin in te la so grazia, se nol lo torna a recever per fio, cossa sarà de lu? Cossa sarà de mi? Semo ai estremi, no savemo più come viver. E el gh’averà sto cuor de vederme andar a remengo a domandando la limosina? Caro sior missier, nol me abandona per carità. (inginocchiata)

PANT. Leveve suso. Se volè vegnir in casa mia, sè parona, ma colù no lo vogio.

BETT. E el voria ch’avesse sto cuor de impiantar mio mario? Mio mario, che xe l’anema mia? Che ghe vôi tanto ben? El cielo me l’ha dà, e fin ch’el cielo me lo lassa, no lo vogio abandonar. Se nol ne vol in casa pazenzia. Anderemo a servir, se vadagneremo el pan co le nostre fadighe; ma staremo insieme, ma viveremo da boni compagni, ma saremo sempre mario e mugier. (piange)

PANT. (Ste lagreme le me casca sul cuor, ma Pasqualin xe tropo desgrazià). (da sé)

SCENA VENTUNESIMA

La marchesa Beatrice e Momola per di dietro di Pantalone,

portando il bambino a Bettina, e detti.

BETT. Sior missier. (Pantalone non la guarda) Se nol lo vol far per mi, el lo fazza almanco per ste care raìse che xe qua. (gli mostra il bambino)

PANT. (Si volta, lo vede, e resta confuso)

BETT. Questo a la fin xe so sangue. Nol lo abandona nol lo lassa patir, nol fazza ch’el se destruza per el desasio, ch’el mora per poco governo o per mancanza de pan. L’ha pur dito che questo sarà el baston de la so vechiezza, ch’el sarà el so caro Pantaloncin. Velo qua, povereto, velo qua co le so manine a domandarghe anca elo pietà. Préghelo el nono, vissere mie, préghelo ch’el se mova a compassion de la to mama e del to papà. (fa stendere le mani al bambino, in atto di supplicar Pantalone)

PANT. (Piangendo) Poveretto! vien qua, vita mia. Povero sangue innocente! (lo prende)

BETT. (Fa cenno a Pasqualino che venga avanti)

PASQUAL. (Bel bello s’accosta, e s’inginocchia dall’altra parte, a’ piedi di Pantalone)

BETT. Ah sì, vedo ch’el se scomenza a intenerir. Spero ch’el ghe perdonerà al so caro fio, e ch’el l’abrazzerà insieme co la so cara mugier.

PANT. Dov’èlo sto poco de bon?

BETT. Sior missier, la varda.

PANT. (Si volta e vede Pasqualino) Qua ti xe?

PASQUAL. Perdonanza. (inginocchiato)

BETT. Misericordia. (s’inginocchia anch’essa)

PANT. Leveve su, leveve su. No posso più star saldo. Me sento crepar el cuor. Pasqualin, xestu veramente pentio?

PASQUAL. Sior pare, so pentio, prego el cielo che me castiga, se no digo la verità.

PANT. Varda ch’el cielo no xe sordo.

PASQUAL. Ve lo digo de cuor.

PANT. Orsù, vegnì qua, cari i mi fioi, unica consolazion de la mia vechiezza. Vegnì in casa mia. Sarè più paroni de mi. No parlemo più del passà. Caro fio, che ti m’ha dà tanti travagi, dame un poco de consolazion. Niora cara, le vostre lagreme m’ha mosso a compassion, ma più m’ha mosso sta povera inocente creatura, che ghe vôi tanto ben.

PASQUAL. Sior pare, lassè che ve basa la man.

BETT. Anca mi, sior missier. (tutti due gli baciano le mani)

PASQUAL. Cara mugier.

BETT. Caro mario.

PASQUAL. Ve strenzo al sen. (s’abbracciano fra di loro)

BETT. Ve abrazzo col cuor. (tutti piangono)

BEAT. Fanno piangere me pure per tenerezza.

SCENA VENTIDUESIMA

Catte e detti.

CAT. Coss’è sti pianti?

PANT. Oh giusto vu, siora Cate. Saveu cossa che v’ho da dir? Che mio fio e mia niora i torna in casa mia, ma no vogio che né vu, né vostro mario ghe meta né piè, né passo, e a vu ve comando che no la stè a praticar. (a Bettina)

CAT. A mi no m’importa, e gnanca a mio mario. Za elo, più ch’el vien vecchio, e più el deventa avaro, e mai no ghe casca gnente. In casa soa no se pol sperar gnente. Va là, sorela, che ti sta fresca. No ghe staria co quel vecchio per tuto l’oro del mondo. Tiogo su el mio zendà, e vago via. Chi s’ha visto, s’ha visto. Chi no me vol, no me merita.

Sior Pantalon, ve gh’ho

Dove che le galine fa el cocò. (parte)

PANT. Sentiu che bela sorela che gh’avè?

BETT. La xe una mata; bisogna compatirla.

PASQUAL. Farè ben a no la praticar. (a Bettina)

PANT. Andemo a casa da mi.

PASQUAL. Vegnirò contento co la mia cara mugier.

PANT. Va là, che ti te pol vantar d’aver una bona mugier. (a Pasqualino)

BETT. Volesse el cielo che fusse una bona mugier, ma per esser tal, ghe vol trope cosse.

PANT. Cossa ghe vol?

BETT. Mia mare, co la giera viva, la m’insegnava de le bele cosse, e tra le altre la m’ha insegnà sto

SONETTO

Per poderse vantar Bona Mugier,

Bisogna a so mario portar respeto,

Solamente per lu sentir afeto

E far, quando bisogna el so dover.

Non bisogna pretender de saver,

Né sa da far le cosse per despeto.

E se avesse el mario qualche defeto,

Soportarlo bisogna, e no parer.

Quela è Bona Mugier, che i fati soi

Sa far in casa, e mai no fa la mata,

E no gh’ha in testa el fumo de rafioi.

Ma una Bona Mugier cussì ben fata,

Bona per el consorte e per i fioi,

Tuti la cerca, ma nissun la cata.

Fine della Commedia

([1]) Quegli che porta via la spazzatura dalle case di Venezia.

([2]) A cicalare, a tener discorso di questa cosa e di quella.

([3]) Schiaffo.

([4]) Pidocchi e altre lordure.

([5]) Modo di dire a uno che venga a visitare di rado.

([6]) Cianciera

([7]) Rimproveri.

([8]) Ipocrita, bacchettone.

([9]) Avere angoscia e desiderio.

([10]) È quel mucchio di trecce ravvolte, che usavasi una volta, e ch’è ora rimasta usanza delle serve più vili.

([11]) È secondare uno alla sua rovina.

([12]) Naso schiacciato.

([13]) Bastarda.

([14]) Sbrigatevi.

([15]) Fuori di sé, e come un coccale, sorta d’uccello notissimo e sciocco, come l’allocco.

([16]) È quanto dire: giuro per questi occhi che ho in capo.

([17]) Dalle, dalle, i disordini accumulati fanno rovina.

([18]) Bugia, carota.

([19]) Di mal costume, uomo rotto.

([20]) Nella via dritta.

([21]) Errori celati, magagne con sapute.

([22]) Moneta veneziana che vale 30 soldi.

([23]) Che serve di portare le sporte a prezzo vilissimo di tutti i servigi.

([24]) Il semplice, l’uomo grosso.

([25]) Che sa poco le cose del mondo.

([26]) Mi nomina?

([27]) Mi guasto.

([28]) Appuntare i pannilini più minuti l’uno all’altro, perché non si smarriscano.

([29]) Occultato.

([30]) Minaccia.

([31]) Da lontano.

([32]) Ho digiunato.

([33]) Ciambellaio.

([34]) Sugna.

([35]) È un legno al quale s’appoggia il remo per vogare.

([36]) Ha terminati i denari.

([37]) Senza quattrini.

([38]) Più che ghiacciato, indurito come la pietra, senza un soldo.

([39]) Mi lasciano come inutile.

([40]) Che non passano l’acqua, ma vanno per la via lunga.

([41]) Che non ti diano il pagamento del vogare.

([42]) Indurita come stucco, colla manteca.

([43]) Si distendono.

([44]) Accorciamento d’illustrissimo, che fa equivoco con asciuttissimo, cioè senza denari.

([45]) Coperchio della gondola.

([46]) Leggiera.

([47]) Ponticello dalla terra alla barca.

([48]) Tappeto col quale si parano le gondole, dove si mettono i piedi.

([49]) È un musico.

([50]) L’ho battuto col remo.

([51]) Intrichi.

([52]) Piantar la noce, indebitarsi.

([53]) Ad appiccare altrui il male di questo nome.

([54]) Tienti a sinistra.

([55]) Nebbia.

([56]) Arrestare la barca.

([57]) I soldi rubati dalla scodella di legno che tengono i mercanti per riporre i danari che guadagnano alla giornata delle merci vendute. I fattorini, o come diciam noi, i giovani, che da quella scodella furano, si chiamano in veneziano; Scana squelotti.

([58]) Arme.

([59]) Nella trippa.

([60]) Ha fame.

([61]) Far un brindisi.

([62]) Siete alla trappola