La burla retrocessa nel contraccambio

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Carlo Goldoni

La burla retrocessa nel contraccambio


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: La burla retrocessa nel contraccambio

AUTORE: Goldoni, Carlo

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DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza

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TRATTO DA: Tutte le opere di Carlo Goldoni / a cura di Giuseppe Ortolani -Milano : A. Mondadori - v. ; 18 cm. - I classici Mondadori -volume ottavo

CODICE ISBN: informazione non disponibile

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 7 ottobre 2008

INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO: Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

REVISIONE:

Vittorio Bertolini, vittoriobertolini@inwind.it

PUBBLICATO DA:

Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

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Carlo Goldoni

LA BURLA RETROCESSA

NEL CONTRACCAMBIO

Commedia di cinque atti in prosa.

Personaggi

Maestro GOTTARDO linaiuolo.

PLACIDA sua moglie.

Maestro AGAPITO.

PANDOLFO mercante.

COSTANZA figlia di Pandolfo.

ROBERTO amante di Costanza.

LEANDRO amico di Roberto.

BERNARDO oste.

NARCISO garzone di caffè.

BERTO, servitore di Agapito.(1)

Garzoni dell'oste. Servitori.

La scena si rappresenta in casa di maestro Gottardo.

(1)         Nell'edizione di riferimento (Mondadori 1955) questo personaggio non è presente nell'elenco iniziale, ma è presente nella commedia. Abbiamo confrontato edizioni precedenti (Lucca 1810) reperibili su books.google.it, in cui il personaggio era elencato. [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera.

Gottardo e Placida.

GOTT. E bene. Cosa c'è? Cos'avete? Dopo sei giorni di matrimonio, cominciate di già a farmi il grugno?

PLAC. Veramente in questi primi giorni voi mi date gran ragione di star allegra!

GOTT. E di me vi potete voi lamentare?

PLAC. Bella cosa! maritati senza fare un poco di nozze, senza dare un pranzo né ai nostri amici, né ai nostri parenti!

GOTT. Via, cara la mia Placida, siate buona. Sapete che vi voglio bene. Sapete che non ho guardato a spendere quando si è trattato di mettervi all'ordine con pulizia; voi avete degli abiti, delle gioiette, della biancheria in abbondanza, potete comparir colle altre: se avete voglia di qualche altra cosa, ve la farò volentieri, ma non mi parlate di dar da mangiare a nessuno, perché non l'intendo, e non l'intenderò mai.

PLAC. E bene dunque, se siete risolto di non voler dar da pranzo a nessuno, non è giusto che noi andiamo dagli altri. Ci siamo stati anche troppo, e non conviene contrarre delle obbligazioni, quando non si è in caso, o non si ha volontà di rendere la pariglia.

GOTT. Benissimo. Per grazia del cielo, noi non ne abbiamo di bisogno. Oggi sarà l'ultima volta ch'io anderò a desinare fuori di casa.

PLAC. Ah! oggi ancora dovete andare fuori di casa.

GOTT. Sì, ho dato parola a mio compare Bernardo. Per oggi non posso far a meno; ma vi prometto che sarà l'ultima volta.

PLAC. Ed io resterò sola in casa, come una bestia.

GOTT. Voi, se non volete star sola, potete andare da vostra madre.

PLAC. Sì, sì, anderò da mia madre, per non darvi la spesa di far da pranzo per me.

GOTT. Ma voi prendete tutte le cose in sinistra parte; dite ch'io vi tratto male, e mi pare che voi mi trattiate peggio.

PLAC. Sì, è vero. Io sono la sofistica, io sono la stravagante.

GOTT. Via, se non volete ch'io vada, non anderò.

PLAC. No, no; andate pure. Non voglio che dite, che per causa mia...

GOTT. Ma vorrei vedervi tranquilla.

PLAC. In verità non è sì facile che mi vediate tranquilla.

GOTT. Ma perché? Cosa faccio per inquietarvi? Volete che dia da pranzo? Via, per contentarvi, lo farò. È tutto questo quello che vi dà pena?

PLAC. Eh, se non fosse altro che questo!

GOTT. Parlatemi, ditemi che cosa avete, se non parlate è impossibile ch'io vi capisca.

PLAC. Orsù, io sono una donna sincera, e non voglio aver da rimproverarmi d'aver taciuto. Mi fa specie il cambiamento ch'io vedo in voi di condotta, di genio, di inclinazione, e di temperamento. Una volta voi eravate allegro, gioviale, vi piaceva la compagnia, ed ora dico fra me stessa, è impossibile che Gottardo si sia cangiato tutto ad un tratto.

GOTT. Sapete chi mi ha fatto cangiare?

PLAC. Chi?

GOTT. Voi.

PLAC. Io?

GOTT. Sì, voi. Ora ho preso moglie, vi voglio bene, non penso che a voi, non mi curo d'altri divertimenti, ed ecco la ragione del mio cangiamento.

PLAC. Se la cosa fosse così, come dite..

GOTT. Ella è così, ve lo giuro.

PLAC. Eh caro Gottardo, una volta vi piaceva la compagnia delle gonnelle, e non vorrei che oggi fingeste meco di essere diventato un altro uomo, e poi andaste fuori di casa a divertirvi colle vostre sguaiatelle passate.

GOTT. È possibile che possiate pensare ad una simile bestialità?

PLAC. Qual premura avete d'andar oggi dal signor compare?

GOTT. Perché gli ho dato parola.

PLAC. E perché dargli parola?

GOTT. Perché... mi ha tanto pregato.

PLAC. Vi ha pregato! badate bene, che se me n'accorgo, se me n'accorgo, povero voi.

GOTT. In verità, Placida, voi mi fate torto.

PLAC. Orsù, non parliamo altro. Voi andate da vostro compare, ed io anderò da mia madre.

GOTT. Benissimo. Aspettatemi lì, che verrò a prendervi avanti sera.

PLAC. Non vi è bisogno che venghiate a prendermi. Non so venire a casa da me?

GOTT. Ma se fosse tardi, non voglio che venghiate sola.

PLAC. Io non ho paura di nessuno.

GOTT. Ed io ho paura, e non voglio che venghiate sola.

PLAC. Bene, vi aspetterò. È meglio ch'io vada subito, perché mi ha pregato mia madre che vada, quando posso, a tagliarle delle camicie, e così le farò il piacere, e resto a pranzo da lei.

GOTT. Bene, andate e salutatela da parte mia, e ditele che circa al lino, di cui mi ha parlato... ma no, non le dite niente, che già verrò io a prendervi, e le parlerò.

PLAC. Non c'è bisogno che voi venghiate, poiché già può essere che non mi troviate.

GOTT. E perché può essere che non vi trovi?

PLAC. Perché può essere che, quando ho pranzato, ritorni a casa.

GOTT. Signora, voi aspettatemi.

PLAC. Oh quest'è bella! non posso venire a casa quando mi pare e piace?

GOTT. Signora no, quando vi dico che m'aspettiate.

PLAC. Ecco qui, vuol a suo modo. Mi contende fino le più picciole cose che non servono a niente, per dispetto, per astio, per ostinazione.

GOTT. Io non vi domando cose che non siano da domandare, e se voi ci avete delle difficoltà, vi sarà sotto qualche mistero.

PLAC. Mi maraviglio di voi...

GOTT. Datemi la chiave della porta.

PLAC. La chiave della porta!

GOTT. Sì, la chiave della porta.

PLAC. Non avete la vostra chiave? Che bisogno c'è della mia?

GOTT. Datemela, e non pensate altro.

PLAC. Ho capito. Ha paura ch'io venga a casa. Non son padrona di niente. Ecco la chiave. Si serva come comanda. (getta la chiave in terra)

GOTT. È la maniera questa di darmela? (con flemma)

PLAC. Povera me! Chi me l'avesse detto...

GOTT. Di che? (placidamente)

PLAC. Voi non mi volete più bene; voi siete annoiato di me.

GOTT. Oh via, Placida, non mi dite di queste cose.

PLAC. Ingrato!

GOTT. Via, la mia Placidina.

PLAC. Lasciatemi stare. (in atto di partire)

GOTT. Dove andate?

PLAC. Da mia madre.

GOTT. Venite qui, avanti d'andar via. Facciamo la pace.

PLAC. La pace? (calmandosi)

GOTT. Sì, la pace. (la prende per la mano)

PLAC. Datemi la mia chiave. (la vorrebbe prender di terra)

GOTT. Oh, la chiave poi no. (l'impedisce)

PLAC. Ostinato che siete! tenetela, non me n'importa niente. Vado da mia madre. Venite, non venite, fate quel che volete, non ci penso, non me ne curo; non vo' impazzire per voi. (parte per la porta di strada, e la chiude)

SCENA SECONDA

Gottardo solo.

GOTT. Eh, la Placidina è una testolina bizzarra. Le piacerebbe di poter fare a suo modo. Io le voglio bene; ma voglio esser sempre marito. Non voleva darmi la chiave. (la prende di terra e la mette sul tavolino) Voleva venir a casa quando piaceva a lei. Veramente io non ho niente a temere. È buona donna, la conosco, ne son sicuro, e potea contentarla. Ma signor no; quando dico una cosa, voglio che sia fatta. Sia cosa grande, o sia cosa piccola, si ha da fare, quand'io lo dico. Anderò a prenderla da sua madre, e verrà a casa con me. È partita in collera. Eh niente! con due carezze l'accomodo. È di buon cuore, mi vuol bene, ma è donna, la poverina, è un pocolino ostinata. Si correggerà, si correggerà. (si batte alla porta di strada) È stato battuto. Vediamo chi è. (va ad aprire)

SCENA TERZA

Agapito ed il suddetto.

AGAP. Buon giorno, signor Gottardo.

GOTT. Buon giorno, signor Agapito.

AGAP. Come state? Come va la vostra salute? Capperi! dopo il giorno delle vostre nozze, non vi avete più lasciato vedere. Che vita fate? Sempre in casa, sempre accanto alla moglie? Animo, animo, non vi affrettate tanto, che vi è del tempo. Venite a vedere i vostri amici, lasciatevi godere, divertitevi. Per bacco! Se farete così, finirete presto.

GOTT. (Maladetto chiacchierone! non lo posso soffrire). (Da sé)

AGAP. Cosa c'è? Avete qualche cosa che vi molesta?

GOTT. No, non ho niente; ma, vedete bene, son maritato. Penso ora a' miei affari, più che non facea per avanti.

AGAP. Benissimo. Avete ragione, ma qualche volta bisogna un po' divertirsi. Come sta la signora Placida?

GOTT. Sta bene.

AGAP. Gran donnina di garbo! gran buona moglie che vi è toccata! mi consolo sempre più col mio caro amico Gottardo. Non potevate trovar di meglio. Avete grande obbligazione al signor Pandolfo, non tanto per il modo ch'egli vi ha dato di negoziare da vostra posta, quanto per il buon matrimonio ch'egli vi ha fatto fare. La signora Placida è una gioja. Vi ha portato in casa bellezza, gioventù, bontà, giudizio e danari. Cosa si può desiderare di più?

GOTT. Io non desidero niente di più. Sono contentissimo. Sono obbligato al signor Pandolfo. Sono stato dieci anni suo lavorante, mi ha sempre voluto bene, tutto quello che ho al mondo lo riconosco da lui, e la maggior obbligazione ch'io gli abbia è quella di avermi procurato una moglie, che è effettivamente tutto quello che dite.

AGAP. Ma caro amico, bisogna un poco divertirla questa sposina.

GOTT. Sì, la divertirò.

AGAP. In questi primi giorni almeno, un poco di allegria, un poco di compagnia. Lasciate fare a me. Verrò a trovarvi; verrò con qualcheduno de' nostri comuni amici. Verremo qualche volta a pranzo da voi. Ci divertiremo.

GOTT. No, no, non vi incomodate. Se vorrò divertirmi, saprò io ritrovar il modo.

AGAP. Che? Ricusate voi di dar qualche volta da pranzo ai vostri amici? Nemmeno un pranzo nei primi giorni delle vostre nozze? Scusatemi, un uomo come voi...

GOTT. Un uomo come me? E chi sono io? Qualche gran signore?

AGAP. Siete un galantuomo, siete ora un buon negoziante, avete una bottega di lino, che non c'è la compagna in paese, e se volete fare di bene in meglio, conviene veder gli amici, coltivarli, trattarli.

GOTT. Trattarli! Cosa intendete voi per trattarli?

AGAP. Qualche finezza, qualche buona grazia di tempo in tempo, qualche pranzo, qualche cenetta.

GOTT. E voi mi onorereste di essere della partita. (ironicamente)

AGAP. Sì, certo, col maggior piacere del mondo. Vedete bene, io nell'ordine de' sensali non credo di essere degl'inferiori. Avrò delle buone occasioni per voi: a pranzo, a cena, si parla con comodo, con libertà.

GOTT. Ho capito. Voi dite bene; vi ringrazio del buon amore che avete per me, vi ringrazio dei buoni suggerimenti; ma io non ho ancora il modo di far trattamenti in casa, non ho il comodo, non ho il bisogno, non posso farlo, e non ho intenzione di farlo.

AGAP. (Oh l'avaraccio del diavolo! è sempre stato così). (da sé)

GOTT. (Se principiassi eh? Mi mangerebbero il lino, la stoppa, ed i pettini). (da sé)

AGAP. Ma, per esempio, se volesse venire a pranzo da voi il signor Pandolfo, ricusereste riceverlo?

GOTT. Il signor Pandolfo è padrone di tutto, ma sa ch'io sono un povero principiante, e non lascierebbe la sua tavola per venire alla mia.

AGAP. Eppure io so di certo, che oggi il signor Pandolfo ha destinato di venir a pranzo da voi.

GOTT. Da me? Senza dirmelo? Senza farmi avvisare?

AGAP. Anzi quest'è segno che vi vuol bene, che fa stima di voi, e vuol venire a farvi un'improvvisata.

GOTT. Scusatemi, amico, io non credo niente.

AGAP. È così, ve lo giuro, in parola da galantuomo. Sono stato questa mattina da lui, perché sapete che in tutti i suoi negozi egli si serve di me. Siamo venuti in discorso di voi. È un pezzo, mi disse, che non vedo Gottardo, passando di là voglio un poco vedere cos'è di lui. Verrò anch'io, dico, ho anch'io volontà di vederlo. Sì, dice, anderemo insieme. Facciamogli, dico, facciamogli un'improvvisata, andiamo a pranzo da lui. Sì, dice, andiamo, e si mise a ridere, come sapete ch'egli suol fare, quando ride di core. Ma zitto, dice, zitto, ch'egli non sappia niente; andiamo lì all'improvviso, e vediamo cosa sa dire; e si mette a ridere. Io gli ho dato parola di trovarlo in piazza, e di venir con lui; e di non dirvi niente; ma per l'amicizia che ho per voi, ho creduto bene di venirvi ad avvertire, acciò... mi capite; mi dispiacerebbe di vedervi imbarazzato.

GOTT. Siete stato voi dunque, che gli ha dato questo suggerimento?

AGAP. Sì; vi dispiace di aver da voi il signor Pandolfo?

GOTT. Io stimo infinitamente il signor Pandolfo: questo sarebbe per me un onore, ma mi dispiace che oggi sono obbligato di andar a pranzo fuori di casa.

AGAP. Oh via, ho capito. Voi vi siete dato sempre più all'avarizia, e voi volete disgustar tutto il mondo.

GOTT. Vi giuro, in fede di galantuomo, che oggi ho dato parola a mio compare Bernardo.

AGAP. Potete fargli dire che oggi non potete, che andrete un'altra volta; il signor Pandolfo merita bene di essere preferito al signor Bernardo.

GOTT. Oh no, quando ho dato una parola, non manco.

AGAP. E bene, andate. Resterà vostra moglie.

GOTT. Mia moglie è andata a desinar da sua madre.

AGAP. E voi mi volete dare ad intendere...

GOTT. Possa morire, se vi dico bugia. Ecco qui in segno della verità, ecco qui la chiave della porta che Placida mi ha lasciato, e questa sera devo andarla a prendere da sua madre.

AGAP. Cospetto di bacco! mi dispiace di un'altra cosa.

GOTT. E di che?

AGAP. Che la signora Costanza figlia del signor Pandolfo, sentendo che suo padre voleva venire a pranzo da voi, ha detto voglio venir anch'io a desinar con Placida, e suo padre le ha detto di sì.

GOTT. Andateli ad avvertire; dite loro che oggi non posso, che ciò sarà per un'altra volta.

AGAP. Fate una cosa, venite con me; ma non dite loro ch'io vi abbia avvertito. Fate cadere il discorso a proposito...

GOTT. Ora non posso venire. Ho da fare; aspetto gente.

AGAP. In verità, signor Gottardo, mi dispiace a dirvelo, ma l'amicizia mi fa parlare. Fate torto a voi stesso; non sapete vivere, e non fate conto dei buoni amici.

GOTT. Ma vi preme molto, signor Agapito, ch'io mi faccia onore. Dite la verità; oggi voi facevate gran conto della mia picciola tavola.

AGAP. Mi pareva impossibile, che non mi diceste un'impertinenza. Son io qualche scrocco? Mi manca il modo a casa mia di mangiare? Grazie al cielo son conosciuto, e dieci scudi in tasca non mi mancano mai.

GOTT. E bene, se siete ricco, tanto meglio per voi. Io son poveruomo, e non posso far tavola per nessuno. Circa il signor Pandolfo, lo manderò ad avvertire.

AGAP. No, no, non v'incomodate, l'avvertirò io.

GOTT. Bene, vi sarò obbligato.

AGAP. Ma è possibile, caro signor Gottardo...

GOTT. Andate, se volete trovarlo, andate subito, avanti ch'egli esca di casa.

AGAP. Eh, vi è tempo. È ancor di buon'ora.

GOTT. Oh, è stato battuto. Permettetemi ch'io vada a vedere chi è.

AGAP. Questa è la porta di strada; io non ho sentito battere.

GOTT. Eh, ho un'altra picciola porta, che riferisce sulla stradella. Con permissione.

AGAP. Accomodatevi.

GOTT. (Vorrei pure che costui se ne andasse. Con questa finzione può essere che mi riesca mandarlo via). (da sé, parte)

SCENA QUARTA

Agapito solo.

AGAP. Oh che avaraccio che è costui! importa assai a me del suo pranzo! ma propriamente mi diverto a far disperare questa sorta di gente. Se sapessi come fare a fargli spendere del denaro per forza sarebbe per me un carnovale. Per bacco! mi viene in mente una cosa. Questa è la chiave della sua porta. (prende in mano la chiave, che trova sul tavolino) Mi ha detto che Placida gliel'ha lasciata. Mi viene in testa di fargli una bella burla. Ma se torna, e non trova la chiave, se ne accorgerà. In luogo di questa, vi posso metter la mia. Vediamo sì, in verità si somigliano nella grandezza. (tira fuori di tasca una chiave) Eccolo, che ritorna. Facciamo il cambio (fa il cambio, mette via la chiave di Gottardo)

SCENA QUINTA

Gottardo ed il suddetto.

GOTT. Mio compare è venuto a prendermi, e vuol che io vada con lui.

AGAP. Così presto?

GOTT. Sono quindici ore sonate. Egli suol pranzar di buon'ora. Abbiamo qualche cosa da fare insieme.

AGAP. Quindici ore? Non sono ancora quattordici.

GOTT. Oh v'ingannate, le quindici le ho sentite sonare.

AGAP. No certamente. Vedrete ora la bocca della verità. (cerca l'orologio)

GOTT. Avete comprato un orologio?

AGAP. Sì, un orologio d'oro. (cercandolo con ansietà)

GOTT. Bravo, così fa chi può.

AGAP. Non lo trovo; che l'avessi perduto! no, no, ora mi sovviene, l'ho lasciato attaccato al letto. Capperi! mi dispiacerebbe perdere un orologio d'oro che mi costa ventiquattro zecchini.

GOTT. Oh, andate a prenderlo, andate subito, che qualcheduno non lo portasse via.

AGAP. Eh, non c'è pericolo. In casa mia non c'è nessuno. Io non ho né serva, né servitore. Non ho altro che una donna, che viene la mattina a farmi il letto e a spazzarmi la camera: quando esco, porto via le chiavi, e non ho paura d'esser rubato.

GOTT. Ma non importa, andate a prendere il vostro orologio; poiché un uomo come voi, un sensale della vostra sorte, scomparirebbe in piazza senza l'orologio al fianco. (con ironia)

AGAP. Povero signor Gottardo! voi vi burlate di chi spende, perché non avete cuore di spendere.

GOTT. No, no: dico davvero. Potreste non averlo lasciato in casa: non istate con quest'inquietudine, andate.

AGAP. Sì veramente, sono un poco inquieto. Anderò. Ma come fare, se la mia chiave è su quel tavolino? (da sé)

GOTT. Mio compare mi aspetta.

AGAP. Un momento. (Se sapessi come fare a prenderla!) (si prova, ma non può)

GOTT. Salutatemi il signor Pandolfo, e ditegli...

AGAP. Sì, sì, ho capito. Voi avete un'altra porta da quella parte.

GOTT. Sì, una picciola porta, che riferisce sulla stradella.

AGAP. Andiamo per di là dunque, che abbrevierò il cammino. (fa vedere che spererebbe d'aver la sua chiave)

GOTT. No, perché si passa per la cantina.

AGAP. Cosa importa? Mi par di sentir qualcheduno.

GOTT. Sarà mio compare. Caro amico, scusatemi, sono aspettato. (si volta per vedere; intanto Agapito tenta di prender la chiave, ma Gottardo ritorna a lui, e non gli dà il tempo)

AGAP. Non possiamo andare insieme?

GOTT. Perdonatemi. Questa è la porta di casa. (accennando la porta che si vede) Mio compare non vuol vedere nessuno.

AGAP. Sarà selvatico come voi.

GOTT. Sì, è vero. (quasi spingendolo)

AGAP. Avete una maniera veramente gentile! (ironico)

GOTT. Compatitemi. (come sopra)

AGAP. (Non importa. Tornerò a prendere la mia chiave). (da sé) Signor Gottardo, servitor suo.

GOTT. La riverisco.

AGAP. (Va, che se posso, ti voglio ben corbellare). (da sé, parte)

SCENA SESTA

GOTTARDO solo.

GOTT. Se n'è andato una volta. Questi è uno che non fa mai bollire la pentola a casa sua, e vuol fare il generoso in casa degli altri. Non credo niente che il signor Pandolfo volesse venir da me, e se anche ciò fosse vero, quando sono impegnato fuori di casa, la scusa è legittima. Per il signor Pandolfo pazienza, un giorno lo pregherò, se mi vorrà far questo onore; ma questo scrocco di Agapito non ce lo voglio. Si era qui avviticchiato, e non voleva andarsene. Non ho mal pensato a fingere di essere chiamato da mio compare, per obbligarlo a partire; e non voleva andarsene. Ora ch'egli è partito, partirò anch'io per la medesima porta, ed è meglio ch'io vada subito, perché il diavolo non facesse ch'ei ritornasse qui col signor Pandolfo. La chiave della porta l'ho in tasca? Sì. (tastandosi in tasca) Ma prenderò anche questa. È sempre meglio averne due, se se ne perde una. (prende la chiave dal tavolino senza osservarla, e se la mette in tasca) Gran dritto che è quell'Agapito! ma io son più furbo di lui. Ha ancora da nascere colui che mi ha da far stare. Vorrebbe mangiare in casa mia. No, non gli riuscirà. Piuttosto che farmi mangiare un soldo da questi scrocconi, mi farei bastonar cento volte. (parte, e serra bene la porta)

ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Agapito solo. (Apre la porta colla chiave, ed entra pian piano, guardando qua e là se vi è nessuno,

e guarda nella camera di fondo, cioè dalla porta di detta camera, senza entrare, e poi guarda alla

scena, dove Gottardo diceva essere la cantina, e assicuratosi si avanza, e dice:)

AGAP. È andato via; non vi è nessuno. Potrò prendere la mia chiave. (la cerca sul tavolino e per terra) Diavolo, non c'è più la mia chiave: o che Gottardo l'ha messa via in qualche luogo, o che se l'è messa in tasca credendola la sua. Mi dispiace per il mio orologio, ma non importa, per oggi ne farò di meno; e questa sera, se non avrò la mia chiave, farò aprire da un fabbro, e domani farò cambiare la serratura. Intanto vo' prevalermi dell'occasione. Ora son padrone di questa casa, e voglio ben divertirmi alle spalle dell'avaraccio. Ehi Berto. (chiama alla porta)

SCENA SECONDA

Berto e detto.

BER. Signore.

AGAP. Voleva mandarti a casa mia a prendere il mio orologio, ma ho pensato diversamente. Ora voglio mandarti in un altro luogo. Va qui dall'oste della Fortuna, e di' al padrone, che venga subito qui in casa del signor Gottardo linaruolo, e insegnagli la casa, se non la sa, e digli che è egli il signor Gottardo medesimo che lo domanda, e che gli ha da ordinar un pranzo. Conducilo qui, e poi aspettami al caffè vicino. Fa polito quel che ti ordino.

BER. Non dubitate niente, sarete pontualmente servito. (parte)

SCENA TERZA

Agapito, poi Roberto.

AGAP. Oh, se la cosa mi riesce bene come l'ho disegnata ha da essere la più bella scena del mondo. Ma mi dispiace della mia chiave. Vediamo se fosse nel cassettino. (guarda nel cassettino della tavola) Non vi è niente assolutamente. Gottardo l'ha presa per la sua. Tanto meglio; se non ne ha altre, non potrà entrare in casa. (battono alla porta) È stato battuto. Vediamo un poco chi è. (guarda dal buco della porta) Oh il signor Roberto! capperi, è stato pronto a venire! (apre)

ROB. Eccomi qui, a ricever le grazie del signor Gottardo.

AGAP. Ma caro signor Roberto, vi mancano due o tre ore all'ora del pranzo.

ROB. Sì, ma non mi avete voi detto che ci doveva essere la signora Costanza? Io ho anticipato per aver il piacere di star più lungo tempo con lei.

AGAP. Ancora non c'è nessuno; e poi non siamo sicuri che venga né il signor Pandolfo, né la signora Costanza.

ROB. Caro signor Agapito, se non siete sicuro che venga la signora Costanza, perché mi avete fatto venire a pranzo dal signor Gottardo? Io stimo fino ad un certo segno il signor Gottardo, ma credetemi, senza la signora Costanza io non so che fare di lui.

AGAP. Ed io mi lusingo che ci sarà la signora Costanza, perché or ora anderò a casa del signor Pandolfo, e pregherò lui e sua figlia in nome del signor Gottardo, e mi comprometto di farlo venire. ROB. Benissimo. Allora sarò obbligato a voi, e sarò obbligato al signor Gottardo d'invitarmi a pranzo da lui.

AGAP. Oh, perché il signor Gottardo è un uomo generosissimo, che tratta in casa sua tutte le persone di sua conoscenza. Si è sovvenuto di aver fatto con vossignoria qualche buon negozietto, spera di farne degli altri, e vuol cattivarsi la buona grazia di tutti.

ROB. Bravo, se farà così, avrà degli amici, e farà del bene. Ma come ha egli cercato di unirmi col signor Pandolfo e la sua figliuola? È informato che io ho dell'inclinazion per lei?

AGAP. Sa tutto, e l'ha fatto apposta.

ROB. Bravo il signor Gottardo! È veramente un galantuomo.

AGAP. È il re dei galantuomini. Ma io per altro ho il merito di averglielo suggerito.

ROB. Vi ringrazio infinitamente. So il mio debito, e saprò essere riconoscente.

AGAP. Caro signor Roberto, credo che, parlando così, ella voglia scherzare. Ella sa ch'io sono un galantuomo, che non sono capace di meschiarmi in queste cose per interesse. Ho della stima, ho dell'amicizia per lei. Cerco di farle un piacere, se posso, e non ho altra mira che far per un altro quello che vorrei che fosse stato per me, se fossi nel medesimo caso.

ROB. Ed io, ve lo protesto, farei lo stesso per qualunque de' miei amici.

AGAP. Ma favorisca in grazia, ella sa ch'io ho l'accesso libero in casa del signor Pandolfo, e più d'una volta vossignoria mi ha parlato della sua figliuola, e mi ha detto che inclinerebbe a sposarla.

ROB. È verissimo; questa è l'unica mia intenzione.

AGAP. Ma perché dunque non ne parla, o non ne fa parlare a suo padre? Se vuole, mi esibisco io stesso di farlo.

ROB. Vi dirò. Prima di fare questo passo, vorrei assicurarmi se la giovane mi ama, s'ella sarà contenta di me. Per questo ho desiderato tanto di potermi abboccar con lei. Non ho mai potuto farlo, e oggi spero di ottenere la grazia per favor vostro e del signor Gottardo.

AGAP. (Può dir me solo, poiché Gottardo non ne sa niente). (da sé) È stato battuto. (si sente battere)

ROB. Oh, se fosse la signora Costanza, felice me!

AGAP.   Aspetti,   guarderò   per   assicurarmi.   (Non   vorrei   che   fosse   qualche   persona   che m'imbrogliasse). (da sé; guarda per il buco della chiave) È il signor Pandolfo.

ROB. Solo?

AGAP. Solo.

ROB. Ma perché solo?

AGAP. Non saprei; sentiremo. Ma faccia una cosa, si ritiri in quella camera. Non si faccia vedere.

ROB. Perché?

AGAP. Per non parere che la cosa sia concertata.

ROB. Dite bene. Mi ritirerò, e sentirò. (entra in camera)

SCENA QUARTA

Agapito, poi Pandolfo.

AGAP. (Tornano a battere più forte, Agapito apre) Oh scusi signor Pandolfo. Non ho gran pratica della casa; non aveva sentito.

PAND. Dov'è Gottardo?

AGAP. Non c'è, signore; è sortito con sua moglie per un affar di premura, ed ha lasciato me in casa, per ricever lei e la signora Costanza; che vuol dire che non è venuta la signora Costanza?

PAND. E come sapeva Gottardo, che io e mia figliuola volevamo oggi venir da lui? E che sì, che voi gliel'avete detto?

AGAP. Signor, vi domando scusa; è vero, io non son capace di dir bugie. Sono stato io che gliel'ha detto.

PAND. E per qual ragione? Vi aveva pure avvertito di non dirgli niente.

AGAP. È vero, ma vi dirò la verità. Io ho dell'amicizia per Gottardo, e mi dispiaceva di vedere questo pover'uomo imbrogliato, se gli foste arrivati all'improvviso. Ho creduto bene avvertirlo, ma non dubitate che egli si metta in gran soggezione. Gliel'ho detto espressamente, e non lo farà.

PAND. Oh bene io ho perduto il gusto della sorpresa; mi piaceva di vederlo imbarazzato; ora che lo sa, non voglio altro.

AGAP. Oh caro signor Pandolfo, questa sarebbe per Gottardo una mortificazione infinita. Ora che lo sa, che ha fatto qualche preparativo...

PAND. Procurate di ritrovarlo: ditegli che non faccia altro, ch'io non ci vengo.

AGAP. In verità, il pover'uomo sarebbe alla disperazione. Ha sentito con tanto piacere la nuova ch'io gli ho recato; e poi, per dirle la verità, tanto egli che Placida, quando hanno saputo questo, hanno invitato qualche altra persona, e se non venissero vossignoria e la signora Costanza, sarebbero alla disperazione.

PAND. Questa è una ragione che quasi mi persuade, ma voi avete fatto male a parlare.

AGAP. È vero, ma l'ho fatto per buon core.

PAND. Gottardo vuol dunque oggi trattarsi. Ha invitato delle persone?

AGAP. Sì signore, saremo io credo, sei o sette.

PAND. E come ha fatto a determinarsi a ciò? Io so che egli è stato sempre un grand'economo.

AGAP. Oh adesso è generosissimo. Si è messo un poco a trattare, vede bene è diventato mercante.

PAND. Non vorrei che perdesse il giudizio, e diventasse troppo liberale.

AGAP. Oh non vi è pericolo; ve l'assicuro.

PAND. Basta; per questa volta verrò.

AGAP. E la signora Costanza?

PAND. Verrà ancor ella. Vi dirò, io sono venuto avanti per saper con bel modo, se Gottardo e Placida restavano a pranzo in casa, per esser sicuro di non burlarmi; poi sarei andato ad aspettarvi in piazza, come eravamo d'accordo, e saremmo andati a prender mia figlia per condurla qui.

AGAP. Mi dispiace che io ora non mi posso partire.

PAND. No, no, restate. All'ora congrua verrò io con Costanza. Ma dite a Gottardo che non faccia spese superflue.

AGAP. Sì signore.

PAND. Ricordategli l'economia.

AGAP. Oh lasciate fare a me

PAND. A rivederci, ciarlone.

AGAP. Avete ragione. Ho parlato, ch'io non doveva.

PAND. M'immagino che sarete voi pure degli invitati.

AGAP. Sicuro. Io quando ho sentito così, non ci voleva stare, ma Gottardo mi ha tanto pregato. PAND. Sì, è un uomo di buonissimo core.

AGAP. Oh! è una gioja.

PAND. Addio. (parte)

AGAP. Servitor suo.

SCENA QUINTA

Agapito, poi Roberto.

AGAP. Eh che gioja ch'è Gottardo! e che buon cuore ch'egli ha!

ROB. Oh quanta obbligazione ho al mio caro Agapito! ho sentito tutto. Non mi scorderò mai della vostra buona amicizia. (lo abbraccia)

AGAP. Ha sentito quanta fatica vi ha voluto?

ROB. Ho sentito.

AGAP. Vossignoria può andar a far qualche affare, se ne ha, e poi tornare all'ora del pranzo.

ROB. Sì, dite bene, anderò, e tornerò. Ma ho sentito che avete detto, che vi saranno delle altre persone, non vorrei che m'imbarazzassero.

AGAP. Credo che non ci sarà altri che il signor Leandro.

ROB. Oh Leandro è mio amico. Non mi dà soggezione.

AGAP. L'ho fatto invitare apposta, acciò possa assisterla se bisogna, acciò tenga il padre in conversazione, mentre vossignoria si trattenerà colla figlia.

ROB. Bravo, bravissimo. Tornerò dunque... Che ora abbiamo al presente?

AGAP. Non lo so, mi ho scordato a casa l'orologio.

ROB. Sono sedici ore vicine. (guardando il suo orologio) Se avete bisogno di questo...

AGAP. No, no, la ringrazio. Ho il mio che mi serve.

ROB. A rivederci, amico, a rivederci. (parte allegro)

SCENA SESTA

Agapito solo.

AGAP. Credo che dalla consolazione mi avrebbe donato quell'orologio assai volentieri. Ma io non lo prenderei se fosse tempestato di diamanti. Non voglio ch'ei possa dire, ch'io lo faccio per interesse. Io lo faccio per semplice divertimento. (si sente battere) Tornano a battere. Chi diavolo sarà? Dovrebbe esser l'oste. (guarda per il buco della chiave) Mi pare desso senz'altro. Ci vuol destrezza per condurre la cosa bene. (apre)

SCENA SETTIMA

L'oste ed il suddetto.

OSTE Servitor umilissimo.

AGAP. Riverito. Siete voi l'oste della Fortuna?

OSTE Per obbedirla. Sono qui a ricevere i suoi comandi.

AGAP. Si vorrebbe un pranzo per sei o sette persone.

OSTE Anche per sedici, s'ella comanda. Favorisca, è ella il signor Gottardo?

AGAP. Non sono io Gottardo, ma sono il di lui fratello.

OSTE Servitor umilissimo: me ne consolo infinitamente.

AGAP. Lo conoscete voi Gottardo mio fratello?

OSTE Non ho l'onor di conoscerlo di persona. Siamo vicini, ma non ho mai avuto l'onor di vederlo. So che è un signore di garbo, che si è maritato che è poco; so che dimora in questa casa, e mi consolo di aver l'onore di servirlo.

AGAP. Ed io ho l'onor di dirvi la di lui volontà.

OSTE Ed io mi darò l'onor di eseguirla.

AGAP. Come vi diceva, si vorrebbe oggi un pranzo per cinque persone. Vi darà l'animo di far presto e bene?

OSTE Subito, in un momento, e spero che saranno contenti di me. Ma la supplico, come vuol restar servita? Quanti piatti? Di che sorte? Di che qualità?

AGAP. Vi dirò, per non confondervi la fantasia, vi lasceremo in libertà di far quel che volete. Voi porterete tutto. Pane, vino, frutti, biancheria, tondi, posate... Averete le vostre posate d'argento?

OSTE Oh sì signore, per sessanta persone, se occorre.

AGAP. Oh si sa, alla Fortuna non manca niente.

OSTE Scusi. Alla Fortuna, e al merito.

AGAP. E al merito?

OSTE Non faccio per dire, ma la mia osteria è conosciuta. La fortuna alla porta, e il merito nella cucina.

AGAP. Bravissimo. Voi dunque ci darete tutto il bisogno. Ci darete quei piatti che parerà al vostro merito, e noi avremo l'onore di pagarvi a ragione di sei paoli per testa. Anderà bene così?

OSTE Tutto quello ch'ella comanda; ma a sei paoli a testa non vi può essere né gran merito, né gran fortuna.

AGAP. Eh! signor oste, me n'intendo anch'io qualche poco. Sei paoli a testa per un pranzo mediocre...

OSTE Bene, bene, come comanda.

AGAP. Animo dunque, andate, e portatevi bene.

OSTE Vado subito a ordinare, a disporre, a travagliare, a eseguire.

AGAP. Qualche piatto di gusto, qualche cosa di delicato.

OSTE Si lasci servire.

AGAP. Mi raccomando al merito.

OSTE Ella ha il merito di comandare; ed io avrò la fortuna di servirla. (parte)

SCENA OTTAVA

Agapito solo.

AGAP. Non vorrei che costui avesse il merito di burlarci e noi la disgrazia di essere maltrattati. Non mi fido delle sue cerimonie. Voglio andar io a vedere, a osservare e ad assicurarmi. Giacché ho pensato di far onore alla generosità di Gottardo, voglio almeno che i commensali siano contenti, e che gli facciano il ringraziamento coi fiocchi. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Altra camera in casa di Gottardo con un armerone in fondo, e tavola apparecchiata.

Pandolfo, Costanza, Roberto, Leandro, Agapito. Tutti a sedere a tavola,

osservando che Roberto sia vicino a Costanza. Servitori servono; la tavola è al desere.

AGAP. Signori, alla salute del signor Gottardo. (beve) (Tutti fanno applauso, e bevono alla salute di Gottardo e di Placida. Roberto e Costanza parlano piano di quando in quando fra di loro)

PAND. Ma io non posso stare allegro; io sono mortificatissimo, caro signor Agapito, voi ci avete obbligati a metterci a tavola, facendoci sperare ad ogni momento che Gottardo e Placida sarebbero venuti a casa; eccoci di già al desere, il pranzo è finito, e non si vedono ancora a venire. Io non so cosa sia; vi dico la verità, io sono inquietissimo.

AGAP. Ma caro signor Pandolfo non so che dire, questa non è colpa mia. Vi tornerò a dire quel che vi ho detto. Avanti di metterci a tavola, sono andato a trovare per la seconda volta Gottardo e Placida, che sono, come vi ho detto, in casa del signor Bernardo loro compare. Sono dietro a stabilire il contratto di una partita di lino, sono dietro a concludere una società di un'impresa non so di che. Mi hanno incaricato di pregare la compagnia di mettersi a tavola, mi hanno assicurato che a momenti sarebbero venuti. Se non l'hanno fatto, non è colpa mia; sarà colpa dei loro interessi, dei loro affari.

PAND. Ma io non voglio assolutamente andar via senza vederli, senza ringraziarli. Fatemi il piacere di mandar qualcheduno...

AGAP. Oh, ecco il caffè. Entrate, venite avanti. (alla scena)

SCENA SECONDA

Garzone del caffè con cinque tazze e cogoma. Tutti si alzano per bevere il caffè di qua della tavola. Chi vuole, può prendere una sedia, e sedere. Il Garzone dà a tutti la sua chicchera; versa il caffè, prendono lo zucchero. Tutti bevono il caffè.

PAND. (Bevendo il caffè) Ma io vi torno a dire, signor Agapito, che sono inquietissimo per conto di Gottardo e di Placida. Se non volete mandar nessuno, ci anderò io. Mi avete detto che sono...

AGAP. Aspetti un momento, che finisca di prendere il mio caffè, e anderò io un'altra volta a vedere cos'è di loro, e subito sarò qui di ritorno colla risposta. (bevendo)

ROB. (Questo è il giorno che decide della mia vera felicità). (piano a Costanza)

COST. (S'ella da me dipende, ne siete certo). (piano a Roberto)

AGAP. (Come va, signor Roberto?) (piano a Roberto)

ROB. (Benissimo, che non può andar meglio). (piano ad Agapito)

PAND. E così, signor Agapito?

AGAP. Vado subito. Con permissione di lor signori. Animo, figliuoli, sparecchiate la tavola: mettete tutto dove vi ho detto, ed aspettatemi, che mangerete anche voi. (ai Servitori)

GARZ. Signor Agapito, siete voi che paga il caffè, o lo pagherà il signor Gottardo?

AGAP. Lo pagherà il signor Gottardo. (parte)

GARZ. (Riprende le sue tazze, e parte)

SCENA TERZA

Pandolfo, Costanza, Roberto, Leandro, Servitori. I Servitori sparecchiano la tavola a poco a poco; mettono le posate in una cesta, la biancheria in un'altra, e tutto chiudono nell'armadio.

PAND. Io anderei a casa assai volentieri; ma son curioso di sapere cosa sia di queste genti, che non si vedono.

ROB. È ancora presto, signore. Frattanto che torna il signor Agapito, il signor Leandro, che è un giovane di talento, ci farà sentire qualche cosa di buono, qualche cosa del suo.

LEAN. Oh, io non ho niente che sia degno di esser sentito.

ROB. Eh sappiamo chi siete, conosciamo il vostro genio poetico, e so che il signor Pandolfo è di buon gusto, e so che gli farete piacere.

PAND. Sì certo, mi piace la poesia. Ammirerò volentieri la sua virtù.

LEAN. In verità, signori...

ROB. (Andate, andate, divertitelo, che ho bisogno di dir qualche cosa). (piano a Leandro, accennando a Costanza)

LEAN. (Lo farò per compiacere l'amico). (piano a Roberto)

ROB. Sediamo, che staremo meglio. Là, signor Leandro, vicino al signor Pandolfo. (Siedono, Pandolfo nella prima sedia, Leandro nella seconda, Costanza nella terza, Roberto nella quarta. Intanto i Servitori seguono sempre a sparecchiare)

LEAN. Vi dirò alcune ottave. (a Pandolfo, tirando fuori una carta)

PAND. Le sentirò con piacere.

LEAN. L'argomento è una figlia rispettosa, che parla al suo amoroso genitore.

PAND. L'argomento è bellissimo. Costanza, ascoltate, che è a proposito ancora per voi.

COST. Sono qui attentissima.

ROB. (Vorrei potervi dir due parole). (piano a Costanza)

COST. (Anch'io ho delle cose da dirvi). (piano a Roberto)

LEAN. Ottave.

«Padre, a voi deggio de' miei giorni il dono;

Deh un sì bel don di conservar vi piaccia.

Da un novello martir trafitta or sono,

E da uno strale che il mio fin minaccia.

Pietà, buon genitor, pietà, perdono.

Il rispetto, il dover, non vuol ch'io taccia.

La vita che mi deste è mio tormento,

Se un'altra vita ricusarmi io sento».

PAND. (Ascolta sbadigliando, e si vede che il sonno lo prende)

COST. Bravo. (forte a Leandro)

ROB. Bravissimo. (forte a Leandro)

PAND. Sì, bravo. (scuotendosi dal sonno) Non ho bene capito il senso degli ultimi versi.

LEAN. La figlia dice che sarebbe per lei un tormento la vita che le ha dato il padre, s'egli non le volesse dar la seconda vita; e potete capire di che si tratta.

PAND. Sì, va bene, ma non mi pare che sia un componimento a proposito per far sentire ad una figliuola.

LEAN. Scusatemi; non vi è niente di male. Sentite quest'altra ottava.

PAND. Non vi è bisogno che voi ascoltiate. (a Costanza)

COST. Oh io non ho niente di curiosità.

ROB. Nemmeno io. (Costanza si accosta colla sedia a Roberto; Roberto si allontana, ed ella si accosta ancora, e tutti due restano lontani da Pandolfo e Leandro, e parlano piano fra di loro con maggior libertà)

LEAN. «Voi de' segreti di natura istrutto,

Voi saprete il mio mal, più che non dico,

Voi per lo stesso cal da amor condutto,

Nel primier tempo di dolcezza amico».

PAND. (Si va difendendo dal sonno, ma poi si addormenta)

LEAN. «Un cenno vostro in mio favor può tutto,

Può il fervente bear desio pudico.

Deh se il cuor vostro è alla ragion conforme...

(si volta a Costanza e a Roberto)

Parlate in libertà, che il vecchio dorme».

COST. Bravissimo.

LEAN. Zitto.

ROB. Approfittiamo di questi momenti. Voi dunque mi assicurate dell'amor vostro?

COST. Voi ne potete esser certo, quando le intenzioni vostre siano convenienti al mio grado.

ROB. Non ardirei di amarvi, se non avessi in animo di procurarmi i mezzi per ottenervi.

COST. Parlatene dunque a mio padre.

ROB. Io non ardisco farlo da me medesimo, ma troverò persona che gli parlerà quanto prima.

COST. Ed io non mancherò di far a mio padre l'arringa patetica contenuta nei graziosi versi del signor Leandro.

LEAN. Ho io ritrovato delle ottave a proposito.

ROB. Siete l'uomo il più amabile della terra. (a Leandro)

COST. Vi abbiamo dell'obbligazione, signor Leandro.

LEAN. Siete due innamorati sì virtuosi, che si può far ciò senz'alcun ribrezzo.

ROB. La mia cara Costanza è adorabile.

SCENA QUARTA

Agapito e detti.

AGAP. Signori, eccomi di ritorno. (tutti si alzano)

PAND. (Si risveglia) E bene, che nova ci recate? Vengono? Non vengono? Cosa fanno?

AGAP. Il signor Gottardo e la signora Placida riveriscono umilmente lor signori; rendono loro infinite grazie dell'onore che hanno fatto alla loro casa. Domandano mille perdoni, se non vengono a far quest'atto di dover in persona; la ragione si è, perché non hanno ancor terminato il loro affare importante, e vi vorranno due ore ancora a finirlo.

PAND. Quand'è così dunque, possiamo andarcene. Mi dispiace dell'inconveniente; mi dispiace che abbiano fatto la spesa, che ci abbiano così ben trattati, e che non siano stati con noi. Salutateli caramente, ringraziateli intanto per parte mia, e quando li vedrò, farò le mie parti. Costanza, andiamo. Servitor umilissimo di lor signori.

ROB. Volete di già andarvene? Volete partir sì presto? Il signor Leandro ha delle altre ottave.

LEAN. Sì, se aveste bisogno di dormire anche un poco.

PAND. Scusatemi, sono avvezzo a dormire quando ho mangiato. Non crediate che sia per disprezzo del vostro bellissimo componimento. I primi versi mi sono piaciuti infinitamente.

LEAN. Un'altra volta ve li leggerò quando avrete dormito.

PAND. Oh sì, la mattina pel fresco; venite a prendere la cioccolata da me.

ROB. Oh sì, anderemo insieme. (a Leandro) Verrò ancor io, se vi contentate. (a Pandolfo)

PAND. Mi farete onore e piacere. Andiamo. (a Costanza, incamminandosi)

COST. (Addio). (a Roberto, piano)

ROB. (Addio). (a Costanza, piano)

PAND. E bene? Non venite? (a Costanza, voltandosi)

COST. Mi avea scordato il mio fazzoletto. (a Pandolfo) (Tutti si salutano. Pandolfo e Costanza partono)

SCENA QUINTA

Roberto, Leandro, Agapito e Servitori.

AGAP. E bene, signor Roberto, è andato bene l'affare?

ROB. Perfettamente. Grazie all'amico Leandro, e grazie al sonno del signor Pandolfo, abbiamo accomodate le cose nostre assai bene.

LEAN. Così scherzando, volete dire che i miei versi hanno fatto i mezzani.

ROB. Oh dolcissimi versi! oh caro amico! oh giorno per me felice! vi ringrazio, signor Agapito, ringraziate il signor Gottardo. Son fuor di me dalla contentezza. (parte)

SCENA SESTA

Leandro, Agapito e Servitori.

LEAN. Fate per me, vi prego, lo stesso uffizio al signor Gottardo. (al Agapito)

AGAP. Sarà servita. È stata contenta del pranzo?

LEAN. Contentissimo. Non si può far meglio. Si vede che il signor Gottardo è di buon gusto, ed è generoso.

AGAP. Sì certo, egli è un uomo generosissimo.

LEAN. Vi riverisco, signor Agapito. (parte)

AGAP. Servitor suo.

SCENA SETTIMA

Agapito e Servitori.

AGAP. Figliuoli, avete finito? Avete messo via ogni cosa? La biancheria, le posate, i piatti sono in quell'armadio? (gli dicono di sì) Avete salvato per voi gli avanzi della tavola? (gli dicono di sì) Bene dunque, andate a mangiare dove volete con vostro comodo e con libertà. (Servitori partono) La burla è fatta, è riuscita bene, resta ora a vedere come Gottardo si tirerà d'affare con l'oste. (parte)


ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

La stessa camera dove si è fatto il pranzo

Gottardo e Placida.

PLAC. E bene, eccomi qui. Sono in casa. Siete contento?

GOTT. Se ci siete voi in casa, ci sono anch'io. Manca poco alla sera; ci spoglieremo, e potremo far qualche cosa. Io ho da rivedere alcune partite, ho da rispondere a delle lettere e voi lavorerete, starete con me, mi terrete un poco di compagnia.

PLAC. Tutto ciò si poteva far questa sera; e quest'ora di giorno, giacché io era fuori di casa, non era gran cosa lasciarmela impiegare in una visita di convenienza.

GOTT. E dove volevate andare?

PLAC. Voleva andare dal signor Pandolfo. È qualche giorno ch'io non vedo la signora Costanza, ed ho tante obbligazioni con quella casa, che è giusto che di quando in quando mi lasci almeno vedere.

GOTT. Bene, vi anderete domani.

PLAC. E perché domani, e non oggi?

GOTT. Perché ho piacere che vi andiate piuttosto domani.

PLAC. Ecco qui, vuol tutto a suo modo. Ed io domani ho da far piucché oggi, e non ci anderò.

GOTT. Eh sì, ci anderete.

PLAC. No, non ci anderò.

GOTT. Per farmi piacere, so che ci anderete.

PLAC. Ho d'andarvi per far piacere a voi, e non posso aver io la soddisfazione di farlo quando piacerebbe a me? Questo vuol dire che siete uno spirito di contraddizione.

GOTT. Ma no, non è vero. Voi prendete sempre le cose a rovescio. Vi dirò la mia ragione. Se andate oggi voi non troverete a casa il signor Pandolfo, ed a me preme che lo troviate, e domattina lo troverete, e voglio che gli facciate per me un complimento di scusa.

PLAC. Quale scusa? Che cosa gli avete fatto per domandargli scusa?

GOTT. Vi dirò, ma non andate in collera, se è possibile. Questa mattina, dopo che siete partita per andare da vostra madre, è venuto quel drittone di Agapito e mi ha detto che il signor Pandolfo e la signora Costanza volevano oggi farci l'improvvisata di venire a pranzo da noi. Io gli ho detto che era impegnato a andar a pranzo fuori di casa...

PLAC. Ed avete avuto la villania di ricusar l'onore che volevano farci il signor Pandolfo e la signora Costanza?

GOTT. Ma voi sapete ch'io era impegnato.

PLAC. E perché non avete mandato ad avvertirmi che sarei venuta io?

GOTT. E volevate riceverli voi senza di me?

PLAC. E vi pare una bell'azione verso una persona che ci protegge e ci fa del bene?

GOTT. E per questo voglio che andiate voi a far le mie scuse.

PLAC. E che scusa volete voi che io le porti? Quella di esser andato a pranzo da vostro compare? Se fosse vero che ci foste stato, la scusa sarebbe magra, poiché vi potevate disimpegnar facilmente; ma il punto è, che non siete stato da vostro compare, e ne sono certa.

GOTT. Come potete voi dire che non sono stato da mio compare?

PLAC. Lo dico con fondamento, perché ho mandato a vedere e non vi ci hanno trovato.

GOTT. A che ora avete mandato?

PLAC. A diciassette ore suonate.

GOTT. Se aveste mandato a diciotto, mi avrebbero trovato e mi avrebbero veduto a tavola con mio compare.

PLAC. Non è vero niente. Ho sempre sospettato che voleste darmi ad intendere una cosa per l'altra, ma ora che sento che avete ricusato di ricevere il signor Pandolfo e la signora Costanza, mi assicuro che non siete stato dal compare, perché da lui vi sareste sottratto come richiedeva l'obbligo vostro verso il signor Pandolfo, e dico e sostengo che un altro impegno vi avrà strascinato, e che qualche partita di piacere vi avrà fatto commettere la mal'azione.

GOTT. Io impegnato in partite di piacere?

PLAC. Sì, voi. Povero innocentino! che non eravate solito, prima che foste maritato, di frequentare gli amici? E le amiche, e le amiche, e sarà stata una partita d'amiche. Non può essere altrimenti. Ne sono certa.

GOTT. Ne siete certa?

PLAC. Certissima.

GOTT. Ed io son certo d'un altra cosa.

PLAC. E di che in grazia?

GOTT. Che voi non sapete quel che vi dite.

PLAC. Basta. Non ho ancora in mano quel che mi vuole per assicurarmene. Ma lo saprò, lo saprò senza fallo, e se me n'accorgo, se vi trovo sul fatto, povero voi!

GOTT. Povero me?

PLAC. Sì, povero voi.

GOTT. In verità, voi mi fate ridere.

PLAC. Ridete, che avete buon ridere; ma un giorno forse... (si sente battere alla porta)

GOTT. Battono. Guardate chi è.

PLAC. Riderò anch'io un giorno, ve l'assicuro.

GOTT. Placida, guardate chi è.

PLAC. Son buona buona, ma poi...

GOTT. Eh finitela una volta. Andate a guardare chi è. (con sdegno)

PLAC. Ih! che diavolo d'uomo! (parte per andare ad aprire)

SCENA SECONDA

Gottardo, poi Placida e l'oste.

GOTT. Colle buone non si fa niente. Bisogna alzar la voce per forza.

OSTE Servitor umilissimo, mio padrone.

GOTT. La riverisco divotamente.

OSTE Scusi, è ella il signor Gottardo?

GOTT. Per servirla.

OSTE Mi consolo infinitamente d'aver l'onor di conoscerla e di riverirla.

GOTT. Chi è in grazia vossignoria?

OSTE L'oste della Fortuna, per obbedirla.

PLAC. (Passeggia ed ascolta)

GOTT. E in che cosa vi posso servire?

OSTE Prima di tutto la prego dirmi s'ella è restata di me contenta.

GOTT. Di che, signore?

OSTE Del pranzo di questa mattina.

GOTT. Io?

PLAC. Come! Siete voi stato all'osteria? (a Gottardo) Il signor Gottardo è venuto alla vostra osteria? (all'Oste)

OSTE Non signora; io parlo del pranzo, che ho avuto l'onore di mandargli a casa questa mattina.

PLAC. Un pranzo a casa!

GOTT. Tacete una volta. Lasciate parlare a me. (a Placida) Signore, io credo che prendiate sbaglio. (all'Oste)

OSTE Scusi; io non isbaglio altrimenti. Io son l'oste della Fortuna; io sono quello che le ha mandato qui in questa casa un desinare per cinque persone, a sei paoli a testa.

GOTT. A me?

OSTE A lei. Non è ella il signor Gottardo?

PLAC. Oh, ecco avverato il mio sospetto. Mi ha mandato via di casa, non ha voluto il signor Pandolfo, per dar da mangiare a della canaglia.

GOTT. Ma voi mi volete far perdere la pazienza. (a Placida) E chi è che vi ha ordinato questo pranzo? Dite, parlate: sono stato io che ve l'ha ordinato? (all'Oste)

OSTE Se ella non me l'ha ordinato, ho servito in questa casa, e me l'hanno comandato a di lei nome.

GOTT. E chi è che vi ha comandato?

OSTE Il signor suo fratello.

GOTT. Oh amico, voi sbagliate, o sognate, o siete fuori di cervello. Io non ho fratelli, io non ne so niente, e vi consiglio a lasciarmi stare.

OSTE Signore, la non parli così, perché ho il modo di convincerla, e di farmi render ragione.

PLAC. Sì, sì, vi farà ragione da sé; non dubitate. Dice così, perché sono qui io, perché ha soggezione di me. Ha fatto passar qualcheduno per suo fratello, per coprire la bricconata. Sa il cielo, chi è stato a mangiare in casa mia. Ditemi, galantuomo, sapete voi che vi fossero donne?

OSTE Questi non sono i miei affari. So che ho dato un pranzo per cinque persone a sei paoli a testa.

GOTT. Ma chi erano costoro? Li conoscete?

OSTE Io non so niente. Mi hanno detto i garzoni che vi erano quattro uomini e una donna, e non so altro.

PLAC. Una donna! Vi era anche una donna? Ah traditore! ah ingrato! ah perfido! (a Gottardo)

GOTT. Tacete, Placida, che or ora mi fate fare qualche bestialità. Signor oste, io sono un galantuomo, incapace di far stare nessuno, e vi dico ch'io non ne so niente, e non ne so niente. (scaldandosi)

OSTE Orsù, signore, su quest'articolo parleremo poi; intanto favorisca almeno di darmi la mia biancheria, i miei piatti, e le mie posate d'argento.

GOTT. Io?

OSTE Sì, ella che se n'è servito.

GOTT. Mi fareste venir la rabbia davvero.

OSTE Come! vorrebbe ella negarmi ancora le mie posate d'argento?

GOTT. Vi dico che sono un uomo d'onore, e non ne so niente.

OSTE Ed io le dico che sono stato avvisato che la mia roba è qui, e che hanno tutto riposto in un armadio e ci scommetterei che è quello ch'è lì.

GOTT. Non è vero niente.

PLAC. Vediamo, vediamo, presto vediamo. (corre all'armadio, lo apre e si vede tutto) Ah ah, signor marito!

GOTT. (Io resto di sasso). (da sé, mortificato)

PLAC. Ecco qui, posate, biancheria, piatti, boccie, bicchieri; negatelo ora, se vi dà l'animo. (a Gottardo)

GOTT. Lasciatemi stare. (Non so in che mondo mi sia). (da sé)

OSTE Si contenta ch'io prenda la roba mia? (a Gottardo)

GOTT. Prendete quel che diavolo volete.

OSTE Ehi, giovani, venite avanti. (alla porta)

SCENA TERZA

Garzoni dell'Oste e detti.

GARZ. (Entrano)

OSTE Prendete quella roba e portatela a casa, ma prima incontriamola. (L'Oste e i Garzoni vanno all'armadio, incontrano tutta la roba, e la vanno disponendo per portarla via)

GOTT. (Cospetto di bacco! io non posso capire il fondo di questa istoria). (da sé)

PLAC. Ecco, se ho ragione di lamentarmi di voi. Ecco il bel trattamento che voi mi fate dopo quattro giorni di matrimonio. Ridete, se vi dà l'animo di ridere.

GOTT. (Sì, non può esser altro assolutamente). (da sé)

PLAC. Risparmia un paolo, per non dar a me una picciola soddisfazione, e poi getta i danari, e fa pranzi in casa, e di nascosto della povera moglie.

GOTT. Eh corpo del diavolo! con tutte le vostre belle parole, con tutte le vostre affettate esagerazioni, voi non me la darete ad intendere. Altri che voi non può avermi fatto questa soperchieria.

PLAC. Io?

GOTT. Sì, voi; per castigarmi della mia supposta avarizia, per vendicarvi del pasto, che non ho voluto far per le nozze.

PLAC. Io?

GOTT. Sì, altri che voi non poteva entrare in casa; la serratura è forte, ha degli ordigni, che senza la propria chiave non si può aprir da nessuno; voi che avete la chiave, voi siete entrata, voi mi avete fatto l'impertinenza.

PLAC. Povero Bernardone! io ho la chiave? Vedete come le bugie hanno corte le gambe! Non vi ricordate più, che mi avete obbligato questa mattina a lasciar la chiave?

GOTT. Ah sì, è vero. Son fuor di me. Scusatemi, non me ne ricordava.

PLAC. Voi avrete data la mia chiave a qualcheduno. Sa il cielo cosa ne avete fatto.

GOTT. Io non l'ho data a nessuno. Eccole qui tutte due. (tira fuori le due chiavi e le osserva) Come! questa non è mia chiave. Questa non apre la nostra porta. Ah ah, ora capisco l'inganno, la baronata. Voi che mi avete gettata la chiave per dispetto, voi mi avete gabbato, mi avete dato una chiave per un'altra. Vi siete ben divertita, ed ora vi burlate di me.

PLAC. Uomo perfido! uomo maligno! avete ancora tanto coraggio d'aggiungere la calunnia alla falsità, all'impostura? Basta così; non vo' sentir altro. Vi conosco abbastanza. Prenderò il mio partito. Mi farò render giustizia, e voi, e voi... Lasciatemi stare, che non posso più tollerarvi. (parte, e va in camera)

SCENA QUARTA

Gottardo, l'oste e i Garzoni.

GOTT. Veramente la bile e lo stordimento in cui sono mi ha fatto avanzare a mia moglie una proposizione ingiuriosa. Non la credo capace di tanto, ed ha ragione se si scalda; ma anch'io non ho torto, se mi do al diavolo per una cosa di questa natura.

OSTE Signore, veda se nel suo armadio vi è tutto quello che a lei appartiene.

GOTT. Non vo' veder niente. Lasciatemi stare.

OSTE Io ho preso la roba mia.

GOTT. Sì signore.

OSTE Permette che la mandi a casa?

GOTT. Fate quel che volete.

OSTE Figliuoli, andate, e consegnate ogni cosa alla padrona. (Garzoni partono)

SCENA QUINTA

Gottardo e l'oste.

GOTT. (Ho dei sospetti, ma non ne posso verificare nessuno). (da sé)

OSTE Signor Gottardo, servitor umilissimo.

GOTT. Schiavo suo.

OSTE Scusi, di grazia.

GOTT. Cosa c'è?

OSTE Mi favorisca trenta paoli, se si contenta.

GOTT. Perché vi ho da dar trenta paoli, se io non so niente del desinare?

OSTE Signor, perdoni, parlo con tutto il rispetto; se ella per sorte non avesse presentemente il danaro, e non volesse, o non potesse ora pagarmi, son galantuomo, si accomodi e mi basta la sua parola; ma se mi nega il debito, con tutto il rispetto, con tutta la riverenza, vado subito a ricorrere alla Giustizia.

GOTT. No, fermatevi. Venite qui. Vedo anch'io che sono stato soverchiato, ed a me tocca a pagar la soverchieria. Son galantuomo, e vi pagherò; vi prometto che vi pagherò...

OSTE Tanto basta.

GOTT. Ma vorrei almeno...

OSTE Il signor Gottardo è padrone di tutto.

GOTT. Vorrei che mi diceste...

OSTE E quando le occorre, non ha che a comandare, ed io mi darò l'onore di servirlo.

GOTT. Lasciatemi dire. Volete ch'io paghi, non ho mangiato, e per trenta paoli non potrò nemmeno parlare?

OSTE Scusi, perdoni, parli. In che cosa la posso servire?

GOTT. Vorrei almeno sapere chi è quello che a nome mio vi ha ordinato il pranzo.

OSTE Mi pare di averglielo detto. Il suo signor fratello.

GOTT. Ma se io non ho fratelli.

OSTE Sarà uno che avrà avuto l'onore di passare per suo fratello.

GOTT. Ed io ho da pagare?

OSTE Ho servito al di lei nome in casa sua, la mia roba si è ritrovata nel di lei armadio.

GOTT. Avete ragione, e vi pagherò. Ma ditemi in cortesia. Non lo conoscete quello che mi ha fatto l'onore di passare per mio fratello?

OSTE Signore, io non lo conosco altrimenti.

GOTT. Era grande o piccolo?

OSTE (Dirà la statura di Agapito)

GOTT. Vestito con un abito... (secondo l'abito di Agapito)

OSTE Non ci ho molto badato, ma mi pare di sì.

GOTT. Con una parrucca... (secondo quella di Agapito)

OSTE Per verità, non me ne ricordo.

GOTT. (Io sospetto sopra quel galeotto di Agapito, ma non sono ancora sicuro). (da sé)

OSTE Mi comanda altro?

GOTT. La grazia sua.

OSTE Oh signore! sono a' suoi comandi. E quando mi onorerà de' trenta paoli?

GOTT. Li avrete, ve li darò. Avete paura che non ve li dia?

OSTE Oh mi maraviglio. Son sicurissimo. Un uomo come lei! la prego prevalersi della mia servitù.

Nelle occorrenze la supplico non farmi torto. La servirò sempre con distinzione... Me li darà questa settimana i trenta paoli?

GOTT. Ma voi siete un gran seccatore.

OSTE Servitor umilissimo. (parte)

SCENA SESTA

Gottardo solo.

GOTT. Ci giocherei dieci zecchini, che la bricconeria me l'ha fatta quel birbante di Agapito; ma come diavolo avrà potuto entrare in casa? Come? È stato qui. È capace di aver cambiata la chiave. Oh se potessi assicurarmene, vorrei fargliela pagar salata. Se potessi almeno sapere chi erano le cinque persone che hanno mangiato qui. L'oste non sa niente, ed è difficile indovinarlo.

SCENA SETTIMA

Il Garzone del caffè, ed il suddetto.

GARZ. Servitor umilissimo, signor Gottardo.

GOTT. Cos'è? C'è qualche altra novità? Venite anche voi per danari?

GARZ. Sì signore, vengo per i cinque caffè, che ho portati qui quest'oggi.

GOTT. Ma io non c'era.

GARZ. So benissimo ch'ella non c'era, e per questo sono venuto a domandarle se li pagherà vossignoria, o se devo farmeli pagare dal signor Agapito.

GOTT. Ah ah. È il signor Agapito che li ha ordinati?

GARZ. Sì signore, ma mi ha detto che li pagherete voi.

GOTT. E Agapito oggi ha desinato qui?

GARZ. Senza dubbio.

GOTT. Con altre persone?

GARZ. Ancora.

GOTT. Conoscete voi le persone che hanno qui desinato?

GARZ. Sì signor, li conosco tutti.

GOTT. Buono, buono. Ditemi un poco (ma non vorrei che venisse Placida ad inquietarmi sul più bello. Non vi è bisogno di furia, ma di destrezza). (da sé) Andiamo fuori; vi pagherò il caffè, e mi direte... Andate, andate innanzi.

GARZ. Per obbedirla. (parte)

GOTT. Ora sono contento. Ho scoperto il furbo; non son chi sono, se non mi vendico. (parte)


ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

La prima camera. Notte, tavolino con lumi.

Placida sola.

PLA. Possibile che mio marito abbia fatto una cosa simile? Ch'egli abbia fatto banchetto in casa, di nascosto di sua moglie? Ma la roba dell'oste che era nell'armadio... Eppure ancor non lo posso credere. Vi può essere qualche inganno. Eh! qual inganno? L'inganno è il mio, perché amo troppo quest'ingrato, questo perfido, che ha avuto coraggio di maltrattarmi, e accusar me di maliziosa e bugiarda. Dovrei odiarlo per questo. Ma non posso. Gli voglio bene. Ecco qui, è andato fuori di casa senza dirmi niente. Sapeva ch'io era sdegnata, e non s'è curato di venirmi a pacificare. Dovrei sempre più irritarmi contro di lui, ma non posso. Non vedo l'ora ch'ei torni a casa per abbracciarlo. Sì, per gridargli e per abbracciarlo. (si batte alla porta) Battono. Vediamo chi è. (apre)

SCENA SECONDA

Pandolfo, Costanza e la suddetta.

PAND. Buon giorno, signora Placida.

PLAC. Serva umilissima, signor Pandolfo, serva sua, signora Costanza.

COST. Sì, sì, sono in collera con voi.

PLAC. Perché, signora che cosa le ho fatto?

PAND. Ha dispiaciuto a mia figlia ed a me, che oggi non abbiate potuto passar la giornata con noi.

PLAC. In verità, vi giuro, non ne sapeva niente. Se sapeste quanto ho gridato con mio marito.

COST. Tre volte vi abbiamo mandati a chiamare.

PLAC. Assicuratevi sull'onor mio che non ho saputo niente. Figurarsi, era da mia madre, sarei corsa a casa immediatamente.

PAND. Se ci hanno detto che eravate da vostro compare Bernardo per affari del vostro negozio.

PLAC. Mio marito era dal compare, o almeno mi ha dato ad intendere che vi è stato. Io era da mia madre, ve l'assicuro.

COST. Il signor Gottardo gentilissimo si diletta dunque di dire delle bugie.

PLAC. Qualche volta.

PAND. Non posso dirvi quanto mi è dispiaciuto la privazione della vostra compagnia. Sapete quanto vi amo tutti due, marito e moglie egualmente. Si tratta un giorno di pranzare insieme, vengo a posta, e non posso avere questa consolazione.

PLAC. In verità, ne sono mortificatissima, e domani doveva venir da voi per farvi le scuse di mio marito.

PAND. Basta, non c'è bisogno di altre scuse, poiché vostro marito ha voluto compensarci, e ceneremo insieme questa sera.

PLAC. Qui da noi? (con allegria)

PAND. Sì, da voi.

PLAC. Cenerete da noi? (a Costanza, con allegria)

COST. Sì, e mi aspetto che ci burliate anche questa sera.

PLAC. Oh cosa dice mai! sono troppo sensibile a quest'onore. Mio marito dunque vi ha invitato a cena da noi?

PAND. Sì, mi ha scritto un viglietto, mi ha pregato a venire con mia figliuola, ed io benché la sera non sia solito star fuori di casa, son venuto, acciò non creda che me ne abbia avuto per male questa mattina. PLAC. Voi siete la stessa bontà. Ecco la prima cosa ben fatta da mio marito.

PAND. Mi dispiace solamente la doppia spesa che dovrà fare. Ha fatto la spesa del pranzo. Ora si carica anche della cena.

PLAC. Come, signore! lo sapete anche voi che mio marito ha dato pranzo?

PAND. Oh bella! in casa sua chi ha da dar pranzo, se non è dato da lui?

PLAC. (Ah indegno! e me lo voleva nascondere!) (da sé) E sapete chi fossero i commensali? (a Pandolfo)

PAND. Sì, vi era il signor Agapito. E vi era...

PLAC. Vi era Agapito?

PAND. Vi era certo, e vi era... Non mi ricordo bene.

COST. Il signor Roberto, il signor Leandro...

PLAC. Bravi, pulito. Tutta gente che viene a mangiare le coste a mio marito, e poi si burleranno di lui. Son certa che da tutti quelli che oggi hanno qui pranzato non c'è da sperare un bicchier d'acqua, se se ne avesse bisogno.

PAND. Da tutti?

PLAC. Oh da tutti. Io non eccettuo nessuno.

PAND. Io credo che di me non vi possiate dolere.

PLAC. Eh non parlo della cena: parlo del pranzo.

PAND. Ed io vi parlo del pranzo.

PLAC. Ma voi non c'entrate con quei del pranzo.

PAND. C'entro benissimo, perché io e la mia figliuola abbiamo pranzato con loro.

PLAC. Dove?

PAND. Qui.

PLAC. Quando?

PAND. Oggi.

PLAC. Oggi avete pranzato qui tutti due? (a Costanza)

COST. Che maraviglie ridicole! per che cosa ci avete fatte tante scuse?

PLAC. Perché mio marito mi aveva dato ad intendere che si aveva sottratto da ricevervi con un pretesto...

PAND. No, no, ci ha dato da mangiare magnificamente col solo dispiacere di esser privi della vostra e della sua compagnia.

PLAC. (Io non capisco niente: io non so perché mio marito abbia voluto nascondermi questo desinare). (da sé)

PAND. Quel che mi raccomando è di sollecitare la cena più che potete, perché io non sono avvezzoa far tardi.

PLAC. Io non so che dire. Mio marito non mi ha detto niente. Quando verrà, sentiremo. Favoriscano intanto d'accomodarsi.

PAND. Nell'altra camera avete una poltrona eccellente.

PLAC. Vuol passare nell'altra camera?

PAND. Oh sa, mi piace quella poltrona. E se venisse il signor Leandro, mi addormenterei saporitamente. (entra in camera con Costanza)

SCENA TERZA

Placida e Roberto.

ROB. Riverisco la signora Placida.

PLAC. Serva sua.

ROB. C'è il signor Gottardo?

PLAC. Non c'è, ma starà poco a venire.

ROB. Se vi contentate, l'aspetterò.

PLAC. Scusi. Ha degli interessi con mio marito?

ROB. Niente affatto, ma egli è pieno di bontà per me; mi ha invitato questa mattina a pranzo da lui. Ci sono stato, e non ho avuto il piacere di vedere né lui, né voi. Ora andando al caffè, ho trovato un suo cortese biglietto, con cui mi dice che tutta la compagnia di questa mattina sarà a cena questa sera da lui, e mi prega di esser della partita.

PLAC. Mi dispiace che mio marito non è in casa e non mi ha lasciato alcun ordine...

ROB. Non importa, lo aspetteremo. Avrò l'onor di godere della vostra amabil compagnia.

PLAC. Ella mi onora troppo. Io non ho alcun merito...

ROB. Probabilmente verrà anche il signor Pandolfo e la signora Costanza.

PLAC. Anzi, sono di già venuti.

ROB. È venuta la signora Costanza? (con movimento)

PLAC. Sì signore.

ROB. E dov'è? Dove è? (con premura)

PLAC. In quella camera.

ROB. Con permissione. (vuol correre in camera)

PLAC. Signore. Una parola in grazia. (lo trattiene)

ROB. Scusate. (tornando indietro qualche passo)

PLAC. Ella mostra una gran premura.

ROB. Oh sì veramente...

PLAC. Per il signor Pandolfo, o per la signora Costanza?

ROB. Oh potete ben figurarvi... (scherzando)

PLAC. Passano di buona corrispondenza?

ROB. Perfettamente. Ero in dubbio, ma questa mattina grazie a quel desinare di cui non mi scorderò mai, ho assicurato la mia felicità.

PLAC. E il signor Pandolfo lo sa?

ROB. Non lo sa ancora, ma lo saprà...

PLAC. Ma signore, ella vede che non conviene.

ROB. Zitto, per carità, so quel che volete dirmi, son galantuomo. Voi siete giovane, ma sapete che cosa è amore.

PLAC. Vi dico, signore... (battono alla porta) Gran battere che si fa a questa porta. (va per aprire, e Roberto corre in camera)

SCENA QUARTA

Placida, poi l'oste e Garzoni con ceste di biancheria ecc.

PLAC. (Apre la porta e si volta, e non vede Roberto) Ah l'impertinente si è cacciato in camera.

OSTE Servitor umilissimo.

PLAC. Siete qui un'altra volta.

OSTE Questa sera non dirà che m'inganno. Il signor Gottardo medesimo...

PLAC. Lo so, lo so.

OSTE Manco male. Permette che i miei garzoni comincino ad apparecchiare la tavola?

PLAC. Sì, facciano pure.

OSTE Entrate, già sapete la camera. (Garzoni entrano in camera) Sono venuto io stesso ad accompagnarli, acciò non vi siano equivochi.

PLAC. Ma si può sapere chi vi ha ordinato questa mattina?

OSTE Perdoni. Ho d'andare a terminare la cena. Tornerò qui, e la soddisferò intieramente. (parte)

SCENA QUINTA

Placida sola.

PLAC. Comincio ora a capire la ragione, per cui mio marito mi ha tenuto nascosto questo desinare. Egli è stato sedotto da qualcheduno e l'ha fatto apposta per tener mano a questi amori fra il signor Roberto e la signora Costanza. Sa che io non l'avrei sofferto, e mi maraviglio di lui che lo soffra, e quando viene, mi sentirà. Eccolo qui a tempo.

SCENA SESTA

Gottardo e la suddetta.

GOTT. Oh eccomi qui. (allegro)

PLAC. Venga, venga, signore, che viene a tempo.

GOTT. Non istate più a taroccare, che ora vi conterò tutta la faccenda com'è.

PLAC. Non vi è bisogno che me la raccontiate, che la so meglio di voi.

GOTT. Sì. Sapete dunque l'impertinenza che mi ha fatto Agapito?

PLAC. Che Agapito? Qui non c'entra Agapito. Siete voi che tenete mano a delle tresche illecite, a degli amori sospetti.

GOTT. Io?

PLAC. Oh non fate l'idiota, che il signor Roberto mi ha detto tutto. Ei vi ringrazia del comodo che gli avete dato stamane di amoreggiare la signora Costanza, senza saputa di quel buon uomo di suo padre.

GOTT. Anche questo di più? Maledetto Agapito!

PLAC. Ma voi volete gettar la colpa sopra di Agapito.

GOTT. Sì, è egli che mi ha cambiato la chiave, che ha dato qui da pranzo in mio nome, che mi ha fatto quasi precipitare con l'oste, ma lascia fare, che ho trovato io la maniera di vendicarmi.

PLAC. Sia quel che esser si voglia; in casa nostra non si ha da soffrire una simil tresca e non la voglio assolutamente. Ecco, in quella camera vi è già il signor Pandolfo e la signora Costanza.

GOTT. Sono di già venuti?

PLAC. Sì, ed è venuto subito quel ganimede del signor Roberto, e si burla di me, e si burla di voi, e si burla di quel povero vecchio del signor Pandolfo, e fa l'amore colla signora Costanza, e in casa nostra è un insulto, è un'indegnità, è una vergogna.

GOTT. Zitto; non fate rumore, che la cosa durerà poco.

PLAC. Che non faccia rumore?

GOTT. È venuto altri?

PLAC. È venuto l'oste; e vi sono i garzoni in camera che preparano la tavola. Ma io assolutamente non voglio in casa mia dar da cena a chi si beffa di noi, e voglio andare in questo momento a scoprire ogni cosa al signor Pandolfo. (in atto di partire)

GOTT. No, venite qui: aspettate.

PLAC. Oh lo voglio fare. Non mi terrebbero le catene. (entra in camera)

SCENA SETTIMA

Gottardo, poi Leandro.

GOTT. Faccia quel che diavolo vuole. Mi dispiace che va a pericolo di disturbare la cena. E se non si fa la cena, perdo la metà del gusto che mi ho preparato.

LEAN. Si può entrare?

GOTT. Favorisca.

LEAN. Sono molto obbligato alla bontà che avete per me. Ho ricevuto un vostro biglietto...

GOTT. Sì signore. Ma mi ha favorito a pranzo. Non ho potuto godere la sua compagnia, e mi sono procurato un tal onore questa sera.

LEAN. Voi mi obbligate infinitamente.

GOTT. Andiamo a trovare la compagnia... Ma vengono qui: aspettiamoli.

SCENA OTTAVA

Pandolfo, Costanza, Roberto, Placida ed i suddetti.

ROB. Caro signor Pandolfo, vi domando perdono. Scusate l'amore...

PAND. E se voi avete dell'amore per la mia figliuola, perché non trattare da galantuomo? Perché non dirmelo, senza fare di tai scondagne?

ROB. Confesso che ho fatto male; ma il desiderio di assicurarmi prima della sua inclinazione...

COST. Deh caro padre, compatitemi ed abbiate pietà di me.

PAND. Disgraziata! meriteresti... E voi, signor Gottardo, voi date mano a simili impertinenze?

PLAC. Gliel'ho detto anch'io, l'ho rimproverato anch'io.

GOTT. Credetemi, signor Pandolfo, che io non ne so niente.

SCENA NONA

L'oste e detti.

OSTE Signore, son venuto a vedere, quando comanda ch'io abbia l'onor di servirla.

GOTT. È tutto all'ordine?

OSTE È tutto pronto.

PAND. Con vostra buona grazia, io voglio andarmene; animo, andate innanzi. (a Costanza)

GOTT. Caro signor Pandolfo, non mi dia questa mortificazione.

PAND. No, voglio andarmene.

PLAC. Via, signor Pandolfo; già ora tutto è scoperto, ci favorisca restare.

PAND. Vi ringrazio d'avermi illuminato, ma voglio andarmene.

LEAN. Favorisca, ho da fargli sentire un sonetto.

PAND. Non ho volontà di dormire.

ROB. Per grazia, signor Pandolfo.

PAND. Mi maraviglio di voi.

COST. Ah caro padre, per la vostra unica figlia, per la vostra cara Costanza che ama, è vero, il signor Roberto, ma lo ama onestamente, e spera amarlo col vostro consentimento, deh restate, deh non mi date una sì dura pena, non mi fate piangere per carità.

PAND. Bricconcella! (non ho cuor di mortificarla). (da sé) Tu sai s'io ti amo, s'io merito di essere mal corrisposto. Via, non piangere, che resterò. (tutti fanno allegrezza)

OSTE Vado a preparare i piatti. (in atto di partire)

GOTT. Aspettate. Quanto avete d'avere del pranzo di questa mattina?

OSTE Ella lo sa. Trenta paoli.

GOTT. È giusto che siate pagato, e vi voglio pagare.

OSTE No, c'è tempo. Pagherà tutto in una volta.

GOTT. Fermatevi, che vi voglio pagare. (tira fuori una borsa) Eccovi trenta paoli.

OSTE Obbligatissimo alle sue grazie. (vuol partire)

GOTT. Ascoltate. Quanto importerà la cena di questa sera?

OSTE Sono sei, trentasei paoli.

GOTT. Voglio darvi i trentasei paoli.

OSTE Ma, no, mi scusi. Pagherà dopo.

GOTT. No, voglio darveli prima. (mette mano alla borsa)

OSTE Come comanda.

PAND. Mi dispiace che vi costi questo denaro.

GOTT. Eh niente, io sono un uomo generoso, corrivo.

PLAC. (Io non capisco questa nuova liberalità di Gottardo). (da sé)

SCENA ULTIMA

Agapito e detti.

AGAP. Servitor di lor signori. (agitato, confuso, e cercando cogli occhi qua e là se vede la sua chiave)

PAND. Cosa c'è, signor Agapito? Cosa avete? Mi parete molto confuso.

AGAP. Signore... Vi dirò... Ho perduta la chiave della mia porta di casa... Sono stato qui, e mi preme di ritrovarla.

GOTT. Avete perduta una chiave?

AGAP. Signor sì, una chiave. (sdegnato)

GOTT. Io ne ho trovata una. Sarebbe questa per avventura?

AGAP. (prendendo la chiave con dispetto e con ira) Sì, è questa ma cospetto di bacco! mi arriva un accidente terribile. Sono andato a casa, ho fatto aprire da un fabbro, e non ho trovato il mio orologio che aveva lasciato attaccato al letto.

GOTT. Non c'è altro di male?

AGAP. Con questa chiave che ho qui perduta, non so cosa pensare, e se l'orologio non si trova...

GOTT. Un momento di quiete, e l'orologio si troverà. Signor oste, voi avete avuto da me trenta paoli per il pranzo di questa mattina.

OSTE È verissimo.

GOTT. Eccovi ora quarantadue paoli per la cena di questa sera, poiché il signor Agapito ci favorirà della sua compagnia. (conta il danaro all'Oste)

OSTE Va benissimo.

GOTT. Signor Agapito, tenete questa borsa; qui dentro vi sono ventiotto paoli, che è il resto di dieci scudi. Andate dal caffettiere vicino e dategli dieci scudi, e vi darà l'orologio vostro che tiene in pegno, e voi avrete l'onore di aver pagato il pranzo e la cena.

AGAP. Come! questa è una baronata.

PLAC. Mi maraviglio di voi. Mio marito ha ragione, e imparerete a venir a burlare i galantuomini.

PAND. Va bene, vi sta bene, e non potete parlare. (ad Agapito)

ROB. Io vi sarò obbligato di tutto, e principalmente di avermi fatto la strada per ottenere la mia cara Costanza. (ad Agapito)

COST. Sì, il mio caro padre è contento, ed a voi avremo l'obbligazione. (ad Agapito)

LEAN. Ed io egualmente per essere stato a parte della vostra bella invenzione. (ad Agapito)

GOTT. Voi mi avete onorato di una burla spiritosissima, ed io mi ho creduto in debito di darvi il contraccambio. (ad Agapito)

AGAP. Non so che dire, sono stordito, mi sta bene, e mi consolo che i poveri miei danari abbiano prodotto un sì bel matrimonio.

OSTE Signori, la cena è pronta. L'anderò a prendere se volete.

GOTT. Sì, andate, e noi frattanto ci metteremo a tavola, ed augureremo la felice notte a tutti questi signori.

Fine della Commedia

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