La cassaria

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LUDOVICO ARIOSTO

LUDOVICO ARIOSTO

LA CASSARIA

Edizione di riferimento:

Ludovico Ariosto, Opere minori, a cura di C. Segre, Milano-Napoli, Ricciardi 1954.


PERSONE

EROFILO, giovane.

CARIDORO, giovane.

EULALIA, fanciulla.

CORISCA, fanciulla.

LUCRANO, ruffiano.

CRISOBOLO, vecchio patrone.

CRITONE, mercante.

ARISTIPPO, fratello di Critone.

FULCIO, servo di Caridoro.

FURBA, servo del ruffiano.

NEBBIA, servo di Crisobolo.

GIANDA, servo di Crisobolo.

VOLPINO, servo di Crisobolo.

CORBACCHIO, servo di Crisobolo.

NEGRO, servo di Crisobolo.

MORIONE, servo di Crisobolo.

GALLO, servo di Crisobolo.

MARSO, servo di Crisobolo.

TRAPPOLA, baro.

BRUSCO, servo.

[La scena è in Metelino (Lesbo). L’elenco delle persone manca nell’unico manoscritto e nelle edizioni.]


PROLOGO

Nova comedia v’appresento, piena

di vari giochi, che né mai latine

né greche lingue recitarno in scena.

         Parmi veder che la più parte incline

a riprenderla, subito c’ho detto

nova, senza ascoltarne mezo o fine:

         ché tale impresa non li par suggetto

de li moderni ingegni, e solo estima

quel che li antiqui han detto esser perfetto.

         È ver che né volgar prosa né rima

ha paragon con prose antique o versi,

né pari è l’eloquenzia a quella prima;

         ma l’ingegni non son però diversi

da quel che fur, che ancor per quello Artista

fansi, per cui nel tempo indietro fersi.

         La vulgar lingua, di latino mista,

è barbara e mal culta; ma con giochi

si può far una fabula men trista.

         Non è chi ’l sappia far per tutti i lochi:

non crediate però che così audace

l’autor sia, che si metta in questi pochi.

         Questo ho sol detto, a ciò con vostra pace

la sua comedia v’appresenti; e inanzi

il fin non dica alcun ch’ella mi spiace.

         Per ch’ormai si cominci, e nulla avanzi

ch’io vi dovessi dir: sappiate come

la fabula che vol ponervi inanzi

         detta Cassaria fia per proprio nome:

sappiate ancor che l’autor vol che questa

cittade Metellino oggi si nome.

         De l’argumento, che anco udir vi resta,

ha dato cura a un servo, detto el Nebbia.

Or da parte di quel che fa la festa

         priega chi sta a veder che tacer debbia.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

EROFILO giovane, NEBBIA servo.

            EROF. Così ve n’andrete, come io v’ho detto, a trovare Filostrato, e farete tutto quello che vi commanderà, e per modo che non mi venga di voi richiamo altrimenti. Ma dove è rimasto il mio pedagogo, il mio maestro, il mio custode saggio? Che vol che v’indugiate a sua posta sino a sera? Ancor non viene? Per Dio, che s’io ritorno indietro!... Andate tutti e strascinatemelo fòra per li capelli. Non vaglion parole con questo asino, né vol, se non per forza di bastone, obedir mai. Vedi che io t’ho fatto uscire.

            NEBB. Sia in malora: non si poteva senza me finir la festa. Io so bene che ’mporta l’andata, ma non posso più.

            EROF. Andatevene, né sia alcun di voi sì ardito, che prima che esso vi dia licenzia, mi venga inanzi. M’avete inteso?

SCENA SECONDA

GIANDA, NEBBIA servi.

            GIAND. È pur grande, o Nebbia, cotesta pazzia, che tu solo di tutti noi conservi vogli contrastare sempre con Erofilo. E pur ti doveresti accorgere come fin qui t’abbia giovato! Ubidisci, col malanno, o mal o ben che ti commandi: è figliuol del patrone un tratto; et ha, secondo la età, più lungamente a commandarci che il vecchio. Perché vòi tu restare in casa, quando lui vol che tu n’eschi?

            NEBB. Se tu in mio loco fussi, così faresti, e forse peggio.

            GlAND. Potrebbe essere; ma non lo credo già, che non so vedere che ti giovi troppo.

            NEBB. Io non debbo fare altrimente.

            GIAND. E perché?

            NEBB. Se me ascolti, io tel dirò.

            GIAND. T’ascolto, di’.

            NEBB. Connosci tu questo ruffiano, che da un mese in qua è venuto in questa vicinanza?

            GIAND. Connoscolo.

            NEBB. Credo che tu gli abbia veduto un paio di bellissime giovane in casa.

            GIAND. L’ho vedute.

            NEBB. De l’una d’esse Erofilo nostro è sì invaghito, che per avere da comperarla venderia se stesso; e ’l ruffiano, che averne tanto desiderio lo connosce, e che sa che del più ricco uomo di Metellino è figliuolo, li dimanda cento di quel che forse a un altro lasseria per dieci.

            GIAND. Quanto ne domanda?

            NEBB. Non so: so ben che ne domanda gran prezzo; et è tanto che, frustando Erofilo tutti li amici che ha, non ne potrebbe trovare la metade.

            GIAND. Che potrà fare dunque?

            NEBB. Che potrà fare? Danno grandissimo a suo padre e similmente a se medesimo. Credo che abbia adocchiato di saccheggiare il grano, che di dui anni e tre s’ha riserbato insino a questo giorno il vecchio; o sete o lane o altre cose, di che la casa è piena, come tu sai. Suo consiglieri e guida è quel ladro di Volpino. Han longamente questa occasione attesa, che ’l vecchio sia partito, come ha fatto oggi, per andare a Negroponte. E perché non si veggin le lor trame, non mi vogliono in casa: mi mandano ora a trovare Filostrato, acciò che mi tenga in opera, né ritornarci lassi fin che non abbino essi el lor disegno fornito.

            GIAND. Che diavol n’hai tu a pigliarti sì gran cura, se ben votassi la casa? Egli del rimanente serà erede, e non tu, bestia.

            NEBB. Una bestia sei tu, Gianda, che non hai più discorso che d’un bue. Se Crisobolo ritorna, che fia di me? Non sai tu che partendo questa matina, mi consegnò tutte le chiavi di casa, e commandommi, quanto avevo la vita cara, non le dessi a persona, e men di tutti li altri a suo figliuolo; né, per faccenda che potesse accadere, mettessi mai fuor di quella porta piedi? Or vedi come gli ho bene obedito! Non credo che fussi ancor fòr de la porta, che volse le chiavi Erofilo, dicendomi voler cercare d’un suo corno da caccia che aveva smarrito; e così mal mio grado l’ebbe, e forse tu vi ti trovasti.

            GIAND. Non mi vi trovai già, ma ben sentii sin colà, dove ero, el suono di gran bastonate, che da dieci in su toccasti, prima che dargliene volessi.

            NEBB. S’io non gliele dava, credo che m’arebbe morto. Che volevi tu che io facessi?

            GIAND. Che facessi? Che alla prima richiesta tu gliel’avessi date, e così che al primo cenno fussi con noi altri uscito di casa. Non ti puoi tu sempre scusare col patrone, e narrare per il vero come è andato il fatto? Non connoscerà egli che la etade e condizion tua non è per poter contrastare a un giovane appetitoso de la sorte di Erofilo?

            NEBB. Non saprà forse egli tutta la colpa riversarmi adosso? E forse li mancheranno testimoni a suo proposito, sì perché egli è patrone, sì perché tutti in casa mi volete male, per mio demerito non già, ma per tenere la ragione del vecchio, e non comportare che sia rubato?

            GIAND. Pur per tua mala ventura, che non ti sai fare uno amico.

            NEBB. Ma qual altro connosci tu in qual tu voglia casa, che abbi l’offizio che i’ ho, che non sia odiato similmente?

            GIAND. Perché siete tristi e di pessima condizione tutti; che li patroni in fare elezione di chi abbia a provedere alla famiglia, cercano sempre el peggiore omo che abbino in casa, acciò che de ogni disagio che si patisca, più agevolmente possino sopra voi scaricarsi de la colpa. Ma lassiamo andare. Dimmi un poco: chi è quel giovane che pur dianzi è intrato in casa nostra, che Erofilo onora come sia maggior suo?

            NEBB. El figliuol del Bassà di questa terra.

            GIAND. Come ha nome?

            NEBB. Caridoro. Egli ama in casa questo ruffiano l’altra bella giovane; né credo che abbia meglio el modo di Erofilo a comperarla, se non provede di rubar suo padre similmente. Ma guarda, guarda: quella che è su la porta del ruffiano, è la giovine che Erofilo ama; l’altra, che è più fòra ne la strada, è l’amica di Caridoro. Che te ne pare?

            GIAND. Se così ne paressi alli amanti loro, farebbe el ruffiano ricchissimo guadagno. Ma andiamo; che se sboccasse Erofilo, mal per noi.

SCENA TERZA

EULALIA, CORSICA fanciulle.

            EULAL. Corisca, non te slungare da questa porta, che se Lucrano ne cogliesse, s’adirerebbe con noi.

            CORIS. Non temere, Eulalia, che miglior vista avemo che lui, e seremo prime a vederlo. Deh prendiamo, ora che non è in casa, questo poco di spasso.

            EULAL. Che spasso, misere noi, che ricompense la millesima parte de la disgrazia nostra? Noi siamo schiave, la qual condizione pur tolerare si potrebbe, quando fussimo de alcuno che avesse umanitade e ragione in sé. Ma fra tutti li ruffiani del mondo, non si potrebbe scegliere el più avaro, el più crudele, el più furioso, el più bestiale di questo, a cui la pessima sorte ce ha dato in subiezione.

            CORIS. Speriamo, Eulalia. Avemo, tu Erofilo et io Caridoro, che tante volte ci hanno promesso e con mille giuramenti affermato di farci presto libere.

            EULAL. Quante più volte ci hanno promesso e non atteso mai, è tanto più evidente segno che non hanno voglia di farlo. Se mille volte ci avessino negato e una sola promesso poi, io mi starei con molta speranza; ma così ne ho pochissima. Se l’hanno a fare, che tardano più? Vogliono la baia, e ci tengono in ciancie, e ci fanno gran danno, che forse altri sarebbon comparsi per liberarci, e manco parole averiano usate e più fatti, e per rispetto di costoro si sono restati. Hanno poi fatto sdegnare Lucrano, che se ha veduto menare a lungo con vane promesse; e ieri mi disse, e forse ben vi ti trovasti, che non poteva più stare in su la spesa, e che fra dieci dì, non comparendo chi ci liberasse, voleva che ognuna di noi, o bona o ria, si guadagnassi il pane; e non potendo venderne in grosso, ne venderia a minuto per quattro o sei quattrini, e per quel che si potrà avere. O misere noi!

            CORIS. E faccialo: che domin serà? Pur vuo’ credere e tener certo, che li nostri amanti non ci abbino a lassare giugnere a tanta miseria.

            EULAL. Meglio è che andiamo dentro, che per nostra sciagura Lucrano non ci sopragiugnesse.

            CORIS. Ah! vedi i nostri cori, che ne vengono a noi. Non ci partiamo così presto: vediamo ciò che oggi ci apportano.

SCENA QUARTA

EROFILO, CARIDORO giovani, EULALIA, CORSICA fanciulle.

            EROF. O che felice incontro è questo, Caridoro! Questo è il maggior ben che per noi si possa desiderare al mondo.

            CARID. Queste son le serene e luminose stelle, che al lor bello apparire achetar ponno le tempeste de’ nostri travagliati pensieri.

            EULAL. Con più verità potresti dir di noi, che ’l bene e la salute nostra saresti, quando ci amassi così in effetto, come cercate in parole di dimostrare. Voi sète gran promettitori alla presenzia nostra. — Dammi la mano, Eulalia; dammi la mano, Corisca: oggi o doman senza fallo serete per noi franche: se non, che siamo... — Odili pure: vòlte che ci avete le spalle, vi ridete de’ casi nostri.

            EROF. Hai torto, Eulalia, a dir così.

            EULAL. Se ben voi sète gentiluomini e ricchi e ne le patrie vostre, non doveresti però schernire e pigliare di noi gioco: noi semo di buon sangue, ancora che ci abbia la disgrazia nostra così condutte.

            EROF. Deh! non fare, Eulalia, con queste lacrime e querele più di quel che sia la mia passione acerba. Io serò il più ingrato, il più discortese villan del mondo, se per tutto doman...

            EULAL. Deh! mal abbia el mio crederti tanto.

            EROF. Lassami finire: io non te posso dire ogni cosa, ma sta sicura che per tutto domane, alla più lunga, serai libera da questo impurissimo ruffiano. La cosa è gita più a longa che non era el tuo bisogno e il creder mio; ma non ho possuto più. Non ti credere, benché io vada onoratamente vestito, e sia di Crisobolo unico figliolo, estimato el più ricco mercatante di Metellino, che de le sue facultade io possa a mio appetito disponere. E quel che io dico di me, dico di questo altro ancora, che li nostri vecchi non sono meno ricchi che avari; né più è il desiderio nostro di spendere, che la lor cura di vietarci el modo. Ma or che partito è mio padre per navigare a Negroponte, e non mi terrà li occhi alle mani sempre, vederai de l’amor che io ti porto chiarissimi effetti, e presto.

            EULAL. Dio ti metta in core di farlo. Se mi ami e la salute mia desìderi, fai lo dover tuo, che più che li occhi miei e più che ’l cor mio t’ho sempre, da poi che prima ti connobbi, auto caro.

            CARID. E tu, Corisca, abbi la medesima fede e senno: poco poco ci manca per venire a bona conclusione.

            EULAL. Or non più, che non ci sopragiugnesse Lucrano.

            EROF. Non passerà dui dì che mi potrai star sicura in braccio.

            EULAL. Et io viverò in questa speranza.

            CORIS. Et io ancora, neh?

            CARID. Non si studia al ben de l’una senza quel de l’altra. Restate di buona voglia. A Dio.

            CORIS. A Dio.

            EROF. A Dio, radice del mio core.

            EULAL. A Dio, vita mia.

SCENA QUINTA

EROFILO, CARIDORO giovani.

            EROF. Ch’io non li dimostri l’amore ch’io li porto? Ch’io patisca che stia più in servitù? Non bisogna che vadi più in longo questa trama. Se non viene oggi Volpino a qualche effetto bono, non starò più a tante soie, con che da matina a sera, d’oggi in domane, già più d’un mese m’ha girato el capo, or promettendomi di trar di mano a mio padre il denaio da comperarla, or di gittare adosso a questo Albanese ladro una rete da non potersene, se non mi lassa la giovene, sviluppar già mai. Ch’io stia più alle sue ciancie? Non starò, per Dio. Quando non possa venire secretamente al mio disegno, ci verrò alla scoperta; né chiavi né chiovi mi potrà serrare cosa ch’io sappia che sia per il mio bisogno. Sarei bene a peggior termini che Tantalo, se in mezo l’acqua mi lassassi strugger di sete. Ho in casa panni, sete, lane, drappi d’oro e d’argento, vini e grani da fare in una ora quanti danari io voglio; e serò sì pusillanime e vile, che non vorrò satisfare per un tratto al desiderio mio?

            CARID. Deh fussi pur io nel tuo grado, che avessi mio padre absente, che non anderei, per Dio, cercando altro mezo che me stesso per satisfarmi! Dui giorni soli che se levassi da Metellino, mi basterieno per cento: netterei sì bene il granaro, e sì sgomberrei di ogni masserizia camere e sale, che parrebbe che uno anno vi avesseno avuto li Spagnuoli alloggiamento. Ma eccolo che viene.

            EROF. Chi? Sì, sì, Lucrano; così ci fusse egli portato. Andiamo pur noi dentro ad essequire ciò che ne fu da Volpino ordinato, che non si possa in su la nostra negligenzia escusare come ritorni.

            CARID. Andiamo.

SCENA SESTA

LUCRANO ruffiano, solo.

Quando si sente lodar molto e sublimare al cielo o beltà di donna o liberalità di signore o ricchezza o dottrina o simil cose, mai non si può fallare a creder poco, perché venendo alla esperienzia, non sono a gran pezzo mai tante, come ne riporta la fama. Non si può fallare ancora a creder più, quando sentì biasimare uno avaro, uno giuntatore, uno ladro e simili vizii, che praticando, maggiori si ritrovano sempre che non si vede di fòri. Io non saprei di questo già render ragione; ma l’effetto per longa esperienzia ne connosco, che de l’uno e de l’altro ho tutto el giorno: pur son de l’uno in più pratica al presente. Mi era detto di fòra che erano in questa terra li più ricchi e liberali giovini, e li più spendenti in femine, che in altro loco di Grecia: io ci ho molto ritrovato il contrario, però che in ogni cosa, fòr che nel vestire, li trovo miserrimi; in quel sì prodighi, che sento che la più parte, a guisa di testudine, porta ciò che gli ha al mondo adosso. Mi viene tutto ’l dì a ritrovare or l’uno or l’altro, e chi dice voler comprar questa e chi quella; e quando semo al pagamento mi vorrebbono di scripte pagare, di promesse e di ciancie satisfare. Li denari in altri lochi, fatto ’l mercato, si veggono; qui non so per qual miracolo si spendono invisibili: non però li miei, che s’io vo’ pane o vino o altre cose al viver necessarie, mi convien fare che appaino. Se mi potessi provedere con parole di tal cose, sarei altrimenti contento con parole del vendere el mio. Non fa per me di pigliar moneta che non possa ne’ miei bisogni spendere. Se, come la voglia, mutar si potessino le cose fatte, io non ci vorrei esser mai venuto, che poco più ch’io ci stia e non faccia più frutto di quel che sino a ora ho fatto, mi consumerò quel poco che da Constantinopoli ho portato, dove assai bene è l’arte mia valutomi; e dubito di giungere a tanto, che io mi ci moia di fame. Una sola speranza mi è restata in questo Erofilo mio vicino, amatore de la mia Eulalia, che se così fussi di lei desideroso, come si mostra in apparenza, connosco che solo averia il modo di farmi in effetto una buona paga; ma procede con troppa malizia meco. Sa con che gran spesa e con che poco guadagno io stia qui, e che pochi, se non lui, son per comperare da me alcuna de le mie femine; et anco si pensa ch’io non abbi el modo da potermene levare, e che di giorno in giorno io l’averò meno: e perciò attende che, vinto da la necessitade, io mi riduca a pregarlo che mi dia quel che li pare, e che s’abbi la femina; e se non ci provedo e con pari astuzia mi governo con lui, potrà fare che li riesca el disegno facilmente. Ho pensato fingere di partirmi, e m’è venuto a proposito uno legno che domani o l’altro si partirà per Soria: son stato a parlamento del nolo col patrone per me, per la famiglia e roba mia; e questo ho fatto presenti alcuni che già credo che l’abbino ad Erofilo reportato. Io gli torrò questa credenza che egli ha, che mal mio grado sia constretto a restarmi qui, per non aver modo di levarmene. Et ecco il mio Furba a tempo, che mi serà bono aiuto in questo.

SCENA SETTIMA

LUCRANO ruffiano, FURBA servo.

            LUCR. Tu sei pur tornato quando non hai possuto indugiar più: non ti bisogna mai dar meno d’un giorno di tempo a fare uno servizio, asino da bastone. Corri al porto in tuo mal punto; corri te dico, e fa che tu sia tornato subito. Oh dove vai tu che non aspetti a ’ntendere quel ch’io voglia? Trova il patrone da Barutti, con chi parlammo questa matina, e sappi da lui el certo se questa notte ha da partirsi o fino a quanto indugiasse; e quando ti raffermasse quel che ti disse oggi, di pur volersi questa notte partire, ritorna subito, e mena dua carri teco e tre facchini o quattro, che prima che ci manchi il giorno, fo pensiero avere tutta sgomberata la casa et imbarcata ogni mia cosa, che nulla c’impedisca da potere con lui partire; che più util viaggio far possiamo che quando venimmo ad abitare qui, dove sono più li forestieri in odio, che la verità nelle corti. Che guardi, che non voli via tosto? Spuleggia de non calarte in solfa per questa marca, che al cordoan si mochi la schioffia.

            FURBA Ciffo ribaco il contrapunto.

            LUCR. (Averò cantato in guisa che, se Erofilo è in casa, mi potrà aver sentito.)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

EROFILO, CARIDORO giovani, VOLPINO, FULCIO servi.

            EROF. Non so che imaginarmi, che così tardi Volpino ha ritornare.

            CARID. Se Fulcio non lo ritrova, almen ritornasse lui.

            EROF. Credo che tutti l’infortuni abbino congiurato a’ nostri danni.

            CARlD. Eccoli, per Dio, che vengono.

            VOLP. (Se potrebbe, Fulcio, per salvare dua amanti e distruggere uno avarissimo ruffiano, ordinare astuzia che fusse più di questa memorabile?

            FULC. Volpino, per quella fede ho ne le mie spalle, mi pare questa invenzione simile ad uno fertile e mal cultivato campo, che non manco de triste, che de bone erbe, si vede pieno.

            VOLP. Quando non succeda, aremo uno conforto almeno, che non seremo per minima causa puniti. A che peggio si pò giungere, che alle bastonate?

            FULC. Non ti bisognarà, so ben, desiderare più sufficienti spalle che coteste: a stancare ogni bon braccio pur troppo idonie sono.)

            CARID. Vengon, mi par, ridendo.

            VOLP. (E se più sufficienti pur cercare mi bisognasse, piglierei le tue.)

            EROF. Che credi tu? Che sì, qualche buon vino trovato hanno, che come forse de la tanta dimora, così deve di questo opportuno loro riso esser cagione.

            VOLP. (Studiamo il passo: non vedi tu che da’ nostri patroni attesi siamo?)

            CARID. Andiamogli incontra, che pur in questa allegrezza che dimostrano sperar mi giova.

            EROF. Nulla debbono de la partita di Lucrano sapere, che non verriano sì lieti.

            VOLP. Dio vi conservi longamente.

            EROF. Sì, ma di miglior voglia che or non siamo.

            VOLP. Spera fin che vivi, e lassa disperare a’ morti.

            EROF. Tu non sai, Volpino, che domane, o questa notte forse, Lucrano si parte?

            VOLP. Partasi con tempesta; ma non gli credo: sono arti che egli usa per ispaventarvi.

            EROF. Taci. Se udito avessi quel che al Furba suo adesso dicea, non si credendo da noi essere udito, ti parrebbe che non fussino arti: domandane costui.

            CARID. È così certo.

            EROF. Ahi lasso! Come potrò poi vivere, se lui ne mena ogni mio bene? Dovunque ne vada Eulalia, ne andrà con essa el cor mio.

            VOLP. Se ’l cor tuo s’ha da partir questa notte, fa che io lo sappia così a tempo, che tòr possa la sua bulletta, prima che si serri l’uffizio.

            FULC. E che se gli faccia una veste o altra cosa da coprirlo.

            VOLP. Perché veste?

            FULC. Che li uccelli di rapina, che usano dietro al mare, non lo becchino, ritrovandolo così nudo.

            EROF. Ve’, Caridoro, come ci beffano li manigoldi! Ah misero chi è servo d’amore!

            VOLP. È più misero chi è servo de’ servi d’amore. Non ti giudicavo, Erofilo, di sì poco animo che, sentendoti Volpino appresso, in sì piccola cosa te avessi a sbigottire.

            EROF. Piccola cosa è questa? Nessun’altra maggiore mi potrebbe essere.

            VOLP. Guardami in viso: partese el ruffiano, come hai detto? Ancora se per viltà non mi mancate, non serà una ora di notte (benché avemo più del giorno poco), che averete tutti dui parimente le vostre donne in braccio; e questo Lucrano, uomo sì arrogante, toserò come una pecora.

            EROF. O uomo di gran pregio!

            CARID. O Volpino mio da bene!

            VOLP. Ma dimmi: hai tu apparecchiato, come ti dissi, le forbici da tosarlo?

            EROF. Di che forbici m’hai tu parlato?

            VOLP. Non t’ho detto che di man del Nebbia facessi opera di avere le chiavi de la camera di tuo padre?

            EROF. L’ho fatto.

            VOLP. E che togliessi quella cassa che ti mostrai?

            EROF. T’ho obedito.

            VOLP. E che mandassi for di casa tutti li famigli?

            EROF. Così ho fatto.

            VOLP. E più di tutti li altri el Nebbia?

            EROF. Non ho lassata cosa che mi abbi detta.

            VOLP. Ben sta: queste le forbici sono che ti domandavo. Or attendi a quanto vo’ che si facci. Ho ritrovato un mio grande amico, servo de’ mammalucchi del Soldano, venuto per faccende del suo padrone a Metellino, dove non fu mai più, né credo che ci sia un altro che lo connosca. Io gran pratica al Cairo ebbi con lui, già fa l’anno che ve andai con tuo padre, dove stemmo più di duo mesi; e domane ha da partirsi all’alba.

            EROF. Che avemo noi a intendere di questa amicizia?

            VOLP. Io dirò: ascolta. Voglio costui vestire da mercatante: torrò de’ panni di tuo padre; oltre che ha bella presenza, lo acconcerò in modo che non serà chi non creda, vedendolo, che lui non sia mercatante di gran traffico.

            EROF. Séguita.

            VOLP. Costui, così vestito, anderà a ritrovare el ruffiano, e si farà portare la cassa dietro c’hai tolta, e lasseràgliela pegno.

            EROF. Pegno?

            VOLP. E farassi dar la femina.

            EROF. A chi vuoi che la lassi pegno?

            VOLP. Al ruffiano.

            EROF. Al ruffiano?

            VOLP. Fin tanto che ’l prezzo de la tua Eulalia li porti.

            EROF. Come diavol! che la lassi al ruffiano?

            VOLP. Dico la cassa; e che si facci dare la femina e te la conduca.

            EROF. Pur troppo intendo, ma non mi piace.

            VOLP. Voglio ben poi, che subito andiamo...

            EROF. Parla d’altro. Ch’io ponga roba di tanto valore in mano d’uno ruffiano fuggitivo?

            VOLP. Lassane a me la cura: odi.

            EROF. Non è cosa da udire: è troppo periculosa.

            VOLP. Non è: se ascolti, si potrà facilmente...

            EROF. Che facilmente?

            VOLP. Se taci, tel dirò. È bisogno a chiunque vole...

            EROF. Che ciancie son queste che cominci?

            VOLP. Tuo danno se udir non vuoi: ben sono io pazzo.

            CARID. Lassalo dire.

            EROF. Dica.

            VOLP. Poss’io morir se più...

            CARID. Non te partir, Volpino: ben te ascolterà. Odilo: lassalo dire.

            EROF. E che inferire vuo’ tu, insomma?

            VOLP. Che? chi voglio inferire? Tutto ’l dì mi prieghi, stimoli e tormenti ch’io trovi modi di far che tu abbi questa tua femina: n’ho trovati cento, né te ne piace alcuno. L’uno ti par difficile, periculoso l’altro; questo longo, quel scoperto: chi te pote intendere? Vuoi e non vuoi, desìderi e non sai che! O Erofilo, non si può fare, credilo a me, cosa memorabile senza periculo e fatica. Te pensi per prieghi e lamentazioni si pieghi el ruffiano, e te la doni?

            EROF. Mi parrebbe pur gran sciocchezza poner cosa di tanta valuta a così manifesto periculo. Non sai tu, come io so, che quella cassa tutta d’ori filati è piena, che dua milia ducati comprerieno a pena? e più, che quella è d’Aristandro, che mio padre la tiene in deposito? Queste mi paion forbici da tosar noi, più presto che la pecora che m’hai detta.

            VOLP. Me estimi tu di sì poco ingegno, che io cerchi perdere una cosa di tanto prezzo, e che pensato prima non abbia come riaverla subito? Lassane, Erofilo, la cura a me: io sto a periculo più di te, quando non riuscisse el disegno, de la qual cosa non dubito. Tu ne sentirai le grida solo; io el bastone o ceppi o carcere o remo.

            EROF. Che via serà del racquistarla, se non se gli portan li denari, de’ quali avemo nessuna cosa meno? E se ritornasse mio padre intanto, o che nascosamente Lucrano si fuggisse, a che termine ci troveremo noi?

            VOLP. Se hai tanta pazienzia che m’ascolti, vederai che el mio disegno è bono, e che non v’è periculo che, subito e sanza alcun danno, non se riabbia la cosa nostra.

            EROF. Io t’ascolto: or di’.

            VOLP. Tosto che in man di Lucrano sia rimasa la cassa, e che ’l mercante nostro t’abbia la femina condutta, noi ce n’andremo al Bassà, padre di Caridoro, al quale tu farai querela che questa cassa ti sia stata di casa tolta, e che suspetti ch’un ruffiano vicin tuo te l’abbia tolta.

            EROF. Intendo; e serà cosa credibile.

            VOLP. E che tu lo prieghi che te dia el braccio, sì che tu possa andare a cercarli la casa. Caridoro ti serà favorevole apresso il padre, che teco mandi el bargello a tale effetto.

            CARID. Serà facile, et io, bisognando, ci verrò in persona.

            VOLP. Seremo sì presti, che la cassa li troveremo sùbito in casa, che non gli daremo tempo di poterla trafugare altrove. Egli dirà ch’un mercatante per il prezzo d’una sua femina gliel’ha lassata pegno. Chi vorrà credere che per cosa, che val cinquanta a pena, si lassi la valuta di più di mille assai? Trovatogli apresso il furto, serà strascinato in prigione, e impiccato forse: sia squartato ancora, che pensiero n’averemo noi?

            EROF. Ben, per Dio: il disegno è da succedere.

            VOLP. Tu, Caridoro, come il ruffian sia preso, potrai fornire il desiderio tuo per te medesimo; che mentre li toi servi meneranno Lucrano prigione, tu farai de la tua Corisca el piacer tuo. Sempre averà di grazia el ruffiano lassartela in dono, pur che te gli offerischi apresso tuo padre favorevole, sì che almeno non ci lassi la vita.

            CARID. O Volpino, una corona meriti.

            FULC. Anzi una mitra e lo stendardo inanzi.

            VOLP. Non pò, Fulcio, giugnere a queste tue degnitati ognuno.

            EROF. E dove è costui che in forma di mercatante vuoi vestire?

            VOLP. Mi maraviglio che oramai non sia qui; ma verrà sùbito.

            EROF. Vuoi che lui stesso si porti la cassa in collo?

            VOLP. No, ha un conservo con lui, che farà el bisogno. Ma va in casa, et apparecchia una de le veste di tuo padre, quella che ti par meglio, che non si perdi tempo.

            CARID. Ho io qui a far altro?

            EROF. Ti puoi tornare a casa, che tutto il successo ti farò intendere. A Dio.

            CARID. A Dio.

            FULC. Se non avete altro bisogno di me, anderò con mio patrone.

            EROF. A tuo piacere.

SCENA SECONDA

VOLPINO, TRAPPOLA, BRUSCO servi.

            VOLP. (Io dovevo pure avere in memoria che rare volte il Trappola era usato a dire il vero: io son ben stato sciocco a lassarmelo tòr da canto fin che non l’abbia qui condotto. Se lui m’averà, come dubito, ingannato, nulla potrò far di quello che disegnato avevo. Ma eccolo, per Dio: la mia è stata più ventura che avertenza.)

            TRAP. È gran cosa, Brusco, che tu non sappia fare un servizio mai, di che l’uomo te n’abbia avere obligo.

            BRUSC. È maggior cosa, Trappola, che mai le tue faccende e del patrone non ti dieno da far tanto, che non te voglia impacciare sempre in quelle de li strani, e che niente t’appertengono.

            TRAP. Io non reputo strano Volpino, e che non mi appertenga di cercar sempre nòve amicizie, massimamente de’ giovini, quali intendo questo Erofilo essere, suo patrone.

            BRUSC. Se pur sei volenteroso de novi amici, te doveria parere assai d’acquistarli in tua fatica sola, senza travagliare e me e li altri che non hanno simile desiderio.

            TRAP. E che avevamo per oggi a fare altro?

            BRUSC. Provederci di pane e vino e altre cose necessarie per uso nostro in nave; che avendo noi a partire all’alba, non ci averemo più tempo.

            VOLP. (Se vengono più lieti, che ben paron de’ principi.) Io mi credevo, Trappola, che mi avessi ingannato.

            TRAP. M’incresce ch’abbi creduto il falso.

            VOLP. Tu vieni molto sul riposato.

            TRAP. Non è iusto che, dovendo di servo diventare uomo grave, impari un poco andar con gravità?

            VOLP. Chi lo doveria saper meglio di te, che la più parte de la tua vita hai fatta con ferri a’ piedi?

            TRAP. Non è bestia di sì duro trotto, che non pigliasse l’ambio, se ’l suo cavallaro sì benignamente li facesse portare le bolze, come a te tuo patrone i ceppi.

            VOLP. Andiamo, che non è più da tardare.


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

VOLPINO, TRAPPOLA servi, EROFILO

            VOLP. Prima che tu mi lassi, impara bene, sì che venir sappi con la femina qua, dove t’ho detto. Ricordati che, passato el portico che tu trovi su per questa contrada, è la terza casa a man ritta.

            TRAP. Me lo ricordo.

            EROF. Non serà meglio, perché non falli, che la meni qui sùbito e noi la conduciamo poi là?

            VOLP. Per nessun modo, che la potrebbe vedere alcuno vicino, e verrieno scoperte le insidie che al ruffiano si tendono.

            EROF. Tu di’ il vero.

            VOLP. È una porta piccola fatta di nuovo.

            TRAP. Tu me l’hai detto.

            VOLP. Lena si chiama la patrona de la casa.

            TRAP. L’ho a mente.

            VOLP. All’incontro v’è uno sporto di legname.

            TRAP. Va, non dubitare, ch’io vi saprò quasi venire sì ritto, come alla taverna.

            VOLP. Noi anderemo quivi ad aspettarti e faremo apparecchiare la cena intanto.

            TRAP. Fa che vi sia da bere in copia, che queste veste longhe m’han già messo sete.

            VOLP. Non te ne mancherà. Abbi el cervel teco, che questo ruffiano, che ha il diavolo in corpo, non s’avedesse.

            TRAP. Ah, ah, ah! chi vol insegnarmi a dir bugie, che prima in bocca l’ebbi, che tu le poppe!

            VOLP. Ora va, che prosperi succedino i disegni.

SCENA SECONDA

BRUSCO, TRAPPOLA servi.

            BRUSC. Spàcciati presto. Che avemo da fare altro anco questa sera?

            TRAP. Avemo da cenare e stare in gioia.

            BRUSC. Mi fiacchi el collo se, come ho posata giù questa cassa, t’aspetto un atimo.

            TRAP. Va poi a piacer tuo; ma taci, ch’io sento aprir quello uscio, che debbe essere questo el ruffiano, se io non fallo.

SCENA TERZA

LUCRANO ruffiano, TRAPPOLA

            LUCR. Meglio m’è uscire di casa, che queste cicale m’assordano, mi rompono el capo, m’occidono con ciancie. Voi farete a mio modo sin che vi serò patrone, al vostro marzo dispetto.

            TRAP. (Li altri hanno i segni di loro arti sul petto, e l’ha costui sul viso!)

            LUCR. Quanta superbia, quanta insolenzia han tutte queste gaglioffe puttane! Sempre cercano, sempre studiano di porsi al contrario de’ desiderii tuoi: mai non hanno el cor se non di rubarti, se non di usarti fraude, se non di mandarti in precipizio.

            TRAP. (Mai non udii alcuno altro lodar meglio una merce che voglia vendere!)

            LUCR. Io credo bene, se uno omo avessi tutti li peccati solo, che sono sparsi per tutto el mondo, e che tenessi come me femine a guadagno in vendita, e che tolerar possi la lor pratica senza gridare e bestemiare ogni dì mille volte cielo e terra, più meriterebbe di questa pazienzia sola, che di tutte le astinenzie, di tutte le vigilie, cilici e discipline che sieno al mondo.

            TRAP. (Credo ben che del tenerle in casa a te sia un purgatorio, a lor misere in starvi sia uno oscurissimo inferno. Ma andiamo inanzi.)

            LUCR. Costui che vien qua, deve essere pur ora smontato di nave, che si mena drieto el facchino carico.

            TRAP. — Non può star molto discosto: questa è pur la casa grande, all’incontro de la quale mi è detto che li abita. —

            LUCR. Non deve trovar albergo, per quel ch’io sento.

            TRAP. — Oh veggio a tempo costui, che mi saprà forse chiarire, perché non son qui molto pratico. — Dimmi, omo da bene.

            LUCR. Tu dimostri per certo di non esser molto pratico, che m’hai chiamato per un nome, che né a me né a mio padre né ad alcun del sangue mio fu mai più detto.

            TRAP. Perdonami, che non t’avevo ben mirato: io mi emenderò. Dimmi, tristo omo, d’origine pessima... ; ma, per Dio, tu sei quel forse proprio ch’io cerco, o fratello o cugin suo, o del suo parentado almeno.

            LUCR. Potrebbe essere; e chi cerchi tu?

            TRAP. Un baro, un pergiuro, uno omicidiale.

            LUCR. Va piano, che sei per la via di trovarlo. Come è il proprio nome?

            TRAP. El nome..., ha nome..., or or l’avevo in bocca: non so che me n’abbi fatto.

            LUCR. O ingiottito o sputato l’hai.

            TRAP. Sputato l’ho forse, ingiottito no, che cibo di tanto fetore non potrei mandare ne lo stomaco senza vomitarlo poi sùbito.

            LUCR. Coglilo adunque de la polvere.

            TRAP. Ben tel saprò con tanti contrasegni dimostrare, che non serà bisogno che del proprio nome si cerchi: è bestemmiatore e bugiardo.

            LUCR. Queste son de le appartenenzie al mio essercizio.

            TRAP. Ladro, falsamonete, tagliaborse.

            LUCR. È forse tristo guadagno saper giocare de terza?

            TRAP. È ruffiano.

            LUCR. La principal de l’arte mia.

            TRAP. Reportatore, maldicente, seminatore di scandali e di zizanie.

            LUCR. Se noi fussimo in corte di Roma, si potria dubitare di chi tu cercassi; ma in Metellino non puoi cercare se non di me, sì che ’l mio proprio nome ti vo’ ricordare anco: mi chiamo Lucrano.

            TRAP. Lucrano, sì, sì, Lucrano, col malanno.

            LUCR. Che Dio te dia. Son quel proprio che tu cerchi. Che vuoi da me?

            TRAP. Tu sei quel proprio?

            LUCR. Quel proprio. Di’, che vuoi?

            TRAP. Voglio che prima facci che costui si scarichi in casa tua, e poi dirò perché ti cerco.

            LUCR. Va dentro, e ponla colà dove ti pare. Olà, aiutalo a scaricarsi.

            TRAP. Essendo in Alessandria a questi giorni, lo Amiraglio, che m’è grande amico e può come patrone commandarmi, mi pregò che, venendo in questa città, come lui sapea che ero per venire di corto, da te comperassi a suo nome una tua giovane che ha nome Eulalia, la bellezza de la quale gli è stata molto da più persone laudata, che te l’hanno veduta in casa; e comperata ch’io l’avessi, per questo suo servitore, che ha mandato meco a posta, gliel’avessi a mandare incontinente. E perché parte questa notte un crippo che fa quella volta, desideroso di servirlo bene e presto, ti son venuto a ritrovare per far teco a una parola il mercato, sì che tu me la dia e che lui la possa inviare subito. Or fammi intendere ciò che ne domandi.

            LUCR. È ver che avevo saldato il pregio con un gran ricco di questa terra, che a me doveva tornare domane con denari, e menarsi la femina; tuttavolta, quando...

            TRAP. Tuttavolta, s’io ti do più, vuoi dire?

            LUCR. Tu intendi: questo è il mio offizio, di attendere a chi più mi dà sempre.

            TRAP. Ma andiamo in casa, perché non mancherò di accordarmi teco per il dovere.

            LUCR. Parli benissimo: andiamo dentro.

SCENA QUARTA

CORBACCHIO, NEGRO, GIANDA, NEBBIA, MORIONE

            CORB. Gentile e liberal giovane è Filostrato veramente.

            NEGRO Questi sono uomini da servire, che dànno da lavorar poco e da ber molto.

            CORB. E che merenda ci ha apparecchiata!

            MOR. Parliamo del vino, che m’ha per certo tocco il core.

            CORB. Non credo che ne sia un migliore in questa terra.

            MOR. Vedesti mai el più chiaro, el più bello?

            CORB. Gustasti mai tu el più odorifero, el più suave?

            GIAND. E di che possanza! Vale ogni denaio.

            CORB. N’avess’io questa notte uno orciuolo al piumaccio.

            GIAND. N’avess’io inanzi in mio potere la botte.

            MOR. Deh venisse ogni dì volontà al patrone di prestare la nostra opera a Filostrato, come ha fatto oggi.

            GIAND. Sì, se ci avessi ogni dì a far godere così bene.

            CORB. Io non so come per la parte vostra vi state voi: io per la mia così mi sento allegro, che mi par ch’io non possa capere ne la pelle.

            GIAND. Credo che siamo a un segno tutti.

            NEBB. Così ci fussimo quando tornerà il vecchio! Tutti al bere e al trangugiare siamo stati compagni: a me solo toccherà, come lui ritorni, a pagare il vino, e a patire.

            GIAND. Non ti porre affanno, bestia, del male che ancor non hai: non trar di culo prima che tu non sia punto. Che sai tu quel che abbia a venire?

            NEBB. Non son già profeta né astrologo; ma tu vedrai, come in casa siamo, che serà tutto successo come oggi ti predissi.

            GIAND. Io te l’ho detto oggi, e ora te lo ridico di nuovo, che ti cerchi di fare amico Erofilo, e vederai succeder bene i fatti tuoi. Se per obedire al vecchio tu perseveri di tenertelo odioso, tu l’averai sempre, o con pugni o con bastoni, sul viso e sul capo, e ti storpierà o ti occiderà un giorno, e tu n’averai el danno. Ma se, per compiacere al giovane, tu non serai così ogni volta al vecchio obediente, el vecchio, che è più moderato e più saggio, ti serà di lui più placabile sempre; e ben connoscerà quanto vaglia un par tuo per contrastare a un sì gagliardo cervello, come è quel del suo figliuolo. Io te parlo da amico.

            NEBB. Io connosco per certo che tu mi dici el vero, e son disposto ogni modo di mutar proposito; ma attendi.

            GIAND. Che?

            NEBB. Chi è costui che esce di casa del ruffiano e mena seco una de le fanciulle d’esso? Debbe averla comperata.

            GIAND. Mi par l’amica del patron nostro.

            NEBB. È quella senza fallo.

            CORB. È quella veramente.

            GIAND. Estobla, fermiamoci: ritraetevi qui tutti, che guardiamo dove la mena, acciò che ad Erofilo lo sappiamo ridir poi: zit.

SCENA QUINTA

TRAPPOLA, GIANDA, CORBACCHIO, MORIONE, NEBBIA, NEGRO servi.

            TRAP. — El Brusco s’è partito. Oh che asino indiscreto a lassarmi di notte qui solo con questo carriaggio a mano! —

            GIAND. Costui, per quel ch’io vedo, se ne mena Eulalia.

            CORB. O sventurato Erofilo!

            GIAND. Oh che affanno, oh che maninconia se ne porrà, come l’intende!

            TRAP. — Non pianger, bella giovane. —

            GIAND. Vogliàn ben fare?

            NEBB. Che?

            GIAND. Levarla a costui e menarla ad Erofilo.

            TRAP. — T’incresce così forte lasciar Metellino? —

            GIAND. Come se scosti un poco, leviamogliela.

            MOR. In che modo faremo?

            GIAND. Come si fa? con pugni e calci. Noi siamo cinque, e lui è solo.

            TRAP. — Non pianger per questo... —

            NEGRO Canchero a chi si pente.

            TRAP. — Che ti fo certa, che non ti menerò molto lontana. -

            NEBB. E se grida, non gli accorrerà tutta la vicinanza?

            GIAND. Sì, per Dio, che verrà a tempo!

            TRAP. — Tu non rispondi? —

            CORB. E chi è quello che senta gridar la notte, e vogliasi subito saltar su la via?

            TRAP. — Deh! non macchiare con queste tue lacrime sì polite guance. —

            GIAND. Adesso è, Nebbia, il tempo di farsi con sì gran benefizio (quanto serà, se ce aiuti) Erofilo amicissimo sempre.

            NEBB. Facciànlo; ma non si meni già in casa, che seremo connosciuti e aremo mal fatto.

            GIAND. E dove la merremo dunque?

            NEBB. Che so io?

            NEGRO Non si stia per questo: la potremo condurre a casa Chiroro de’ Nobili, che è tanto amico di Erofilo, et è il miglior compagno di questa terra.

            GIAND. Non si potea meglio pensare.

            TRAP. — Io sto tutto sospeso di andare a questa ora così solo: io non pensavo già che questo asino mi dovesse però lassare. —

            MOR. Voi lo terrete a bada con bone pugna e calci, et io e Corbacchio ce ne porteremo la giovane.

            GIAND. Or inanzi, e non più parole.

            TRAP. — Ohimè! che turba è questa che mi vien dreto? —

            GIAND. Férmati, mercatante.

            TRAP. Che volete voi?

            GIAND. Che roba è cotesta?

            TRAP. Tu te pigli strana cura: te n’ho io a pagare el dazio?

            GIAND. Tu non la déi avere denunziata alla dogana. Dove n’hai tu la bulletta?

            TRAP. Che bulletta? Questa non è merce da tòrne bulletta.

            GIAND. D’ogni merce s’ha a pagare dazio.

            TRAP. Di quelle da guadagno si paga, non di queste che son da perdita.

            GIAND. Da perdita ben dicesti, che tu l’hai persa. T’abbiàn pur colto in contrabando: lassa costei.

            CORB. Eulalia, andiamo a trovare Erofilo tuo.

            GIAND. Lassa, se non ch’io...

            TRAP. Così se assassinano i forestieri?

            GIAND. Se tu non taci, ti caccio li occhi.

            TRAP. Voi credete a questo modo, ribaldi?... Aiuto, aiuto!

            GIAND. Spezzali el capo, càvali la lingua.

            TRAP. A questo modo, traditori, m’avete tolto la mia femina?

            GIAND. Andiamoci con Dio, e lassamolo gracchiare.

            TRAP. Che farò, misero? Se dovessi ben morire, vo’ seguitarli per vedere ove la menano.

            GIAND. Se tu non ritorni, ti farò più pezzi di cotesta tua testaccia, che non si fe’ mai di vetro. Se tu ci pretendi aver ragione, làssati veder domani all’offizio de’ doganieri.

            TRAP. — Son mal condotto: m’han tolta la femina, m’hanno gettato nel fango, stracciato la veste e tutto pesto il viso. —

SCENA SESTA

EROFILO, VOLPINO, TRAPPOLA

            EROF. Costui per certo indugia molto a condurne costei.

            VOLP. Non venir più inanzi, che tu guasti ogni disegno nostro.

            TRAP. (Con che fronte poss’io comparir dove sia Erofilo?)

            EROF. Parmi vederlo là.

            TRAP. (Come potrò mai giustificarmi seco, che non creda...)

            VOLP. Esso è, per Dio.

            TRAP. (Che da mia voluntade, e non per forza, m’abbia lasciata Eulalia tòrre?)

            EROF. Ma non ha la giovane seco.

            VOLP. Né la cassa, che è molto peggio.

            TRAP. (Ah misero! non so che mi faccia.)

            EROF. Trappola, come? non hai avuto la mia Eulalia ancora?

            VOLP. Dove hai tu messa la cassa?

            TRAP. Avevo avuta Eulalia.

            EROF. Eulalia?

            TRAP. E ’nsin qui l’avevo condotta.

            EROF. Ahimè!

            TRAP. E qui son stato da più di venti persone assalito, in modo che me l’hanno tolta.

            EROF. Te l’hanno tolta?

            TRAP. M’hanno tutto pesto e lassato qui in terra per morto.

            EROF. T’hanno tolto la mia Eulalia?

            TRAP. Pur la sua m’aranno tolta! e non son molto di lungi.

            EROF. E per qual via se la portano?

            VOLP. Dove hai tu messa la cassa?

            EROF. Lassa che risponda a me, che questo importa più.

            VOLP. Importa pur assai più la cassa.

            TRAP. Quelli che m’hanno battuto, se ne vanno là.

            VOLP. Dove è la cassa?

            EROF. Che cess’io d’andarli drieto?

            TRAP. È in casa del ruffiano.

            VOLP. Dove vuoi tu gire? Che pensi tu di fare?

            EROF. O di morire o di aver la donna mia.

            VOLP. Ricordati, aspetta, che la cassa è in pericolo: attendasi qui prima, e poi...

            EROF. A che poss’io prima attendere, ch’al mio core, che all’anima mia?

            VOLP. Non andar, per Dio! Con chi sai tu che abbi a fare?

            EROF. Se hai paura, ti resta: io nulla stimo, perduta la mia Eulalia; la mia vita è quella.

            VOLP. El se n’è ito, et io vo’ seguitarlo in ogni modo, perché non lassi perdere la cassa. Aspettami qui tu in casa del patrone, che apresso alli altri danni tu non perdessi questa veste ancora. Bussa presto, ch’io veggio escire el ruffiano: presto, che non ti veggia meco. Non ti partire di qui sin che non torni.

SCENA SETTIMA

LUCRANO ruffiano, FURBA servo.

            LUCR. Non fu mai uccellatore più di me fortunato, che avendo oggi tese le panie a dui magri uccelletti, che tutto el dì mi cantavano intorno, a caso una buona e grassa perdice ci è venuta ad invescarsi. Perdice chiamo un certo mercatante, perché mi par che sia più di perdita che di guadagno amico. È costui venuto a comperare una mia femina, e ha fatto meco in dua parole il mercato: cento saraffi li ho domandati, e cento saraffi ha detto darmi; e perché non s’ha ritrovato avere alla mano il denaio, m’ha lassata una sua cassa pegno, che tutta d’ori filati è piena, che più di quindici volte tanto ben credo che vaglia: me l’ha aperta, e poi chiusa e sigillata, e portatosene la chiave, e dettomi, ch’io la serbi fin che mi porti el pregio convenuto. Questa e una occasione che sòl venire di rado, e s’io serò sì pazzo che fuggir la lassi, non la incontro mai più. S’io porto questa cassa altrove, io non serò mai più alla mia vita povero; e così ho deliberato fare; e così la simulazion, che facevo oggi di volermi di questa città partire, serà stata de la verità pronostico, perché mi vo’ con effetto partire all’alba. Né se potrà perciò questo mercatante da me chiamare ingannato, che prima che lo ricevessi in casa mia, non gli abbia fatto intendere che ero baro, giuntatore, ladro e pien d’ogni vizio; se pur s’è voluto poi di me fidare, se n’abbia il danno. Ma ecco il Furba a tempo. Si parte il legno questa notte, o quando?

            FURBA Non gli selasti col furbido in berta?

            LUCR. Trucca de bella al mazo de la lissa, e cantagli se vol calarsi de Brunoro, c’ho il fiore in pugno, e comperar vo’ il mazo.


ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

VOLPINO servo, solo.

            VOLP. Tante aversità, tante sciagure t’assagliono, misero Volpino, da tutti i canti, che se te ne sai difendere, te puoi dar vanto del migliore schermidore che oggi sia al mondo. O ria fortuna, come stai per opporti alli disegni nostri apparecchiata sempre! Chi averia possuto imaginarsi che, tolta che fussi di casa del ruffiano Eulalia, si avessi sì subito e sì scioccamente a perdere? La qual cosa non alli amori di Erofilo è contraria, come pericula che mai più non si possa avere la cassa. Io mi credevo che, tosto che fusse in poter nostro Eulalia, dovesse Erofilo ire a querelarsi al Bassà de la terra, e seguir tutto che oggi ordinammo; e son rimaso del mio credere ingannato, però che lui, solo intento a spiare de la femina tolta, va di là di qua tutta la città scorrendo; né le mie suasioni o prieghi, né il proprio periculo di perdere la cassa, che val tanto, lo ponno indurre a quel che non facendo, oltra la disfazione e ruina de suo patre e sua, si suscita una continua guerra in casa, e a me tormenti e perpetua carcere apparecchia, e forse morte ancora. Da questo infortunio, benché sia gravissimo, mi saprei forse difendere, s’io avessi tanto spazio che vi pensassi un poco: n’avessi tanto ch’io potessi respirare almeno! Ma si da un canto mi occupa il dubbio che con la cassa il ruffiano non si fugga questa notte, da l’altro uno improviso timore ch’el vecchio patrone non ci sopragiunga, e mi cogli e mi opprima in guisa che io non abbia tempo da comperarmi uno capestro con che mi impicchi per la gola, ch’io non so dove mi corra a rompere questo infortunato capo. Un servo da Calibassa or ora m’ha trovato, e dettomi che el vecchio mio non è uscito del porto, però che in quel punto che era per sciorsi, arrivò da Negroponte un legno con lettere, che l’hanno così raguagliato d’ogni faccenda per che lui andava, che non gli è stato bisogno di gire più inanzi; e si maraviglia che già non fussi a casa, e che veduto io non l’avessi. Se non ch’io non gli do pur piena fede, or ora, senza uno atimo indugiare, andarei con quella maggior fretta che portar mi potessino le gambe, ad affogarmi in mare. Ma che lume è questo che di là viene? Ohimè, che non sia el vecchio? Ahi lasso! è il patron certo. Tu sei morto, Volpino! Che farai, misero? Dove ti puoi tu nascondere? Donde precipitarti sùbito, per levarti da tanti supplizii che ti si apparecchiano?

SCENA SECONDA

CRISOBOLO vecchio patrone, VOLPINO, GALLO servi.

            CRISOB. Tanto mi sono, senza avedermi, indugiato in casa del Plutero, che è fatto notte; però non ho perduto el tempo, ch’i’ ho risaldato alcuni miei conti con esso lui, e ho fatto una opera che lungamente ho desiderato di finire.

            VOLP. (Ah vile e pusillanimo Volpino! Dove è ita l’audacia, dove è l’usato tuo ingegno? Tu siedi al governo di questa barca, e serai el primo che sbigottir ti lassi da sì piccola tempesta? Caccia ogni timor da parte, e móstrati qual ne’ periculosi casi sei solito d’essere: ritruova l’antique astuzie, e qui le poni in opera, che ci hanno più bisogno che in altra tua impresa avessino mai.)

            CRISOB. È per certo più tardi assai ch’io non pensai.

            VOLP. (Anzi molto più per tempo che non era il mio bisogno. Ma venga pur, venga a sua posta, che apparecchiata ho già la tasca da farli il più netto e il più bel giuoco di bagattelle ch’altro maestro giocasse mai.)

            CRISOB. O come è stata buona sorte la mia, che non abbia bisognato partir di Metellino al presente!

            VOLP. (Trista altrettanta è stata la nostra.)

            CRISOB. Che lassare i miei traffichi e la roba mia a discrezione d’un prodigo giovane, qual è el mio Erofilo, e di schiavi senza fede, non ero sicuro molto.

            VOLP. (Ben t’apponesti.)

            CRISOB. Ma serò tornato così presto, che non arà auto pur tempo di pensar, non che di farmi danno.

            VOLP. (Te n’avedrai: se fussi corso più che pardo, non potevi giugnere a tempo. Ma che cesso io di cominciare il giuoco?) Che faremo, sciagurati noi? Distrutti e ruinati semo.

            CRISOB. Non è Volpino che grida costà?

            GALLO Così parmi.

            VOLP. O città scelerata e piena di ribaldi!

            CRISOB. Debbe alcun male essere accaduto, ch’io non so.

            VOLP. O Crisobolo, di che animo serai tu, come lo sappi?

            CRISOB. O Volpino.

            VOLP. Ma merita questo e peggio chi più si fida d’un schiavo imbriaco, che del suo figliuol proprio.

            CRISOB. Io tremo e sudo di paura che qualche grave infortunio non mi sia incontrato.

            VOLP. Lassa cura de la tua camera, di tanta roba piena, a una bestia senza ragione, che sempre la lassa aperta, e mai non si ferma in casa.

            CRISOB. Cesso io di chiamarlo? O Volpino.

            VOLP. Se questa notte non si ritrova, è totalmente perduta.

            CRISOB. Volpino, non odi tu? Volpino, a chi dico io?

            VOLP. Chi mi chiama? Oh è il patrone, è il patron, per Dio!

            CRISOB. Vieni in qua.

            VOLP. O patron mio, che Dio t’abbia...

            CRISOB. Che ci è di male?

            VOLP. Menato or qui?

            CRISOB. Che hai tu?

            VOLP. Ero disperato, né sapevo a chi ridurmi.

            CRISOB. Che è incontrato?

            VOLP. Ma poi ch’io ti veggio, o signor mio...

            CRISOB. Di’, che ci è?

            VOLP. Comincio a respirare.

            CRISOB. Di’ su presto.

            VOLP. Ero morto, ahimè! ma ora...

            CRISOB. Che è stato fatto?

            VOLP. Ritorno vivo.

            CRISOB. Dimmi in somma, che ci è?

            VOLP. El tuo Nebbia...

            CRISOB. Che ha fatto?

            VOLP. Quel ladro, quell’imbriaco...

            CRISOB. Che cosa ha fatto?

            VOLP. Apena posso trarre il fiato, tanto son tutto oggi corso di giù e di su.

            CRISOB. Di’ a una parola: che ha fatto?

            VOLP. T’ha ruinato per sua sciocchezza.

            CRISOB. Finiscimi d’occidere; non mi tener più in agonia.

            VOLP. Ha lassato rubare...

            CRISOB. Che?

            VOLP. De la tua camera propria, di quella ove tu dormi...

            CRISOB. Che cosa?

            VOLP. Di che a lui solo hai date le chiavi, e tanto gliele raccomandasti...

            CRISOB. Che ha lassato rubare?

            VOLP. Quella cassa che tu...

            CRISOB. Qual cassa ch’io...?

            VOLP. Che per la lite che è tra Aristandro e... come ha nome?

            CRISOB. La cassa che io ho in deposito?

            VOLP. Non l’hai, dico, che è stata rubata.

            CRISOB. Ah misero e infelice Crisobolo! Lassa or cura de la tua casa a questi gaglioffi, a questi poltroni, a questi impiccati! Potevo non meno lassarvi tanti asini.

            VOLP. Patron, se trovi la cucina mai in punto, di che hai lassata a me la cura, castigame, e famme portar supplizio; ma de la tua camera, che ho da far io?

            CRISOB. Questa è la discrezion di Erofilo? questo è l’offizio di un buon figliuolo? ha così pensiero e sollecitudine de le mie cose e sue?

            VOLP. A parlar per diritto, a torto te corucci con lui. E che diavol di colpa n’ha lui? Se gli lassassi el maneggio e governo de la tua casa, come fanno li altri padri a’ lor figlioli, e’ faria el debito, se ne piglierebbe lui cura, e forse n’anderebbon le tue cose meglio. Ma se più te fidi d’un imbriaco, d’un fuggitivo servo, che del tuo proprio sangue, e che te n’avenga male, non hai di che dolerti più iustamente che di te medesimo.

            CRISOB. Io non so che mi faccia: io sono il più ruinato e disfatto uomo che sia al mondo.

            VOLP. Patron, poi che ti ritrovi qui, ho speranza che non serà la cassa perduta, e Dio t’ha ben fatto tornare a tempo.

            CRISOB. E come? Hai tu nessuna traccia per la quale la possiamo trovare?

            VOLP. Tanto mi sono oggi travagliato, e tanto sono ito come un cane a naso, or di qua or di là, che credo saperti mostrare ove è la roba tua.

            CRISOB. Se lo sai, perché non me l’hai già detto?

            VOLP. Non dico che lo sappia, ma credo di saperlo.

            CRISOB. Dove hai tu sospetto?

            VOLP. Tìrati un poco più in qua; ancor più, che tel dirò. Vieni anco più in qua.

            CRISOB. Che temi tu che n’oda?

            VOLP. Colui che credo che l’abbia rubata.

            CRISOB. Abita qui presso dunque?

            VOLP. In questa casa abita.

            CRISOB. Che? credi tu questo ruffiano che abita qui, l’abbia rubata?

            VOLP. Lo credo, e ne son certo.

            CRISOB. Che indizio n’hai?

            VOLP. Ti dico che n’ho certezza; ma, per Dio, non perder tempo in voler ch’io ti narri per che via, con qual fatica, con quanta arte io sia venuto a certificarmi di ciò, perché ogni indugio è periculoso troppo, che te so dire che s’ apparecchia di fuggirsene all’alba el ladroncello.

            CRISOB. Che ti par ch’io faccia? che sì oppresso mi veggio all’improviso, ch’io non so dove mi volga.

            VOLP. Mi par che andiamo subito al Bassà, e che a lui facci intendere che uno ruffiano tuo vicino t’ha rubato una tua cassa, con la quale s’apparecchia di fuggire; e che lo prieghi che non te manchi di iustizia, e che mandi teco alcuno de li suoi a cercare la tua roba, perché te credi ancor l’abbia il ruffiano in casa.

            CRISOB. Che indizio, che prova gli saprò dar io per farli constare che sia così?

            VOLP. Non è buono indizio che, essendo ruffiano, non sia ladro ancora? E dicendolo, non ti serà creduto più che a dieci altri testimoni?

            CRISOB. Se non aven meglio di cotesto, siàn forniti. A chi dànno più credito i gran maestri in questo tempo, e più favore, che alli ruffiani? e chi più beffano, che gli uomini costumati e da bene? a chi tendono più insidie, che alli miei pari, che hanno fama d’esser ricchi e denarosi?

            VOLP. Se ve vengo io, darò bene al Bassà tali indizi e conietture e prove, che non potrà, se ben volesse, negare di crederti; che a te le lasso di narrare per non indugiar più. Andian più presto e studiamo el passo, che, mentre tardiamo a dir parole, non ci facesse il ruffian la beffa.

            CRISOB. Andiamo, che... Deh férmati, che m’è venuto in animo di far meglio.

            VOLP. Che meglio puoi tu far di questo?

            CRISOB. Rosso, corri qui in casa di Critone, e pregalo da mia parte che venga a me sùbito, e meni seco o suo fratello o qual vogli altro de’ suoi domestici. Corri, dico: te aspetto qui, vola.

            VOLP. Che ne vuoi fare?

            CRISOB. Vo’ intrare improvviso in casa del ruffiano. Non poss’io, avendo uno o dua testimoni degni di fede apresso, tòr la roba mia dovunque io la ritrovi? Se per parlare al Bassà andassimo ora, seria l’andata vana: o che trovassimo che cenar vorrebbe, o che giocarebbe o a carte o a dadi, o che stanco da le faccende del giorno si vorria stare in ozio. Non so io l’usanza di questi che ci reggono, che quando più soli sono e stannosi a grattar la pancia, vogliono demostrare aver più occupazione: fanno stare un servo alla porta, e che li giuocatori, li ruffiani, li cinedi introduca, e dia agli onesti cittadini e virtuosi uomini repulsa?

            VOLP. Se gli facessi intendere de l’importanza che fusse il tuo bisogno, non ti negarebbe audienzia.

            CRISOB. E come se li farebbe intendere? Non sai tu come li uscieri e portinari usano a rispondere? — Non se gli pò parlare. — Digli che sono io. — Ha commesso che non se gli faccia imbasciata. — Come t’hanno così risposto, non pò’ replicarli altro. Ma farò pur così, che serà meglio e molto più sicuro, pur che la cassa vi sia.

            VOLP. Ve è senza fallo; sì che éntravi sicuramente, e hai pensato benissimo.

            CRISOB. Intanto che aspettiamo Critone, dimmi un poco: quando e come ti accorgesti che fusse rubata la cassa, e con che indizi se’ venuto a cognizion che l’abbi avuta questo ruffiano?

            VOLP. Seria lunga diceria, né averemo tempo. Andiamo a trovare la cassa prima, che ben ti conterò ogni cosa poi.

            CRISOB. N’averemo d’avanzo; e se non mi pòi fornire el tutto, fa che ne sappi parte.

            VOLP. Comincerò, ma so che non te ne dirò la metade, che non ci serà tempo.

            CRISOB. Me n’averesti già detto un pezzo: or di’ su.

            VOLP. Poi che vuoi ch’io tel dica, tel dirò: or odi. Oggi, dapoi che avemo desinato d’un pezzo, e già tuo figliuolo era tornato a casa (che mangiò fuora), venne il Nebbia a trovare Erofilo, e gli portò la chiave de la tua camera, senza che gli fussi chiesta da alcuno.

            CRISOB. Buon principio questo fu de obedirmi! Quello appunto che gli avevo commesso!

            VOLP. Egli disse: — Io voglio andar sino alla piazza per una mia faccenda: fa serbar, fin ch’io torni, questa chiave. — Erofilo, senza altrimenti pensarvi, la piglia: el Nebbia va fuor di casa, né mai più è ritornato.

            CRISOB. Ancor m’ha in questo assai bene obedito; e perché io non gli avevo espressamente commesso che non si partisse di casa mai!

            VOLP. Tu vedi! Stiamo così un pezzo ragionando d’una cosa e d’un’altra: venimo a dire, come parlando accade, di andare uno giorno a caccia. In questo venne Erofilo a ricordar d’un corno che soleva avere e che già molti giorni non l’aveva veduto; e gli venne voluntà di cercare se fusse ne la tua camera. Tolle la chiave, apre l’uscio, io gli vo drieto: ne l’entrare fu primo tuo figliuolo, che s’avide non v’era la cassa; a me si volta, e dice: — Volpino, ha mio patre, che tu sappi, restituita la cassa di Aristandro, che tanti giorni ha tenuto in deposito? — Io guardo, e tutto resto attonito, e gli respondo che no; e certo mi ricordo che, quando ti partisti, la vidi a capo al letto, ov’era solita di stare. In un tratto m’aveggio de la sciocca astuzia del tuo Nebbia, che tosto che s’ha veduto mancar la cassa, ha portato la chiave de la camera ad Erofilo per farlo participe de la colpa, che è tutta sua. Pigli tu, come io voglio inferire?

            CRISOB. Intendo. Ah ribaldo! s’io vivo...

            VOLP. Fa il sciocco; ma è malizioso più che ’l diavolo. Tu non lo connosci bene.

            CRISOB. Séguita.

            VOLP. Or, come io te dico, patron mio caro, Erofilo et io, veduto questo, essaminamo e tra noi discorremo chi la possa aver tolta. Io dimando el suo parere ad Erofilo, Erofilo a me domanda il mio; che dovemo fare, che via tenere per venire a qualche notizia: consigliamo e masticamo un pezzo: non sapemo ove ricorrere, dove battere il capo. O patron mio dolce, dapoi ch’io nacqui non fui mai nel maggiore affanno, nel maggior travaglio mai. Io m’ho trovato oggi a tal ora così di mala voglia, così desperato, che desideravo e che averei avuto di somma grazia d’esser morto, anzi di non esser mai nato. Ma ecco Critone col fratello Aristippo: io ti narrerò questa cosa più ad agio.

            CRISOB. Non m’hai con tutte queste ciancie produtto alcuno che ’l ruffiano, più che altri, abbi avuta la mia cassa; né so con che speranza di ritrovarla io debbi intrarli in casa.

            VOLP. Entrali sicuramente, e se non ve la trovi, impiccami, ch’io tel consento. S’io non avessi più che certezza, non ti direi che tu v’entrassi.

SCENA TERZA

CRITONE, CRISOBOLO mercanti, VOLPINO servo.

            CRIT. Per tutto son ladri, ma più in questa terra che in altro loco del mondo. Come possemo noi mercatanti avere animo di andare a torno, se ne le nostre proprie case non siamo sicuri? O Crisobolo, Dio ti guardi: siamo qui per farti, ove possiamo, benefizio.

            CRISOB. Ben m’incresce di sconciarvi a quest’ora: a voi toccherà un’altra volta el commandarmi.

            CRIT. Non accadeno fra noi queste parole, che vorremmo far per te ogni gran cosa.

            CRISOB. Voi serete contenti di venir meco in questa casa, et essermi testimoni di quel che fare vi voglio.

            CRIT. In questo e in maggior servizio puoi commandarmi.

            CRISOB. Non più parole: andiamo.

            CRIT. Andiamo.

            VOLP. Stendetevi lungo el muro, e nascondasi el lume, e lassate bussare a me; e come aprano, intrate tutti. Io tenerò la porta, a ciò, mentre voi cercaste in un cantone, non levasse da un altro il ruffiano la cassa e la mandasse altrove.

            CRISOB. Bussa, e fa come ti pare.

SCENA QUARTA

FULCIO, VOLPINO servi.

            FULC. Sono alcuni avantatori che frappano e bravano di far cose che, quando poi si viene alla prova, non ardiscono tentarle; fra li quali è questo briaco Volpino, che disse oggi di far per mezo d’un suo amico al ruffiano un giunto d’una sua femina il più bello e meglio disegnato del mondo, e che poi verrebbe avisarne d’ogni successo, a ciò che noi fornissimo quel resto, a chi non poteva lui inanzi. Siamo Caridoro et io stati tutta sera alla posta, né ancor n’aviamo udita novella. Io vo per saper se ha mutato proposito, o pur se qualche impedimento gli è venuto in mezo.

            VOLP. (Io sento venire uno in qua: par che lui vadi per battere alla porta nostra.) Olà, che cerchi? Chi domandi tu?

            FULC. O Volpino, io non cerco, io non domando altri che tu.

            VOLP. Io non te avevo, Fulcio, connosciuto. Che vuoi?

            FULC. Che si fa? Avete mutato consiglio? O pur non vi ricordate di quel che dicemo oggi?

            VOLP. O Fulcio, il diavol ci ha messo il capo con tutte le corna, e non pur, come si dice, la coda, per guastare i nostri ordini in tutto.

            FULC. Che ci è di male?

            VOLP. Tel dirò, ma... taci, taci.

            FULC. Che turba è questa che con tanto romore e strepito esce di casa el ruffiano?

SCENA QUINTA

LUCRANO ruffiano, CRISOBOLO, VOLPINO, CRITONE

            LUCR. Si fa così a’ forestieri, omo da bene, eh?

            CRISOB. Si fa così a’ cittadini, ladro, eh?

            LUCR. Non passerà come tu pensi: me ne dorrò sino al cielo.

            CRISOB. Io non anderò già tanto alto a dolermi, ma bene in loco ove la tua scelerità serà punita.

            LUCR. Non ti persuadere, perch’io sia ruffiano, ch’io non debba essere udito...

            CRISOB. Ancora ardisci a parlare?

            LUCR. E che non abbia lingua a dire le ragion mie.

            CRISOB. Cotesta ti farà il capestro uscire un palmo de la bocca. Che audacia arebbe se in casa nostra avesse ritrovato il suo?

            LUCR. Porrommi, e farò porre quanti n’ho in casa al tormento, e farò constare a qual voglia giudice, che la cassa m’ha data pegno un mercatante per lo prezzo d’una mia femina, come v’ho già detto.

            CRISOB. Ancor apri la bocca, ladron manifesto?

            LUCR. E chi più di te manifesto, che mi vieni a rubare, e ne meni li testimoni teco?

            CRISOB. Se non parli cortesemente, ti farò, giotton...

            CRIT. Non gridar con questa cicala, che non è convenevole a un par tuo: andiamo. Se tu pretendi che ti si faccia torto, làssati veder in palazzo domane. Andiamo.

            LUCR. Mi vedrete, siatene sicuri: non anderà, non, per Dio, come vi credete forse. (Ma or son troppi, et io son solo: ben ci rivedremo in loco dove non averanno sì gran vantaggio.)

            CRISOB. Vedesti voi mai el più audace e presuntuoso ladro di costui?

            CRIT. Non veramente. Gran ventura hai avuta, Crisobolo, che mi piace.

            CRISOB. La maggior del mondo.

            CRIT. Vòi altro da noi?

            CRISOB. Che di me, dove io possa, vi degnate servirvi. To’, Volpino, quel lume, e ritórnagli a casa.

SCENA SESTA

FULCIO, VOLPINO, CRITONE, ARISTIPPO

            FULC. Vòi ch’io t’aspetti, Volpino?

            VOLP. Voglio, che ho da ragionare un pezzo teco.

            FULC. Ritorna presto.

            VOLP. Serò qui sùbito; ma meglio è che venga tu ancora.

            FULC. Vai lontano?

            VOLP. Vo allato questo canto, alla prima casa.

            FULC. Verrò anch’io.

            VOLP. Vien, che torneremo insieme ragionando. Oh diavolo!

            FULC. Che ti rompa ’l collo. Che hai tu?

            VOLP. Io son ruinato, io son disfatto.

            FULC. Che hai de novo?

            VOLP. To’ questo lume, et accompagna questi gentiluomini a casa. Maladetta la mia sì poca memoria!

            FULC. Tenetelo voi, e fatevi lume voi stessi, che voglio ciò che di novo a questo pazzo accade intendere.

            CRIT. Bon servitori tutti dua sète, e cortesi giovini per certo!

            ARIST. Converrà che facciamo come i cavalieri da Napoli, che se dice s’accompagnan l’un l’altro.

            FULC. Che hai tu, bestia? Che t’è accaduto di fresco?

            VOLP. Ahi lasso! ch’io ho lassato il Trappola in casa con li panni del mio vecchio indosso, e non mi son ricordato, prima che arrivi el patron, di correre a dispogliarlo, e rendergli il suo gabbano, che serrai ne la mia stanza.

            FULC. Ah trascurataccio! va subito e fallo nascondere, che non lo veda Crisobolo almeno.

            VOLP. Io farò tardi; e tardi ben son stato, che sento il rumore e ’l strepito grande.

SCENA SETTIMA

CRISOBOLO, VOLPINO, TRAPPOLA

            CRISOB. Dove ti credi fuggire? Sta saldo, viso di ladro. Onde hai tu rubata questa mia veste?

            VOLP. (Che farai più, sciagurato Volpino?)

            CRISOB. Tu déi esser quell’uom da bene che m’avea rubata la cassa ancora.

            VOLP. (Oh, me gli potessi accostare all’orecchio un poco!)

            CRISOB. Tu non rispondi, truffatore? A chi dico io? Aiutatemi, che non mi fugga. Tu non vuoi parlare, eh? Costui è mutolo, o che lo finge.

            VOLP. (Non potea all’improviso infortunio trovar miglior riparo: ora è da soccorrergli.) Patron, che hai a far col mutolo?

            CRISOB. Ho trovato costui ne la cucina vestito alla guisa che tu vedi.

            VOLP. Chi diavolo ha condotto questo mutolo in cucina?

            CRISOB. E non gli posso far rispondere una parola.

            VOLP. E come vuoi, se è mutolo, che risponda?

            CRISOB. È mutolo costui?

            VOLP. Che? non lo connosci?

            CRISOB. Non lo vidi mai più.

            VOLP. Tu non lo connosci? il mutolo che sta ne la taverna de la Simia?

            CRISOB. Che mutolo? che simia vuoi tu ch’io connosca? A tuo dire, parrebbe ch’io andassi, manigoldo, alla taverna.

            VOLP. Mi par che abbia indosso la tua veste; sì, ben la riconnosco.

            CRISOB. E di che mi coruccio io?

            VOLP. È lo tuo capello in capo?

            CRISOB. Mi par che abbia del mio sino alle scarpe.

            VOLP. È così, per Dio: questa è la più strana pratica del mondo. Non gli hai tu domandato chi l’ha del tuo sì messo in punto?

            CRISOB. Che vuoi tu ch’io gli domandi, se non mi sa rispondere, e s’egli è mutolo?

            VOLP. Fa che tu l’accenni. Ma lassa domandarlo a me, che lo soglio intendere non meno ch’io faccia te.

            CRISOB. Domandalo.

            VOLP. Chi t’ha dato la veste del patrone? Cotesta, cotesta donde l’hai avuta?

            CRISOB. (Questo pazzo ragiona con le mani, come fanno li altri con la lingua.) Sai tu che dica?

            VOLP. Chiaro accenna che uno qui di casa gli ha tolti i suoi panni, e che gli ha lassati questi fin che torni, e per ciò l’attendeva egli.

            CRISOB. Un qui di casa? Deh fa, se sai, che te accenni qual di casa è stato.

            VOLP. Farollo. Eh!

            CRISOB. (Io gli guaterei cento anni alle mani e non saperei un minimo construtto cavarne.) Che vol dire quando leva la mano, e che si tocca or il capo or il volto?

            VOLP. Mostra che è stato un grande, asciutto, che ha grosso il naso, et è canuto, e che parla in fretta.

            CRISOB. Io credo che voglia dire il Nebbia, ch’altro non è in casa così fatto. Ma come sa che parla in fretta? Adunque ode costui?

            VOLP. Non ho detto che parla in fretta, ma che partì in fretta. Vol dire ch’è ’l Nebbia senza fallo: tu l’hai più presto inteso, che non ho io.

            CRISOB. Che ha voluto fare quel pazzo a tòrre i panni di questo mutolo?

            VOLP. Or m’appongo perché: poi che s’ha veduto mancare la cassa, si debbe esser fuggito, e per non esser connosciuto, si serà d’abito mutato.

            CRISOB. Perché non ha più presto lassato a costui li suoi panni, che li miei?

            VOLP. Che diavol so io? Non connosci tu come è pazzo?

            CRISOB. Menalo tu in casa, e dàgli qualche tabarro vecchio, che non macchiasse la mia veste.

            VOLP. Lassane la cura a me.

            CRISOB. (Potrebbe essere anco altrimenti. Sì, potrebbe in verità: non è da credere a questo Volpino ogni cosa, che non è però evangelista.) Non andare: aspetta, Volpino. Non ci disse il ruffiano che gli aveva data la cassa un mercatante? e non ce lo dipinse, se ben mi ricordo, vestito in questo modo proprio?

            VOLP. Te vuoi fondare in le ciancie di quel ribaldo?

            CRISOB. Né miglior terreno sei ancor tu, dove io mi fondi. Io farò altrimenti. Rosso, Gallo, Marochio, tenete costui, e legatemelo.

            VOLP. Perché così?

            CRISOB. Al Subassi vo’ mandarlo, che con la corda provi se può guarirlo, sì che parli.

            VOLP. Non so io s’egli è mutolo? Pur, se ti pare che finga, el menerò al ruffiano; e se serà il mercatante di che dubiti, lo connoscerà di botto.

            CRISOB. Io non vo’ altro mezo in questo. Spacciatevi, e se non avete altro, spiccate la fune del pozzo. Legali le mani dietro; ma levali, col malanno, prima la mia veste.

            TRAP. Escusami, Volpino, fin che altro non ho sentito che parole, t’ho voluto servire...

            VOLP. (Ahimè!)

            TRAP. Ma per te non voglio esser né storpiato né morto.

            CRISOB. O beata fune, anzi miracolosa, che sì ben risani i mutoli! Chi te la ponesse alla gola, Volpino, credi tu che ti sanasse del giotto? Or rispondimi tu: chi t’ha dato li miei panni?

            TRAP. Tuo figliuolo e costui mi vestirno oggi così.

            CRISOB. A che effetto?

            TRAP. Per mandarmi a pigliare una femina di casa un ruffiano.

            CRISOB. Fusti tu quel che vi recasti la mia cassa?

            TRAP. Con una cassa mi vi mandorno, che avessi a lassarvi pegno, e così feci.

            CRISOB. A questo modo, Volpino, tu hai auto audacia di porre in mano d’un fuggitivo ruffiano a tanto pericolo la roba mia; e dare a mio figliuolo, che sì t’avea raccomandato, così buon consiglio; e farti beffe di me, et aggirarmi il capo come io fussi il maggior sciocco del mondo? Non te ne vanterai, per Dio. Lassate cotesto, e legatemi quel traditore.

            VOLP. O patrone, tuo figliuolo m’ha sforzato a fare così: tu me gli lassasti per servo, non per curatore o maestro.

            CRISOB. S’io non morrò in questa notte, io darò per te uno essempio a quest’altri, che non ardiranno usarmi fraude mai più.

            VOLP. O signor mio!...

            CRISOB. Io t’insegnerò, scelerato. Vieni tu ancor dentro, che tutta questa pratica vo’ sapere a pieno.

SCENA OTTAVA

FULCIO servo, solo.

La cosa va mal per noi, ma per Volpino va peggio. Come la mutabil Fortuna ha sozopra il tutto riversato, che sì prospera n’avea sequito un pezzo, e non ce averia lassati ancora, se non l’avessi arrestata la poca memoria di questo sciocco! Io non so che altro mi far meglio, che confortare Caridoro a levarse da l’impresa; che, poi che a satisfarli in l’amorosi desiderii non son buono, serò forse a persuaderli quel che saria l’utile, l’onore e la quiete sua. Deh, che farò per questo? Che gli potrà giovare le mie parole? Nulla, per Dio: a pericolosa disperazione lo trarran, più presto che lo riduchino a ragione, se ne la mal condotta invenzion di Volpino serà con troppa baldanza el misero fermato! Oltra ciò, se per mio mezo non ha venire a buon fine di sì bramato intento, non mi serà grande e perpetua infamia? Parrà che io non sappia ordire astuzia, se non ho sempre Volpino a lato che m’insegni; e de quante n’ho per adietro a buon porto condotte, s’io manco in questa or che son solo, n’averà tutta la gloria Volpino. Guardimi Dio che io sia tenuto suo discepolo, e ch’io mi lassi imprimere sì brutta macchia in viso! Che farò dunque? Io farò bene... Come farò? Io farò..., non è buono, verria scoperto... Che s’io vo’ per un’altra via?... e per quale? per questa... serà il medesimo. Tentian quest’altra, è meglio forse; non è; è pur manco male; tanto è. Ma chi gli giungessi questo uncino? ... Saria forse buona: serà buona per certo, serà ottima, serà perfetta. Io l’ho trovata, io l’ho conclusa; così vo’ fare e reuscirà netta; e mostrerò che non sono il discipulo, ma il maestro de’ maestri. Or su, me movo con uno essercito di menzogne, per dare el primo guasto a questo ruffiano avaro. Così, Fortuna, mi sii favorevole, che se mi riesce il disegno, ti fo voto di stare imbriaco tre giorni. Ma ecco che li miei prieghi essaudisce, che mi manda lo inimico disarmato incontra.

SCENA NONA

LUCRANO ruffiano, FULCIO

            LUCR. (Quanto più differisco a lamentarme, fo le mie ragion deboli. Io stavo aspettando el Furba, perché venisse meco; ma poi che non appare, me n’anderò pur solo.)

            FULC. O Dio, ch’io ritrovi Lucrano in casa...

            LUCR. (Costui mi nomina.)

            FULC. A ciò che io gli avisi de la ruina che gli viene adosso...

            LUCR. (Che dice costui?)

            FULC. Sì che se salvi la vita almeno...

            LUCR. (Ahimè!)

            FULC. Benché, se gran ventura non l’aiuta, spacciato lo veggio.

            LUCR. Non bussar, Fulcio, ch’io son qui, se tu mi cerchi.

            FULC. O infelice, o sciagurato Lucrano, che fai tu qui? Perché non fuggi?

            LUCR. Ch’io fugga?

            FULC. Ché non te nascondi? ché non te levi del mondo? Poveretto, fuggi.

            LUCR. Perché vòi ch’io fugga?

            FULC. Tu serai impiccato sùbito sùbito sùbito, se te ritrovano.

            LUCR. Chi me farà impiccare?

            FULC. El Bassà mio signore. Fuggi, te dico: ancor ti stai? fuggi, misero.

            LUCR. E che ho fatto io, che meriti la forca?

            FULC. Hai rubato Crisobolo el tuo vicino.

            LUCR. Non è così.

            FULC. E egli t’ha ritrovato in casa con testimoni il furto. Et ancora t’indugi? Fuggi presto, fuggi: che fai?

            LUCR. Se vorrà intendere il Bassà le ragion mie...

            FULC. Non perder tempo in ciancie, pover omo; fuggi col diavol, fuggi; che non è venti braccia lungi el bargello, che ha commissione di subito impiccarte, e mena il boia seco. Fuggi, diléguati presto.

            LUCR. Ah Fulcio, mi ti raccomando: io t’ho amato sempre, poi ch’io ho avuta tua connoscenzia, e studiato di farti, ove ho possuto, piacere.

            FULC. E per questo son venuto ad avisarte.

            LUCR. Io te ringrazio.

            FULC. Che se ’l mio patron lo sapesse, mi farebbe impiccar teco; ma fuggi e non gracchiar più.

            LUCR. Ahimè, la casa e la roba mia!

            FULC. Che casa? che roba? fuggi col malanno.

            LUCR. E dove debb’io fuggire?

            FULC. Che so io? Ho fatto il mio debito un tratto: se sei impiccato, tuo danno; già non voglio esserti impiccato appresso.

            LUCR. Ah Fulcio! ah Fulcio!

            FULC. Non mi nomare, che sia squartato! che non te oda alcuno, che non rapporti al mio signore ch’io t’abbi avisato.

            LUCR. Non mi lassar, di grazia; mi ti raccomando.

            FULC. Alle forche ti raccomando. Non vorrei, per quanto vale el mondo, che al Bassà fusse detto che io t’avessi parlato.

            LUCR. Ah, per Dio! odi una parola.

            FULC. Non è tempo ch’io aspetti, che mi pare non so che sentire, e son certo ch’è il bargello.

            LUCR. Io verrò teco.

            FULC. Non venir; fuggi altrove.

            LUCR. Sì, verrò pure.


ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

FULCIO, EROFILO, FURBA

            FULC. E con queste, e con altre parole e gesti, che mi sono benissimo successi, posi tanta paura a quel sciocco, che per tutta la città me l’ho fatto correr dietro: d’ogni poco suono ch’udiva, più che foglia tremava, che sempre el bargello e la sbirraria li pareva avere alle spalle.

            EROF. Maravìgliomi come, sapendosi di tale imputazione, come pur la verità, innocente, non ha avuto animo da presentarse.

            FULC. Come animo da presentarse? S’io gli ho persuaso che ’l bargello aveva strettissima commissione, senza essamina, senza inquisizione, d’impiccarlo sùbito che lo trovasse?

            EROF. Io non so come t’abbia creduto sì facilmente.

            FULC. Non te ne paia strano, che ad altri suoi pari altre volte ha fatto di simili scherzi il mio patrone; così gli è stato sempre el nome di ruffiano odioso! E questo, e quanto egli sia di còlera sùbito, sa Lucrano pur troppo, che ben l’ha connosciuto altrove ancora.

            EROF. Pur, sentendosi innocente...

            FULC. Che più? Ancor di questo sia innocente, di quanti altri malefizi te credi che ’l sia consapevole, el minor de’ quali merita mille forche? È il diavolo andare in prigione, e farsi porre alla tortura, connoscendosi ribaldo. E se ben d’una falsa calunnia si purgasse, anderia a periculo di scoprire altri veri delitti, che condennar lo farieno a morte agevolmente.

            EROF. Come s’assicurò di condursi alla camera di Caridoro?

            FULC. Io gli diedi intendere che ’l Bassà, disposto d’impiccarlo in ogni modo, avea commesso che, quando non si potesse la notte avere, non se lassassi partir legno de la isola, prima che con diligentissima inquisizione e bando non se cercassi per ogni casa fin che ritrovato fusse; e con queste e con altre infinite mie ciancie a tal disperazion lo trassi, che non so tórre tanto alta, donde non si fusse precipitato, per potersene de qui fuggire; poi, fingendomi pur desideroso di salvarlo, lo confortai che si riducesse al Caridoro, che sapea io che gli era amico, e che se da lui non avea aiuto o consiglio, non si sperasse averlo da altri.

            EROF. E così ve lo conducesti?

            FULC. Io seppi tanto cicalare che ve lo trassi finalmente. Or vorrei qui che veduto l’avessi, pallido, lacrimoso e tremebundo, dimandare, pregare, suplicare Caridoro, che avesse di sé pietate, abracciarli le ginocchia, baciarli i piedi, proferirli, non che la giovane, ma quanto avea al mondo.

            EROF. Ah, ah, ah, ah, ah!

            FULC. Vorrei che Caridoro da l’altra parte veduto avessi simulare di lui pietoso, ma timido di incorrere in la inimicizia di suo patre, e pregarlo che se gli levassi di casa, e non volesse essere cagione di volerlo mettere in disgrazia di quell’omo, che più di tutti li altri riverire et observar dovea.

            EROF. Ah, ah, ah, ah!

            FULC. Vorria che me veduto avessi in mezo, raccomandare quel misero, e proporre a Caridoro che modi avea a tenere per aiutarlo.

            EROF. Ah, ah, ah! saria stato impossibile che io avessi possuto ritenere le risa.

            FULC. Alfin io diedi per consiglio a Lucrano, che facessi Corisca venire, che con la presenzia d’essa so che moveria el giovane meglio ad aiutarlo. Accettò il partito, e scrisse questa polizza e dièmi per segno questo annello; e così vo a tòrre la femina, alla cui giunta son certo che s’ha da concordare il tutto.

            EROF. T’aspetta, dunque, il ruffiano alla stanza di Caridoro?

            FULC. Va’, ch’io ti tacevo il meglio. Noi l’avemo, perché non sia da quelli di casa e quelli che vanno e vengono veduto, fatto appiattare sotto il letto, dove si sta con la maggior paura del mondo, e non osa, per non esser sentito, respirare.

            EROF. Che Caridoro abbi del suo amore così piacevole successo, radoppia l’allegrezza ch’io sento d’aver la mia Eulalia ritrovata; la qual mi è stata più ioconda a ritrovare, dopo tanti disturbi e timori avuti che per me non fussi totalmente perduta, che se, quando prima io l’attendeva, me l’avessi condotta il mercatante nostro; però che in quella aspettazione avevo una parte già finita e quasi consunta del mio gaudio.

            FULC. Così accade, che una bona cosa più deletta, quando viene insperata.

            EROF. E così uno improviso male vie più che l’aspettato molesta. El che provo al presente de la pessima novella che m’hai detta, che mio patre sia tornato, e che abbi tutta la nostra pratica intesa, e sia Volpino, il nostro consiglieri, in prigione.

            FULC. Tu potrai medicare facilmente tutto questo male. Con quattro o sei bone parole che tu dici a tuo patre, farai che averà di grazia a perdonarti, e farà ciò che tu vuoi, pur che gli mostri d’averlo in timore e in reverenzia; e di questa pace nascerà che libererai Volpino dal pericolo in che si trova; et a te tocca, Erofilo, di salvarlo.

            EROF. Io ne farò ogni bona opera.

            FULC. Un’altra cosa, che non meno importa, avemo a fare ancora.

            EROF. Che avemo a fare?

            FULC. Che domatina all’alba questo ruffiano se ne fugga.

            EROF. Faccisi: chi l’impedisce che non possa fuggire?

            FULC. Il non avere uno aspro da potersene (io tel so dire) levare con sua famiglia e robe, e da vivere per il camino.

            EROF. Di questo con ogni altro che con meco te consiglia, che per me non ho che darli.

            FULC. Tu seresti ben povero: fatti prestar denari.

            EROF. Da chi?

            FULC. Da l’Ebreo, s’altri non hai che ti soccorra.

            EROF. E che pegno ho io da darli?

            FULC. Venticinque o trenta saraffi che mi dessi, saria a bastanza.

            EROF. Tu parli meco indarno: io non gli ho, né so da chi averli.

            FULC. Il resto fino a cinquanta troverà Caridoro.

            EROF. S’io vi sapessi modo, non mi faria pregare.

            FULC. Come faremo adunque?

            EROF. Pénsavi tu.

            FULC. Vi penso: non me ne potresti dare una parte?

            EROF. Non te ne potrei dare uno: tu getti via parole. Tu saprai bene investigare, se vi pensi, che si farà senza.

            FULC. Non si può far senza a patto nessuno.

            EROF. Dunque, trovagli tu.

            FULC. Penso ove trovarli.

            EROF. Pénsavi.

            FULC. Vi penso tuttavia, e forse forse te gli troverò.

            EROF. Io mi confido sì nel tuo ingegno, che gli sapresti far nascere di nuovo, se ben non se ne trovassi al mondo.

            FULC. Orsù, lassane la cura a me, ch’io spero di trovargli questa notte. Ancora io mi espedirò di condurre prima costei a Caridoro, e applicherò poi tutto l’animo a trovar questi danari. O tu, qualunque ti sia, che là entri, férmati, ch’io ti parli un poco.

            FURBA Se tu m’avessi comperato, non mi doveresti commandare con più arroganzia. S’io te son bisogno, viemmi dreto.

            FULC. Costui dimostra esser famiglio di chi egli è, sì ben imita li superbi costumi di suo patrone.

SCENA SECONDA

EROFILO, CRISOBOLO

            EROF. (Io anderò in casa, e vederò di mitigare mio patre, che se non fusse per aiutar Volpino, non ardirei per dieci giorni andarli inanzi. Ma chi apre la porta? Ahimè, che è esso! Io mi sento struggere il core.)

            CRISOB. Come tardano a ritornare quest’altri! Ancor non gli sento apparire da nessun canto; e dove possono essere li gaglioffi a questa ora? Vedi che saria s’io ci stessi da casa tre mesi o quattro absente, ch’un mezo dì ch’io ne son stato, me trovo sì bene! Ma se mi giunta el scelerato più, gli perdono. Come ero io sciocco ad ascoltarne le sue ciancie!

            EROF. (Io sono in dubbio s’io me gli appresento o s’io mi resto.)

            CRISOB. S’egli sa con sue astuzie uscir di ceppi, ove io l’ho fatto porre, gli do licenzia che mi vi metta in suo cambio.

            EROF. (Bisogna, infine, far bono animo, altrimenti Volpino starà fresco.)

            CRISOB. Tu sei qui, valent’omo?

            EROF. O patre, tu non sei ito? E quando ritornasti?

            CRISOB. Con che audacia, ribaldo e sfacciato, tu mi vieni inanzi?

            EROF. M’incresce, patre, fino al core averti dato causa di turbarte.

            CRISOB. Se dicessi el vero, viveresti meglio che tu non fai. Va pur, ch’io ti castigherò da tempo, che tu crederai ch’io me l’abbia scordato.

            EROF. Io serò un’altra volta meglio avertito, né mai più darò causa di dolerti di me.

            CRISOB. Io non voglio che con parole dimostri di donar quello che tu studi con fatti levarmi sempre. Io non pensavo già, Erofilo, che di bon fanciullo, che con sì gran studio te allevai, tu dovessi riuscire uno de li più tristi e dissoluti giovani di questa città; e quando io m’aspettavo che mi fussi bastone per substentare la mia vecchiezza, mi dovessi essere bastone per battermi, per rompermi e farmi inanzi l’ora morire.

            EROF. O patre!

            CRISOB. Tu m’appelli patre con ciancie, ma con l’opre tu dimostri poi essermi el più capital nemico ch’io abbia al mondo.

            EROF. Perdonami, patre.

            CRISOB. Se non fussi per l’onor di tua matre, io direi che non mi fussi figliuolo. Io non veggio in te costumi che mi rassomigli, e molto arei più caro che mi rassomigliassi ne le bone opere, che in viso.

            EROF. Incusa la giovinezza mia.

            CRISOB. Non credi tu che anch’io sia stato giovane? Io in la tua etate ero sempre a lato del tuo avo, e con sudore e fatica lo aiutavo ad ampliare el patrimonio e le facultà nostre, che tu, prodigo e bestiale, con tua lascivia cerchi consumare e struggere. Sempre ne la gioventù mia era il maggior mio desiderio d’esser presso alli omini boni stimato bono, e con quelli conversavo, e questi con tutto el studio mio cercavo imitare; e tu, pel contrario, hai sol pratica di ruffiani e bari e bevitori e simile canaglia; che se mio figliuolo vero fussi, aresti rossore d’esser veduto loro in compagnia.

            EROF. Ho fallato, patre, perdonami, e sta sicuro che questo serà l’ultimo fallo che t’abbia a far mai più disdegnar meco.

            CRISOB. Erofilo, per Dio ti giuro che, se non t’emendi, ti farò con tuo grande spiacere connoscere ch’io mi risento. Se ben talor fingo di non vederti, non ti creder ch’io sia però cieco. Se non farai il tuo debito, io farò il mio; e minor danno è stare senza figliuolo, che averlo scelerato.

            EROF. Patre, mi sforzerò per l’avenire esserti più obediente.

            CRISOB. Se attendi al ben vivere, oltre che mi farai cosa gratissima e quel che ti si conviene, tu farai l’utilità tua; e siene certo.

SCENA TERZA

FULCIO, MARSO servi.

            FULC. Debb’io qui tutta notte aspettare, come io non abbia se non questa faccenda? Sollecitala tu fin ch’io ritorni, che vo qui appresso. — Spendono queste femine pur assai tempo in adornarse; mai non ne vengono al fine: mutano ogni capello in dieci guise, inanzi che si contentino che così resti. E che fan? Prima col liscio (oh che longa pazienzia!), or col bianco, or col rosso, metteno, levano, acconciano, guastano, cominciano di nuovo, tornano mille volte a vederse, a contemplarse nel specchio: in pelarse poi le ciglia, in rassettarse le poppe, in rilevarse ne’ fianchi, in lavarse, in ungerse le mani, in tagliarse l’ugne, in fregarse, strusciarse li denti, oh quanto studio, quanto tempo si consuma! quanti bossoli, ampolle, vasetti, oh quante zacchere si mettono in opera! in minor tempo si dovea di tutto punto armare una galea. Io potrò ben con grande agio fornire intanto la battaglia che ho giurato a Crisobolo, poi che ho la maggior fortezza espugnata, prima che li nemici avessino dirizzata l’artigliaria, per battere l’ultima rocca che mi fa guerra, che è la borsa di questo tenacissimo vecchio; che, se mi succede come io spero, rapporterò di aver rotti, vinti et esterminati gli inimici: averò la gloria solo. Or, bussando a questa porta, assalterò le sprovedute guardie.

            MARSO Chi è?

            FULC. Fa assapere a Crisobolo, che un messo del signor Bassà gli ha da fare una imbasciata.

            MARSO Ché non entri tu in casa?

            FULC. Digli che si degni venir fòra per bon rispetto, e che per sua gran faccenda io son venuto.

SCENA QUARTA

CRISOBOLO, FULCIO

            CRISOB. Chi a quest’ora importuna mi domanda?

            FULC. Non ti maravigliare, e perdonami s’io t’ho chiamato qui fòra, che avendoti a dire cose secretissime, non me fido costà drento di non essere udito da gente che poi lo rapporti. Io mi potrò meglio qui vedere a torno, né averò dubbio che me ascolti omo che io non veggia. Ma ritiriance più ne la strada, e fa che questi tuoi si stieno drento.

            CRISOB. Aspettatemi in casa voi. Tu di’ ciò che ti pare.

            FULC. Io t’ho da salutare prima in nome di Caridoro, figliuolo del Bassà di Metellino, il quale, per la amicizia che è fra tuo figliuolo e lui, t’ha in observanzia e t’ama come patre; e per questo, dove lui veggia di posserti fare utile et onore e schivarti biasimo e danno, non è mai per mancarti.

            CRISOB. Io lo ringrazio, e gli sono obligatissimo sempre.

            FULC. Or odi. Uscendo egli testé di casa per andare, come usano li giovani, a spasso (et io ero con lui), ce scontramo inanzi al palazzo, come la tua buona sorte vuole, in uno certo ruffiano, che dice essere tuo vicino...

            CRISOB. Oh bene!

            FULC. Che veniva irato gridando; e con dui, che non so chi si sieno, molto di te e di tuo figliuolo si dolea.

            CRISOB. E che dicea?

            FULC. E’ se n’andava al Bassà diritto a querelarse, se non l’avesse Caridoro ritenuto, di un giunto che gli ha fatto il figliuol tuo; che in verità, se dice il vero, è di pessima natura e sorte.

            CRISOB. (Or pon mente che travaglio mi si apparecchia per la pazzia di costui!)

            FULC. Dicea che un certo baro, che è vestito a guisa di mercatante...

            CRISOB. (Ahi vedi che pur!...)

            FULC. Gli avea mandato con certo pegno a tòrre una sua femina. Io non l’ho inteso a punto, perché m’ha Caridoro con troppa fretta mandato ad avisarti correndo.

            CRISOB. Ha fatto l’offizio di buono amico.

            FULC. E quelli dui che ha seco il ruffiano, come t’ho detto, mi par che voglino testificar per lui a carico.

            CRISOB. E di che?

            FULC. Dicono che ’l baro, che ha fatto il giunto, è in casa tua, e che di tuo consentimento è condutta questa cosa.

            CRISOB. Di mio consentimento?

            FULC. Così dice; e mi par d’aver anco inteso, che tu in persona sei andato a tòrre o cassa o forzieri di casa del ruffiano.

            CRISOB. Ah de quanto male serà causa la leggerezza d’uno fanciullo, sollicitata dal stimulo d’un ribaldo!

            FULC. Io non ti so ben dire il tutto, che per la fretta d’avisarti ho auto, non gli potetti se non in confuso intendere. Caridoro ti manda a dire che ritenerà quanto gli serà possibile il ruffiano che non parli al signore; ma che intanto tu ti veggia di provedere, acciò che oltra il danno, che saria molto, non ricevessi col tuo figliuolo alcuna pùblica vergogna.

            CRISOB. Che provisione vi posso far io? Vedi se tutte le sciagure mi perseguono sempre!

            FULC. Fagli restituire la femina, o dagli qualche aspro, che si taccia.

            CRISOB. Gli farei la femina restituire di grazia; ma mi pare che se l’hanno, per loro sciocchezza, lassata tra via tòrre, non sanno da chi.

            FULC. Non ha Erofilo, dunque, la femina in mano?

            CRISOB. Non, ti dico, e non sa che ne sia.

            FULC. Cotesto è il peggio. Come si potrà fare, adunque?

            CRISOB. Che so io? Ben so il più sfortunato e miser uomo che sia al mondo.

            FULC. La più corta e miglior via è che tu gli paghi la femina quello che ad altri l’ha possuta vendere, e che si faccia tacere.

            CRISOB. Mi par strano dovere spendere il mio denaio in cosa che non abbia avere utile.

            FULC. Non si può sempre guadagnare, Crisobolo; benché non poco guadagno a vietare con pochi danari un grandissimo danno, una publica vergogna non ti venga adosso. Se all’orecchie del signore verrà simil querela, a che termine ti troverai? Patirai tu sentire inquirerti contra? chiamare tuo figliuolo in ringhiera? gridare in bando? Oltra questo, pensa che hai nome del più ricco uomo di questa terra: a quel che molti altri repareriano con cento, tu non potrai ben riparare con mille: tu intendi.

            CRISOB. Che ti par ch’io faccia?

            FULC. Questo ruffiano è povero e timido, come sono li pari suoi; gli serà la femina pagata, lo faren tacere; perché già Caridoro gli ha fatto intendere, che se vorrà litigar teco, non la farà bene, perché hai denari da tenerlo tutta la vita sua in piato, e de’ parenti et amici da farlo un dì pentire de averti dato noia.

            CRISOB. Sai quanto se ne tenessi cara la femina? o quel che n’abbia possuto avere?

            FULC. Mi fu già detto che un soldato valacco gli ne offerse cento saraffi, e dare non gli la volse; che per meno di centoventi dicea che non la lasseria mai.

            CRISOB. Con minor prezzo s’arìa uno armento di vacche. Cotesto saria ben troppo: io non ne vo’ far nulla: lamentisi, e faccia il peggio che puote.

            FULC. Mi par strano che più estimi questi pochi denari...

            CRISOB. Pochi, eh?

            FULC. Che ’l tuo figliuolo, te medesimo, l’onor tuo. Io referirò dunque a Caridoro che non ne vuoi far nulla.

            CRISOB. Non se potria con meno far tacere questo ruffiano?

            FULC. Se poteria con uno coltello, che costeria meno, e scannarlo.

            CRISOB. Io non dico così. Centoventi saraffi è pur troppo prezzo.

            FULC. Forse lo farai star queto per cento: per quel medesimo che da gli altri n’ha possuto avere.

            CRISOB. E non per meno?

            FULC. Che so io? vorrei in tuo servizio che lo potessi achetare con nulla. S’io fussi Crisobolo, manderei subito Erofilo con denari a trovare Caridoro: seremo tutti insieme adosso al ruffiano, et acconceremola con minor tua spesa che sia possibile.

            CRISOB. Meglio è ch’io medesimo vi venga.

            FULC. Non far, diavolo! Se ’l ruffiano ti vede caldo in questa pratica, crederà che di tuo consentimento l’abbia il tuo figliuolo gabbato, e con speranza di farti trarre più in grosso, ristarassi e farà l’asino il possibile: anzi mi pare che Erofilo venga solo, e che finga di cercare sanza tua saputa questo accordo, e che abbia trovati questi danari o da gli amici o all’interesso.

            CRISOB. Erofilo vi venga solo? Sì, per Dio, perché gli è molto cauto! Se lassaria in un tratto aviluppare e tirarsi come ’l bufalo per el naso.

            FULC. Non è de li tuoi servo alcuno, che sia accorto e pratico, da mandare con lui? Che è di quel tuo Volpino? Suol avere pure il diavolo in testa. Egli serà buono quanto possi desiderare.

            CRISOB. Quel ladroncello è stato causa, guida e capo di tutta questa ribalderia: io l’ho in ceppi, e trattarollo come proprio lui merita.

            FULC. Non lassar, Crisobolo, che la còlera ti regga: mandalo con Erofilo, che non puoi far meglio.

            CRISOB. È il maggior tristo, ogni modo, che sia al mondo: tuttavolta io non ho alcuno in casa che sapessi poner due parole insieme, et è forza, non possendo far altrimenti, che pur a lui ricorra. Ben mi rincresce.

            FULC. Lassa andare: tu arai tempo di castigarlo de l’altre volte.

            CRISOB. Dio sa ben quanto mi par duro a roder questo osso. Ma sia con Dio: non te partire: manderògli ora ambidui con teco.

            FULC. Io gli aspetto. — Or mi perviene il trionfo meritamente, poi che rotti io ho gli nimici e disfatti totalmente; senza sangue, senza danno de le mie squadre, ho lor ripari e lor fortezze tutte spianate a terra, e tutti al mio fisco fatti di più somma tributari, che non fu al mio principio mia speranza. Altro non mi resta ora che sciorre il voto che ti feci, Fortuna, di stare imbriaco tre giorni interi: io ti satisfarò volentieri, e vi darò principio tosto ch’io n’abbia agio. Ma ecco che li miei soldati escono, carichi di spoglie e preda ostile, di casa di Crisobolo; e sol ponno questa lor ventura al mio ingegno, alla mia virtù attribuire.

SCENA QUINTA

VOLPINO, EROFILO, FULCIO

            VOLP. Io vederò di farlo rimanere tacito per quel che poterò meno, e farò più che se tu ce fussi in persona, e so che ti loderai di me.

            EROF. O Fulcio, quando ti poterò mai referire degne grazie del gran benefizio che tu m’hai fatto? S’io mettessi per te ciò ch’io ho al mondo, non mi par che mai satisfar potessi all’obligo ch’io ho teco.

            FULC. Mi basta assai che mi facci buon viso.

            EROF. Ma dove è la mia unica speranza, il mio refugio, la vera mia salute?

            VOLP. Fulcio, di gran travagli, di gran paura, di crudelissimi tormenti hai liberata questa vita, sì che ad ogni tuo cenno io son per spenderla dove ti parrà.

            FULC. Volpino, queste son opere che si prestano. Ti pare, Erofilo, ch’io t’abbia saputo ritrovar denari in abondanzia?

            EROF. Molto più che quelli che avemo detti.

            FULC. Ho voluto che, oltra a quelli che daremo al ruffiano, tu n’abbi per mantenere la fanciulla, e per le spese, e per li altri suoi bisogni.

            EROF. Eccoteli tutti: fanne quel che ti pare.

            FULC. Tiengli e portagli teco, che sùbito che io abbia condutta Corisca a Caridoro, te verrò a casa del Moro a ritrovare. — Brigata, tornàtevene a casa, che questa fanciulla ch’io vo a tòrre, non vuole esser veduta uscire; e dovendo anco el ruffiano fuggirsene, non è a proposito che ci sieno tanti testimoni. E fate segno d’allegrezza.