La Cecaria
Di Marc'Antonio Epicuro
PERSONAGGI
Il Vecchio
La sua Guida
Il Geloso
Il Terzo
Il Sacerdote
L'Amore (che non appare)
Le Tre Donne (che non parlano)
ATTO PRIMO
SCENA I
Il vecchio cieco scorto da un fanciullo incomincia:
Dove il fatal destin mi guida cieco
lasciami andar, e dove il piè mi porta;
né per pietà di me venir piú meco.
Deh, lasciami cader, non mi far scorta,
sciogli la man, ch'io non son degno, ahi lasso,
se non gir solo a star fra gente morta.
Troverò forse un fiume, un speco, un sasso
pietoso a trarmi fuor di tanta guerra,
precipitand'in loco oscuro e basso.
Così disgombrerò l'aria e la terra,
dal fuoco l'una, e l'altra da' sospiri,
ch'Amor col suo fucil dal cor disserra.
Tu fra la calca pur mi scorgi e tiri;
non basta che mi vegga ognor sí oppresso
da mille ardor, da mille aspri martiri.
Guida
Miser, che parli? pensa essermi appresso,
ché per fuggir tuo mal, ch'è fuor d'aita,
ti converria fuggir sempre te stesso.
Vecchio
Or, s'è la pena mia pen'infinita,
deh, trova, morte, almen questo conforto:
pur che sia fine al mal, tronca la vita.
Ma sol per far piú lungo il mal ch'io porto
forse tarda a venir, s'ella non crede
sia già per troppo duol sepolto e morto.
Deh trova un ferro, or ferm'alquanto il piede,
dallo in mia man, che forse oggi sper'io
trovar nel ferr'almen qualche mercede;
o trammi tu dal cor di sangue un rio!
Deh, non temer, comincia il petto aprire,
impara esser crudel nel sangue mio.
Ecco qui il corpo, ovunque il vuoi ferire.
Ma, per mercé, mi tronca prima e svelli
la lingua che peccò per troppo ardire.
Guida
A che pur sconsolato rinnovelli
la cagion del tuo mal così sovente?
Se 'l duol t'ancide ognor, ché ne favelli?
Vecchio
Facciol, ch'ognun che qui d'intorno sente,
pianga di mia sventura e si condoglia
di questa vecchia età cieca e dolente.
Come non scoppi, o cuor, per sí gran doglia?
Come non t'apri? di', come sostieni,
terra crudel, questa malnata spoglia?
Guida
Deh, piú non ti lagnar, deh, miser, vieni;
forse chi sa, se il ciel dal crudo scempio
ti toglia e serbi a giorni piú sereni,
miracolo agli amante, al mondo essempio!
SCENA II
Il secondo cieco, il GELOSO, senza guida sopraggiunge e così dice:
Aprite il passo al cieco,
che non ha guida seco; aprite e date
il passo per pietate, acciò si senta
la pena che il tormenta, affligge e nuoce.
Dolor, alza la voce, accresci il pianto,
e sien dolenti tanto mie querele,
ch'ogni anima crudele in questa via
pietosa oggi mi sia d'una parola,
d'una lacrima sola e d'un sospiro,
udendo il mio martiro. O cor doglioso,
procura sol riposo per lagnarti,
non già per riposarti o cieche luci,
voi che mi foste duci e fide scorte
in cercar la mia morte, allor che fui
privo d'ambedue vui, spargete fuora
lacrime d'ora in ora insin dal centro,
ché l'altre che son dentro abbian piú loco.
E voi sospir di fuoco, amici interni,
compagni sempiterni ai fier tormenti,
piú che l'usato ardenti, notte e giorno
gite gridando intorno in l'aria sparsi,
ch'uom piú miser di me non può trovarsi.
Aprite, aprite gli occhi,
vedete, amanti sciocchi, in quale stato
Amor m'ha destinato. S'io sapessi
in qual parte mi stessi, io direi forse
quant'alme son trascorse in cieco oblio,
sol per chiamarti Iddio. Ahi, fier tiranno,
con qual arte ed inganno, or di', ne 'l fai?
Udito non fu mai ch'uom per amare,
per volerti adorare, offrirti il core,
viva sempre in dolore, e gli sia caro!
O stato pien d'amaro e di sospetto!
In un ferito petto ognor dar loco
or al ghiaccio, or al fuoco, ed amar spesso
altrui piu' che se stesso; una nimica
che si pasce e nutrica del tuo sangue,
per cui sempre si langue, che t'ancide,
che del tuo mal si ride, che ti fugge
che t'arde, ti distrugge, si nasconde,
che mai non ti risponde, - è giogo grave,
e par così soave per usanza!
O fallace speranza de' mortali!
O desir alti e frali, o martìr grati
de' ciechi innamorati; o pensier vani
che son ne' petti umani! A che ti sfaci?
Come ne soffri e taci, alma dogliosa!
Tu solo fai pietosa forse alcuna,
ma liberal nissuna. A che ti lagni,
cor mio? Perché pur piagni, se 'l gran pianto,
che quinci in ogni canto ognor si tragge,
è noto a fiumi, a monti, a selve, a piagge?
SCENA III
Il terzo cieco arriva pur senza guida, così dicendo:
Lasso, che ovunque io vo' mi segue amore,
e par mi spinga al luogo ov'io fui preso!
Già sento l'aura del soave odore,
che m'avventò nel petto il fuoco acceso.
Ecco l'abbraccio, e so che viene al core
da quei begli occhi ond'io fui prima offeso.
Ma invan torno di qua per lunga usanza,
se svelta è la radice a mia speranza.
So che il fidel pensier mio non m'inganna,
che mia dolce nemica è qui presente.
Se il vivo suo splendor gli occhi m'appanna,
cecar non può la vista della mente.
E se ad eterno pianto mi condanna,
farò palese al cielo ed alla gente:-
Doi luci di mie luci ebber la palma,
una mi tolse il cor, poi l'altra l'alma!-
Quanto ti debbo io pur, spietato Arciero,
che con sí mal curata e dolce piaga
ponesti nel mio cor sí bel pensiero
che fa la mente innamorata e vaga!
E s'io non veggio, e mai veder non spero,
pur d'ogni suo martìr l'alma s'appaga,
e lieta gode, alfin che se l'attristi,
pur fama eterna al suo bel pianto acquisti!
O felici color che notte e giorno,
or con preghiere, or con lusinghe e pianti,
fanno lor desïato e bel soggiorno
con mille scherzi a lor nimiche avanti.
Deh, s'alcun v'è che m'oda qui d'intorno
di così lieti e fortunati amanti,
dogliasi del mio caso e pianga meco,
che nel piú bel veder rimasi cieco.
Geloso
S'io non perdei con gli occhi ogn'altro senso,
parmi un che si lamenti udir qui presso,
che il petto ha pur com'io di fuoco accenso.
Quivi s'urtano insieme.
Deh, non bastava il mal che tienmi oppresso?
Quanta poca pietà regna in tuo petto,
crudel, che m'hai con urto in terra messo!
Terzo
Ti giuro che non voglia, ira o dispetto
m'indusse a farti un sí crudel oltraggio...
Vinca la tua pietade il mio difetto!
La luce di quest'occhi, ch'or non aggio,
ne fu sola cagion, ch'il pensier mio
drizzava altrove il suo torto vïaggio.
Geloso
Dunque cieco sei tu?
Terzo
Cieco son io.
E tu chi sei?
Geloso
Ed io son cieco ancora,
ch'assai piú che il veder morte desio.
Guida
Quest'è pur meraviglia che in quest'ora
dui altri ciechi parmi veder quivi,
senz'altra guida e di speranza fuora.
(al Vecchio)
Ecco di vista qui dui altri privi.
Come non vedi, ancor par che non senti.
Tu ti risvegli? di', forse dormivi?
Vecchio
Insieme il sonno e miei lumi fûr spenti,
ed or sol mi tenea morte, dormendo,
in braccio a li pensier di miei tormenti.
Geloso
Compagno del mio duol!
Vecchio
Che voce intendo?
Guida
Dico dui altri son pur senza luce,
ch'insieme del suo mal stan qui piangendo.
Vecchio
Van soli forse?
Guida
Soli e senza duce.
Vecchio
Deh, per mercede, andiam dunque a trovarli
per saper qual cagion cosí l'induce.
Guida
Cammina pur,... comincia a salutarli,...
attienti pur a me,... giá sei vicino,
ch'intender ben potran ciò che lor parli.
Vecchio
Cari consorti, or qual crudel destino
ciechi vi scorge, e qual cagion v'invoglia
soli piangendo andar per tal cammino?
Geloso
Sì grande è il nostro mal, tant'è la doglia,
che sol per non vederci ognor languire,
non troviam guida, né altri che n'accoglia.
Vecchio
Non ho men duol nel petto per sentire
il mal che così par che vi consume,
che piacer non vedervi in tal martíre.
Geloso
Non ti doler che sian nostri occhi un fiume,
né che sian ciechi in questo viver frale;
sol dolgati che mai vedremo lume.
Terzo
Tu che pietoso sei del nostro male,
che 'l ciel ti serbi a stato piú giocondo,
né d'amor senta mai face né strale,
Dinne, chi sei?
Vecchio
Tal è il mio mal profondo,
ch'io non so piú chi sia; sol mi conosco
un vecchio cieco e peregrino al mondo.
Geloso
O dolce compagnia, deh, vien pur nosco,
perché potrem sfogar parlando insieme,
quant'è del nostro petto amaro il tosco.
Vecchio
Ahimè, che il duol che l'alma ognor mi preme
non si può disfogar, ché gli è sí greve,
ch'è fuor d'ogni conforto e d'ogni speme.
Terzo
Non creder già lo mio del tuo piú lieve,
ché d'ora in or mi sfaccio in viv'ardore,
com'ai raggi del sol falda di neve.
Geloso
Dove si può trovar pena maggiore
qualor s'accampi al petto gelosia
con suoi guerrieri a dar battaglia a un core?
Vecchio
Se quanto è piú quel ben che il cuor desia,
tanto per lunga età piú ne son privo,
dunque vince ogni duol la pena mia.
Terzo
Cosí tornasse il mio lume visivo
come il vostro dal mio tant'è lontano,
quanto gli è un finto ardor da un fuoco vivo.
O miracol d'amor, o caso strano,
chi vide mai (né so come esser puote)
duo fiumi uscir d'un fuoco in corpo umano?
Vecchio
Voi con sospiri e con pietose note
non sol sfogar il duol, ma ancor vi lice
mostrar col pianto il mal che vi percote.
Per troppa doglia il mio cor infelice
l'usat'umor dagli occhi piú non sgombra,
sendo impetrato infin da la radice.
Geloso
A voi forse talor nel petto ingombra,
un certo non so che, ch'al cor si serra...
non già timor, ma di timor un'ombra.
Io temo il cielo, il mar, l'aria e la terra:
ogni pensier, che nel mio pett'ha loco,
mi fa dí e notte tormentando guerra.
Terzo
Se quant'è il mio maggior d'ogn'altro fuoco
tant'è men la pietá di chi l'accende,
dunque ogn'altro dolor con quest'è poco.
Vecchio
Poco il mio pare a chi ben non comprende,
perché de l'alma l'immortal ferita
fa ch'io non curi il mal che il corpo offende.
Geloso
Deh, pensi ognun se mia pena è infinita,
che morte non mi vuol, né io vita bramo,
e senza morte aver perdei la vita!
Terzo
Io sempre morte, che m'ancida, chiamo,
o ancida il morir mio, ch'io moro a torto;
e tant'è sorda più, quanto piú chiamo.
Vecchio
Non è dolor uguale al duol ch'io porto,
pensando al stato mio mesto e dolente,
viver per la cagion per cui son morto.
Geloso
Questo piú ch'altro par che mi tormente:
perdere cosa viva, amata e cara.
Chi di ciò non si duol, dolor non sente.
Vecchio
Non è, né fu, né fia mai pen'amara,
se da speranza vien temprat'alquanto,
ch'amor soffrirla dolcemente impara.
Terzo
Se il maggior ben ch'in me conosca è il pianto,
e questo solo par che mi conforte,
quant'è dunque il mio mal se il bene è tanto?
Geloso
Deh, non piangete il mal ch'avete in sorte,
ch'ha nome «mal»; ma il mal che il cuor m'attrista
che nome avrá, s'è mal maggior di morte?
Vecchio
Che 'l ciel ti renda la perduta vista;
Ma dinne il tuo gran mal, s'ogn'altro avanza,
e qual cagion ti fa l'alma sí trista.
Geloso
Ahi dolorosa, acerba rimembranza!
Poi che mi strigni, e la vecchiezza il vuole,
rinoverò il dolor fuor di speranza,
con lacrime assai piú che con parole!
(Racconta il Geloso la causa del mal suo).
Io sconsolato amava
donna che mi mostrava nel sembiante
non aver altro amante, e per lei giuro
ch'io viveva sicuro e sí contento
del mio dolce tormento, e in sí bel stato,
che mai avrei pensato che né sorte,
né sdegno, tempo o morte mai bastasse
a far ch'ella mutasse in altro amore
quel suo fallace core, e quel gran fuoco
ch'in lei durò sí poco. Ed è pur vero!
Da me torse il pensiero, e ad altri diede
la mal promessa fede; e a poco a poco
s'intiepidiva il fuoco al freddo petto,
ond'io pien di sospetto gli dicea
che di ciò m'accorgea. Ella, giurando,
giva sempre negando quel ch'al fine
queste luci meschine vider chiaro!
Giorno infausto ed amaro e pien di noia,
ch'ogni mia festa e gioia, ogni mio canto
ratto voltast'in pianto ed in querele!
Ed a quella crudele è giá palese
che mio cor non l'offese, e men giá mai
col pensier maculai sue voglie oneste.
O potenza celeste! O stelle ingrate
al mio mal congiurate! Ahi lasso, quando
vidi lei pormi in bando ed in oblio,
ponend'in loco mio novello amante,
le lacrime fûr tante, e tal la doglia,
che, con irata voglia fatt'insano,
m'accecai con mie mani ambe le luci,
ché non mi fusser duci né piú scorte
a veder la cagion d'ogni mia morte!
Vecchio
Ben hai giusta cagion di pianger sempre
e lamentarti d'ella,
se quant'è il tuo dolor, tant'era bella.
Geloso
Ahimè, ch'io vidi spesso
lagnarsi tutte donne avanti Dio,
ch'allor quando creò l'alma bellezza,
ogn'altra per costei pose in oblio;
ch'in lor de le sue grazie infuse parte,
e insieme in questa sol fûr tutte sparte.
Ma credo ciò facesse,
che in terra ognun vedesse
del suo fattor il magisterio immenso.
Ed or che tra me penso
la sua tanta vaghezza
con parole ritrarla,
non trovo a qual sembiante assomigliarla,
ch'occhio mortal non è che la discerna.
O pena dentr'al cor, piangendo, eterna!
(Il Geloso dice le bellezze di sua amica.)
Non ebbe mai sí belli
ninfa vaga i capelli; non òr fino,
ma un non so che divino gl'incolora,
qual suol aver l'Aurora, in mille modi,
in mille dolci nodi, in trecce avvolti,
o pur a l'aura sciolti, a l'aura errando,
su le guance ondeggiando o sovra il collo,
da farne invidia al ciel non che ad Apollo.
La sua vaga front'era
pura, serena, altiera, un specchio raro,
d'un aer dolce e chiaro temperato,
donde or dolce, or irato, a tutte l'ore
di mia nimica il core trasparea,
ov'io scritto leggea ogni concetto
ch'avesse chiuso in petto in sul mirare,
sì come, essendo in mare, ved'aperto
vago nocchier esperto in aria i venti,
specchio del mio gioir de' miei tormenti.
Di sue tranquille ciglia
era una meraviglia il vivo nero
de l'ebano piú vero, e il suo colore
ad ogni invitto core ardito e forte
dava segnal di morte, ed io dolente
con l'invaghita mente ciò non scòrsi,
ond'incauto trascorsi presso al varco.
Amor fe' i strali e l'arco a loro essempio,
per far di me piú scempio e piú martiro,
tal ch'ogni cenno e giro che mostrava,
nel petto m'avventava in ogni loco
lance, stral, dardi, folgor, fiamme e fuoco.
A le sue guance intatte,
che son d'un puro latte, dean colore
del sangue del mio core alcune stille,
o sue vive scintille; e se dal petto
nel volto alcun sospetto ella riceve,
sopra falda di neve un vivo fuoco
sorgeva a poco a poco, ed io dicea,
quand'insieme vedea tanti colori,
seder carca di fiori - e ciò sempr'era -
al freddo inverno in grembo primavera.
Ahimè, la dolce bocca!
La morte il cor mi tocca a ricordarla,
ch'ognor vorrei baciarla, e piú diletta
ch'è cosí pargoletta, ond'esce fuore
ogni soave odore, e la natura
ogni suo studio e cura qui sospinse
quando l'uno dipinse e l'altro labbro
non di minio e cinabro, e questo io so,
però che riportò, or quinci or quindi,
in fin da gli ultimi indi peregrini
i coralli e i rubini; ed io vorrei
piú tosto da costei un bacio solo,
che tutto il ben de l'uno e l'altro polo.
Candida e lieve perla,
rara, unica a vederla, era ogni dente,
né giá mai l'orïente alcuna cosa
ebbe sí prezïosa, e se talora
aprono il passo fuora a i dolci accenti,
il ciel e tutti i venti da lor via
restansi a l'armonia; e s'ella ride
mill'alme infiamma e ancide, e ben può dire
chi di tanto gioire il petto accende,
o sue parole intende, o vede il riso,
ch'ascoso in bocca porta il paradiso.
Di bel diamant'un quadro
era il vago e leggiadro, puro e netto,
candido e casto petto: onde poi sorge,
né qua né là si storce, al mondo sola,
di cristallo la gola, il cui lavoro
a un vago tetto d'oro fa colonna,
ch'egual non ebbe donna in nulla etade.
Qui vera, alma onestade ognor si vede
assisa in ricca sede, e tien in grembo
e sparsi intorno al lembo, in mille giri,
mille santi desiri, e, tutti altieri,
mille casti pensieri e virtù rare.
Di qua scritto traspare intorno al core
timor d'infamia e sol desio d'onore.
Eran sotto un bel velo
dui pomi colt'in cielo le sue mamme,
dolci del mio cor fiamme; e quasi pare,
col bel vago ondeggiare, a tutte l'ore
che uscir vogliano fuore del bel petto
a mal grado e dispetto de la veste.
Amor in la celeste e terza sfera
non ha stanza piú altiera, e in nessun lido
have piú caro nido, o piú bel loco.
Qui tiene il carro e il fuoco, e si trastulla,
e di qua, sendo in culla, prese il latte.
Qui, se la madre il batte, si nasconde,
né sa fuggire altronde, e qui, ch'il brama,
chi lo cerca e lo chiama, il troverà
che assiso a forbir sta l'arco e gli strali;
or si rinnova l'ali, or la sua fiamma,
or scherza sol coll'una, or l'altra mamma.
Di qui per stretto calle
ad una chiusa valle si discende,
ch'a contemplarla accende ogni alma nata;
ma la difficil strata è chius'a tutti.
Qui son gli dolci frutti in l'arbor loro
altro che poma d'oro, né con occhi
visti già mai né tocchi ancor con mano.
Sol si mostra lontano il vago sito,
come dentro è gradito, e sol ne gode
un troppo fier custode, che mai scorta
fa, né mai apre porta ad uom che sia.
O dolce ombrosa via, via di conforto,
via d'un securo porto a gioia e festa,
ove già mai tempesta vedi o sente,
né mormorar de' venti; e ne l'entrare
di sopra al limitare avea descritto
per far il cor piú afflitto ognor ch'il pensa:
"Per la dolcezza immensa, che qui piove,
ambrosia e nettar non invidio a Giove."
Io so che penso invano,
per somigliar la mano, a mortal cose,
a avorio, a gigli a rose; perché Amore,
quando vuol farsi onore, non può d'ella
mostrar cosa piú bella o rara in terra.
Questa tien pace e guerra, e questa sola
dal petto ogn'alma invola! O man soave,
ch'hai del mio cor la chiave; o man sol cruda,
per me di pace ignuda, o man, tu sei,
carca ognor di trofei, strali e scintille,
la ver'asta d'Achille. Sol si dice
per te il mio cor felice, e tu, cor, sai
nessuna man fe' mai (ond'io ti scolpo)
più dolce piaga a un cor, né piú bel colpo.
Sotto il suo bianco piede
sempre il mio cor si vede esser calcato,
afflitto e strazïato; e ben contento
vive del suo tormento e lieto giace,
ch'ogni sdegno gli è pace. Infiamma i sassi
ovunque ferma i passi, ovunque muove
nascon mill'erbe nuove e mille fiori
con mille nuovi odori. Un lieto aprile
fa con l'andar gentile, se le piante
muove or dietro, or avante accorte e preste
nel bel danzar celeste e pellegrino
con dolc'e grato inchin pien di salute.
Pensa quanta virtute in lor si stende,
che l'erbe, i fior, la terra, i sassi accende.
Eran piú prezïose
l'altre sue membr'ascose, che la veste
non vuol le manifeste o le ridica.
Invida mia nimica! Or quel ch'uom vede
faccia del resto fede, e, donne ornate,
dite sua gran beltate. Saria nulla
chi scherza o si trastulla seco al letto
solo per mio dispetto (ahi sorte cruda!)
se per vederla ignuda in fonte o speco
andasse così cieco, o fussi stato,
com'Atteon, mutato allora in cervo,
da fieri can straziato a nervo a nervo.
Accolte tutte insieme
queste bellezze estreme in un subietto,
facean il piú perfetto e bel lavoro
che già mai fuss'in coro alcun del cielo;
giunte poi nel bel velo con tant'arte,
eravi in ogni parte leggiadria,
come in dolce armonia di canti e suoni
soglion diversi tuoni; né s'assembra
alle mortali membra la statura,
con sí giusta misura fatta ell'era,
vaga, leggiadra, altiera e chiunque sia
giurato certo avria pien d'ogni invidia
l'opra avanzar di Prassitele o Fidia.
Dove pur mi tirate
stanco a parlar di voi, occhi lucenti?
Occhi, di Giove sol folgori ardenti,
occhi, non per oblio di voi tacea,
ma per non sempre far nuova mia doglia,
perché li vostri e miei d'accordo insieme
anciser la mia speme.
Or s'a dir piú m'invoglia
la dolcezza e il gioir che in voi scorgea,
potrà morirne alcun mentr'io ne parlo,
ch'io tremo e moro meco a ripensarlo.
Gli occhi vaghi e leggiadri
eran sí accorti ladri e dolci arcieri,
sì pietosi guerrieri, che fean vaghe
di morte e di lor piaghe ognor mill'alme.
Dentr'eran mille palme e mille spoglie,
di mille accese voglie, con trofei
di mill'uomini e dèi carchi d'ardore,
e tra gli altri il mio cuor quivi vid'io
lasciato in cieco oblio; e per costume
s'intorno il chiaro lume ella volgea,
il mondo tutt'ardea, e sott'un velo
miravi l'uno e l'altro occhio del cielo.
Lasso, piango ch'il cuore
d'un agghiacciat'umore fu composto;
il piú freddo e riposto mont'altiero,
orrido, alpestre e fiero che mai fusse,
dal suo centro il produsse e sol gli porse
d'una tigre e mill'orse, al nascimento,
di latte il nutrimento; e poi crescendo
visse sempre bevendo assenzio e fiele
per farsi piú crudele, e dentr'al petto
di questa ebbe il ricetto. Essendo ignudo,
per coprirsi fe' un scudo poi davante
d'un rigido diamante, ove non vale
d'amor face, né strale, sangue o pianto,
né virtù d'erbe o incanto, o d'altra forza
pungergli pur la scorza; e chiar si vede,
poi che d'ogni mercede è privo e casso,
ch'egli è nato d'un sasso, né mai cria
pensier che basso sia, salvo per sorte
alcun pensier di mia spietata morte.
Il Geloso, finito che ebbe di narrar la cagion del suo male, prega il Vecchio gli narri la sua.
La bellezza è il mio mal, d'altrui la fede
or sai. Per tua mercede,
se non ti spiace, dì, perché ti lagni?
Ché giova assai nel mal trovar compagni.
Vecchio
Dirmi non è mestier: «Se non ti spiace»:
ché, come il mar per acqua mai non cresce,
dolor non mi rincresce
più del mal che mi sface,
né omai può dispiacer piú tormentarmi!
Ma se pur il dolore
mi stringe tropp'il core,
non potrà sí noiarmi
che amen non si ricordi oggi la mente
la cagion ch'ir mi fa cieco e dolente.
Il Vecchio racconta la cagione del suo male.
Ahi lasso! io dai primi anni
ne gli amorosi affanni lieto entrai,
ed una donna amai con tant'amore,
ch'un sí sfrenato ardore ugual al mio
mai si lesse né udio; nascosto tanto,
ch'io mi darò pur vanto, e dirò 'l vero,
ch'appen'al mio pensiero osai fidarlo,
non ch'ad altrui narrarlo; e così lieto
godea morir secreto, e piú bruciava.
Ed ella ancor m'amava veramente,
credo semplicemente; e in cotal duolo,
con lei send'un dì solo, presi ardire
il mio fuoco a scoprire, e sol dicea
quel che piú non volea, tutto tremante,
come suol ogni amante. Ella sdegnosa,
(qual chi sente dir cosa che l'attrista)
tutta mutossi in vista e i passi volse,
ed al mio dir si tolse con tant'ira,
che l'alma ancor sospira, e si rimembra
come restar le membra mie quel giorno
agghiacciate da scorno e da paura.
O ria disavventura, o crudel caso!
Vedendomi rimaso un freddo sasso,
indi pur mossi il passo ognor piangendo,
mia lingua riprendendo tropp'audace,
che ruppe ogni mia pace; e da quell'ora
tanto piant'uscì fuora dal mio speco,
ch'io ne divenni cieco, e tanto piansi,
che già molt'anni fansi a questi lumi
mancar gli usati fiumi, e s'or pur vonno,
lacrimar piú non ponno, e sempre l'alma
mi preme questa salma: che in quel stato
la lingua fe' il peccato e li tormenti
soffron gli occhi dolenti (ingiusto male),
perché l'error fu tale e tant'errai,
ch'ogni martìr non mi tormenta assai.
Geloso
E qual fu la beltade
con sí poca pietade?
Vecchio
Beltà, se com'in ment'io t'ho scolpita
sapessi con parole oggi ritrarte,
di mia pena infinita
forse scemar potria la maggior parte,
ché tal bellezza o sol mai non vedrai,
men cruda sí di lei, piú bella mai!
Il Vecchio narra la beltà della sua donna assomigliando le sue pene alle pene dell'inferno.
Quand'io vidi costei,
- ch'il crederà già mai? -
in un inferno di tormenti entrai!
La crudeltà di lei,
che per pietà di me ciascun la biasma,
m'avea creat'in mente un tal fantasma
ch'ognor ch'io lo mirava,
ch'in me l'assimigliava,
ratto m'eran presenti
tutti li fier tormenti,
tutti i martìr che son giù ne l'inferno,
ch'essempio altrui mi fen del duolo eterno.
Vidi poi, lasso me, nel primo giorno
ch'incauto corsi al suo vago splendore,
sospesi a le sue dure porte intorno
mille catene, mille ceppi e lacci,
mille cor, mille palme
di mille leggiadr'alme.
D'un abito vestiti di pallore
fean poi le guardie avanti,
con mille accesi ardori
temprat'in freddi ghiacci,
mille schiere d'errori,
mille fermi dolori,
ire, sdegni, furor, sospiri e pianti,
di pensier, di desir mill'ombre smorte,
sotto l'insegna di tormento e morte.
Disposto dunque a entrare
per la dolente porta,
presi il desir per scorta;
Amor mi fu Caronte,
ma non varcommi per l'usato fiume,
ma per la riva sol di Flegetonte;
per l'aria senza lume,
la barca, che nel fondo ognor s'apria,
fu tema e gelosia;
li remi fùr pensier, vela il tormento,
a cui li miei sospir fean sempre vento.
Dirollo o nol dirò? Deh, se con pianto,
ratto che 'l passo sua beltà m'aperse,
la sua durezza incontro mi sofferse,
che Cerbero latrar con le tre bocche
s'imaginò lo mio fosco intelletto,
ond'anche mi sgomento;
a tal timor par l'alma ognor mi tocche,
ché l'una mi privò d'ogni diletto,
l'altra me pose in mar d'aspro tormento,
la terza poi mi tols'ogni speranza.
Ahi cruda rimembranza!
Senz'altre essequie seppelliro insieme
ogni mio bel piacer, ogni mia speme!
Privo poi d'ogni ben, colmo di noia,
fuor di speranza, in me non vidi cosa
che fusse sí pietosa,
ch'io le potessi dar altro che pianti,
e per passar piú avanti,
di pena in pena e d'un in altro ardore,
alfin carco d'orrore
in bocca gli gittai per pasto il core,
e non già per saziar l'ingorde brame,
ch'era troppo poca esca a tanta fame.
Passando vidi l'òr de' suoi capelli
ch'in trecce parte, e parte a l'aura sparsi,
vivi fùr de le furie i fier serpenti,
e 'n mille nodi gli vedea girarsi,
ch'ognun mille spaventi
di paura e sospetto
m'infuse dentr'al petto,
con tant'orror ch'io venni, o caso strano,
in un momento furïoso e insano.
Quando poi giunsi a la serena fronte,
da l'aura sua pareami a ciascun passo
già già cadermi in su la testa un sasso.
E mai d'una tal selce il fier spavento,
o lungi o presso stia,
da me non si divide;
né cade, né m'ancide,
acciò che col timor cresca il tormento.
Or, qual vita è la mia,
vedermi minacciare (ahi cruda sorte)
sempre ruina al capo, al cor la morte?
Poi rivolgendo gli occhi
de le superbe ciglia al vivo nero
tinto in l'onde d'oblio,
d'ogni mio bel pensiero
le tenebre vid'io,
ove sommerse questa vita oscura
l'empia sua crudeltate e mia sventura.
Seguend'il van disire
a gli occhi miei s'offerser le due stelle,
che il ciel non ha di lor cose piú belle.
Vedea nel contemplar suo chiaro lume
tutte l'empie sorelle
invan empir lor urne (e per costume)
di mie lacrim'al fiume.
Né alcuna mai si stanca,
e il pianger mai non manca,
anzi ognor cresce tanto
quant'esce piú da l'urna fuori il pianto,
né placar può, quantunque assai n'asperga,
la crudeltà ch'in suoi begli occhi alberga.
Quand'in li giri carchi ognor di fiori
di sue leggiadre guance,
con mille scherzi e ciance
vidi nudi scherzar ben mill'amori,
in una ruota allor sentii legarmi,
e sí forte voltarmi,
ch'io non avea di pace un sol momento.
Inaudito tormento,
ch'altro non m'è concesso,
che fuggire e seguir sempre me stesso!
Da la sua dolce bocca
uscìo il crudel, rapace e fier augello,
che del mio sangue ognor si fa piú bello.
E in su le fibre del mio nudo petto,
senza riposo mai dargli, si pasce.
Poi sol per piú dolor, per piú dispetto
ciascuna piú feconda ognor rinasce;
né mai sazia sua fame,
ma con piú ingorde brame
le fibre e 'l petto insieme snerva e straccia,
né mai d'altrui pietà d'indi lo scaccia.
La sua gola mirando
mi si fe' ratto a fronte
di Sisifo il salir il sasso al monte:
poggiar pareami per la bianca gola
il peso d'un pensier insin al mento.
O fatica mia sola!
Poi ch'egli sdruccioland'era giù scorso,
per mio doppio tormento,
senza speme o soccorso,
mi convenia poi giù scender al basso
e ripoggiar in su la cima il sasso.
Così vagando, ahi lasso,
per l'usato cammin or basso, or alto,
l'ultimo sempre m'era il primo assalto.
Nel bel giardin del petto il rivo e i pomi
tanto mirar mi piacque,
ch'io fui Tantalo allor fra i pomi e l'acque;
poi s'io stendea la bocca o pur la mano
per saziar la gran fame o sete ardente,
ratto fuggiano l'onde e i frutti insieme.
O mia fallace speme!
E pur l'alma dolente,
per piú duol sempre in vano
l'odor de' pomi e il suon de l'acque sente;
onde la fame e sete che l'ingombra
pasce di vento e d'ombra.
O fier destino, o sempre nuova doglia!
Né per piú non poter manca la voglia.
Al fin poi giunto a la secreta via
che scendea giù dal petto,
fu chiaro a l'intelletto
ch'era il cammin de' vaghi Elisi Campi
ove nessun mai piede
vestigio par che stampi.
In così lieta e fortunata sede
l'intrar mi fu interditto!
Ahi sconsolato, afflitto
chi tropp'in altrui crede!
Qui mi lassò la mia fallace scorta,
che sen gì dentro e a me chiuse la porta.
Poscia smarrito, senza guida o speme,
né per preghiere spesse
o batter ch'io facesse,
impetrar mai potei ch'ella m'aprisse.
Intesi ben che disse:
- Non sperar teco piú vedermi mai! -
Ond'io, carco di guai,
rimasi sol co' miei pensieri insieme,
d'amor mi lamentando sempre meco,
sepolto nell'inferno e vivo e cieco.
Il Geloso comincia a pregare il Terzo cieco gli voglia narrar la cagion del suo lamento.
Geloso
Tu che piangendo pur cieco e dolente
udito hai 'l mal ch'ognun di noi sopporta,
or dinne il tuo, se forse il tieni a mente.
Narra il Terzo la causa del suo male.
Terzo
A mente?... Ahimè, ch'ovunque io vo' m'è scorta,
dal dì fu meco ogni mio ben sepolto,
fulminato il desir, la speme morta.
Pur s'ogni senso m'have il pianger tolto,
per far mio duol piú grave il vo' pur dire,
ben che piú chiaro scritto il mostr'il volto.
Non lingua o gelosia, ma tropp'ardire
de gli occhi, che tradîr sí tosto il core,
fu la prima cagion del mio morire;
bramand'un di fissar l'alto splendore
d'una ch'ha il cor di ferro o pur di smalto -
ma la pena è maggior piú che l'errore,-
ratto perderno il lume al prim'assalto,
onde di loro il cuor sempre si duole
ch'ebbero ardir mirar lume tant'alto.
Ahi quante volte il dì, mirando il sole,
dico: La tua virtù non fe' già mai
l'opra ch'oprorn'in me due luci sole!
Guarda col lor splendor tuoi foschi rai
non pareggiar, ché già di veder parmi
che, com'io cieco, ancor tu cieco andrai.
Ma non debbo sí a torto lamentarmi
del mio dolor, né del spietato oggetto,
se fùr contra di me le mie stess'armi.
Albergar non dovea nel mio ricetto
nemici del mio cor, e ch'in un punto
tradissen poi la rocca del mio petto.
Occhi miei ciechi, a tal per voi son giunto,
ch'indarno piango, indarno mi lamento;
per esser dal desir troppo compunto,
ecco qui il premio e il guiderdon ch'io sento!
Vecchio
Com'esser può (ahi dispietata sorte!)
da sí belli occhi uscir sí oscura morte?
Terzo
Ahimè, che per pietade
che d'altrui ho, tacer sol vorrei meco
l'alma sua gran beltade;
ch'altri, com'io, venirne potria cieco.
Pur dirò, pien di guai,
come a quest'occhi miei
s'offerse il primo dì ch'io la mirai,
in un bel, vago tempio
ch'era di sua bellezza vero essempio.
E chiamo in testimoni uomini e dèi,
che dican s'ho ragion morir per lei!
Narra le bellezze della sua donna, assomigliadola a un tempio.
Un tempio di beltà ch'ogn'altro eccede,
dal celeste architetto fabricato,
era il bel corpo, ché qualunque il vede
conosce in paradiso esser formato.
Sovra de l'uno e l'altro bianco piede
stabile e fermo tutto era fondato;
e facean basi, ancor di nuovo essempio,
a due colonne che reggeano il tempio!
Eran scolpite in su l'eburnea porta
di fuora con mirabil magistero,
in grembo di pietà speranza morta,
ch'a ciascun d'ivi entrar togliea il pensiero,
e fean d'ogni amator la vista accorta
per raffrenare il suo desir altiero,
note per man d'Amor scritt'e segnate:
«Lassat'ogni speranza, o voi ch'entrate».
Il prezïoso, vago e bel lavoro
che fiammeggiava nel superbo tetto,
eran li crini avvolti in gemme e in oro,
che fean sovente al sol onta e dispetto.
Del tempio l'onorato e sacro coro
era il leggiadro adamantino petto,
ove si forma l'armonia celeste,
che spira fuor parole alte ed oneste.
Le prime sedi, al bel coro leggiadre,
eran le dolci mamme al mondo sole,
ch'in l'una Amor, in l'altra la sua madre
lieta seder di tanta gloria suole;
di pargoletti amor mill'altre squadre
sedean d'appresso, e parte par che vole
d'intorn'a lei, con mille vari scherzi,
ed ella or par gli accoglia ed or gli sferzi.
Il cammin de l'occulta sacrestia,
che per intrar non ha guida, né scorte,
era quella secreta e dolce via
che l'ave in guardia una soave morte.
L'entrar non sol si vieta a chi 'l desia,
ma non pur a pensier s'apron le porte,
e se d'andarvi invan alcun s'accende,
armata castità l'uscio difende.
La colonna gentil, che schietta e sola
sostien la pietra del maggior altare,
era la bianca e cristallina gola
donde il fuoco d'amor chiaro traspare;
l'imagin ch'ivi avvien s'adori e cola
è la beltà del volto senza pare,
e seco avea dai lati in compagnia
vera onestade e vaga leggiadria.
Il sacrificio ch'ivi si facea
dal sacerdote al simulacro avante,
era il mio cor che sempr'in fuoco ardea
per placar quelle luci altere e sante.
Dipoi nel consacrar così dicea:
«Quest'è il cor d'un fedel piú ch'altro amante,
che dar piú non ti può sua spoglia essangue,
ch'offrirti il cor e darti a bere il sangue».
In su l'altar le faci e il vivo lume
donde ne suol pigliar suo foco Amore,
eran le guance sue, che per costume
togliono a primavera il primo onore.
Rendea sempre davanti al sacro nume
d'arabi incensi e sol d'ambrosia odore
un vago, ricco e prezïoso vaso,
ch'era il leggiadro e ben composto naso.
Del bell'altare le reliquie sante
era di sua vermiglia e dolce bocca
l'ascosa lingua, che s'audace amante
baciando a tropp'ardir forse trabocca,
di perle e di rubin li stan davante
cancelle e mura, che nissun li tocca.
L'organ del tempio e i musici istrumenti
eran suoi dolci e grazïosi accenti.
Nanzi a l'altar la sempre accesa lampa
era degli occhi 'l suo vivo splendore,
il cui bel lume innamorando avvampa
gli angeli in cielo, non che un mortal core.
Chi vuol fissar suoi raggi indarno scampa,
ché o cieco resta, o in quel momento more.
E chi non crede il gran valor ch'han seco,
miri qui morto me, sepolto e cieco.
Il titol che d'intorno a loro stava,
con frontespizio d'alta meraviglia,
era la chiara fronte u' si specchiava
Vener che sua beltà seco consiglia:
poi la cornice e l'arco, il qual formava,
eran le sue stellanti, altiere ciglia.
Sopra era scritto a tal ch'ognun discerna:
«Essempio sacro a la bellezza eterna».
L'ali de l'uno e l'altro lato adorno
divise con egual giusto intervallo,
eran le braccia che mi fen quel giorno
catene entrando a l'amoroso ballo.
Le mura che il cingean tutto d'intorno
mist'eran d'alabastro e di cristallo;
e di fuor tralucean senz'altro velo
come per l'aria a noi le stell'in cielo.
Li sacerdoti poi che stan davanti
al divin culto vigili ed intenti,
eran casti desiri e pensier santi,
omicidi d'altrui folli ardimenti;
e grazia e cortesia lieti sembianti
erano i vaghi fregi e gli ornamenti
del tempio; il bel custod'era il suo core
che non scaldò già mai fuoco d'amore.
Vedeasi ne l'uscir le vaghe mura
un'urna fabricata di martìri,
ove mia fe' piangendo in veste scura
facea l'essequie ai morti miei desiri;
senz'alcun fregio, o pompa di scrittura,
nera dal fumo sol de' miei sospiri,
e serbat'era ancor credo per sorte
riposo a l'ossa mie dopo la morte.
Miracol or non è s'un sí bel tempio
ratto a l'intrar al piè fu laberinto,
e s'ivi Amor di me fa sí gran scempio
come d'un suo prigion per forza vinto;
né men s'io vivo a tutto il mondo essempio
per mio soverchio ardir di lumi estinto,
perché la sua beltade è tanta e tale
da infiammar Giove in ciel, non ch'un mortale.
Vecchio
Creder non posso, né pensar che i fati
abbian indarno, pur senz'altro effetto,
tre ciechi insieme qui giunti e guidati.
Geloso
Or pensi tu che d'un sí vil soggetto,
o del nostro languir abbia il ciel cura,
s'al mondo siamo noia, ira e dispetto?
Terzo
Quanto saria per noi miglior ventura,
che n'andassimo a por tutti tre insieme,
così mal vivi e ciechi, in sepoltura!
Vecchio
Per l'incurabil mal che il cuor mi preme
son ben contento.
Terzo
Ed io.
Geloso
Dunque che resta,
se non morir all'uom ch'è fuor di speme?
Vecchio
Ma pria con voce lacrimosa e mesta
facciam, come li cigni in la lor morte,
l'essequie a nostra vita atra e funesta.
E s'alcun fia che 'l piè per caso porti
al comune sepolcro, ovunque ei sia,
sappia che fu cagion di nostra morte
ardir di lingua, d'occhi e gelosia.
Qui cominciano le essequie, deliberando tutti tre di morire.
CORO
Andiam lieti al morire
poi che in la nostra morte ascosa giace
insieme e vita e libertate e pace.
Quale gloria, qual palma o qual corona
si può di questa aver che sia piú bella?
Quel che perdiamo agli anni, oggi si dona
a fama tale, ch'or si rinnovella,
e ne sarem cagion d'eterno onore
morend'insieme martiri d'amore.
Geloso
Sarà pur fors'un giorno,
chi 'l nostro sasso vede
serbar una tal fede:
«Cortes'urna - dirà non senza pianti -
ch'accoglie insieme sí felici amanti!
Felici amante: poi che vostra sorte
vi giunse in pena, in vita, in gloria e in morte».
Terzo
Deh, s'or questi occhi miei morte chiudesse -
io so che parlo invano,-
quella che me li tolse amica mano,
quanto saria qua giù mia vera gloria,
sentendo la novella,
che una mano sí bella
ebbe di questi pur qualche memoria?
O mia lieta ventura,
se tant'onor portassi in sepoltura!
Guida
Dà per mercede, Amore,
a questi poi l'essequie,
la sempiterna requie,
e sempre nel tuo seno
godere un bel sereno.
Vecchio
Deh, fosse or qui madonna,
poi ch'ogni ben m'è tolto,
ch'avanti al suo bel volto
le chiedesser mercé tutti i miei sensi
con l'umiltà ch'al suo valor conviensi:
e pria del suo languir l'alma dolente,
poi di sue fiamme il core,
la lingua del suo errore,
e la memoria del dolor che sente,
gli occhi con maggior fede
de le tenebre lor qualche mercede.
Geloso
Tant'è mio fier tormento,
che quello del morir il prendo in gioco,
e spero nel sentir che sarà poco.
Deh, venga presto il fine
del duol che sta ne l'alma e l'alma accora.
Mai senza l'alma uscir non potrà fuora.
Va, spirto lieto, a morte,
perché fin che mal vivi, d'ora in ora
cresce doglia infinita:
Che piacer prender puoi d'una tal vita?
Terzo
Crudel, bench'oggi io muora,
non mi può morte far l'alma sí trista
che piú non sia il gioir d'avervi vista :
dogliomi sul morire
ch'io vorrei sempr'avesse
dolor chi tormentare,
e voi, crudel, chi ancider e ferire,
ed io sempre cagion di lagrimare
ma temo che la gloria del pensiero,
mai non vorrà ch'io sia di vita spento
acciò che viva eterno il mio tormento.
Guida
Dà per mercede, Amore,
a questi poi l'essequie,
la sempiterna requie,
e sempre nel tuo seno
godere un bel sereno.
Vecchio
Fra tante schiere, io sol cerco una schiera
di miei sospir, che sí secreta sia,
che non palesi mai la morte mia.
Ma non poss'io morire,
né uscir già mai di pene,
ch'ove vita non è, morte non viene.
Vivo non fui già mai,
ch'io spererei finire,
(tal è mio gran martìre)
e quest'è morte, e tu martìr, lo sai.
Ma s'è mestieri omai,
e convien far di qui presto partita,
ditemi voi, sospir, dov'è la vita?
Geloso
Ecco, crudel, ch'io moro,
né morte esser mi può tanto spietata
quant'è dolce la gloria avervi amata.
Parmi la carne a poco a poco moia,
e sento insieme i spirti e il cor e l'alma
uscir con tanta gioia
che non mi preme d'alcun mal la salma.
E s'or, del morir mio mentre ragiono,
una dolcezza tal pur mi conforte,
or che sarà la morte?
Crudel, quanto mi feste vi perdono,
se il ben ch'in vita non potei sentire
trovo or nel cominciar del mio morire.
Terzo
Morte aspettata, vieni,
ma fa che venga sí secreta e lenta
che il tristo cor il tuo venir non senta,
perché cotanta gioia
avria del tuo venire,
che non potria morire,
e tornarebbe a la sua prima noia;
ma vien con quella fretta
come dal ciel saetta,
che tuona, lampa e fulmina in un punto;
così da te sia, morte, il mio cor giunto.
Guida
Dà per mercede, Amore,
a questi poi l'essequie,
la sempiterna requie,
e sempre nel tuo seno
goder il bel sereno.
Vecchio
Dammi il premio, cor mio, che dar si deve
a chi suol apportar lieta novella.
Ecco che in tempo breve
morte già ne rappella,
e il suo correr ne aita,
sol per finir la vita;
né alcun pianga tal sorte,
perché con nostra morte
sarà sepolto un male,
il qual era immortale.
Geloso
Poi che il mio duol è tanto,
deh, come il cielo amen non mi concede
ch'io possa mutar cor, com'ella fede?
Crudel, or come il festi?
Te senza fé mi desti.
Ah fede, fede, sol di te mi doglio,
di me non posso, e d'altrui noti mi voglio.
Ecco, oggi l'alma scioglio,
e vi farò, crudel, nanti al cospetto
vittima del mio cor, urna del petto.
Terzo
Dicesi che la morte
un'ombra è ne la vista tant'orrenda,
che il nome teme ognun sol che l'intenda;
ed io che d'ora in or la mia già sento
nascer di mia nemica,
non è mestier ch'io dica
quanto sia il cor del suo venir contento.
Né dar mi può spavento,
ché da sí bell'oggetto
cosa nulla deriva
che faccia l'alma trista,
che non sia come lei sí dolce in vista;
e già ne l'intelletto
sì bella me la pinge il mio desio,
che il pregio d'ogni vita è il morir mio.
Guida
Dà per mercede, Amore,
a questi poi l'essequie,
la sempiterna requie,
e sempre nel tuo seno
goder il bel sereno.
Geloso
Io vi chieggio, crudel, nanti al partire,
acciò possa morire,
che mi rendiate il core,
sol per mercé d'amore,
ché pria che sia sepolto,
ancor vi renderò quel ch'io v'ho tolto.
(Mostra il Geloso li guanti tolti alla amica sua.)
Dolci, leggiadre, e prezïose spoglie,
mentr'Amor volse il mio perduto sole,
udite voi l'acerbe mie parole,
poi ch'egli con Amor cangiat'ha voglie.
È ver che dal bel nodo ognor si scioglie,
né mai del mio languir si dolse o duole?
Arde suo petto forse? O, come suole,
pur nuovo ghiaccio sovra ghiaccio accoglie?
Di me sovvienle mai come sia vivo
fra tanti pianti? che sia giunto a tale,
del suo chiaro splendor vedermi privo?
Se fu poca sua fé, se finta o frale,
il fuoco del mio cor d'ogn'altro schivo
sarà col mio desio sempre immortale.
A che per mio dolor pur meco state
tolte al mio cor, leggiadre e care prede,
ch'ognor ch'in mente il dì di voi mi riede
sete del pianto mio tutte bagnate?
Ite a covrir, s'in voi regna pietade,
de la sua bianca man la rotta fede,
ch'altri non sappia, almen se pur la vede,
sì poca fe' macchiar tanta beltade.
Benché in la fronte ancor chi mira fiso
vedrà gl'inganni ordire 'l cieco errore,
il finto sguardo e il suo fallace riso.
Ond'io mi dolerò sempre d'amore,
che mentre contemplava il paradiso
sotto la fede sua mi tolse il core.
Il Terzo mostra un velo di sua amica.
Terzo
Caro, leggiadro velo,
tu sol mi resti in segno di mercede,
testimon del mio amor, de la mia fede.
Velo, s'addietro m'asciugasti il pianto
con sí pietoso affetto,
deh, rasciuga oggi il sangue del mio petto.
Velo, s'un tempo quei crin d'òr covristi,
che in mille nodi il cor ciascun m'allaccia,
oggi, deh, non ti spiaccia,
rimasta che sarà mia spoglia essangue,
bagnato del mio sangue,
per tua mercede e mia lieta ventura,
coprirmi il volto e gli occhi in sepoltura!
Vecchio
Altro di lei a me non è rimasto,
che sospiri e tormenti
e lagrime cocenti,
e queste tolte m'ha pur la mia sorte,
ch'eran il mio diletto,
perché sospiri e pianti
son li piacer d'amanti;
ma tôr non mi potran oggi la morte
che d'ora in ora aspetto.
Deh, rendami oggi il core
almeno un tant'umore,
ch'accompagni quest'alma all'uscir fuore.
Guida
Ecco, sarà pur, donne,
di vostra crudeltà, ch'ogn'altra eccede,
memoria eterna la lor tanta fede.
E s'oggi il pianto altrui sovra la terra
occupato ha con sangue un spazio poco,
la crudeltà ch'in voi, crudel, si serra,
occuparà del mond'ogni gran loco.
Quantunque sconsolati
non si debban lagnar di sua sventura,
se non sol di natura
che fu sí intenta a far vostra beltade,
che si scordò nel fin darvi pietade.
Vecchio
Compagni, fuor di speme
il mal senza refugio
non dee cercar piú indugio.
Se n'è forza trovar la mort'insieme,
andiam or dunque presto,
ché non sarà il morir punto molesto,
ma per maggior pietade
di baci estremi 'n gli ultimi abbracciari
tra noi non siamo avari.
E se di là veder la tua non lice
a quest'alma infelice,
ricordati com'ei ti fu consorte
in cieca vita e in sconsolata morte.
Qui si baciano insieme per andare a morte.
Geloso
Compagni, eccovi il pegno
tal che l'un l'altro aspetti
nel regno de gli eletti.
Terzo
Or ci conceda il cielo
possiam con tal amor, poi tal partita,
vederne piú contenti in l'altra vita.
Guida
Di questi ciechi i pianti
muoven a compassion arbor e sassi,
e di lor mal sí fredda ognuna stassi!
Volgiam altronde i passi,
poscia ch'in queste strade
è morta ogni pietade.
Vecchio
Cammina, o fida scorta,
ché n'è doglia infinita
indugiar piú la vita.
Guida
Ecco ch'io m'apparecchio;
cammina, cieco e sconsolato vecchio.
Voltasi la Guida al Terzo.
E tu con tanto duolo
come saprai la via, se resti solo?
Terzo
Solo non resto no, ben ch'io sia cieco,
ché i miei tormenti ognor ne verran meco.
La via che mena a morte
non tien mai chiuse porte;
ovunque vorrò gire,
saprò ben il cammin del mio morire.
Va pur, va pur, perché l'immensa luce,
che luce nel mio bello, alto pensiero,
per ogn'erto sentiero
fida mia scorta e duce,
l'inferno allumeria
non che sí poca via.
Geloso
Io seguirò la traccia
del pianto e spesso fumo de' sospiri,
né sia mestier ch'appo di te mi tiri;
e s'alcun forse i passi
drizza tra questi sassi,
sappia, se correr mai ne vede un rio,
che fu del pianto mio.
Guida
Deh, se di qua d'intorno
si duol alcun di sí spietata morte,
dogliasi ancor di mia dolente sorte.
Fu visto mai da l'un a l'altro polo
sì nuovo caso, o forse piú dolente:
un misero figliuolo
guidar a morte tre, sí crudelmente?
Ah ciel, se piú il consenti,
credo n'hai tanto duol che il mio non senti.
Deh, questo pianger mio
s'altri non vuol veder, vedil tu, Dio.
Or su, mia voce, esclama
che tal premio si rende a chi ben ama!
ATTO SECONDO
(ILLUMINAZIONE DELLI TRE CIECHI)
SCENA I
Il VECCHIO, la GUIDA, il GELOSO, il TERZO e un SACERDOTE D'AMORE
Sacerdote
Chi siete voi che sí dolenti e lassi
gite piangendo? Deh, vogliate alquanto
dar loco al gran dolor, fermare i passi.
Ahimè, com'esser può vi stringa tanto
la lingua il duol, il cor gli aspri tormenti,
ch'invece di parlar risponde il pianto?
Vecchio
Fermar potresti pria mille torrenti
ch'una lagrima sol che l'alma attrista,
o pur un sol de' nostri empii lamenti!
Sacerdote
Ahimè, voi siete tutti ciechi in vista.
Terzo
Ciechi, come ne vedi.
Sacerdote
Or ove andate
con faccia di pallor sí tinta e mista?
Terzo
Gimo a trovar di morte la pietade,
sì com'al volto e a' panni si comprende;
se non c'é speme, il duol chiude le strade.
Sacerdote
Se te speranza cuopre, or che t'offende?
Terzo
Che piú quest'è signal di presta morte,
che non sempre un color suo effetto rende.
Sacerdote
(al Vecchio)
A te che mostri un duol sí acerbo e forte,
dimmi, che n'è cagion?
Vecchio
Mia vera fede,
la morte, vita e mia dolente sorte.
Sacerdote
(al Geloso)
O miser, il tuo mal donde procede?
Geloso
Da quel morbo infernal di gelosia,
che tanto cresce piú quanto l'uom vede.
Sacerdote
Pensandol sol è piú la pena mia,
che no 'l vostro martìr, che così guida
giunti tre ciechi in disperata via.
Terzo
Deh, la tua gran pietà non ci divida
dal proposto cammin; deh, piú non voglia
per troppa compassion farsi omicida.
Sacerdote
Fatemi almen saper di vostra doglia
più chiara la cagion che v'arde il core,
a tal che qui con voi pianga e mi doglia.
Terzo
Del nostro mal n'è sol cagion amore!
Sacerdote
S'amor è così nobil accidente,
com'apportar vi può tanto dolore?
Amor tutt'alme fa liete e contente,
ed in un punto amor sol fa sentire
mille dolcezze al cor, mille a la mente.
Terzo
Dolc'è il suo nome, dolce il suo desire,
ma ogni effetto suo pien è d'amaro;
brev'è sua pace, eterni i sdegni e lire.
Di morte liberal, di sangue avaro,
tutti suoi servi lascia in cieco oblio,
com'or costoro ed io morendo imparo.
O cieco errore, o pensier falso e rio,
a chi di vita ognor par che te sfide
sacrargli 'l tempio, e poi chiamarlo Iddio!
Iddio aiuta i suoi, questi gli ancide,
fere chi gli offr'il cor o voglie rare,
del mal di chi l'adora ognor si ride.
Ferita del suo mal, né piaga appare;
anime e cori son d'afflitti amanti
la lingua di sue fiamme in su l'altare.
Ministri di dolor son tutti quanti
li suoi piacer, di cui poi sol t'avanza
vergogna al fine, penitenzia e pianti.
O sol nemico a' tuoi, per lunga usanza
dirsi altro il tuo soggetto noti si puote,
ch'un van desir temprato di speranza.
Sacerdote
Non t'adirar con sí sdegnose note,
tempra, tempra il dolor.
Terzo
Dimmi chi sei.
Sacerdote
Io son d'Amor ministro e sacerdote,
e provat'ho suoi sdegni acerbi e rei,
li strali, il foco, e mai non ebbi gioia
fin che in sue man per vinto mi rendei.
Dunque pria che la stanca carne moia,
vogliate pur a lui drizzar il corso,
se pur bramate uscir di tanta noia.
Vecchio
È già sí avanti 'l nostro mal trascorso,
ch'in su la riva siam de l'ore estreme!
Sacerdote
Deh, sperate in Amor trovar soccorso.
Vecchio
S'Amor ne guida a morte, affligge e preme,
or come dunque vuoi ch'Amor n'aite,
e riponiamo in lui la nostra speme?
Sacerdote
O martiri d'Amor, o ben gradite
alme là su, ché qui di fede essempio
seran le vostre fiamme e le ferite,
deh, se dar fin cercate al vostro scempio,
or venite appo me, che gli è qui presso
del mio Signor il venerando tempio.
Geloso
Deh, se tal don a noi fosse concesso,
ch'Amor rendesse a noi la cieca luce
ed a me gli occhi che mi tolsi io stesso!
Terzo
Andiam, perché costui ne sarà duce.
Sacerdote
Venite pur, ch'io son vero presago
che il mal vostro a pietà certo l'induce.
Con l'acqua t'aspergo io del santo lago
di lagrime d'amanti; or in presenza
sête di sua pietosa e diva imago.
Pregate pur con fé sua gran potenza,
che mai di qui non torna chi l'adora
di mercé vôto o di sua grazia senza;
ch'io qui con voi piangendo il prego ancora.
Onnipossente Amor, o almo padre
de gli altri dèi, ch'in ciel reggi e governi,
trïonfo e gloria di tua bella madre;
temono il fuoco tuo gli spirti eterni.
Non sol là su, ma 'l tuo valor s'estende
ne i piú profondi abissi e lochi inferni.
L'invisibil tuo ardor ogn'alma accende,
ogni cosa qua giù sostiene e cria;
ciascun la forza tua lodando intende.
Ogn'alma qui t'invoca e ti desia,
talor ei te conosce e benedice
e per servirti ogn'altra cosa oblia.
Tu fai nel regno tuo viver felice
un'anima in duo corpi col tuo fuoco,
d'ogni effetto gentil prima radice.
Tu pace e guerra in un medesmo loco
fai tra speme e timor, fra risi e pianti,
e tempri ogni gran duol con piacer poco.
Signor, essaudi questi ciechi amanti;
vedi che son tuoi servi e tuoi soggetti,
mira con quanta fé stan qui davanti.
Infondi la tua grazia in li lor petti,
non li sian tue parole oggi interditte,
ma fa palese a' lor foschi intelletti
come le sorti sue sian qui prescritte.
Vecchio
Invisibil Signor, principe eterno,
che l'aria, il mar, la terra e ciò ch'è in lei
vive contento sotto il tuo governo;
o sol trïonfator che in tutto sei,
tu con la face e col tuo aurato telo
feri ed uccidi e scaldi uomini e dèi.
Eccom'a te, Signor del terzo cielo,
muovati 'l mio dolor ch'ogn'altro eccede,
la cieca vista, e il mio cambiato pelo.
O lume, o meraviglia, o specchio e fede
di ciechi amanti, è pien d'ogni diletto
l'occhio ch'in te s'interna e che ti vede.
Signor, fa chiaro al mio fosco intelletto
s'avrà mai fine il mal che mi tormenta,
ch'io, qui prostrato, sospirando aspetto,
fin che il responso di tua bocca senta.
Geloso
S'io t'ho, Signor, in mille modi offeso,
spregiando il tuo valor, curandol poco,
non merto dal tuo nume esser inteso.
Tua bella madre al mio soccorso invoco,
ch'ogni lode che a lei si rende o canta
è la gloria e l'onor del tuo bel foco.
Madre del mio Signor, leggiadra e santa,
del terzo ciel regina e imperatrice,
che la tua gloria tutt'il mondo vanta;
d'ogni ferito cor vera beatrice,
in te s'appoggia, e per te vive e scampa,
speme d'ogni amator lieto e felice.
O dea che di beltà sei specchio e stampa,
o fiume di dolcezza, o mar di gioia,
tra li lumi del ciel piú chiara lampa;
ride la terra, il mar, fugge ogni noia
nanzi 'l tuo lume, e nanzi 'l tuo bel viso
convien ch'ogni dolor sparisca e muoia.
Fai sempre, ovunque alberghi, un paradiso,
ove con mille Amor scherzando arriva
festa, canto, piacer, dolcezza e riso.
O nata in mar, notrita in fiamma viva,
tu sola eletta dal troian pastore
tra le piú belle dee, piú bella diva;
deh, s'ancor vive in te parte d'ardore,
del giovinetto volto, il fior sanguigno
che ti lasciò spirando in grembo il core,
prega tu, madre, il tuo figliuol benigno
faccia sua voce chiara a l'alma trista,
non risguardando al mio peccar maligno,
s'io mai spero d'aver l'amata vista.
Terzo
Ed io davanti al mio vero Signore
come potrò con prieghi rivoltarmi,
pensando al troppo ardir del primo errore?
Né voi potreste, invitte luci, darmi
tempra sotto tal corso di tal stella,
come d'Achille l'asta risanarmi.
O valid'arco, o sacre auree quadrella,
o preziosa faretra, ardente face
che festi nel mio cor piaga sí bella,
a voi ricorro, cui soggetto giace
l'aer, la terra, il mar, e far potete
ratto di mortal guerra eterna pace.
E voi che sempre insieme giunte siete
fide ministre al mio dolce Signore,
che sol di carità nome tenete,
unanime sorelle in trino amore,
come noi qui tre ciechi in un disio
d'un foco, d'una pena, e d'un ardore;
deh, mirate 'l mio duol, il pianger mio,
deh, grazia m'impetrate avanti a questo,
a questo invitto mio Signor e Dio;
tal che a l'orecchie mie sia manifesto
s'io sarò sempre essempio della gente,
ch'io qui, facendo un mar di pianto, resto
con le ginocchia in terra, e con la mente.
SCENA II
Amore e detti.
Responso di Amore.
Quel ch'a morir v'induce
vi renderà la luce.
Vecchio
Se 'l pianto fu cagion serrar quest'occhi,
come render potralli al suo splendore,
sendo impetrato il core
in modo tal che pianger mi si vieta?
O mio fiero pianeta,
dunque fia pur mestier ch'in vita oscura
mi doglia come pria di mia sventura?
Geloso
Se gelosia mi strinse a cavar gli occhi,
come render potrammi gelosia
la luce ch'avea pria,
s'io veder piú non voglio
la cagion del mio mal, ond'io mi doglio?
Occhi miei, per piú duol intender vuolsi
che mai non tornerete ond'io vi tolsi.
Terzo
Se lo sfrenato oggetto
de l'una e l'altra sfera
de l'empia mia guerriera,
che strusse la potenzia del mio lume,
il rimedio sarà contr'il costume,
perch'è il suo proprio effetto
disfar minor soggetto;
or resta come prima insieme unita
de gli occhi con le lagrime la vita.
Sacerdote
O veramente ciechi,
di cuor, di vista e d'intelletto stolti,
se gli occhi vi fùr tolti
non fu di pianto o gelosia passione;
ma la prima cagione
ch'Amor vuol che vi dica
è di ciascun a voi dolce nimica.
Ite, dunque, e trovate
la lor vera pietate.
Terzo
Andiamo, e sol Amor con la sua luce
sia nostra scorta e duce.
SCENA III
I CIECHI, le loro DONNE, il SACERDOTE e la GUIDA.
Vecchio
O che splendor di luminosi rai
sento ferirmi gli occhi;
e par che il cuor mi tocchi
una dolcezza smisurata e nuova.
Credo che qui si trova
la cagion del mio male,
ché certo un lume tale
con sí strana dolcezza,
non puote uscir se non di sua bellezza.
Geloso
Io debbo esser vicino all'ore estreme,
ché 'l fuoco e 'l ghiaccio insieme,
pugnando dentro al core,
me fan tremar d'orrore;
e già la piaga del mio petto essangue
comincia a buttar sangue;
già sento un freddo gel correr per l'ossa,
e par ch'a pena possa
tenermi sopra i piè senza fatica.
Qui certo è la mia morte o mia nimica.
Terzo
Io sento qui d'intorno
spirarmi al volto un'aura
d'un odor che ristaura,
non saprei come dirti,
tutti i miei sensi e gli affannati spirti.
Certo penso che sia
l'aura che suol spirar la vita mia.
Vecchio
Pensar non posso e presagir l'effetto
di questi vaghi segni;
fors'il ciel ne fa degni
di quel ch'Amor ne ha detto.
Restamo or qui con le ginocchia inchine,
ché le bellezze vaghe e pellegrine
certo son qui presenti,
e potranno ascoltar nostri lamenti.
Geloso
Donna pietosa e bella,
se volesse mia stella o mia fortuna
che da voi grazia alcuna avessi mai,
mi saria cara assai piú d'ogni gioia,
ché già con maggior noia e piú lamenti
e con maggior tormenti acerbi e rei
racquistata l'avrei con molto ardire.
Oggi avrò da venire con miei pianti
a' suoi begli occhi avanti, e pregar quelli
de' miei preghi ribelli; al suo splendore
l'oracolo d'Amore mi fa scorta,
e la mia fé mi porta a sua pietate,
pregandovi rendiate a l'alma trista
la vita con la vista, e ch'in oblio
poniate 'l fallir mio, ché fu cagione
di gelosa passione il duol pungente,
vedere falsamente, lamentarmi
e, per voler, cecarmi ambo duo gli occhi.
Tu, gelosia, trabocchi i ciechi petti
in mille empi sospetti, o turbatrice
d'ogni stato felice, o sepoltura
d'ogni vita secura, e sempre avvezza
mutar ogni dolcezza in stato amaro,
un gioir sempre raro, in pianto un gioco
e in freddo ghiaccio il fuoco, in un momento
togliendo il sentimento ad ogni amante.
Eccomi qui davante a sua mercede.
Faccia mia vera fede a sé m'accoglia,
ch'ogni pena è minor de la mia doglia.
Vecchio
O singolar bellezza, o vivo sole
de le tenebre mie, se qui soggiorni,
porgi l'orecchio al suon di mie parole.
Dammi col tuo splendor ch'oggi ritorni
da questa vecchia età, dolente e trista,
a piú tranquilli e desiati giorni.
Rendami tua mercé la cieca vista,
alma gentil, che sol tal forza è teco,
se l'oracol d'Amor tal fede acquista.
Trammi dal lungo e tenebroso speco,
ov'io sepolto fui per troppo ardire,
né far ch'errando vada omai piú cieco.
O sentenza crudel, dovria finire
la pena del mio error; dovresti ormai
per pietà di pietà le porte aprire.
Volgi a quest'occhi i bei lucenti rai,
dà lor la luce, ch'ave 'l pianto tolta.
ch'a torto soffron lor tormenti e guai.
Deh, lingua mia, che fai? Se lei t'ascolta,
manda parole fuor ch'abbiano effetto
destar quella pietà ch'è in lei sepolta.
Mostra, or che sei dinanzi al suo cospetto,
con pietoso parlar tutt'il mal nostro,
ch'io apro qui lo specchio del mio petto.
Ecco, le piaghe mie, donna, vi mostro,
ecco, le fiamme; 'l cuor mirate drento
ché vi è scolpito il volto e 'l nome vostro.
Donna, s'io mai v'offesi, ecco mi pento;
rendami 'l lume vostro tal mercede
ch'io faccia poi, riavendo il lume spento,
di pietà vostra al mondo eterna fede.
Terzo
O del mondo splendor, beltà infinita,
sola dolcezza al mio dolce pensiero,
o gloria d'onestà, grazia inaudita,
fido albergo d'Amor, sostegno vero,
occhi degli occhi miei, sol, calamita,
a voi mi volgo, in voi confido e spero,
da voi del mio languir mercede aspetto,
o luce e confusion d'ogni intelletto.
Deh, non voler davanti a queste porte
ch'ornai di mille fior per ogni banda,
oggi veder, per piú dolente sorte,
di questa spoglia mia farli ghirlanda;
né che mia disperata e cruda morte
la vaga fama intorno a tutti spanda,
che s'Ifi oggi sarò per troppo amarte,
potrai tu ancor venir come Anassarte.
Geloso
O leggiadra e gentil e ben nat'alma,
che sempre alberghi in cima al mio desire,
poi che ti piacque aver de gli occhi palma,
non la bramar ancor del mio morire:
sgombra dal miser cor la mortal salma
ch'io soffro a torto 'l mio crudel martìre.
Deh, rompan del mio pianto le trist'onde
quel duro scoglio che 'l tuo petto asconde.
E tu, pietà, con l'ale del tuo Amore
le vola per pietad'in mezz'al petto,
scaldale col mio fuoco 'l freddo core,
ponele 'l mio languir nel suo cospetto,
e dà de li occhi miei parte d'umore
cagion a' suoi d'un sol pietoso effetto.
Bagnala poi nel fonte di mercede,
ché la legge d'Amor serbe e la fede.
Terzo
Ecco ch'io vengo a te col corpo afflitto,
col cor ferito e l'alma in fuoco accesa,
poi ch'è in quegli occhi 'l mio viver prescritto,
che fùrno a gli occhi miei tropp'alta impresa;
deh, non mi sia almen oggi interditto,
che fia da te la mia preghiera intesa.
Rendimi 'l lume, e non far te immortale
con tua crudel beltade e con mio male.
Vecchio
O miei cari consorti,
carchi di fede e speme,
gridamo tutti insieme
con umil viso in terra:
«Pace, pace e pietà di nostra guerra»!
Geloso
Veggo, sí o no? gli è vero?
non me inganna il pensiero?
Terzo
Par che madonna io veggia,
se 'l desir non vaneggia.
Vecchio
Son ne l'inferno, over nel paradiso,
o son da me diviso?
Geloso
Donna, vostra mercede
ogni pietade eccede,
ma miracol non è di mia salute,
perché la gran virtute
e lo splendor che ne' vostr'occhi è fisso
può illuminar l'inferno e 'l cieco abisso.
Pur a tanta pietade
che grazie mai potria
render la lingua mia?
O celeste beltade,
in scambio sol d'incensi
l'anima vi consacro, il core e i sensi.
Terzo
Luce ch'avanzi il sole
di virtù, di splendor, di meraviglia,
qual miracol a questo oggi somiglia?
Sia benedetto il giorno
ch'a quel bel lume adorno
prima quest'occhi apersi,
quando 'l mio cor gli offersi.
Sia benedetto Amore
e 'l passato dolore,
benedetto il penar, la lunga noia,
poi che ogn'altro martìr rivolt'è in gioia.
Vecchio
O potenza infinita
di Madonna e di Amore,
o vecchiezza felice,
ecco ch'omai ti lice
col bianco pel godere
quel ben ch'in gioventù non pôsti avere.
Giorno beato e fausto,
io v'offro in olocausto
l'anima a te Signore,
e a te, Madonna, 'l core.
Geloso
Dunque torniamo lieti
a dar grazie ed onore
nanzi a l'altar d'Amore.
Vecchio
Donne pietose e belle,
a noi or gir conviene
a dar grazie ad Amor di tanto bene;
al vostro lume adorno
vi daremo ancor poi grazie al ritorno.
Sacerdote
Ecco ch'al vostro pur fosco intelletto
grazia v'infuse 'l mio celeste nume;
ecco l'oracol chiaro, ecco l'effetto.
Veggio a te gli occhi, a voi ridotto il lume;
Amor, tu sempre fosti (ond'io t'adoro)
un mar di carità, di grazia un fiume.
Te solo esalto, benedico e onoro;
o sol beato ch'in te spera e crede,
o d'affanni e martìr dolce ristoro.
Seguite 'l mio Signor con ferma fede,
che tutto egli è di gioia e fuoco adorno,
tutto ben, tutt'amor, tutto mercede.
Mille tavole affisse qui d'intorno
miracoli son pur di mille amanti,
che fa maggior sua fé di giorno in giorno.
Dunque, voi Sacerdoti sacri e santi,
rendete al nostro Iddio onor e gloria
d'un miracolo tal con suoni e canti,
fando del suo valor sempre memoria.