La chiave dell’ascensore

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                                      LA CHIAVE DELL’ASCENSORE

                                                     di Agota Kristof

                                                    

Personaggi:                                       Scena: 

Donna - età indefinibile                    Una stanza rotonda. Una tavola rotonda. Una finestra rotonda.  

Jacques - 40 anni circa                     Un lampadario tondo pende spento dal soffitto.

Claude - 40 anni circa                       Fuori scena:  a ds. Un letto con testiera. Una sedia.

                                                           a sin. Una scrivania con sedia. Un attaccapanni.

                                            ______________________________________

E’ primo pomeriggio. Un raggio di sole pieno  illumina la stanza.

Una donna su una sedia a rotelle. E’seduta davanti alla finestra chiusa, spalle al pubblico. Ha lunghi capelli biondi sparsi sulla schiena. Racconta con voce dolce un po’ cantilenante.

Nel letto Jacques, il marito, dorme come cullato dalla voce di lei. Sulla sedia i suoi vestiti.

Alla scrivania Cloude , il medico, assorto nella lettura di un giornale. Sull’attaccapanni un soprabito. Per terra una valigetta.

Musica: una malinconica Ballata Medievale.

DONNA -  C’era una volta una castellana giovane e bella. Nel suo castello appollaiato in cima a  

      un’alta rocca, ai confini della pianura, sognava, aspettava.

      Un giorno d’inverno, in cui infuriava una tempesta di neve, uno straniero giovane e bello bussò  

      alla sua porta. Le disse di essere un principe, esule, per gelosia di signori malvagi. Le domandò

      asilo. Non appena lo vide, la castellana seppe che era lui che attendeva.

      Rimase al castello fino a primavera. Poi partì  ma promise di ritornare quando avesse

      riconquistato il suo popolo e il suo potere. La baciò.

      Dalla finestra la castellana lo seguì con lo sguardo, gli occhi pieni di pianto, agitando il

      fazzoletto ricamato ancora molto a lungo, dopo che la nera silhouette fu scomparsa tra le nebbie   

      della pianura. (Pausa)

      La pianura si coprì presto di un verde violento, addolcito solo qua e là da una macchia di colza

      gialla e dal bianco tenero delle margherite selvatiche.

      Era l’estate. Un’estate demente tempestosa, che conficcava i suoi lampi fino in fondo al cuore

      doloroso della castellana. Sul volto senza sole della notte, scivolavano stelle cadenti, e cadevano

      come lacrime nello scuro dei laghi, nel profondo della foresta. La luna illuminava quella pianura

      immobile con un’indifferenza crudele e il paesaggio si torceva, e un’angoscia senza nome

      circolava tra gli alberi.

      Gli occhi blu della castellana si allargarono e divennero neri. Sotto la larga veste bianca, gocce    

      di sudore le cadevano fredde dalle spalle sui fianchi di fuoco. Poi venne l’autunno.

      La pianura si coprì di giallo, poi di bruno. Piogge dolci e interminabili. Foglie strappate, putride,  

      si schiacciarono sulla finestra.

      La castellana guardava la pianura. Aveva ritrovato il suo sorriso. Pensava al bacio ardente del

      suo principe, pensava alle sue promesse. Cadde la prima neve.

      L’inverno sembrava l’eternità. La castellana ricamava, guardando la brina; talvolta si curvava,

      soffiava sul vetro, e liberato col suo respiro un cerchio nel bianco, scrutava la pianura, fino a       

      quando l’immagine si riappannava. I giorni sprofondavano uno nell’altro, interminabili,   

      sprofondavano nelle notti, nel grigio del cielo, nel biancore accecante della pianura.

      E fu di nuovo primavera. E i fiori, e gli uccelli, e la speranza. E poi l’estate calda. E ancora

      l’autunno pacificatore. E ancora un inverno. E la primavera di nuovo. E la castellana sempre alla

      finestra, sorridente, bionda e bella. E davanti alla finestra, sempre, la pianura.

      Incolta, immobile, solo erbe alte ondulate dal vento del sud, che porta misteri,ardori,

      promesse di un altrove.

      Passarono gli anni. Un giorno un cavallo bianco, folle, al galoppo senza sella nell’immensità   

      della pianura selvaggia, che si ferma sotto le finestre del castello, che nitrisce ululando alla luna.  

      Come un cane, come un lupo. (Pausa)

      Una figura nera si stacca dalla neve. Curva, vacillante. La sua figura. Lascia una traccia di

      sangue, del suo sangue, sulla neve...traccia rossa, come le stelle… Cade! Le sue braccia sono   

      tese… Le sue labbra… Il viso è sconvolto dalla sofferenza… Come nel dolore…del desiderio.

      Ma era solo un incubo.

      Passarono gli anni. Nella pianura i colori mutavano, le erbe ondeggiavano…

      Una fitta nebbia impediva lo sguardo. La castellana si distolse dalla finestra.

      Si voltò. Vide la sua stanza. Un tavolo, un letto…

- Ma che ci faccio qui? Che ci faccio qui, sola, così? - Si domandò.

Da molto tempo non scendeva più, da molto tempo non aveva più visto nessuno. C’era una vecchia fantesca taciturna, che le portava i pasti, le rifaceva il letto…

Era da molto tempo che… Non contava più niente… Tranne la pianura.

Molto tempo. Quanti inverni erano passati? Quante primavere? Estati? Autunni? Non sapeva

più. Ma sulle labbra le bruciava ancora un bacio appassionato…ma tenero…

      Si avvicinò allo specchio. C’era una donna sconosciuta che la guardava. Una donna vecchia.

      Si sedette allo scrittoio. Scrisse una lettera. Si stese sul suo letto, fresco. Chiuse gli occhi.

      Un cavaliere vestito di nero galoppa sul suo cavallo bianco dai confini della pianura. Viene

      verso il castello. E’sempre più grande, sempre più grande.

- No, non voglio! Non voglio più! -

Un giovane viso si curva sulle sue labbra inaridite, la guarda negli occhi invasi dalle rughe.

- E’troppo tardi. -

Il principe la ricoprì della sua cappa nera.

      Desiderava essere sepolta da qualche parte nella pianura. La seppellirono nella cripta di   

      famiglia. Del principe nessuno ha più sentito parlare. (Breve risata demente)   

     

Via la musica.

      Io, sono stata più fortunata. Il mio principe torna tutte le sere. Non ho aspettato invano, io. Lui   

      non mi ha mai lasciata e così non conosco la solitudine. Al mattino, certo, parte per la pianura,

      ma poi torna, tutte le sere. Durante la giornata sono sola, è vero, e l’aspetto. Ma che cosa

      meravigliosa è l’attesa quando si è sicuri! (Per un attimo smarrita) Di cosa? Sicuri di cosa? 

      (Riprende) Sicuri…del ritorno…dell’essere amato. (Scuote la testa) Aspettandolo, io guardo la

      pianura e ricamo, come le castellane di un tempo…le castellane infelici…di una volta… Ma io

      non sono infelice! Io sono felice! Felice! Fe-li-ce! (Un grido demente) Uhu!

Il marito si agita nel letto.

Il medico infastidito chiude il giornale. Pian piano, distaccato, inizia a seguire il racconto.

 

      (Calma) Sono felice. Lui torna tutte le sere. Il mio principe! (Obiettiva) Che non è un principe.

      Fa l’architetto. (Pausa)  

      Per questo va via ogni mattina.Per lavorare. Se non lavorasse, non si potrebbero pagare le rate

      del nostro castello. Che lui ha costruito per noi. Per me. (Tetra) Un nido d’amore. (Sognante)

      Appollaiato sulla cima di un’alta rocca. Come nelle favole. (Secca) Lontano dall’inquinamento

      della città. Della pianura.

      Qui, nient’altro che abeti. Aria pura. Per me. Lui, poveretto, invece deve scendere ogni mattina 

      nella pianura. In città. Per il suo ufficio. Per il suo lavoro. Poveretto.

      Poveretto? Si, poveretto. Prima deve prendere la macchina, poi deve fare ben trenta chilometri

      per arrivare in ufficio. E lì il telefono che squilla, la gente che lo disturba… Mai un minuto di 

      pace. Poveretto!

      Mentre io… Ben protetta dai muri…

      (Vivace) Nessuno può arrivare sin quassù. Non c’è, una strada che porta qui. Il solo modo di

      arrivarci è l’ascensore. E nessuno ha la chiave dell’ascensore. Tranne mio marito. (Pausa)

      Io non ce l’ho la chiave dell’ascensore. (Pausa)

      D’altra parte, io non ho alcuna ragione di prenderlo, l’ascensore. L’aria pura della foresta mi

      arriva senza che io debba andare a cercarla. Non ho che da aprire la finestra.

Apre la finestra. Respira forte.

“Musica” di uccelli,  di foglie al vento

      Che meraviglia! (Pausa) 

      All’inizio, ce la avevo, la chiave dell’ascensore. E potevo andare a passeggiare nella foresta.

      Non potevo andare fino in città, ovviamente. E’ troppo lontana senza macchina. Ma passeggiavo

      spesso nella foresta. Mi piaceva. Ero tutta felice di sentire, di vedere, uccelli, scoiattoli, anche

      solo le foglie degli alberi che si muovevano al vento, che brillavano al solo. (Pausa)

      Primavera. Passeggiavo stupefatta da tutte queste cose bellissime della natura, quando - Aiuto! 

- un uomo mi apparve davanti, sotto una quercia, col fucile in spalla. Era solo un guardiacaccia,

certo, ma mi fece paura. E poi aveva i capelli biondi, la barba e gli occhi blù. Mentre mio marito ha occhi e capelli neri e porta il viso rasato. L’uomo mi porse un mazzetto di fiori.

- Tenga! Sono i primi fiori della nostra foresta. -  La “nostra” foresta?

      Mi sembrò un po’ forte…come dire…”la nostra foresta”… Insomma ci associava in un   

      modo…intimo, come se avessimo qualcosa in comune, lui, la foresta, ed io.

      Si avvicinò, sorridendo. Ed io allora sentii qualcosa di terribile. Paura, angoscia e comunque il

      mio cuore che batteva violentemente e volevo gridare ma non gridavo… Accettai i fiori, dissi   

      grazie e scappai. L’ascensore. Mi ci gettai dentro con tanto sollievo che mi faceva male.

      Arrivata nella mia stanza, lanciai il mazzo di fiori dalla finestra.

Chiude la finestra

      La sera raccontai tutto a mio marito. Lui sorrise.

Il marito parla nel sonno, rigirandosi. Cerca e trova, appesa alla testiera, la catena a cui è attaccata una CHIAVE  ENORME, la chiave dell’ascensore.

Il medico, attento, commenta mentalmente i fatti e prende appunti

MARITO - Meglio che tu non esca senza di me.

DONNA - Così mi ha preso la chiave dell’ascensore. Gentilmente.

MARITO - E’ per il tuo bene. Ti potrebbe capitare qualcosa di brutto. Ti potrebbero aggredire. Una

      donna sola, in una foresta così grande…

DONNA - Mi abbracciò. (Pausa) Non avevo più la chiave. Non potevo più uscire dalla mia stanza.

      Guardare dalla finestra, aspettare la sera, aspettare il suo ritorno.

      Ho cominciato presto ad avere delle noie alle gambe. Niente di grave. Un formicolio. Un po’ di  

      formicolio alle gambe. Dal momento che stavo seduta tutta la giornata, era normale. Però mi  

      disturbava. Mi era terribilmente penoso. Ne parlai a mio marito. Lui mi abbracciò.

MARITO – Non hai che da camminare, nella stanza. Gira attorno al tavolo.

DONNA – Lui ha sempre saputo quello che conviene fare. (Pausa) Così mi sono messa a 

      camminare attorno al tavolo. Così. (Gira con la sedia a rotelle intorno al tavolo) E ho chiuso

      la finestra, per non far entrare la primavera. Che voglia di camminare nella foresta! Ma non 

      potevo più, non dovevo più camminare nella foresta. Allora attorno al tavolo. (Lo fa) Poi mi  

      sedevo davanti alla finestra, prendevo il lavoro… Ricamavo aspettando la sera. (Pausa) Ma

      avevo sempre più fastidio alle gambe. E non avevo voglia di alzarmi. Sempre formicolii alle

      gambe. Me ne lamentavo tanto che mio marito decise di consultare un medico: Claude. Era un

      suo compagno si scuola. Un uomo di tutta fiducia. Mio marito l’ha invitato a cena, una sera, e

      abbiamo parlato, tutti e tre, sinceramente.

MEDICO - Non è grave. Un piccolo intervento sistemerà tutto.

Il medico tira fuori come dal nulla una SIRINGA ENORME.

DONNA - Mio marito mi ha sorriso. Claude mi ha fatto un’iniezione. (Pausa) Quando mi sono

      svegliata mi sono sentita meravigliosamente bene. I formicolii scomparsi. Però non potevo più

      muovere le gambe. Non le potevo più spostare. (Come un grave segreto)  Non potevo più

      camminare. (Pausa)  Claude ha dovuto uccidere i nervi. E mio marito mi ha fatto dono di 

      questa. Così posso ancora girare intorno al tavolo! (Lo fa) Posso ancora ricamare… Starò

      seduta a ricamare… Una castellana che ricama aspettando il suo principe… (Improvvisamente

      impazzita) Ma non posso più passeggiare nella foresta, e aver paura…ma era paura? Di un

      guardiacaccia con gli occhi blù, e di un mazzo di fiori, e della “nostra foresta”…

Singhiozza. Poi si calma, riapre la finestra. Il vento porta un canto d’amore, lontanissimo, che a tratti muta in fischio.

 

      Ho una natura cattiva. Non sono mai contenta: Appena finiti i fastidi alle gambe ho cominciato

      a soffrire di altri disturbi. Alle orecchie. Dei ronzii. Povero marito mio! La sera dopo una

      giornata di lavoro massacrante, invece di trovare una moglie consolatrice e allegra… Non

      trovava altro che lamenti.

      - Le orecchie, mi ronzano… Non sopporto questo silenzio… Non sopporto i rumori lontani

della città. -  (Pausa)  E’ tornato Claude. 

MEDICO - Non è niente. Un piccolo intervento…

Il medico “materializza” un’altra SIRINGA ANCORA PIU’ GRANDE.

Pausa.

DONNA - Non li sento più gli uccelli. Ne alcun altro rumore. Non sento neppure la voce di mio

      marito. Ma ho imparato a leggere sulle sue labbra.

    

MARITO - Dobbiamo preservare il nostro amore. Non è niente, tesoro. Pensa alla nostra felicità. Io

      sono qui. Noi ci amiamo.

DONNA - Ricamo. E’ inverno, le luci della città si accendono molto presto la sera. Molto prima che

      mio marito torni.

      Le luci della città! Oh, come mi piacerebbe esserci! Vedere della gente, sentire delle voci!

      Sentire delle voci? Vedere… (Pausa) La chiave dell’ascensore… Trenta chilometri, a pie di

      nelle foresta… (Ghigna) E con quali piedi? (Dolce) Non ho più le gambe, non ho più orecchie,  

      non ho più occhi. No, neanche gli occhi. Perché le luci della città non mi disturbassero più…per

      conservare il nostro amore… Claude è tornato. Un piccolo intervento…indolore, naturalmente.

Terza SIRINGA SEMPRE PIU’ GRANDE

      (Pausa) E ha ucciso i nervi. Oh, è un chirurgo molto abile…di fiducia… Così gli occhi mi sono

      rimasti, i miei begli occhi blù. Ma non ci vedo più. Anche le gambe ce l’ho ancora, ma non

      posso camminare. Anche le orecchie…eccole qui, ma non sento niente. Niente! Nemmeno la

      mia propria voce. La mia voce! La mia voce!

Un lungo urlo. Poi si tranquillizza.

Il marito balza a sedere sul letto. Si scuote. Poi inizia a vestirsi frettolosamente ma con cura.

Il medico butta in aria le siringhe con un ghigno, poi riordina la scrivania lentamente, poi sempre lentamente infila un soprabito e prende la valigetta.

Entrambi sembrano quasi impegnati in un grottesco balletto.

E’ il tramonto. Rosso. Lascerà spazio alla notte, buia, con luci lontane intermittenti, spente poi da un raggio di luna.

Dalla finestra iniziano  a entrare i rumori lontani della città: macchine, sirene, ecc…

      Mio marito trova che sono più bella così. Dice che adesso i miei occhi conservano sempre la

      loro migliore espressione, dolce e sognante… Mentre prima gli capitava talvolta di scoprire nel

      mio sguardo un piccolo lampo di ostilità, o addirittura di odio. Che idea!

Si ranicchia nella sedia a rotelle, torna alla finestra, si leva la parrucca bionda e la getta di sotto.

Ha capelli grigi e sporchi. La voce le si spezza, invecchiata.

      E andiamo, perché mai? Ho avuto una bella vita. Calma, tranquilla… Con l’uomo che amavo.

      Per fortuna lui mi è rimasto. Lui. Non mi ha abbandonata. Torna tutte le sere. E anche ora…non

      tarderà ad arrivare. Il mio principe! Che sarebbe di me senza di lui? (Pausa)

      Il guardiacaccia, anche lui, deve essersi invecchiato… Sono passati tanti anni… Quanti? Quanto 

      tempo vive la gente? Un’eternità, direi. (Pausa)

      Sembra che la città si avvicini. Me l’ha detto mio marito. Io capisco tutto quello che mi dice,

      seguendo con le dita il movimento delle sue labbra.

MARITO - (Finendo di vestirsi) Non resta quasi più niente della grande pianura. I palazzi, le

      strade, divorano la terra. E’ terribile! Per fortuna tu non lo senti, il rumore della città si è

      avvicinato. E si avvicina, ogni giorno dappiù. Il rumore fa molto male alla salute. Alla salute

      mentale della gente. C’è gente che è impazzita per il rumore. Sei fortunata tu.

DONNA - Si, si, sono fortunata io. Non sento niente. Che mi importa se la città si avvicina? I

      rumori non mi disturbano, più. E neanche le luci della città. E mio marito tornerà presto, il mio

      principe. L’aspetto, io l’amo.

Si volta di scatto. E’ una vecchia col volto segnato, gli occhi stralunati, trascurata. Ironica.

     

      Del resto, che lo ami o no, cosa cambia adesso? Non ho che lui. Allora lo amo e aspetto. Che

      altro potrei fare? Non c’è nessun altro da amare, qui. Né da odiare. Non ci sono che io.

      (Selvaggia) E mi odio. Vecchia sporca donna impotente, ti odio! Non ti resta che gettarti dalla

      finestra, nel vuoto, e fracassare sulle rocce la tua testa sorda e cieca. (Pausa) Ma perché?

      Perché improvvisamente tutto questo odio? Che ho fatto? Niente. E’ così, no? Non ho fatto

      niente! Niente! Quando la città arriverà ai piedi della nostra rocca mi butterò di sotto e la mia

      testa scoppierà sul selciato. Che la gente mi copra si sputi e di insulti. PAM! (Pausa) Non 

      sentirò nulla. Nessun biasimo o sarcasmo può raggiungermi. Niente, può raggiungermi.

Chiude la finestra. C’è un silenzio irreale.

Intanto il marito e il medico hanno raggiunto il centro del proscenio. Si salutano come vecchi amici.

    

DONNA - (Dolcemente) Non ce niente da fare. Non ci sento più. Non sento neanche la mia voce.

      Neanche la mia propria voce…

Un lungo urlo.

I due uomini salgono in scena, si fermano.

Ancora un urlo prolungato.

MARITO - E’ così da mesi.

MEDICO - Povero amico mio! E’ tremendamente penoso da sentire.

MARITO - Si. Perché si direbbe… si direbbe che soffra.

MEDICO - Di cos’altro ancora vuoi che possa soffrire?

DONNA - Tesoro? Sei là? (Tende le braccia verso il marito)

Il marito va ad accendere la luce.

MEDICO - Tu piuttosto, in questa situazione…

DONNA - Sei là mio principe? Vieni. Avvicinati.

MARITO - E’ che quando urla così ho l’impressione che non sia contenta 

 

MEDICO - Che non sia contenta. Comunque il problema non è più questo. E poi non è mai stata

      contenta. Ci siamo occupati abbastanza di lei. Adesso è la tua tranquillità che è in gioco. Il tuo  

      equilibrio.

La donna sembra ascoltare, piegata in avanti come una bestia.

MARITO - La mia tranquillità non ha importanza. Ma non posso sentirla soffrire così.

 

MEDICO - E tutta la notte, lo stesso circo, suppongo. Hai una cattiva cera Jacques. Certo che non

      puoi continuare il tuo lavoro in queste condizioni!

DONNA -  Caro, lo so che sei lì. Vieni. Ti aspetto da tanto.

Avanza in direzione del marito.

Il marito si inginocchia ai suoi piedi.

Lei gli accarezza i capelli e segue con le dita i movimenti delle sue labbra.

DONNA - Sei stanco vero, amore mio?

MARITO - Si, un po’. (A Claude, supplice)  Ti prego, fa qualcosa.

DONNA - C’è qualcun altro con te?

MARITO - E’ Claude, cara. (Tira il medico per un braccio in modo che lei lo possa toccare.)

      Vedi? E’ Claude. Toccalo. Lo riconosci, non è vero?

DONNA - Oh, Claude!

Il medico prepara un iniezione. Ha in mano una piccola siringa scintillante. Prende il braccio della donna.

Il marito le prende il viso fra le mani.

MARITO - Un piccolissimo intervento, signora. Indolore, naturalmente.

MARITO - Non griderà più?

DONNA - (Liberandosi) Ancora, Claude? Perché? Cosa può togliermi ancora? La vita, è vero? E’

      tutto quello che mi resta.

MEDICO - Ma no, ma no, andiamo. Lei ha ancora molti anni felici davanti a sé.

DONNA - Caro! Scuoti la testa. (Pausa)

Spinge via il marito.

Lui si allontana di spalle, i gomiti alti,  le mani sulle orecchie, quasi a tenersi la testa che ronza dal volume alto della voce di lei.

Il medico lo raggiunge.

Lei intanto continua a parlare agitandosi con la sedia a rotelle che sembra una parte del suo corpo tanto le aderisce nel movimento da ape impazzita.

DONNA - Oh, lo so! Lo so cosa volete da me. E’ la voce. E’ così, non è vero? Si, è così. Ma io non

      voglio! Non voglio! No! La voce, no! La mia voce no, capito!? La mia vita se volete ma non la  

      voce! No!

     

Afferra la borsa del medico, poggiata sul tavolo. Cerca frenetica e tira fuori un bisturi.

DONNA - La voce no, la voce no, la voce no…

MEDICO - Attento! Jacques attento! Ha preso il bisturi…!

La donna ha affondato il bisturi nella schiena del marito.

Lui si accascia al suolo.

Il medico si china su di lui.

MEDICO - Jacques…! …orribile donna…

Lei apre la finestra. Torna il rumore della città.

DONNA - (Dolcemente) Eh no! La voce no. Anche se io non la sento più…gli altri potranno

      sentirla… Qualcun altro… Molti altri.

      Bisogna che glielo dica… Tutto gli voglio raccontare… Ascoltatemi!

                                                            BUIO