La congiura

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LA CONGIURA

Tragedia in tre atti

di GIORGIO PROSPERI

PERSONAGGI

LUCIO SERGIO CATILINA

I seguaci di Catilina:

LENTULO, CETEGO, CEPARIO, GABINIO,

FULVIO, QUINTO CURIO LUCIO CORNELIO

I consoli:

MARCO TULLIO CICERONE,

CAJO ANTONIO

I senatori:

CAJO CESARE, MARCO CRASSO,

MARCO CATONE, QUINTO CATULO,

MURENA, PISONE,

DECIMO SILANO, TIBERIO NERONE

I popolani:

PUBLIO, TITO, DECIO,

FURIO PUBLIO UMBRENO,

legale

MUZIO, ufficiale

I legionari:

CURZIO, LIGARIO

Una guardia, un messag­gero;

Valerio e Sestilio,

due servi

SEMPRONIA,

patrizia

FULVIA,

giovane mantenuta

PRISCA, popolana

Senatori, popolani, soldati, allobrogi.

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

PRIMO QUADRO

Una stanza nella casa di Quinto Curio. Nell'angolo in fondo, a sinistra di chi guarda, un letto basso. In fondo a destra, una porta; contro la parete in fondo una cassa di vestiario e di oggetti personali. Nell'ar­redamento spicca un mobile di pregio, residuo di tem­pi migliori. (All'alzarsi del sipario vediamo Quinto Curio - trent'anni, biondiccio, agitato e febbrile nei movimen­ti per nascondere l'interno affanno - che passeg­gia nervoso avanti e indietro, osserva una clessidra, la rovescia perché la sabbia ha cessato di scorrere da uno dei recipienti nell'altro. Poi, come per una de­cisione improvvisa, va a sedersi sul letto, prende uno stilo e una tavoletta che aveva deposto li e si mette a scrivere. Sembra fare dei conti. Getta con rabbia lo stilo, si alza, va verso la porta, chiama)

Quinto Curio                 - Sestilio! Valerio! Non c'è nessu­no in questa casa? Sestilio! (Si affaccia alla porta un ragazzetto sui quindici anni, un giovane schiavo assonnato e male in arnese) Sestilio non è ancora tornato?

Valerio                          - Non lo so, signore... non l'ho visto...

Quinto Curio                 - Tu dormi, vero? Si capisce, il la­voro ti stronca!

Valerio                          - Siamo in due soltanto, signore, a fare i servizi... Prima eravamo di più...

Quinto Curio                 - Vuoi che mi sbarazzi anche di te?

Valerio                          - Io non ho fatto niente, signore...

Quinto Curio                 - Lo so. Lo vedo. Hai gli occhi gon­fi di sonno... E quell'altro vecchio imbecille che non si vede... Neanche la signora Fulvia è rientrata?

Valerio                          - No, signore, l'avrei vista, sono stato sem­pre accanto alla porta...

Quinto Curio                 - A giocare agli ossi con gli altri ra­gazzi del quartiere! Vero? E intanto qui va tutto in rovina! Guarda in che stato! Neanche il tempo di lavarti la tunica. (Valerio confuso si guarda addosso la tunica impataccata. Frattanto entra frettoloso Sestilio, un vecchio schiavo sui sessanta, uomo di fidu­cia di Quinto Curio)

Quinto Curio                 - Finalmente! Due ore per trecento passi!

Sestilio                          - Per Ercole, signore, non si circola!

Quinto Curio                 - Allora?

Sestilio                          - Una folla, signore, da fendere con lo scudo. E vino come se in cielo vi fossero botti in­vece di nuvole... Ne deve avere di denaro quel Marco Tullio. Ma dicono che c'è chi paga per lui.

 Valerio                         - E focacce, signore. Dicono che ci vor­rebbe una elezione ogni nuova luna.

Quinto Curio                 - (gridando a Valerio) Fuori di qui! (Valerio sgattaiola via. A Sestilio) Hai visto Ermagora?

Sestilio                          - Giuro che gli ho parlato da intenerire una pietra. Inutile. Dice che non fa più credito anessuno. Gli affari l'hanno rovinato. (Gli rende un cofanetto) Nessuno paga più, e quando si va a ven­dere...

Quinto Curio                 - Sono monili d'oro lavorato!

Sestilio                          - Lo so, li conosco da prima che tu na­scessi, signore. Ma lui gli ha dato appena un'occhiata e ha detto... Be', inutile, non li vuole.

Quinto Curio                 - Ha detto?

Sestilio                          - Niente, una volgarità...

Quinto Curio                 - Deve pungere forte se hai paura di ripeterla.

Sestilio                          - Per la memoria di tua madre, ti scon­giuro...

Quinto Curio                 - Ha detto?

Sestilio                          - ... che quella roba neanche le ragazze della Suburra la vogliono più... tranne una... Capisci? (Quinto Curio non ha il tempo di reagire che entra Fulvia. Ha veni'anni; è il tipo della giovane popo­larla precocemente corrotta. Ha l'aria chiusa e ran-corosa delle ragazze povere che accettano a denti stretti la condizione di mantenute. Comprende che il suo ingresso ha troncato un discorso. Quinto Curio fa appena a tempo a ricomporsi. Tenta di sorridere)

Quinto Curio                 - Fulvia...

Fulvia                            - Tu non sei a gridare per le strade coni tuoi amici?

Quinto Curio                 - T'avevo detto di non uscire sola...

Fulvia                            - Ho forse un'ancella che mi accompagni? O una lettiga alla porta come Cornelia, come Por­zia, come Sempronia,... come tutte le dame del tuo bel mondo?

Quinto Curio                 - La avrai; e di più, anche. E pre­sto...

Fulvia                            - (come ripetendo una vecchia canzone) Quando il vostro Catilina sarà eletto console... lo so... lo stanno gridando i tuoi amici ad ogni crocicchio; tutti i signorini profumati... come te... "Cittadini! Votate Catilina e scomparirà la vostra miseria! Avre­te la terra, avrete la casa, avrete parità di diritti!" E una folla di miserabili li sta a sentire con gli occhi spalancati. Poi fanno distribuire otri di pessi­mo vino, risalgono sui loro cocchi e se ne vanno. Ma quegli altri, quei miserabili, restano a piedi. Come milioni d'altri miserabili. (Indica Sestilio) Come ituoi schiavi. Come me. Tutti a piedi noialtri, tranne mio padre che va a cavallo perché è soldato. Vent'anni di cavallo. Deve avere le piaghe alle gambe, po­veruomo. Perché non gridi, tu? Perché non vai urlando per le strade: Pane e giustizia? Perché non ci credi! Perché lo sai che resterà tutto come prima! Al massimo avremo un padrone nuovo invece del vec­chio. Più affamato del primo.

Quinto Curio                 - Affamato o no, l'importante è sta­re dalla parte dove si mangia. E, per gli dei, questa volta ci saremo!

Fulvia                            - (guardandolo con ironico compatimento) Tu? Mio povero Curio! Che ne sapete voialtri delle mense vuote, delle lunghe serate buie senza nemme­no l'olio per la lucerna? Non è il pane che voi vo­lete; è la potenza, il denaro, la novità... volete ubria­carvi di novità per scacciare la noia che vi rode, can­cellare i debiti, fare le vostre vendette. E siccome siete in pochi volete arrivare al potere a cavallo dei poveri. Come se quegli altri non avessero capito la musica e non fossero pronti a ricevervi sulla punta delle spade. Oh... (L'esclamazione è rivolta al cofano dei gioielli che finalmente ha visto. Prende degli orec­chini e se li prova) Per me? (Quinto Curio e Sestilio si scambiano un'occhiata significativa) Non sono bel­li? (Quinto Curio le toglie gli orecchini e li rimette nel cofano che porge a Sestilio)

Quinto Curio                 - Roma è piena di usurai. Ce ne sa­rà pure uno disposto a comperare. Va e non tornare a mani vuote, altrimenti... Fila!... (Sestilio esce. Quinto Curio guarda Fulvia, che ha ascoltato atten­tamente, irrigidendosi)

Quinto Curio                 - Ti rendi conto, ora, perché è ne­cessario che noi vinciamo?

Fulvia                            - Ora so cosa vogliono dire i vostri bei discorsi sulla giustizia...

Quinto Curio                 - Non voglio perderti, Fulvia... E non ho altro mezzo...

Fulvia                            - ... che associarmi a un'impresa dispera­ta? Grazie, di disperazione nella mia vita ce n'è sta­ta anche troppa. (Fa per uscire, egli le sbarra la strada)

Quinto Curio                 - Dove vai, Fulvia? Che cosa vuoi fare?

Valerio                          - Signore, c'è un soldato...

Quinto Curio                 - Un soldato? Che soldato?

Cornelio                        - (entrando) Da quando in qua si tengo­no alla porta i vecchi amici? (Cornelio è un giovane dell'età di Quinto Curio, indossa l'uniforme di centu­rione ma ha i modi aristocratici nonostante una cer­ta rudezza militare nell'esprimersi. Al vederlo Quin­to Curio manifesta una lieta sorpresa e gli corre in­contro)

Quinto Curio                 - (abbracciandolo) Lucio!

Cornelio                        - Quinto!

Quinto Curio                 - Per gli dei, questa è una sorpresa. Sei magnifico per quel che mi ricordo quando parti­sti! Dunque, sono finite tutte le guerre? (Si accorge solo ora che Cornelio è imbarazzato dalla presenza di Fulvia. Presenta) Fulvia, questo è Lucio Cornelio, metà dell'anima mia... E questa è Fulvia... l'altra me­tà... per Giove, a me non resta più nulla! (Ride) Del resto ho un'anima io? (Fulvia, dopo un breve inchi­no, esce risoluta)

Cornelio                        - Tua moglie?

Quinto Curio                 - Ehi, ho la faccia d'un marito? (Al giovane schiavo Valerio che è rimasto incantato dall'uniforme di Cornelio) Che fai tu, li impalato? Due coppe e del buon vino, presto, si festeggia un eroe! (Valerio esce) Moglie... Come fossero tempi da pren­dere moglie... Un'amica; e nemmeno cara, coi prezzi che corrono. Trovata in strada, fresca come una rosa su un rosaio.

Cornelio                        - Aveva un'altra voce la tua musa. (Ci­tando) "Come timida cerva ella s'appressa alla fonte e nel vetro dell'acqua specchia il candido viso". Ti ricordi?

Quinto Curio                 - È tanto che non scrivo più... Ma tu, dimmi, parlami di te! Cinque anni d'Asia! Ebbi una tua lettera da Antiochia. È vero che ad Antiochia bevono il vino drogato per moltiplicare il pia­cere?

Cornelio                        - Quello che so d'Antiochia è una città vista di lontano con una cintura di torri. Una distesa di tende davanti alla città, qualche migliaio di ar­mati. Uno tra quelle migliaia, io.

Quinto Curio                 - Ma la guerra, dimmi della guerra.

Cornelio                        - La guerra... Forse ne sapete più voi qui, di chi c'è dentro... Per giorni si cavalca, insegne in testa, per piane sconosciute, verso monti che sem­brano di piombo. A un tratto ci si ferma al limitare di un bosco o dietro una duna. Si tende l'orecchio, C'è un silenzio fondo, come un vortice. Senti che i soldati ti guardano. Tu li guardi e le loro facce ti restano impresse per sempre. Spingi il cavallo in testa alla centuria, aspetti. Prima non senti che il cro­sciare lento delle foglie, il ronzio d'un'ape. A un tratto un vocio lontano, dei fanti che muovono all'attacco. Noi immoti, gli occhi fissi in avanti. Un minuto? Un'ora? Chissà... Poi tre colpi di tromba e già vedi la terra volarti sotto in un fragore di terremoto. Un lampo, ti dico, un cozzo, uno scroscio, una saetta sanguigna che ti attraversa la vista... (Entra il servo con l'anfora e le coppe. Quinto Curio gli fa il gesto di sparire e mesce egli stesso)

Quinto Curio                 - È Cecubo. Il poco che ne resta. Ti ricordi? È il vino delle nostre baldorie. È terri­bile, no? il campo dopo la battaglia.

Cornelio                        - La prima volta si. (Beve d'un fiato) Ma poi i morti si tolgono. È incredibile come siano leggeri malgrado le armi. Come li sollevi, le spighe schiacciate si raddrizzano in cerca del sole. La sera per miglia e miglia un mare di grano nasconde il sangue. I corrieri partono a briglia sciolta ad annun­ciare la vittoria.

Quinto Curio                 - (amaro) E il proconsole, dopo aver ritagliato la sua porzione, manda a Roma navi cari­che d'oro e di schiavi. E il senato decreta tre giorni di pubblici ringraziamenti. Ma di quell'oro quanto ne va ai tuoi legionari e alle famiglie di coloro che hanno irrigato con il loro sangue le campagne di An­tiochia?

Cornelio                        - Tu ti interessi di queste cose? Per Giove, quel sangue ha dato frutto se il dolce poeta Quinto Curio pensa ai reduci d'Asia.

Quinto Curio                 - (prende da un tavolo uno scritto e legge) Ascolta: "Le bestie selvagge hanno le loro tane, ma quelli che morirono per la difesa d'Italia non hanno altri beni che la luce e l'aria che respira­no." Sai chi ha scritto questo? Tiberio Gracco, uno della tua gente, lo dovresti conoscere.

Cornelio                        - (prende lo scritto, legge a sua volta) "E mentre tengono chiamati signori dell'universo, es­si non hanno di proprio una sola zolla di terra." (Pau­sa, come riflettendo) Un centinaio ne ho riportati con me, malati o anziani che avevano terminato la ferma... Per le strade la gente li applaudiva...

Quinto Curio                 - (interrompendolo) E tornati a ca­sa hanno trovato la ricompensa: venduto il campo, venduta la casa, venduti i mobili; perché questo han­no fatto le mogli e le figlie per sopravvivere. Se non hanno fatto di peggio: come Fulvia. Come tante. La Roma che tu hai lasciato, Cornelio, non esiste più; mentre voi combattevate per la signoria dell'univer­so, qui gli arricchiti coi vostri bottini di guerra han­no comprato tutto: i campi, le città, l'onore degli uomini, la virtù delle donne... Ti sfido a trovarne una in tutta Roma, a meno che non sia vecchia o brutta come una Parca, che se ne resti in casa a fi­lare lana... (Rientra il servo Sestilio coi gioielli. B avvilito e impaurito)

Sestilio                          - Fammi frustare, signore, mettimi alla catena come un cane...

Quinto Curio                 - (strappandogli di mano il cofano) Vecchio imbecille...

Sestilio                          - Ho fatto tutta la via degli orafi, signo­re, nessuno li vuole, nessuno... Oggi, dicono, c'è roba assai meglio che viene dall'Oriente e costa meno...

Quinto Curio                 - Vattene, prima che t'uccida! (Se­stilio sparisce. Quinto apre il cofano, solleva un gioiello, lo mostra a Cornelio) Erano di mia madre. Se ne parlava in piazza quando se li metteva per le grandi occasioni. Adesso neanche le prostitute di un certo rango li vogliono più. Roba vecchia. Come tut­to quel poco di buono che ci resta.

Cornelio                        - Se hai bisogno di denaro...

Quinto Curio                 - Ce ne vorrebbe troppo, amico, per pagare i debiti e mettersi sul piano di certa gente.Ma, per Giove, se Catilina è eletto console molte cose muteranno. Io sto con lui.

Cornelio                        - Sergio Catilina... Uno che s'è macchiato di sacrilegio... Che ha offeso le leggi della Repubblica e quelle del cielo...

Quinto Curio                 - Un animo audace, energico, un corpo che non cede a veglia o a stanchezza.

Cornelio                        - Processato per malversazione, accusato di assassinio...

Quinto Curio                 - Gli uomini dimenticano se c'è di mezzo il loro interesse. Quanto agli dei, da un pezzo I non si occupano di politica. Li capisco. (Mesce altro vino e porge a Cornelio) Mio povero Lucio... Non ci siete più che tu e questo vino della vecchia Roma. Cercate di intendervi.

Cornelio                        - (beve, si alza, cammina a passi concitati) Non è vero! Non può essere vero! Se in una città c'è odore di fogna vuoi aprire tutte le fogne per som­mergerla? Ci sono uomini illustri, buoni cittadini...

Quinto Curio                 - Un nome.

Cornelio                        - Caio Cesare.

Quinto Curio                 - Sta con noi.

Cornelio                        - Marco Tullio Cicerone.

Quinto Curio                 - Un fatuo. Un ambizioso.

Cornelio                        - Perché non sta con voi, si capisce. Ma! io lo conosco. Lavorai un po' nel suo studio prima! di partire. E conto di tornarci se la politica non ce lo toglie del tutto. È un uomo puro.

Quinto Curio                 - L'unico. Per questo i signori del Senato hanno dovuto accettarlo a denti stretti come loro campione. È il solo uomo decente da presentare agli elettori. Ma la sua eloquenza è una collana di perle che serve a nascondere il collo grinzoso di una vecchia sgualdrina. E lui ha accettato. Perché? Forse perché dall'altra parte la gente è troppo affamata per applaudire i bei discorsi. E lui senza applausi non può vivere.

Cornelio                        - Via, Quinto, non credi che la rivalità letteraria ti faccia velo al giudizio? Lo so che i poeti non amano gli oratori. Voi fate piccoli versi, essi ver­sano fiumi di parole. Voi avete una decina di ascol­tatori, essi commuovono le folle.

Quinto Curio                 - Anche Catilina, anche Cajo Cesare sono oratori. Ma dalle loro bocche non cadono perle. Escono idee nitide come lame di pugnale. Idee per chi non ha paura, al momento giusto, di stringerlo davvero, un pugnale. E siamo in molti, Lucio, più che tu non immagini. Autronio, Cassio Longino, Fulvio Nobiliore... Ti ricordi? Si giuocava insieme. E Pu­blio Lentulo, Cepario, Gabinio, uomini illustri ed oscuri... E il tribuno Lucio Bestia, Lucilio...

Cornelio                        - (ride) Lucilio! Lucilio che fa politica! Bisognerà dare il voto alle donne!

Quinto Curio                 - Sono cambiati, Lucio, non li ri­conosceresti più. Chi aveva un'anima severa s'è fatto tetro. E chi inclinava ai piaceri non ha più freno ai suoi desideri. L'epoca è scardinata. Non vuoi incon­trarli? Ti convincerai tu stesso.

Cornelio                        - Non mi va di vedere amici andati a male giocare alla rivoluzione.

Quinto Curio                 - (serio) Bada, non è un giuoco. È un contagio mortifero che sta guadagnando tutti, giorno per giorno. Qualcosa deve pur cambiare a Ro­ma... E occorrono uomini come te dalla nostra parte, immuni dal contagio.

Cornelio                        - Non sarò dei vostri, Quinto, dovessi vendicare un amico. L'istinto di distruzione l'ho esau­rito in guerra. Se ora c'è da chiedere giustizia, fin­ché Roma è una libera Repubblica la chiederò secon­do le leggi.

Quinto Curio                 - Se Catilina è eletto al Consolato si farà giustizia secondo le leggi. È l'ultima spe­ranza...

Cornelio                        - Speranza! Quando si confidano le leg­gi ad un criminale, la disperazione ha già vinto. (Al­tro tono, come a se stesso) Avevo immaginato diver­so questo ritorno. (Riprendendosi) Ma c'è altra gente a Roma...

Quinto Curio                 - (lo guarda, poi studiando l'effetto del­la notizia) Anche Livia Sempronia è con noi.

Cornelio                        - (colpito come da una frustata. Una pausa per dominare l'emozione) Sempronia?

 Quinto Curio                - (crudele) Sei stato uno sciocco ad andartene.

Cornelio                        - Per me era impossibile, lo sai bene.

Quinto Curio                 - Andarci a letto?

Cornelio                        - Quinto, per la tua amicizia, ti prego!

Quinto Curio                 - Lo so. Era troppo bella, troppo colta per te, povero ragazzo. Parlava in greco coi maestri di retorica, che le stavano attorno come ve­spe... Certo, era una dea da non osare levarle gli oc­chi in faccia. Che ti mancava, di', per averla?

Cornelio                        - Che s'accorgesse della mia esistenza.

Quinto Curio                 - Orgoglio. Ecco una malattia di cui non soffriamo più. Lei meno degli altri. (Vedendo lo stato in cui è Cornelio) Su, su, fa conto di avere un dardo fra le costole. Stringi i denti, uno strappo e tutto è passato. (Pausa) Era stata l'amante di uno di quei retori. Il marito chiuse un occhio. Poi do­vette chiuderli tutti e due. Si offriva agli uomini più di quanto non fosse richiesta. Catilina la tiene in grande considerazione. Molta gioventù dorata s'è con­vertita a noi nel suo letto. Ecco, ho vuotato il sacco. Fa male, eh?

Cornelio                        - (dà di piglio a una coppa e la scaglia a terra) E io sono ancora vivo per gli dei dell'In­ferno!

Quinto Curio                 - Ecco, ecco, cosi. Grida. La rivolta è una buona medicina per le ferite dell'anima.

Cornelio                        - Una rivolta per dar ragione ad una sgualdrina? No! (Buio)

SECONDO QUADRO

Un luogo di riunione in casa di Sempronia. Il pe­ristilio o una grande stanza con un balcone, dal quale si possa udire ciò che avviene al di fuori. Una porta dà nelle stanze di Sempronia, un'altra conduce fuori.

Due viaggiatori, col mantello impolverato, stanno osservando curiosi, mentre aspettano, il luogo che li ospita. Sono giovani, uno in sottordine all'altro. Il più giovane dei due è evidentemente ammirato.

2° Messaggero              - Che lusso, la rivoluzione. Non avre­mo sbagliato indirizzo? (Entra Sempronia. È bella, elegante, tra i venticinque e i trenta. Ostenta mag­giore sicurezza di quanta in realtà non ne abbia. Il 1° Messaggero le va incontro)

1° Messaggero              - Livia Sempronia?

Sempronia                     - Sono io.

1° Messaggero              - Veniamo da Fiesole.

Sempronia                     - Dal campo di Cajo Manlio?

1° Messaggero              - Abbiamo un messaggio per Cati­lina. (Le dà un plico) Manlio ti manda i suoi saluti.

Sempronia                     - Sta bene?

1° Messaggero              - Benissimo, signora. La miseria è un buon concime per chi coltiva ribelli.

2° Messaggero              - Magri come cani da caccia, signo­ra. Un esercito di segugi. Non vorrei essere la lepre.

Sempronia                     - Vi farete rifocillare, voi e i vostri ca­valli. Catilina sarà qui tra poco.

1° Messaggero              - Col tuo permesso, signora, torne­remo. È tanto che non vediamo la famiglia.

(i due si inchinano ed escono. Sempronia va a ri­porre il plico in uno stipo. Entrano Cesare e Crasso. Cesare poco oltre i trentacinque anni. Magro, pallido, quasi calvo. Si esprime con eleganza, non senza scat­to. Crasso si avvicina ai cinquanta. Rude, con una si­curezza che gli deriva soprattutto dalla borsa abbon­dantemente fornita)

Cesare                           - Salute alla divina Sempronia.

Sempronia                     - Salute a Cajo Cesare e a Marco Li­cinio Crasso. Ti trovo splendidamente, Marco Licinio.

Crasso                           - Faccio una nuova cura. Risanamento edi­lizio. È un genere di affari che avrà fortuna qui in Roma.

Cesare                           - Compera baracche e costruisce palazzi.

Sempronia                     - E controlla i prezzi dei fitti.

Crasso                           - (allegro) Oh, molto a buon mercato! So­no un democratico, io! Conquisto Roma a lotti di ter­reno, fabbricato per fabbricato.

Sempronia                     - E se il partito, com'è nei suoi pro­grammi, incamera tutto?

Crasso                          - Appunto! Tutto sta essere il partito! (Ride, poi più prudente) Ho parlato tra amici, natu­ralmente...

Sempronia                     - (dopo una pausa) Credevo che occor­resse una passione per rischiare cosi.

Crasso                           - Non rischio molto, io. Son tutti appesi ai cordoni della mia borsa, reazionari e ribelli. Una splendida tastiera. Basta saper suonare. Forse ho la passione della musica. Catilina ha mandato notizie?

Sempronia                     - Non ancora. Com'è l'aspetto della città?

Crasso                           - Puzza di vino. Dunque tu hai una pas­sione?

Sempronia                     - Si, quella del disordine. £ un buon eccitante.

Cesare                           - Ho visto Catilina. Predicava a un branco di straccioni. Per Giove, pareva che li insultasse.

Crasso                           - Meglio, voteranno per paura.

Cesare                           - O ci abbandoneranno. La paura è irra­gionevole, come la passione. La mia passione è di non averne alcuna. Adoro il risparmio.

Crasso                           - Tu, il più prodigo degli scialacquatori!...

Cesare                           - Risparmio di tempo, dico, di errori, di sentimenti, forse di sangue... Questa è un'occasione unica per risparmiare anni di incertezza. Anni inu­tili, assurdi... Quella metà d'Italia inquieta per fa­me, oggi basterebbe una legge a pacificarla. Tra die­ci anni andrà a ingrossare le file di un generale for­tunato da contrapporre al grande Pompeo.

Crasso                           - Eh via!... Dieci anni ancora a quello scroccone di trionfi?

Cesare                           - Lo nutrono bene a quel che pare. Lui d'altra parte nutre loro. Un animo integro, rispetto­so delle leggi...

Crasso                           - Solo perché non ha il coraggio di violar­le. Campione dei benestanti. Vivono tranquilli con lui. Ma per gli dei, se perderemo le elezioni, invece di un partito, avrò comprato un esercito. Mio. Ve­dremo allora chi è miglior capitano.

Cesare                           - Un esercito, quell'accolta di affamati?

Crasso                           - Comprerò le sue legioni, se occorre. Com­prerò tutto, persino il suolo dove poggia i piedi. Vo­glio vederlo bussare alla mia porta e chiedermi il permesso di vivere. Anch'io, si, ho una passione!

Sempronia                     - Signori, quale febbre! Ci volevano le elezioni consolari perché Licinio Crasso parlasse co­me un nuovo Armodio e Cajo Cesare si levasse di buon mattino. Eppure non vai a letto con le galline.

Cesare                           - No, con i galli.

Crasso                           - Non sarebbe la prima volta! (Ridono)

Cesare                           - (serio) Sempre aspetto per dormire che cantino i galli. Se leggo chiudo il volume. Se bevo poso la coppa e ascolto. Li sento rispondersi dagli orti dall'Aventino al campo di Marte. È l'ora in cui i contadini escono dalle capanne... e i capitani mon­tano a cavallo. Per le strade si comincia a udire uno scalpiccio e un rumore di carri. È la vita che ripren­de. Questo allontana il pensiero della morte e induce a una tranquillità che concilia il sonno. Non li avete sentiti stanotte come cantavano?

Sempronia                     - Cesare è diventato superstizioso? Una volta negava anche l'anima immortale.

Cesare                           - Quando un evento sta per compiersi mi aspetto sempre che avvenga nella direzione esatta. Odio le occasioni mancate. (Entrano Quinto Curio e Cornelio. Cornelio non sa distaccare gli occhi da Sem­pronia)

Quinto Curio                 - E io non l'ho mancata, Cajo Ce­sare! Vi porto fresco fresco un reduce d'Asia, virtuo­so come Bruto e glorioso come Scipione. Brucia del fuoco di giustizia. (A Sempronia) E d'un altro fuoco segreto. Non lo riconosci?

Sempronia                     - (a Cornelio) Avvicinati, eroe, che la mia memoria si risvegli... Per Giove, si diventa uo­mini, in Asia. Somigli a Lucio Cornelio come un pu­rosangue a un timido puledro. Cinque anni d'Asia?

Cornelio                        - Si invecchia di più a Roma in un giorno.

Sempronia                     - Allora, noi siamo morti. Bene, ci sì toglie il pensiero. Non credevo che fosse cosi sem­plice. Che impressione ti facciamo dall'altra riva?

Cornelio                        - Anche qualcosa di me è morto. Qualcosa che m'era caro.

Sempronia                     - Ne parli come d'un lutto recente.

Cornelio                        - Infatti... (Dalla porta che dà nelle stan­ze di Sempronia appare un bel giovane ancora asson­nato, Fulvio. Si stira. Poi vedendo tanta gente si ricompone)

Fulvio                            - Salute a tutta l'adunanza. Per gli dei, deve essere un'ora impossibile. (Sbadiglia) Ah, che sonno di piombo... (A Sempronia) Il tuo vino è dolce ma smemora. Chi di voi stanotte m'ha vinto cento­mila sesterzi? Ho un debito con qualcuno ma non ricordo chi. Ditemelo, sono un uomo d'onore. (Ride di un riso sciocco. A Sempronia) Li hai vinti tu?

Sempronia                     - Tu eri qui, stanotte? (Fulvio resta un attimo interdetto. Dà un'occhiata alla porta dalla quale è entrato, come per assicurarsi che non sogna, ride)

Fulvio                            - No. In verità ero sulla luna. Contavo gli astri. Luminosi, erano, come occhi di donna...

Sempronia                     - Tu deliri. Cattivo segno.

Fulvio                            - Per gli dei, non sapevo d'essere invisibi­le come il padre Giove con la moglie di quel tale. Non hai sentito un brivido solenne?

Cornelio                        - (a Fulvio) Basta cosi! Perché ti ostini contro la verità?...

Fulvio                            - E si che c'era gente... (Rivolgendosi cu­rioso a Cornelio) Noi ci conosciamo?

Cornelio                        - Una volta ti chiamavi Fulvio Nobìliore. Adesso non so più...

Fulvio                            - Già... Ad essere sinceri non lo so nean­che io... Nulla è definitivamente vero di quel che suc­cede. (A Sempronia) Non è vero, signora? L'ha detto uno dei tuoi filosofi. Nessuno si bagna due volte nel­lo stesso fiume. È vero, per gli dei. (A Cornelio) Tu non eri una volta Lucio Cornelio?

Cornelio                        - Fino a ier l'altro l'avrei giurato.

Fulvio                            - E adesso sei anche tu uno che aspetta di sapere chi è... Coraggio, tra poco lo sapremo tutti. Voglio vedere la faccia del mio vecchio quando gli dirò: fuori di qui, Catilina è eletto console e noi sia­mo con lui! E se mi dice figlio, gli taglierò la lingua a colpi di verga. Ah, fatemi sciacquare la bocca, ho la nausea! (Si mesce da bere, alza la coppa) Alla libertà, signori! A un mondo senza mummie e senza tiranni. All'uguaglianza di tutti gli uomini d'onore! (Beve assetato) Va bene dolce Sempronia?

Quinto Curio                 - (piano a Cornelio) Eccone un al­tro che ha cambiato opinione in una notte...

(Cornelio sta per rispondergli, ma si volta perché sta entrando un gruppo di persone tra le quali Cati­lina. Dimostra quarantanni, è alto, magro, con un volto che pare scavato dalla febbre. Assieme a lui sono Cetego, trentanni, duro, volitivo; Gabinio e Ceparlo, giovani sulla trentina, Lentulo più anziano)

Catilina                         - (con rancore a Cesare e Crasso) La com­media è finita, siete soddisfatti? Vi ho dato un bello spettacolo, no? Io, Lucio Sergio Catilina, il vostro istrione, in giro per le piazze a mendicare il favore della plebaglia!

Crasso                           - Dunque? Chi sono i consoli?

Cetego                          - Marco Tullio Cicerone.

Cesare                           - Era previsto. L'altro?

Cetego                          - Cajo Antonio.

Catilina                         - Un traditore! È bastata l'offerta di una provincia per farlo passare dall'altra parte. Ecco la vostra democrazia! (Dalla grande finestra si odono urla della folla, che acclamano Marco Tullio Cicero­ne. Si ode, di lontano, la voce di Cicerone)

Voce Cicerone              - Popolo romano! La libertà ha vinto contro la torbida tirannide che insidiava le vostre terre e le vostre case!...

Catilina                         - (suo malgrado si è avvicinato al balcone) Non suona bene la voce di Cicerone?

Voce Cicerone              - Tornate ai vostri focolari, buoni cittadini, riprendete il vostro lavoro, sicuri che la maestà della legge, saprà tutelare la vostra pace e rispondere alle sane esigenze di giustizia! (Grida, ap­plausi)

Catilina                         - Questa è una serenata per te, Cajo Ce­sare, e anche per te, Crasso. Che aspettate a gettarvi nelle sue braccia?

Cesare                           - Forse che la libertà sia morta del tutto.Potrebbe essere il prezzo dei miei debiti, l'amiciziadi Marco Tullio. (Come tra sé, con altro tono, dolo­roso ed iroso) Ah, che splendida occasione mancata!

Crasso                           - Quanto denaro gettato via!...

Catilina                         - Voi v'eravate illusi, non io! (Ironico) Ma bisognava agire secondo la legge!

Cesare                           - Era l'unica strada.

Catilina                         - Ce n'è un'altra, corta e diritta.

Cesare                           - Vuoi compromettere gli ultimi resti di libertà?

Catilina                         - Voglio agire! Voglio che la tua legge agraria, tua, Cajo Cesare, non mia, esca dalla pol­vere degli archivi. E non ne uscirà finché qualcuno non le darà una spinta violenta.

Cesare                           - La guerra...

Catilina                         - La parola ti spaventa? Non temere, cor­rerà solo sangue infetto. Poco, forse, quanto basta a fermare una cancrena.

Cesare                           - Per fare la guerra occorre un esercito ca­pace di vincerla.

Catilina                         - Migliaia di contadini si aggirano per le campagne chiedendo la carità di lavorare la terra. Furono soldati. E quella terra è loro, pagata palmo a palmo col loro sangue. Sono parole tue. E tuo è il progetto che li fa proprietari di quella terra. Final­mente combatterebbero per se stessi.

Cornelio                        - Non ti seguirebbero. Sono stanchi di sangue. Ne hanno visto troppo.

Catilina                         - (a Cornelio) Che ne sai tu?

Cornelio                        - Sono uno di loro. Ne conosco molti. Non ti seguiranno... D'altronde che risolverebbe una guerra? Altri lutti.

Cesare                           - (a Cornelio) Cosa sperano i tuoi soldati? Servire? Se pure hanno una speranza.

Cornelio                        - Ce l'hanno, signore. È cosi elementare che nessun uomo ragionevole la giudicherebbe folle. Sperano che tutto ciò che hanno sofferto non sia sta­to inutile. Quale governo, che abbia pur l'apparenza della legalità oserebbe opporsi a quella speranza? Es­sa grida al cielo con la forza della verità.

Catilina                         - E che abbiamo fatto fino ad oggi, se non mescolare al vento parole, parole...

Cesare                           - (alzandosi) Signori, abbiamo perduto. Questa è la sola cosa certa in mezzo a tante parole. E non credo che chi oggi ha negato il voto, domani offrirebbe il braccio. Comunque nella nostra poli­tica c'è stato un errore. Lo correggeremo dopo averlo chiarito. Non c'è altro da fare per il momento. (A Cornelio) Vorrei parlare ancora con te.

Cornelio                        - Ti accompagno.

Quinto Curio                 - (a Cornelio) Ti vedrò domani? Puoi venire a pranzo da me. Ricordo ancora i tuoi gusti.

Cornelio                        - Verrò.

Quinto Curio                 - Non parleremo di politica.

Cornelio                        - Perché?

Quinto Curio                 - Temo che le nostre strade si di­videranno.

Cornelio                        - Non hai sentito Cajo Cesare? Vincerà la ragione. Ne sono certo.

Quinto Curio                 - Ti aspetto.

Sempronia                     - (a Cornelio) Spero che ci rivedremo in un altro momento.

Cornelio                        - Lo spero anch'io, signora. La vita è lunga e tutto cambia, come dice il tuo filosofo. Sal­vo il cambiamento, s'intende. Ho detto bene?

Sempronia                     - Perfettamente.

Cornelio                        - Vedi che anch'io ricordo qualcosa. Trop­po, forse. (Si inchina) Ti saluto. (Esce con Cesare. Ormai i presenti, tranne Crasso, son tutti della fazione di Catilina. Catilina passeggia concitato, mentre Sempronia va a prendere il plico nello stipo)

Sempronia                     - (porgendo il plico a Catilina) Lettere dall'Etruria. (Catilina non s'accorge nemmeno del suo gesto, come ruminando un suo pensiero. Quindi, rivolto a Quinto Curio)

Catilina                         - Chi è quel centurione?

Quinto Curio                 - Lucio Cornelio, della stirpe dei Gracchi.

Catilina                         - E non gli basta la fine dei suoi pa­renti? Virtù, giustizia, libertà, la nostra democrazia naufraga nelle parole prima ancora di essere aggredita inerme e precipitata nelle acque del Tevere. Un popolo di avvocati. Tutti filano miele dalla bocca. Pure, quel ragazzo sa che cosa è la guerra.

Quinto Curio                 - Forse proprio per questo...

Catilina                         - Non è vero. La guerra non si dimen­tica. È un contagio che entra nel sangue. Si cerca di dimenticarla come ci si strappa da un amante im­pudica cercando un amore frigido e onesto. Ma pri­ma o poi si finisce per tornarci. Il piacere che dà è troppo acuto per misurare il dolore che ne consegue. Il tuo Cornelio tornerà. Lo aspetterei se non avessimo fretta.

Quinto Curio                 - Ti sbagli, Lucio. Lo conosco. È d'una razza diversa, di quelli che non s'arrendono.

Crasso                           - È ricco?

Quinto Curio                 - Tanto che sarebbe impossibile comprarlo. Né ha vizi da ricattare.

Sempronia                     - È un dio...

Quinto Curio                 - No, un uomo.

Sempronia                     - Un uomo a Roma?

Quinto Curio                 - Non sai che cosa è un uomo? Cer­to non sarà stato Fulvio a spiegartelo!

Catilina                         - Quel tuo Cornelio ha dei reduci at­torno a sé. Freschi di pratica militare e disposti, se non m'inganno, a seguirlo all'inferno.

Quinto Curio                 - Può darsi, ma non per te. Non per noi, Lucio Catilina. È uno che quando dice si è si, e quando no è no.

Sempronia                     - Ho sentito molti no diventare si.

Quinto Curio                 - Tu, poi... (Riprendendosi) Ah, pe­ste alla mia lingua!

Sempronia                     - Credo che presto quell'uomo sarà con noi.

Catilina                         - (a Sempronia come un'istruzione) Tie­ni a mente: gli idealisti sono sentimentali; hanno il vizio della coerenza. La voluttà li macchia se non ha l'apparenza dell'infinito.

Sempronia                     - Basta parlare a bassa voce. Hanno una straordinaria capacità di intonarsi.

Quinto Curio                 - (che non si tiene più, con provocante allegria) Mille, diecimila sesterzi che non riuscirai!

Sempronia                     - Hai detto diecimila sesterzi. (Agli altri) Siete testimoni.

Fulvio                            - (con ira mista a gelosia) Coraggio, non c'è nessuno che alza il prezzo? Un centurione vale molto di più! (A Catilina) Dovevi dircelo prima che s'aspettava lui per menare le mani. Quanto? Un an­no? Il prossimo consolato? Che Marco Tullio ci ab­bia fatto a pezzi prima ancora di muoversi?

(Si avanza Cetego, trent’anni, viso da mastino, fa­natico. È una delle teste dure della rivoluzione. Fi­nora non ha parlato ma quando lo fa è con la deci­sione cieca dei maniaci)

Cetego                          - Ai fatti, finalmente. Sono mesi che ci pre­pariamo. Abbiamo armi nascoste, presidi nei punti salienti della città. Ed ora differiremo tutto perché allo stupido gioco delle urne non ha vinto il tuo no­me? Stanotte, prima che si riabbiano dall'ebbrezza della vittoria...

Crasso                           - (come un ordine) Niente colpi di testa, fino alla discussione della legge agraria.

Lentulo                         - (il più anziano dei congiurati. Più ragio­nevole di Cetego, ma altrettanto impaziente, tenta Catilina) Considera il peso di quei voti: per te una minoranza scelta di gente pronta all'azione; per gli altri la maggioranza dei pavidi, dei vecchi, dei prezzolati. E noi ci rassegneremo? Noi cederemo a costoro?

Crasso                           - La guerra si fa coi denari e ancora coi denari. Non con le follie.

Cetego                          - (a Catilina) Hai udito le grida dei vin­citori. Ma non hai visto gli occhi dei vinti. Sbigottiti, essi errano da un volto all'altro come a chiedersi: possibile che tutto finisca qui? Che fa Catilina? Ci ha fatto esporre e segnare a dito dai nemici per ab­bandonarci alla loro vendetta? Oggi la rabbia della delusione li eccita al rischio. Domani non più. Ci odieranno come provocatori.

Catilina                         - (fuori di sé per essere sopravanzato dai suoi seguaci stessi) E siete voi a parlare cosi? A me che vi ho divezzato, scaldato, insegnato a distin­guere una daga da un ferro da barbiere? (Si avvicinaa Fulvio, gli strappa la tunica) Dov'è il tuo pu­gnale? Hai paura di pungerti? O l'hai lasciato sul let­to di una donna? E siete voi ad eccitare Catilina al­l'azione? (Strappa di mano a Sempronia il plico, lo apre, lo scorre rapidamente) Notizie dall'Etruria. Cajo Manlio è a Fiesole alla testa di un esercito. Mandato da me. Ecco cosa fa Catilina mentre voi vi rodete nei dubbi. (A Lentulo, come un insulto) E cosa fa Lentulo? Dorme! E Cetego? Cosa sa fare Cetego se non ricevere ordini? Coraggioso nell'ubbidire e non più. Pronto a dire io, io, io, senz'altro pensiero che di ritagliare la sua parte di gloria. E intanto Marco Tullio Cicerone è li ad ostacolare i nostri di­segni. Dovevate pensarci in tempo. Ora ho le mani le­gate, lo vedete... (A Cetego) Chiaro?

Cetego                          - Chiaro.

Catilina                         - (a Crasso) Cajo Manlio chiede altri mezzi per gli arruolamenti.

Crasso                           - Sta bene. Puoi rispondere che li avrà. (Inchinandosi a Sempronia) Signora...

Catilina                         - (a Sempronia) Ricordati. M'occorre quel centurione.

Sempronia                     - Ci puoi contare. (Catilina e Crasso escono)

Quinto Curio                 - (a Sempronia, con leggerezza) Al­meno Marco Crasso ha di che pagare. Ma tu promet­ti quello che ancora non hai in tasca. Come me...

Cetego                          - (a Quinto Curio) Tu non hai capito nul­la? (La leggerezza di Quinto Curio si spegne. Guarda gli altri, torvi, che lo fissano come un accusato. Buio)

TERZO QUADRO

Una stanza dell'abitazione del console Marco Tullio Cicerone. È notte, una torcia infissa in un torciere al muro, spande una luce oscillante. A destra di chi guarda una porta che dà all'esterno, dal lato opposto una porta che dà nelle stanze del console. Un'altra porta sul fondo.

All'alzarsi del sipario la stanza è vuota, ma oltre la porta di destra si odono grida e un cozzare di spade.

Voci                              - All'arme! All'arme! Assassini! Canaglie! All'arme! (Dalla porta di destra entra in scena un giovane soldato, Ligario, con la corazza ma senza el­mo, stringendosi con la mano sinistra il braccio de­stro nudo, coperto di sangue, che sgorga da una lar­ga ferita)

Ligario                          - Maledetti assassini... Comandante! Cajo Muzio! Comandante! (Dalla porta di sinistra entra concitato Cajo Muzio, in uniforme, comandante del­la guardia che presidia la casa del console)

Ligario                          - Hanno attaccato, Cajo Muzio. Stavamo per chiuderli in trappola ma erano armati. Che fan­no, non si sente più niente... (Entra, sempre da destra, un altro giovane soldato, Curzio, con la spada in pu­gno)

Curzio                           - Fuggiti, Cajo Muzio. Per poco non ci han­no soverchiato. Erano in molti-

Muzio                            - Per gli dei, l'ordine era di acciuffarli! E vivi! Li avete almeno riconosciuti?

Curzio                           - Impossibile, comandante. Avevano i cap­pucci sugli occhi. Ci siamo battuti... (Dalla porta di sinistra entra Marco Tullio Cicerone. Ha passato di poco la quarantina, è di buona corporatura, ostenta coraggio e tranquillità)

Muzio                            - Silenzio, il console! (Poi, con deferenza, a Cicerone) Hanno tentato, signore. La ragazza aveva detto la verità. Li abbiamo respinti.

Cicerone                        - (osservando con interesse la ferita di Li­gario) Va a lavare la tua ferita, ragazzo...

Ligario                          - Signore, ho fatto del mio meglio...

Cicerone                        - Lo so. E mostrerai la cicatrice con or­goglio. Un colpo, dirai, destinato a stroncare, con la vita del console, la vita stessa della patria.

Ligario                          - Si, signore... (Esce)

Cicerone                        - Gli dei sanno che spargerei volentieri tutto il mio sangue, se Roma lo chiedesse. Roma mi ha eletto console. Chi è contro Roma?

Muzio                            - Purtroppo, gli assassini sono fuggiti. Ma la ragazza è ancora qui. Giurerei che sa piùdi quel che ha detto. Vuoi ascoltarla?

Cicerone                        - Il primo magistrato della Repubblica trasformato in un sottufficiale di polizia! Consegna­tela agli edili. Sia istruito un processo e sottoposta a regolare interrogatorio. Non sarò certo io a viola­re la legge.

Muzio                            - Signore, non sono che un soldato, non m'intendo di procedura. Ma conosco un poco le don­ne. Adorano l'autorità. Con te, ora, a caldo, scioglie­rà la lingua. Domani, sbollita l'ira, quando misurerà l'enormità di quello che ha fatto, non aprirà bocca. Per la nostra salvezza, signore, interrogala. Siamo an­cora in tempo a stanare i colpevoli. Di certo essi non sanno che qualcuno ha parlato.

Cicerone                        - Erano in molti?

Muzio                            - Assai di più delle guardie. Armati. (A Curzio) Dillo tu.

Curzio                           - In pieno assetto, signore. I colpi sui man­telli davano un suono di metallo.

Muzio                            - (a Cicerone) Chi li ha armati? Chi li ha radunati? L'impresa doveva esaurirsi con la tua mor­te o essere l'inizio d'una strage?

Cicerone                        - (dopo un attimo di interna lotta) Do­v'è? (Muzio fa un cenno a Curzio che si avvia verso la porta di fondo) Volevo che il mio consolato fosse l'impero della legge. E già la violenza bussa alla mia porta. Già l'intrigo ripara sotto il mio stesso tetto. E io l'accolgo, e me ne faccio complice. Questo è l'a­maro saluto della notte dopo gli applausi del giorno... (Dalla porta di fondo è entrata Fulvia)

Muzio                            - (a Fulvia, dopo aver fatto cenno a Curzio di andarsene) Il console Marco Tullio ti ascolta. Ripeti ciò che hai detto alle guardie.

Fulvia                            - È, la verità. Sono venuti. Ho udito le gri­da-

Muzio                            - Chi te l'ha detto che si preparava l'as­salto?

Cicerone                        - (ferma Muzio con un gesto) Ragazza, un grave pericolo ti minaccia. Siamo qui per aiutar­ti. Il tuo nome?

Fulvia                            - Fulvia...

Cicerone                        - Fulvia: un grano di sabbia nel deser­to. Ci sono migliaia di Fulvie a Roma. Hai un padre?

Fulvia                            - Certo che ce l'ho. Mi credi una bastarda?

Muzio                            - Il nome di tuo padre!

Fulvia                            - Mio padre non c'entra! (Dopo un'esita­zione) È in Asia. Per la guerra. È un soldato.

Cicerone                        - Ah... Deve mandarti un bel po' di de­naro...

Fulvia                            - Denaro, signore? Fame. Non mi ricordo la faccia di un sesterzio...

Cicerone                        - E chi ti ha pagato questo bel vestito? E questi bracciali? E questo profumo che spandi co­me... Chi è il tuo amante?

Muzio                            - Se pure è uno soltanto...

Fulvia                            - E ditelo che sono una sgualdrina, la pa­rola vi pesa? (Dopo una pausa) Quinto Curio...

Cicerone                        - Il figlio di Decio Curio?

Fulvia                            - Suo padre è morto...

Cicerone                        - Si, per sua fortuna! (Fa un cenno a Muzio che esce di corsa)

Fulvia                            - (intuendo) No! No!

Cicerone                        - È lui che t'ha detto?

Fulvia                            - Ne diceva tante, signore. Vagli a crede­re! Per spaventarmi, perché aveva paura che io lo lasciassi... Giocava, beveva, ero stanca, non ne po­tevo più... Iersera ero decisa ad andarmene... Allora lui mi sbarra la strada e con occhi da far paura, non l'avevo mai visto cosi, mi minaccia di morte... Non lo avrebbe mai fatto, ne sono certa, ma li per li dal terrore mi misi a piangere. Allora mi prese tra le braccia e mi disse... "Proprio adesso che stiamo per diventare ricchi?" Capisci, era una scusa...

Cicerone                        - Capisco. E poi?...

Fulvia                            - "Stanotte, disse, c'è chi pensa al conso­le"... Capisci in che senso...

Cicerone                        - Ti disse i nomi...

Fulvia                            - Ma no, signore, come poteva? Era tutta una fantasia... Io finsi di credergli, avevo paura... Lui si sdraiò sul letto, aveva gli occhi chiusi. Pareva che dormisse. Pian piano raduno la mia roba... A un trat­to si tira su, chiedendo affamato: "Che ore sono?"E mi vede che sto sgusciando via. Grida, io perdo la testa, mi metto a correre. Le strade sono vuote, sento a distanza i suoi passi che m'inseguono... Giro per i vicoli cercando un rifugio; le porte tutte chiu­se. A un tratto vedo la tua casa, l'unica aperta. Mi precipito, le guardie mi sono addosso. Dico, per non essere scacciata: "Vogliono uccidere il console!"

Cicerone                        - Dunque era vero...

Fulvia                            - Si... Cioè, no, non lo so... un caso, ne suc­cedono tanti... Forse avrà sentito qualche discorso...

Cicerone                        - Chi sono i suoi amici?

Fulvia                            - I suoi amici? Non lo so... Non mi por­tava mai da nessuno. Si vergognava.

Cicerone                        - Le sue idee, almeno. Avrà parlato...

Fulvia                            - Mica tanto... Lui era per i poveri... forse Io diceva per me... (Con compatimento) Figuriamoci... F Ah si, ora mi ricordo... c'è uno che conosce... Io non l'ho mai visto ma so che ci va... È lui che gli guasta la testa, Sergio Catilina!

Cicerone                        - (a se stesso) Catilina... E oserebbe tanto... (Pressante a Fulvia) Sai se ieri si sono visti?

Fulvia                            - E lo veniva a dire a me? È stato fuori tutto il giorno... Ma per osterie, signore, a giudicare da come è rientrato... E adesso che gli faranno, si­gnore? Se sa che sono venuta qui... Lui non c'entra niente, ti giuro... (Rientra Muzio con una faccia scu­ra, sulla porta di destra di spalle a Fulvia, un soldato depone a terra qualcosa che sembra la testata di una barella, coperta da un mantello. Muzio si avvicina a Cicerone e gli parla a bassa voce. Cicerone sembra molto colpito. Poi tutti e due guardano in un modo strano Fulvia) Che c'è... Non l'avete trovato?...

Muzio                            - C'è qualcuno che forse tu conosci... (In­dica verso la porta. A un suo cenno il soldato tra­scina la barella un poco più avanti, in modo che se ne scorga bene la parte anteriore. Fulvia, con ansia crescente, avanza verso la porta voltandosi di tanto in tanto a guardare verso Muzio. Giunta a tre passi dalla barella, improvvisamente la vede, impietrisce, guarda il soldato, che scopre appena il mantello. Ap­pare la testa del cadavere di Quinto Curio. Fulvia lo vede, con un grido inumano si getta in ginocchio da­vanti a lui)

Fulvia                            - Quinto! Quinto! (Scoppia in singhiozzi)

Muzio                            - (a Cicerone) L'abbiamo trovato ucciso a pochi passi da qui. (Mentre Fulvia continua a pian­gere dalla porta, senza curarsi di lei e quasi scavalcando la barella, entrano Pisone, prefetto di polizia, e il console Cajo Antonio)

Antonio                         - (abbracciando Cicerone) Sei sano e sal­vo, Marco, per la nostra salute.

Cicerone                        - (con modestia) Ci siamo difesi. Ma non vorrei che per cosi poco avessero destato il Console Antonio.

Antonio                         - No, ero ancora in piedi. Per la verità stavamo festeggiando la vittoria di oggi... o di ieri, non ho idea che ore siano...

Pisone                           - (a Cicerone) La città è calma, signore. Pattuglie la perlustrano in ogni settore. Nei quartie­ri bassi ho rafforzato i presidi. C'è qualche arresto.

Cicerone                        - Importante?

Pisone                           - Per ora i sospetti. L'operazione è appena cominciata... (Entrano Catone e Quinto Catulo)

Cicerone                        - (andando incontro a Catone) Mio no­bile Catone! (Lo abbraccia)

Catulo                           - (inchinandosi) Gli dei ancora una volta sono con Roma.

Cicerone                        - Grazie, Quinto Catulo, grazie signori. Vedo che Roma, toccata nel suo punto più sensibile, reagisce compatta.

Catone                          - Ancora una volta i fatti mi danno ragio­ne. La notizia ha dilagato. La gente è per le strade, inquieta. Molti accusano Catilina.

Catulo                           - E domani saranno con lui se non siamo risoluti. Signori, vi rendete conto? In casa vengono ad aggredirci. Non vogliono più soltanto le nostre terre, ma la nostra vita.

Catone                          - Qualcosa di più prezioso della vita vo­gliono distruggere: la libertà e le leggi della Repub­blica.

Catulo                           - Che aspettiamo dunque a sbarazzare la città da quella canaglia?

 

Cicerone                        - Colpiremo i responsabili secondo la legge.

Catulo                           - La legge siamo noi. Sei tu, ti abbiamo eletto per questo. Dobbiamo ristabilire l'ordine con qualunque mezzo.

Cicerone                        - Non abbiamo poteri per questo. E dif­fido dei consigli precipitosi... (Entra il vecchio Mure­na che avanza fino ad abbracciare Cicerone. Sulla por­ta, dietro di lui, è apparso Crasso)

Murena                          - Perchè non hanno colpito la mia vecchia pelle? M'avrebbero tolto un fastidio.

Cicerone                        - Grazie, Murena. (Risponde senza guar­darlo, gli occhi fissi sulla porta dove è Crasso, che, sentendo l'ostilità dei presenti, non si è inoltrato)

Catulo                           - (nel generale disagio) Ecco un altro che non è andato a letto, stanotte!

Cicerone                        - (un gesto per far tacere Catulo) Avvici­nati, Marco Crasso. Sono ancora vivo...

Crasso                           - Il braccio che voleva colpirti è nemico tuo quanto mio.

Catulo                           - Forse perchè l'ha mancato?

Crasso                           - Sono romano anch'io. La vita del conso­le è al di sopra delle fazioni.

Catone                          - A meraviglia, allora, anche l'opposizione è d'accordo. Chiederemo al Senato i pieni poteri. Sta­notte stessa.

Crasso                           - Stanotte?

Catulo                           - Meglio ormai perdere una notte intera che temere ogni notte di essere destati di soprassalto.

Catone                          - Se c'è in Roma un resto di virtù, schiac­ceremo sul nascere il seme della guerra civile.

Catulo                           - (dopo una pausa) Qualcuno è contrario? (Tutti tacciono guardando Crasso, poi Cicerone)

Cicerone                        - E sta bene. (Ad Antonio) Se il console Cajo Antonio è d'accordo sarà convocato il Senato. (In primo piano si ode il sommesso pianto di Fulvia. Buio)

QUARTO QUADRO

Una strada di un quartiere popolare. A destra dì chi guarda. E a sinistra, muri di case, sbocchi di vi­coli. In fondo un caseggiato popolare con una pic­cola porta, la casa di Publio Silano. È quasi l'alba. Schiarisce. Si odono segnali di buccina, che rispon­dono in lontananza.

Due uomini entrano da sinistra, Catilina e Fulvio. Non sono riconoscibili perché hanno il volto coperto dal cappuccio del mantello.

Fulvio                            - Ecco, questo è il luogo di riunione. (Si nascondono nell'ombra di un vicolo perché una pat­tuglia in assetto di guerra attraversa il fondo. La cop­pia riemerge)

Catilina                         - Tutta la città è in allarme. Idioti... (Da destra entra un altro uomo col viso nascosto dal cap­puccio: Cetego. Si ferma, aiutandosi coi denti, a fa­sciarsi una mano. Come vede gli altri due si mette in allarme)

Cetego                          - Chi va là!

Catilina                         - (scoprendo il volto) Cetego, dalla voce.

Cetego                          - (dopo una pausa di sorpresa) Io, io in carne ed ossa, per mia disgrazia. Siamo stati traditi.

Catilina                         - Tu? Tu osi parlare di tradimento? Cosi si rispettano i miei ordini? Dovrei farti frustare e impiccare a un albero, schiavo ribelle!

Cetego                          - Come, signore... l'hai suggerito tu stesso. Dicesti: ora ho le mani legate, non vedete? E ci rim­proveravi di non agire. Anche gli altri hanno inteso cosi. Decidemmo insieme. (Indicando Fulvio) C'era anche lui.

Fulvio                            - Corsi ad avvisarlo appena capii che l'im­presa era fallita.

Cetego                          - (a Catilina) Puniscimi, dunque, per aver mancato. Ma se t'avessimo portato il comando della città in rivolta, l'avresti preso!

Catilina                         - Quando si agisce contro gli ordini si ha il dovere di non fallire.

Cetego                          - Infatti non doveva fallire! Tutto studiato era. Cepario e Lentulo al comando dei presidi, gli altri pronti ad appiccare incendi nei punti salientidella città. Una luminaria da abbagliare un cieco. Il segnale doveva essere il fuoco alla casa del console dopo l'attentato... Fummo prevenuti. Ma per gli dei, la bocca che ha tradito ora vomita sangue...

Catilina                         - Chi era con te alla casa del console?

Cetego                          - Gabinio! S'offerse lui stesso di seguirmi. Ha il polso fermo, lo sai. Bussiamo con la scusa di ossequiare il console e di avere un segreto da rivelar­gli. Ci aprono, ma è chiaro che erano avvertiti. Ap­pena entrati, difatti, ci aggrediscono. Riusciamo a riguadagnare la porta e a disperderci. Mi ritrovo so­lo, folle di rancore, chiedendomi chi mai avesse pre­venuto le guardie. Ad un tratto vedo un'ombra, lo riconosco: Quinto Curio. A quell'ora doveva essere ai mercati, pronto e incendiarli. Invece stava ancora li, presso la casa del console. Cieco d'ira faccio per av­ventarmi su di lui. Il terrore gli travolge la faccia. In due salti lo raggiungo, scivola, mi afferra le ginoc­chia: grida: "Per tua madre, Cetego, ascolta..." Non potè finire.

Catilina                         - Vivo, me lo dovevi portare! Se ha tra­dito, come è stato pietoso il tuo frettoloso castigo... (Riflettendo) Ma se era vile come avrebbe osato en­trare nella tana del lupo, sia pure per gridare al pe­ricolo?

Cetego                          - Perché era li, disarmato, ansioso come un'adultera attorno alla casa dell'amante?

Catilina                         - E se avesse sospettato che un altro ave­va in animo di tradire, e l'avesse seguito...

Cetego                          - Chi?

Catilina                         - Lentulo, Cepario, uno dei loro gregari, tu stesso, Cajo Cetego...

Cetego                          - (fa per impugnare la spada) Per gli dei, se non ti chiamassi Catilina non oseresti...

Catilina                         - (senza ascoltarlo, come in un dubbio lu­cido) Io stesso? Forse ho desiderato veramente quello che dici? Forse m'è sfuggita una parola im­prudente? Chi ho visto ieri?

Cetego                          - (impressionato) Signore, tu deliri...

Catilina                         - Impara che il sospetto è l'aria infetta della cospirazione; e che l'unico modo per immuniz­zarsi è il sospetto. (Si fa in disparte con Cetego e Fulvio, perché sta sopraggiungendo Cepario, anche lui nascosto dal mantello)

Catilina                         - Chi va là!

Cepario                         - (scoprendosi, vede Catilina) Tu, signore? È vero che hanno ucciso Quinto Curio?

Catilina                         - Trucidato, inerme, per la strada, dagli sbirri del console. Informerete il popolo del delitto e lo ecciterete alla vendetta. Nessuno ha molestato i presidi?

Cepario                         - Nessuno. Li abbiamo ritirati alla notizia del fallimento.

Catilina                         - Va', che non parlino, che si mantengano in contatto. Ci ritroveremo a casa di Sempronia. Av­visa gli altri. (Cepario via. Catilina a Cetego) La ve­rità sulla morte di Quinto Curio farebbe una pessima impressione tra i nostri. Resterà un segreto tra noi, se saprai meritarlo... (A Fulvio) Sai cos'è un segreto, ragazzo? (Escono a sinistra, perché da destra sono apparse due guardie. Queste si fermano perché dal fondo, sta avanzando un carretto a mano trascinato da un uomo sui cinquant’anni, Silano, tarchiato, sim­patico, poveramente vestito)

la Guardia                      - Chi va là!

Silano                            - Un romano, camerati! Anche se le appa­renze sono di un asino berbero, un vero romano!

la Guardia                      - Cosa c'è in quel carro?

Silano                            - Non lo vedi? Tutto il patrimonio di fa­miglia! Sopra c'è il guardaroba, sotto le suppellettili... (Le due guardie frugano tra le masserizie che sono sul carro, come ad accertarsi di ciò che contiene) Vo­lete fare acquisti? Liquido a prezzi d'occasione, se v'interessa... Roba buona, di prima della guerra...

la Guardia                      - Silenzio mangiacipolle.

Silano                            - Hai torto ad ingiuriare le cipolle... (Entra Cornelio)

Cornelio                        - Publio! Sei o non sei il mio carissimo Publio?

Silano                            - E che fai a quest'ora, signore, spegni i moccoli in cielo?

 Cornelio                       - (alle guardie) Lasciate in pace questo valoroso.

la Guardia                      - Ordini, signore, dobbiamo perquisire chiunque.

Cornelio                        - E allora perquisisci anche me.

la Guardia                      - Non importa, signore; sappiamo di­stinguere. Abbiamo ordini precisi. Hanno ucciso un uomo.

Cornelio                        - Un uomo? Che uomo?

la Guardia                      - Non so, signore. C'è stata una rissa vicino alla casa del console Marco Tullio. Buongior­no, signore. (Si allontana assieme all'altra guardia)

Silano                            - Fatti vedere in abito civile, capitano. Sembri un avvocato.

Cornelio                        - Infatti vado cercando cause. Facili, spero, sul principio. Ho perso la pratica.

Silano                            - Allora, signore, non faccio al caso tuo. La mia è una causa disperata... Uno sfratto e una denuncia per debiti. Ecco la pensione che mi dà la patria dopo vent'anni di guerra. Trasloco, come vedi. Ho una vecchia sorella che mi ospita, me e la bam­bina.

Cornelio                        - Giusto, la tua bambina. Sta bene?

Silano                            - Cresciuta, signore. Troppo. Bella, non perché sia mia figlia, ma... Da quando sono tornato l'ho appena vista. Mi ascolta con sopportazione. Non è rientrata stanotte... Dovrei ucciderla? La legge me ne dà il diritto. Come se un padre simile avesse dei diritti...

Cornelio                        - Altri sono i diritti che ci stanno a cuore, Publio... (Mentre i due stanno parlando, si avvicinano Decio, altro popolano, curvo sotto un ca­rico di fascine, e Tito, popolano anche lui, con un grembiule di pelle)

Decio                            - (a Cornelio) Signore, tu da queste parti? Davvero la città si sta rovesciando.

Tito                               - Non mi riconosci, signore? (Si aggiungono altri popolani, tra i quali Furio, con un trincetto in mano e una vecchia calzatura nell'altra)

Furio                             - Salute, signore carissimo, sei venuto a ri­costituire la quinta centuria a cavallo? Guarda, ho qui la spada... (Indica il trincetto) e lo scudo... (In­dica la vecchia calzatura) Pronto a ritornate ai tuoi ordini! (Ride)

Cornelio                        - Amici, non m'aspettavo di trovarvi riu­niti...

Tito                               - I poveri, signore, stanno con i poveri. In pace e in guerra.

Decio                            - Solo gli schiavi vivono nei quartieri ricchi. Noi abbiamo buone speranze.

Furio                             - Amici, un evviva a Lucio Cornelio. (Egli solo grida) Viva! (Mortificato si rivolge ai compagni) Be'? Non vi ricordate più? (A Silano) Decurione, pre­senta la centuria! Su coi petti, ragazzi! (A Tito) E tu, tromba, il segnale! (Tito, stando al giuoco, come un bambino, suona la tromba con le mani)

Silano                            - (a Cornelio con amarezza, come presentan­do) Cento uomini e cento cavalli, signore, la più bella centuria dell'esercito. Guarda come sono lucide le loro corazze, come puntate le lance, come frementi i cavalli! Davvero non li riconosci, signore?

Cornelio                        - Mio buon Publio, basta!

Silano                            - Ma è vero, signore! Sono gli stessi intre­pidi cavalieri della carica di Nicopoli, i conquistatori di Antiochia! Su, mostrate le vostre gloriose ferite alla patria riconoscente!

Tito                               - (a Silano) Sei impazzito? Ti vuoi rovinare?

Silano                            - E come? La miseria è un possesso tran­quillo, senza rischio di danni!

Tito                               - (a Cornelio) Compatiscilo, signore, ha le sue ragioni. Piuttosto, sono maniscalco, non hanno biso­gno di niente i tuoi cavalli?

Cornelio                        - (un po' imbarazzato) Certo, vieni quan­do vuoi...

Furio                             - Signore, non t'occorre un paio di calzari? Non sono un grande artista ma per te saprei fare miracoli... Ricordi la tua sella? A buon prezzo, si­gnore...

Cornelio                        - Va bene...

Decio                            - Se vuoi legna da ardere... La stagione è in­clemente...

Cornelio                        - Anche la tua legna, Decio... (A Silano) Tu, Publio, non vorresti farmi un piacere? M'occorre un uomo di fiducia...

Silano                            - Davvero, signore?...

Cornelio                        - Verrai da me, quando puoi... (A tutti) Vedremo di tirare avanti assieme, come una volta... Almeno finché non si farà giustizia... Perché vi dico che Roma dovrà riconoscere i vostri diritti.

Tutti                              - (avvicinandosi) Quando! Come! Parla! Si­lenzio! Fate silenzio!

Cornelio                        - Ascoltate. Vengo dalla casa di Cajo Ce­sare. C'erano anche Marco Crasso e i tribuni del po­polo. Tra giorni sarà riproposta la legge per la distri­buzione delle terre.

Tito                               - Signore, avremo una casa? E un campo?

Decio                            - Dunque, le promesse saranno mantenute? Gli dei fanno prodigi?

Cornelio                        - Non è un prodigio amici, se terrete duro, è un vostro diritto. Questa certezza voi dovete opporre a chi semina la violenza (Entra Fulvia, stan­ca, abbattuta, coi capelli spettinati e gli occhi rossi, Silano la vede subito e, senza una parola le va in­contro)

Silano                            - Fulvia!... Bambina... è l'alba...

Fulvia                            - Sono viva, padre... non basta? (Fa per entrare nel portone)

Silano                            - Hai gli occhi rossi di febbre... o di pianto?

Fulvia                            - È l'aria della notte. Fui presa nel tu­multo e chiusa dalle guardie assieme ad altri. Sono stanca                        (Si avvia su per la scala)

Decio                            - Un tumulto? Che tumulto?

Silano                            - Una rissa vicino alla casa del console Marco Tullio. (Sopraggiunge Cepario di corsa)

Cepario                         - Cittadini, amici! Un altro delitto dei signori ha macchiato le strade di sangue! Hanno ucciso uno dei nostri, dei vostri, una vittima della loro I bestiale paura! Il nobile Quinto Curio non è più! (Movimento di sorpresa e di emozione della folla)

Cepario                         - Pugnalato dai sicari del console! A mor­te gli assassini del popolo!

Tutti                              - A morte! A morte! Cosi mantengono le loro promesse!

Cornelio                        - Amici! Ascoltate! Frenate la vostra col­lera, amici... La legge...

Cepario                         - Questa è la loro legge! Quinto Curio non è che il principio. Hanno la lista di chi è contro di loro per sterminarli!

Tutti                              - A morte! A morte! Abbasso il console Marco Tullio nemico del popolo! (Entrano di corsa le due guardie con le daghe in pugno)

la Guardia                      - A casa! Scioglietevi! A casa! Via di qui, pezzenti facinorosi! A casa! (Sotto i colpi delle guardie, la folla si disperde. Silano entra a casa)

Cornelio                        - (alla seconda guardia) Come hanno uc­ciso Quinto Curio?

2a Guardia                     - Non lo so, signore, non so chi sia... Per il tuo bene vattene di qui, oggi è giorno di tem­pesta.

1a Guardia                     - Che tempi, signore, per chi fa il no­stro mestiere. Tutti crepano dalla voglia di uccidere. Ci trasformeranno in becchini.

2a Guardia                     - Doveva essere importante se per un morto solo tanto baccano. (Se ne va assieme al suo compagno. Cornelio resta assorto, come impietrito dal dolore. Dalla porta della casa di Silano, sta uscendo Fulvia. Alza gli occhi su Cornelio che la fissa)

Fulvia                            - Non ero con lui... Tra noi era finita...

Cornelio                        - Questo è tutto il tuo compianto?

Fulvia                            - Mio padre ignora. Nelle mie lacrime, se ne avessi, leggerebbe la verità. E ha già troppe ra­gioni di rancore per dargliene un'altra. Capisci?

Cornelio                        - Capisco. Non parlerò.

Fulvia                            - E lascialo in pace. Già freme d'impeti bellicosi, come Quinto Curio.

Cornelio                        - Io non voglio la guerra. Voglio solo giu­stizia, anche per tuo padre.

Fulvia                            - Quinto Curio diceva lo stesso. E l'hanno ucciso...

Cornelio                        - La stia morte sarà vendicata.

Fulvia                            - Ah, anche tu! E non è la guerra, questa?

ATTO SECONDO

PRIMO QUADRO

Una sala in casa di Livia Sempronia. Lucio Corne­lio, in piedi, aspetta. Entra Sempronia.

Sempronia                     - Finalmente, capitano. Non mi succe­de spesso di chiamare due volte la stessa persona.

Cornelio                        - Perdonami, signora, sono giornate tur­binose. Non ritenevo il tuo invito cosi urgente.

Sempronia                     - O volevi preservare la tua virtù dal contatto di una compagnia scellerata?

Cornelio                        - Un avvocato, signora, vive di compa­gnie scellerate. E più il delitto è grande più frutta. Vedi dunque che, se mai, un naturale interesse mi spinge verso di te. Sebbene non mi sia facile creder­ti responsabile di un delitto grave...

Sempronia                     - Per gli dei, se questo vuole essere un complimento, Giove stesso lo farebbe da minore di­stanza. Puoi scendere di qualche gradino, capitano, o mi faccio portare una scala per raggiungerti? Non vuoi sederti? Le sedie, ti assicuro, sono innocenti.

Cornelio                        - (la guarda sorridendo, si siede) Ti a-scolto.

Sempronia                     - Assisti i tuoi clienti come quei me­dici che a furia di stare alla larga del paziente lo convincono di essere perduto.

Cornelio                        - Avere una convinzione simile è già qual­cosa, a volte è il principio della salvezza.

Sempronia                     - Credi che io sia salvabile?

Cornelio                        - Può darsi. Dal modo come hai menti­to, l'altro giorno direi di si. Quel povero ragazzo cre­deva di essere impazzito.

Sempronia                     - E perché non ti sei schierato dalla sua parte? Se eri convinto che mentivo perché m'hai soccorso?

Cornelio                        - Ti ho soccorso perché in quel momen­to eri la più debole. È il mio vizio mettermi sempre cosi, coi più deboli. E perché certi giuochi non mi divertono! Non sono abbastanza raffinato per apprez­zarli. Ti prego, dimmi in che cosa posso servirti...

Sempronia                     - Un momento, m'interessa la questio­ne della debolezza. Io più debole di Fulvio? Credevo t'avessero informato che quei ragazzi cambiano pa­rere a un mio cenno...

Cornelio                        - Loro si, può darsi. Ma c'era li presente qualcuno più forte del tuo famoso prestigio: quella parte di te che costringeva l'altra a vergognarsi e a mentire. Dalla tua coscienza ti ho difeso, che ti sot­traeva il sangue dal volto, pallido di umiliazione... Tu non hai diritto, Livia...

Sempronia                     - E chi sei tu, che vieni a contestarmi un diritto? In nome di che cosa? Credevo che cinque anni di villeggiatura in Asia t'avessero coltivato il gusto. E invece, con tutta serietà sei andato a impor­re la legge di Roma a quei popoli civili. La legge di Roma! Guardati attorno, unico uomo virtuoso della città! Può darsi che guarirai della retorica davanti alla nausea... (Cornelio le impedisce di continuare. La abbraccia e la bacia a lungo)

Cornelio                        - Ecco. Va bene? Cosi la nausea salirà più in fretta... (Stordita ed indignata, Sempronia ar­retra di qualche passo. Ma riesce a dominarsi e si mette a ridere, di un riso un po' sostenuto ma senza scherno)

Sempronia                     - Peccato, capitano, per un giuoco cosi semplice tanto crudele rancore... Scommetto che per­sino Sesto Tarquinio, quando aggredì Lucrezia aveva sentimenti più umani...

Cornelio                        - Cinque anni fa, per un istante simile, avrei dato la vita...

Sempronia                     - Quale istante... tu? Vuoi dirmi che già esistevi cinque anni fa?

Cornelio                        - No, infatti. Se esistere significa essere investito da uno sguardo che ti fa vivere come il soffio degli dei, allora non ero che un fantoccio sprov­visto d'anima... Ma se vuol dire penare e torturarsi per un bene che non si avrà mai...

Sempronia                     - Come si fa a prevederlo?

Cornelio                        - È troppo in alto, troppo conteso...

Sempronia                     - Allora si desiste per paura; o per or­goglio...

Cornelio                        - O per amore... Per non turbare chi ti ignora e sembra interessarsi d'altro, nemmeno col fa­stidio di un rifiuto... Si sparisce...

Sempronia                     - (dopo una pausa, quasi con pudore) Bene, ora basta coi morti e le commemorazioni. Ve­niamo agli affari...

Cornelio                        - Il male è che si continua a vivere. Si parte convinti che non ci sia dolore più grande di un sentimento sacrificato. È, un dolore fisico, acuto e lancinante. Consolato tuttavia dal pensiero d'aver agito per il bene di qualcuno. Assai peggio è, tornan­do, constatare la inutilità del sacrificio. È un dolore oscuro, ed assurdo, senza possibilità di consolazione. Scusami, dimentica, se puoi. Dimmi dei tuoi affari, ti ascolto...

Sempronia                     - (dopo una pausa, dominandosi) Sono in causa con lo Stato. Rivoglio la mia villa di Por­tici. Era di mio padre, gli fu tolta durante la ditta­tura di Siila assieme alle altre proprietà. Caduto Sii­la, ci fu restituito tutto tranne quella villa. Addu­cono un cavillo dietro l'altro, formalità, vizi di ven­dita perché chi la occupa, lo stesso uomo di Siila che allora la fece confiscare, ha tali appoggi che nes­suno osa molestarlo. È inaudito! Claudio Rufo, un sicario di Siila, vale più della legge.

Cornelio                        - Se è per questo, i seguaci del dittatore si son divisi equamente: i violenti, a cominciare dal tuo Catilina, coi rivoluzionari; hanno la vocazione della tirannide. Morto un dittatore si schierano infal­libilmente con chi promette di uccidere la libertà, anche se per ragioni contrarie. I furbi, i corrotti, co­me il tuo Rufo, coi conservatori.

Sempronia                     - Claudio Rufo è assai di più che un furbo e un corrotto. Lo chiamerei in giudizio per omicidio se la viltà dei tempi non avesse dissolto i testimoni. È lui che ha ucciso mio padre nella villa di Portici... Adesso vi ospita le sue concubine. Vi ha fatto lavori di restauro. Pavimenti a intarsio e dipin­ti lascivi sulle pareti per cancellare la memoria di quella notte...

Cornelio                        - Perdonami se ho riacceso un triste ri­cordo...

Sempronia                     - Rassicurati, non è mai stato spento. Ho cercato... (Lunga pausa) Mio padre era grande e forte, nella stagione piena. Una volta piegò un ferro coi pugni per farmene un bracciale e i muscoli qui gli guizzavano sotto la pelle bruna. Non aveva mi­gliori amici che i servi, si divertiva con loro in giuo­chi di destrezza. Una volta ne fece battere uno per il sospetto che l'avesse lasciato vincere perché era il padrone. Poi, per sdebitarsi, lo affrancò. Naturalmen­te era contro Siila; ma con una tale fiducia nella lealtà degli avversari che quando il suo partito fu soccombente, si ritirò a Portici, sicuro di non essere molestato. Da buon soldato ammirava il suo vincitore. (Pausa) Lo svegliarono una notte con la scusa che c'era un ferito da soccorrere. Lui scese di corsa, cosi come era, e passando mi gridò che l'aiutassi. Entra­rono in quattro deponendo a terra un fardello. Come lui si chinò sul ferito, lo assalirono. Si raddrizzò quant'era alto, benché il sangue gli colasse abbondante sulla tunica. E, afferrato uno degli assalitori, se ne faceva al tempo stesso arma e scudo. Allora colui che giaceva a terra ferito Claudio Rufo capisci? s'alzò in un lampo e, trovatoselo di spalle, gli confic­cò il pugnale nelle reni. Io avevo gridato per avver­tirlo e lui, ancora in piedi, mi guardò per l'ultima volta con uno sguardo smarrito. Non vidi altro. Le forze mi mancarono e caddi rotolando giù per la scala. Cosi fu ucciso l'unico uomo che ho conosciuto. (Lunga pausa) Naturalmente, finita la dittatura, la commedia durò a lungo. Cerimonie, discorsi, riabili­tazione, sempre in presenza di una giovinetta vestita a lutto, che non aveva più lacrime per le cerimonie ufficiali. Ma quando quella ragazza chiede giustizia, stanca di fare l'insegna abbrunata nelle commemora­zioni, allora tutto s'intorbida, la gente inchinandosi si ritira, nessuno sa, nessuno ha visto, tutti consigliano la figlia di Marco Sempronio d'essere degna di suo padre: dimenticare le offese per l'unità della pa­tria. E va bene. Proviamo a dimenticare in cambio di un gesto, uno solo che tenga in vita la memoria di mio padre; nulla, non una delle idee che gli sta­vano a cuore messa in pratica o almeno rispettata. Solo la figlia di Marco Sempronio, imbalsamata viva, doveva servire di scudo, come la statua della virtù, alla loro ipocrisia. E allora la statua si ribella, scrolla le pareti del tempio nel quale è murata, che al­meno non vengano ad oltraggiarla coi loro inchini. Si sporca, si mescola ai corrotti, ai ribelli, alla canaglia, trascina chi può alla perdizione, pur di scavare sotto i loro piedi un abisso di putredine che li inghiotta tutti, tutti... (Scoppia in isterici singhiozzi)

Cornelio                        - (scuotendola) E credi di placare l'ombra di tuo padre col tuo suicidio? Che dico, peggio di un suicidio; che tu non stai distruggendo ciò che è mortale, ma l'anima tua, Livia!

Sempronia                     - Che importa... Purché io veda la fine...

Cornelio                        - La tua fine, Livia... Ascolta: assumo il patrocinio della tua causa contro Claudio Rufo.

Sempronia                     - Vattene, Lucio, per la tua salvezza... Va', fuggi, nasconditi in un deserto ad aspettare la fine dell'uragano... Quando tutto sarà finito occorre­ranno uomini come te per ricominciare...

Cornelio                        - Proprio ora che s'è accesa una speran­za vuoi che diserti? I tribuni hanno chiamato i con­soli davanti al popolo per riproporre la legge. Tutta Roma è nel Foro, ad appoggiare la richiesta dei tri­buni. Non potranno non ascoltarli. E se la legge pas­sa è la pace, Livia, è la giustizia... Tuo padre oggi sarebbe tra i primi sotto i rostri...

Sempronia                     - Mio padre è morto. Come fai a sa­pere con tanta sicurezza dove si schiererebbero i morti?

Cornelio                        - Tu stessa lo sai... Gridi per coprire la sua voce... Credi di vendicarlo, abbassandoti, ma in realtà è lui che fuggi... È il suo ricordo che t'assedia, il crudele ricordo della sua fine...

Sempronia                     - Davanti agli occhi me lo uccisero! Ed io non feci nulla, nulla...

Cornelio                        - Ecco, ecco... il rimorso della tua impo­tenza... e d'essere ancora viva... Noi soldati sappia­mo queste cose. Sempre, alla fine di una battaglia, vedendo i compagni caduti: perché lui, ci si doman­da, e non io? La colpa di averlo abbandonato, di aver­lo lasciato morire al tuo posto. Occorre una immensa pietà per noi stessi per continuare... Non credi di es­sere stata troppo severa nel giudicarti?

Sempronia                     - Vattene... Risparmiami la tua assolu­zione... (Tremando e facendosi forza) Perché è buio cosi presto? Non fa freddo in questa casa?

Cornelio                        - (avanzando verso di lei, come per soccor­rerla) Livia...

Sempronia                     - Lasciami sola... Padre, padre, dove sei non distinguo più la tua voce... (Entra un servo)

Servo                             - Perdonami, signora, un gruppo di persone chiede di Lucio Cornelio, dice che è tardi...

Cornelio                        - (al servo) Di' che vengo subito... (Il servo esce. A Sempronia) Sono i miei compagni, devo andare...

Sempronia                     - (come destandosi) Adesso?

Cornelio                        - I tribuni saranno già ai rostri. Oggi si decide della pace o della guerra.

Sempronia                     - Gli dei ti proteggano... Siete armati?

Cornelio                        - E perché? Siamo protetti dalla legge. Siamo cittadini romani.

Sempronia                     - È vero... (Toccando la sua tunica) Co­me è leggera questa tunica... Quanto durerà la riu­nione?

Cornelio                        - Tornerò a darti notizie... Addio, Livia...

Sempronia                     - Ti aspetto... Non sono stata mai cosi sola... (Un attimo, si abbracciano di slancio)

Cornelio                        - Questo è il mio buon auspicio, Livia! Tornerò presto! (Si avvia rapido verso la porta di destra, dalla quale entrano Catilina, Gabinio e due servi con fiaccole, che fissano nei torcieri)

Catilina                         - (a Cornelio) Ancora chiacchiere, capita­no? Stanno per correre fiumi di parole. Parlerai an­che tu?

Cornelio                        - Solo per dire "si" alla pace, Sergio Catilina. (Esce)

Catilina                         - (a Sempronio) Allora? Come cuoce il nostro fagiano?

Sempronia                     - Che aria tira in città?

Catilina                         - Niente, aria di comizio. I tavernieri a-spettano coi boccali pieni che la festa sia finita. Sono i soli a guadagnare in queste giornate. Che cosa dice il giovanotto? Lui è tra i patroni della festa...

Sempronia                     - Ascolta... (Si odono le grida della fol­la molto lontano)

Catilina                         - Si direbbe che hai paura. Non hai mai inteso eccitare i gladiatori? Li, almeno, lo spettacolo è cruento. Questi, tra poco, canteranno di gioia.

Sempronia                     - Vinceranno, allora?

Catilina                         - Oh, certo, al giuoco delle promesse! Marco Tullio non è un eroe da dire di "no" alla folla. È un avvocato, per giunta, maestro nell'arte dei rinvii. Darà al popolo tutte le garanzie della forma e lomanderà a casa soddisfatto. Un mese di tregua. Il tempo che ci occorre per uscire di quarantena e mettere a punto i nostri piani. Nel momento più fondo della delusione torneremo a colpire. Dimmi del centurione, piuttosto. Qui fuori c'era ad aspet­tarlo un nerbo di veterani, una pesca stupenda, se abbocca...

Sempronia                     - E se oggi vincessero?

Catilina                         - Ah, lingua di malaugurio! Vent'anni di pace per mettere in moto i tribunali e frugare nel passato di ciascuno? Bella prospettiva! Metà di noi andrebbe a riposare nelle colonie penali.

Sempronia                     - In compagnia di molti senatori.

Catilina                         - Per vederli in faccia dalla mattina al­la sera?

Sempronia                     - Poi verrà un'amnistia.

Catilina                         - Peggio! Dovrei scegliermi un mestiere! Mi vedi a difendere le cause? In affari sono impa­ziente e sfortunato. Curare i vecchi libertini dei loro acciacchi? Mi ripugna. Piuttosto con qualche raccomandazione, entrerei nella polizia. Detesto il disor­dine.

Sempronia                     - Tu?

Catilina                         - (serio) Io, si. Io adoro l'ordine. Anche tu mi credi un fanatico sanguinario? E monterei una macchina di queste dimensioni? Io sogno un ordine totale, che ci liberi finalmente da queste fastidiose querele di ricchi e poveri, romani e barbari, città, municipi, federazioni, montagne di invenzioni fune­ste per stipendiare due eserciti, uno di militari ed uno di burocrati; per far prosperare la verminaia dei mercanti, mediatori, clienti, avvocati, ladri, tristo ap­parato della disuguaglianza. Voglio un ordine di u-guali come le spighe di un campo...

Sempronia                     - Prima o dopo la mietitura? (Catilina sta per replicare, ma si ferma in ascolto)

Catilina                         - Gabinio.

Gabinio                         - Signore.

Catilina                         - Non sento più nulla.

Gabinio                         - Neanch'io, signore.

Catilina                         - (fra sé) Strano un comizio di Cicerone senza applausi...

Sempronia                     - Di che hai paura?

Catilina                         - Paura!... Per gli Dei che ti succede, vuoi provocarmi?

Sempronia                     - E se rinunciassi all'incarico?

Catilina                         - Cos'è, ti disprezza? C'era da aspettar­selo. Fasciato com'è di buoni sentimenti... bene, ti lascerai redimere a poco a poco; è una voluttà alla quale i tipi come lui non resistono. In realtà sarai tu a redimerlo dalla sua sciocca vanità d'essere il prediletto di Giove. Quando non crederà più a nien­te di ciò che lo riscalda, ma avrà freddo anche lui come un mendicante, allora non potrà più star solo... (Le prende la mano con una familiarità che rivela forse un passato più intimo. Sempronia la sottrae)

Sempronia                     - Hai le mani umide di febbre.

Catilina                         - (guardandosi le mani) Ma il cuore è calmo, il cervello è chiaro...

Sempronia                     - C'è qualcosa in cui credi tu?

Catilina                         - (calmo in un delirio come a se stesso) Credo nel numero dei poveri superiore a quello deiricchi, credo nella vittoria della gioventù che è con noi, contro la vecchiaia d'anni e di spirito che è dall'altra parte, credo nell'impazienza di mutar vita di chi non ha più altra fede che lo consoli, nella neces­sità che fa coraggiosi anche i timidi, nella fatalità della natura più forte di ogni legge,... occorre secon­darla... dare la prima spinta, il resto rotolerà da sé... (Entra Lentulo)

Lentulo                         - Vengo dal Foro. È un campo militare. Un cordone di picche separa il Senato dalla folla.

Catilina                         - Perché il Senato? I consoli sono chia­mati davanti al popolo...

Lentulo                         - Non sapete la trovata di Marco Tullio? S'è fatto seguire dal Senato. Ha voluto impressiona­re. Parlando, ha fatto un gran gesto col braccio per scoprire la corazza sotto la toga. Bene, che tutti la vedessero.

Sempronia                     - Allora teme il peggio...

Catilina                         - (come tra sé) Che abbia meditato un colpo di forza? È impossibile...

Sempronia                     - Perché? Tu puoi farlo e lui no?

Catilina                         - No, lui no! Lui è per la legge. Ed è il console, deve tenersi alla costituzione! Se la viola solleveremo il popolo! I tribuni hanno parlato?

Lentulo                         - Non avete udito le grida? Ad ogni loro frase tuonava l'approvazione della folla. I senatori parevano impressionati: guardavano di qua e di là, dal Palatino al Campidoglio fitti di moltitudine... Ora, ti dico, sta parlando Marco Tullio. Dice che la legge agraria è un pretesto per mettere le mani sull'erario e pagarvi i debiti.

Catilina                         - Solo per quelli di Cajo Cesare non ba­sterebbe la provincia d'Asia.

Lentulo                         - Ti accusa di aver attentato alla sua per­sona.

Catilina                         - Ha prodotto prove?

Lentulo                         - No. Ha toccato i senatori nella pelle dopo averli toccati nella borsa. (Entra Cetego in grande orgasmo)

Cetego                          - Grandi notizie, amici. La legge è caduta. Dopo il discorso di Cicerone, il Senato l'ha respinta seduta stante, all'unanimità.

Catilina                         - Come, già deciso? E la folla? E i tri­buni?

Cetego                          - Muti, storditi, non hanno osato replicare.

Catilina                         - (con una esplosione di sarcasmo) Ah, che grande oratore è Marco Tullio! Per gli dei, l'a­vevo sottovalutato! Dove l'avrei trovato mai un al­leato cosi? Ci ha giovato più in un'ora che una guer­ra persa o un anno intero di fame! Riceverà presto le mie congratulazioni!

Sempronia                     - (a Cetego) Che fa la folla? Minaccia? Si agita?

Cetego                          - Ma no, signora! Quasi si sente in colpa per le parole di Marco Tullio. Stanno sgomberando a testa bassa come cani frustati!

Catilina                         - E voi state qui a poltrire? Muovi il tuo polpaccio, Lentulo Sura! Che aspettate a correre tra la gente a risvegliarne il furore quando è ancora riu­nita e si può fare coraggio a vicenda? Vi abbatte il loro silenzio? Si sa, un colpo improvviso li per li stordisce, non duole. Ma si saranno già ripresi e im­precheranno già tra i denti contro la sorte. Dite che non la sorte gli è avversa ma la prepotenza del Se­nato e la viltà dei tribuni! Dite che non c'è che un modo per liberarsi e sapete qual è! (Entra Cesare. Ha in parte udito e in parte intuito ciò che succede)

Cesare                           - Ascoltami fin che sei in tempo...

Catilina                         - Non siamo più in tempo, Cajo Cesare. Gli altri hanno dato il segnale.

Cesare                           - Gli altri non chiedono che di mettervi fuori legge.

Catilina                         - Accettiamo la provocazione. Procede­remo alla leva in massa degli scontenti.

Cesare                           - Armati di scontentezza, addestrati con le promesse: la verità è che tu vuoi la guerra per giu­stificare con la necessità della violenza la tua stessa violenza. La libertà ti spaventa perché obbliga alla ragione. La guerra ti concede una disciplina di rigo­re, per gli altri più ancora che per te stesso.

Catilina                         - (beffardo). Mi gioverò della tua ragione. Sarai il nostro consigliere politico.

Cesare                           - Non contare più su di me. Non voglio che mi si chiedano i conti di un'impresa fallita. E come me altri non ti seguiranno. Romperete l'unità del partito.

Catilina                         - Finalmente! Ci libereremo dei ragiona­tori a vuoto! Dei critici inconcludenti! (Via Cesare) Ma non venite ad offrire i vostri servizi dopo la vit­toria. Tu vuoi degli ordini Cetego? Eccoli: eccitate al disordine e promettete protezione. Più crescerà il numero dei sospetti più diminuirà la vigilanza su ciascuno di voi. Lodate i violenti, scuotete gli incer­ti, atterrite i vili. Essere l'unica speranza dei dispe­rati, l'obbiettivo è raggiunto. (Buio)

SECONDO QUADRO

Una sala in casa del console Cicerone. Cajo Pisone sta ascoltando da un suo subalterno la lista dei col­pevoli di disordini da sottomettere al console per il loro arresto.

Muzio                            - (continuando a leggere) Popilio. Mercan­te. Assieme ad altri ha assalito un magazzino di der­rate.

Pisone                           - Anche i mercanti si riscaldano. È la fol­lia collettiva. Poi?

Muzio                            - Fulvio Nobiliore. Patrizio.

Pisone                           - Il figlio del senatore? (A un cenno d'as­senso dell'altro) Che accusa?

Muzio                            - Con un gruppo di schiavi e di prostitute ha oltraggiato il senatore Cajo Vinicio e l'ha gettato in una fontana. La denuncia parte dall'offeso.

Pisone                           - (dopo un attimo) Sospendi. Parlerò con suo padre e con Cajo Vinicio. (Il subalterno fa un segno con lo stilo accanto al nome) Poi?

Muzio                            - Un altro soltanto: Publio Silano, ex decu­rione, reduce d'Asia. Con grida sediziose eccitava il popolo alla rivolta inneggiando a Catilina.

Pisone                           - Anche l'esercito... Per costoro ci sarà un castigo esemplare. (Entra da sinistra Cicerone. Gli altri s'inchinano. Muzio esce a destra)

Cicerone                        - Notizie d'altri disordini?

Pisone                           - Calma per oggi. Pattuglie perlustrano la città. Questa è la nota dei colpevoli di violenze per ordinarne l'arresto. Catilina bisognerebbe stipendiar­lo invece di chiamarlo in giudizio. Senza di lui come si svelerebbero i nemici della Repubblica? (Gli con­segna il plico)

Cicerone                        - Ce n'è abbastanza perché venga a giu­stificarsi in Senato. Si crede invulnerabile perché ha nelle vene sangue nobile! La citazione del Senatore Lucio Paolo è stata inoltrata?

Pisone                           - Ci vorrebbe altro per quel criminale di una denuncia come perturbatore della quiete pub­blica!

Cicerone                        - La legge Plauzia non consente di più. Datemi una prova di alto tradimento e lo consegne­remo al carnefice. (Entra Muzio)

Muzio                            - Gli ambasciatori degli Allobrogi sono ar­rivati. È con loro Publio Umbreno, loro legale.

Cicerone                        - (a Pisone) Cosa chiedono?

Pisone                           - La luna, signore. Hanno più debiti che figli nella strada, per la loro sanguinosa mania di combattere. Chiedono una riduzione dei tributi.

Cicerone                        - Proprio ora che domandiamo pazienza e sacrificio alla plebe di Roma? L'ultimo dei romani mi sta più a cuore del primo dei Galli.

Pisone                           - Potremmo dar loro, personalmente, quan­to basta per convincere alla calma i loro concittadini.

Cicerone                        - Roma governa, non corrompe. La sua legge può essere dura, ma è giusta. Siano ricevuti con le insegne della potestà consolare, affinché l'im­magine del dominio li ammonisca alla calma. (Muzio esce da sinistra)

Pisone                           - (indicando la nota degli accusati) Per costoro possiamo procedere?

Cicerone                        - Voglio esaminare caso per caso. (Piso­ne esce, seguito dal suo subalterno, Cicerone dà una occhiata alla nota. Entrano, non annunciati, Cajo Ce­sare e Lucio Cornelio, seguiti da due guardie che evi­dentemente non sono riusciti a trattenerli)

 Cesare                          - Si deve forzare la casa del console per avere l'onore di parlargli?

Cicerone                        - Pei senatori il console riceve in Se­nato!

Cornelio                        - (avanzando e inchinandosi profondamen­te) Fammi mettere in ceppi, signore, ma prima ascoltami. Non mi riconosci? Una volta ti degnavi d'essere un padre e più che un padre per me!

Cicerone                        - (sollevandolo con un braccio) Cosa vuo­le il più generoso dei miei scolari? Egli ha libero ingresso nel mio cuore senza bisogno di violare il mio domicilio. È molto che non ti vedo.

Cornelio                        - Fui in Asia, signore, a combattere con­tro il re del Ponto.

Cicerone                        - Che si dice, laggiù? Che fa Gneo Pompeo?

Cornelio                        - Sta bene, credo, signore; per la verità non ho avuto spesso l'onore di vederlo.

Cesare                           - Siamo qui per parlarti di persona, con la massima urgenza. Preferisco intendermi con una testa sola, se è quella di Marco Tullio. Hai respinto la nostra legge.

Cicerone                        - Non io. Il Senato l'ha respinta.

Cesare                           - Sia pure. Tu hai condotto la battaglia e fornito ragioni a chi non aveva che paure.

Cicerone                        - Ho fornito ragioni alla verità.

Cesare                           - Quel che importa, ora, è che la legge è stata respinta.

Cicerone                        - So a cosa mirava il tuo progetto: una speculazione per aumentare i fondi di Marco Crasso e per pagare i tuoi debiti, Cajo Cesare. Otto milioni di sesterzi... Io spendo molto meno.

Cesare                           - Bene, vedo che c'è chi tiene i conti per me... Ma fossero anche il doppio i miei debiti e riu­scissi a rimettermi in pari frodando l'erario (e credi che saprei occultare le mie ingiuste ricchezze, Marco Tullio? Giorno e notte si banchetterebbe negli orti di Cesare!)... Quand'anche dico, non otto, ma venti milioni di sesterzi andassero ad impinguare una sola tasca, ben poca cosa sarebbe di fronte all'esercito di miserabili che avrebbero finalmente una casa ed un campo... Questo voleva la legge... Per non farne ar­ricchire dieci (e ci sono ben altri mezzi oggi, e lo sai) ne condannate milioni a marcire nella miseria!

Cicerone                        - La legge non può tenere conto del nu­mero.

Cesare                           - Ma la politica si! Dieci arricchiti di più     - (ammesso sempre che vi riescano) non modificano l'equilibrio della Repubblica. Milioni di scontenti lo » turbano, pronti a gettarsi in qualunque impresa disperata. Bene, a che prò tante parole? La legge agra­ria è respinta. E Marco Tullio è convinto che ciò sia per il bene della Repubblica, che gli sta a cuore, è certo, come le sue pupille. Per questo siamo qui, soli, inermi, a parlarti non come avversari di parte ma come romani a un romano. Fa cessare la severità delle rappresaglie contro chi, in un attimo di smar­rimento, ha dato sfogo alla delusione.

Cicerone                        - Le responsabilità saranno accuratamen­te vagliate.

Cesare                           - Ahimè, Marco, quando la frana precipita ti metteresti a sceverare un sasso dall'altro? Occorre un gesto ampio e generoso che rassicuri il popolo impaurito.

Cornelio                        - Sempre ci dicevi nel tuo studio che la clemenza è degna alleata della giustizia.

Cicerone                        - Erano altri tempi allora... Altre circo­stanze...

Cesare                           - Dunque la legge si applica a seconda del­le circostanze?

Cicerone                        - Non ho nessun potere in merito. De­cideranno i tribunali il giusto e l'ingiusto.

Cesare                           - Non col giusto e l'ingiusto si reggono gli stati, ma con la volontà di non perderli. A te la scel­ta: un perdono generale a tutti i responsabili dei re­centi tumulti, promessa per un migliore domani. O noi perderemo il controllo della fazione popolare e non vi saranno più limiti al contagio della violenza.

Cicerone                        - Il Senato non ammetterebbe un gesto di debolezza; io stesso lo rifiuterei come contrario alle tradizioni: Scevola punì la sua mano per avere errato e Bruto condannò a morte i suoi figli.

I Cesare                         - E dove sono gli eredi dei Bruti e degli Scevola? Essi trafficano in immobili ed abitano pa­lazzi di marmo. Alle loro grandi parole ormai non credono più che i ragazzi malinconici come il figliolo di Servilia, il piccolo Bruto. Sempre a giostrare con la sua spada di legno contro nemici già morti. Se non matura con l'età finirà per tirare un colpo sbagliato. Lui sì, che si infiammerebbe a sentirti. Ma non ha che dieci anni, l'età delle favole. Gli passerà. Non credo che avremo un'altra occasione di parlarci più schiettamente. La tua ultima parola?

Cicerone                        - Non sono un aristocratico come. te, Cajo Cesare, non posso permettermi il tuo disprezzo [per le cose che ho appreso a venerare fin dalla na­scita. Mio padre era un contadino, commerciava in grano. Da bambino, mi davano da sostenere la bi­lancia e attorno disputavano il prezzo gridando: "La tua ultima parola? La tua ultima parola?" Io non guardavo che l'indice del peso. Che fosse giusto. Con lo stesso animo oggi indosso questa porpora.

Cesare                           - E per la stessa ragione tu, figlio di con­tadino, sei a capo del partito degli aristocratici?

Cornelio                        - Signori, signori, chi ha ancora a cuore la libertà guarda a voi come all'ultima possibilità di salvezza. (A Cicerone) Tu vuoi il giusto, signore, ed io sono con te. Da te ho appreso a ragionare. Ed è giusto che chi ha dato tutto per amore della patria, o chi è stato spogliato di tutto dalla tirannide per amore di libertà, debba andare a testa bassa di fron­te a chi non ha dato nulla e s'è accontentato solo di prendere, prima o dopo? Che debba temere ogni giorno per la vita sua e dei suoi figli? Non sono an­ch'essi romani? O forse tra i romani c'è chi è più e chi è meno romano degli altri? (A Cesare) È lo stesso che vuoi tu, Cajo Cesare, anche se lo chiami diversamente. (A Cicerone) La giustizia, signore: quando gridavano contro il nemico nell'impeto dell'assalto questo era giusto. Perché se gridano contro la miseria, nemico altrettanto temibile, è ingiusto? Non ebbero compenso per le prime grida; è giusto che per le seconde abbiano il carcere? (Pausa, come accorgendosi di essersi scaldato troppo) Se debbono pagare, si tenga conto che hanno già pagato in anti­cipo. E ti garantisco, un buon prezzo!

Cicerone                        - Chi è il tuo nuovo maestro di elo­quenza?

Cornelio                        - La guerra. (Cicerone osserva la nota de­gli accusati che ha ancora in mano, come pesi la loro vita. Per un attimo ha intenzione di lacerarla. Si riprende, maturando la risposta)

Cicerone                        - Non posso promettere ciò che non mi appartiene. Ma se il bene della Repubblica... hai ra­gione, Cajo Cesare, a dire che m'è più caro delle mie pupille... se il bene della Repubblica esige un atto di clemenza, non mi opporrò. Io stesso ne sarò patro­cinatore.

Cesare                           - In queste condizioni neanche io posso promettere nulla. Il popolo non s'accontenta più di parole.

Cicerone                        - Presto avrete notizie.

Cornelio                        - Gli dei ti aiutino per il meglio. (Ce­sare e Cornelio escono. Cicerone legge ancora la nota degli accusati. Entra il vestiarista e comincia ad ag­giustare addosso a Cicerone il paludamento purpu­reo)

Cicerone                        - Come è pesante questa porpora... L'ho desiderata come una veste di gloria e m'avvolge co­me un sudario di sangue... Questa è dunque la vera immagine della legge? (Entrano Pisone, Quinto Ca­ttilo, Catone e il subalterno di Pisone)

Catulo                           - Cosa pretende da noi Cajo Cesare?

Cicerone                        - Nulla che non sia suo diritto di chie­dere.

Catulo                           - Perché il console si esprime come una sibilla? Teme di compromettere il più insidioso ne­mico della Repubblica?

Cicerone                        - Finché Cesare si terrà nell'ambito del­la legge, cosa di cui non ho ragione di dubitare, il console ha il dovere di ascoltarlo.

Catulo                           - Quali distinzioni sottili! Cesare è l'altro volto di una medesima sciagura. Altero e dissimula­tore quanto l'altro è impaziente e violento. Che facciamo noi per difenderci? Nulla. Li lasciamo liberi l'uno e l'altro.

Cicerone                        - Catilina è chiamato in Senato a giu­stificarsi.

Catulo                           - Oh, certo! Se avrà la cortesia di pre­sentarsi!

Cicerone                        - Se non verrà sarà una ammissione di colpa. Lo giudicheremo in contumacia.

Catulo                           - E lo manderemo a rimettersi in salute in qualche salubre campagna. Credi che lui al posto nostro userebbe la stessa delicatezza?

Cicerone                        - Non siamo contro le tigri per man­giarle.

Catulo                           - Ma nemmeno per essere mangiati. Quat­tro teste al boia e la pace tornerà per incanto...

Cicerone                        - Prima che tu continui, Quinto Catu­lo, la mia risposto è no. Mi appello a Marco Catone, scrupoloso estimatore d'ogni dovere.

Catone                          - Il primo dovere è la difesa della Re­pubblica. Siamo gente ostinata, noi Catoni. Cosi io ti dico: estirpa la mala pianta prima che sia con­taminato il raccolto.

Catulo                           - Che differenza fa morire di pugnale o morire di peste? Il pugnale è Catilina. Abbiamo al­meno il vantaggio di poter opporre pugnale a pu­gnale. Ma che possiamo opporre alla peste, a Cajo Cesare, che va infettando le nostre stesse case coi suoi subdoli discorsi?

Cicerone                        - (ironico) Che egli si proclami re, e mi unirò ai vendicatori della Repubblica.

Catulo                           - Eh, quanto tempo da aspettare! Quan­to tempo sprecato! Ti preoccupi della legge? Bene, non temere; la città è piena di scaramucce; abbia­mo presidi nostri, fidatissimi; di uno, al tempio del­la Concordia, rispondo io stesso. Cesare, con la sua alterigia, è solito uscire senza scorte. Un colpo è presto vibrato...

Cicerone                        - Toglietemi di dosso questa porpora! Volete farmi complice di un assassinio? Vi sbaglia­te! Chiamatemi in giudizio e rivelerò questa iniqui­tà. Mi appellerò al popolo! Sono Marco Tullio Cice­rone e mi crederà! (Di fronte alla violenta reazione di Cicerone il gruppo dei senatori rimane muto. Sen­te di essere andato troppo oltre)

Catone                          - Credo che le parole di Quinto Catulo abbiano tradito il suo pensiero. Io stesso, rigido pro­pugnatore della severità, non posso approvarle. Suv­via, signori, proprio noi daremmo al popolo l'esem­pio di una rovinosa discordia? Oggi meno che mai dobbiamo favorire i disegni del nostro mortale ne­mico.

Catulo                           - Grazie, Marco Catone, per avere chia­rito le mie parole.

Cicerone                        - Non avevo dubbi sulla lealtà di Marco Catone, (a Catulo) Apprezzo il riconoscimento del tuo errore.

Catulo                           - Tuttavia devo insistere perché il popolo abbia soddisfazione. Guai a noi se una manifesta­zione sediziosa restasse impunita.

Pisone                           - (indicando il plico che Cicerone ha ancora in mano) Abbiamo la nota dei responsabili.

Catulo                           - (a Cicerone) Cosi avremo modo di an­dare in fondo, come vuole il console, secondo la legge.

Cicerone                        - (dando il plico a Pisone) Si proceda agli arresti. (A tutti) Vi assicuro, signori, che se c'è prova di tradimento, non avremo pietà. (A Muzio) Il console è pronto a ricevere gli ambasciatori degli Allobrogi. (Ai senatori che stanno per andarsene) La vostra presenza aggiungerà maestà a questo incon­tro.

Catone                          - Cosa chiedono gli Allobrogi?

Cicerone                        - Molto.

Catone                          - E noi cosa daremo?

Cicerone                        - Nulla.

Catulo                           - D'accordo.

Cicerone                        - Le mie insegne. (Entrano i littori, un servo con la sedia curule. Il vestiarista dà gli ulti­mi tocchi al paludamento. Cicerone siede maestosa­mente sulla sedia curule coi littori ai lati. I sena­tori fanno corona)

Muzio                            - (annunciando) I rappresentanti del valoroso popolo degli Allobrogi. (Entrano due messi degli Allobrogi, nei loro costumi, Muzio saluta da soldato. Gli ambasciatori si inchinano fino a terra di fronte al gruppo statuario del console e dei sena­tori. Buio)

TERZO QUADRO

La strada con la casa di Silano. Due soldati stan­no ai due lati della porta d'ingresso e tengono a ba­da il popolino che fa ressa da una parte e dall'altra.

Primo soldato                - Indietro, ho detto, indietro! La­sciate libero il passo! Non avete mai visto un arre­stato? E si che da queste parti ci siete abituati! (La gente si fa un poco indietro, ma non si allontana. Frattanto vengono ad unirsi ai popolani Decio, Ti­to e Furio, i veterani che già abbiamo visto con Cor­nelio) Ho detto di sciogliervi! Siete sordi? Volete che si adoperi la forza?

Decio                            - La strada è di tutti!

Primo soldato                - Chi ha parlato? Avanti, se ha coraggio, venga fuori! Come se per noi fosse un di­vertimento. Gli ordini sono ordini.

Tito                               - Fate a meno di eseguirli!

Primo soldato                - Basta ho detto! Una parola di più e ci portiamo via qualcun altro! Indietro, in­dietro! (Dalla casa sta uscendo Publio Silano, in ceppi, seguito da un terzo soldato. La folla si avvi­cina mormorando)

Silano                            - (beffardo) Largo amici! Largo ai salva­tori della patria! Vado a ricevere la corona civica per benemerenze sul campo!

Voci della folla             - Lasciatelo! Non ha fatto nien­te! È una ingiustizia! È un sopruso. Abbasso il con­sole Cicerone!

Silano                            - Mi arrestate perché ho gridato: la terra a chi l'ha conquistata! È un delitto? Mi appello al popolo! Sono un cittadino romano! (Entra da sini­stra Cepario)

Cepario                         - Vergogna, romani! Vi lasciate portar via sotto gli occhi uno dei vostri! Un valoroso! Tan­ta paura vi fanno le uniformi? (La folla si addensa minacciosa)

Voci della folla             - Lasciatelo! Lasciatelo! (Da de­stra entra di corsa Cajo Cornelio, seguito da Fulvia, che evidentemente è corsa a chiamarlo)

Fulvia                            - Padre! Padre! (Corre tra le braccia di Silano che è impedito dai ceppi alle mani)

Silano                            - (a Cornelio) Signore aiutami, sono in­nocente!

Cornelio                        - (ai soldati) Sono il centurione Lucio Cornelio, conosco quest'uomo, non potete arrestarlo senza un ordine!

Primo soldato                - L'ordine siamo noi. Di questi tempi non si va per il sottile!

Silano                            - Signore, ho gridato soltanto pane e la­voro! È un delitto? Mi staccano da mia figlia per questo!...

Cornelio                        - Sotto la mia responsabilità lasciate quest'uomo! Prendete me, piuttosto. Conosco la legge!

Primo soldato                - Allora aiutaci a farla rispettare, la legge! L'ordine lo vedrai in tribunale! (Lo trasci­nano via)

Fulvia                            - Padre! Padre! (A Cornelio) Signore, non lo abbandonare!

Cornelio                        - Vengo con te. (Escono, Cornelio e Ful­via, appresso alle guardie che hanno portato via Si­lano)

Cepario                         - (rivolgendosi ai popolani rimasti) E voi ve ne state li, immobili, agghiacciati dalla paura! Che aspettate? Che vengano a staccarvi uno a uno dalle vostre case come frutti maturi? Vi credete im­muni da colpe? Chi di voi non ha gridato: Pane e giustizia? Correte, allora, a strapparglielo dalle ma­ni; siete i più forti! (La folla si precipita dietro l'ar­restato)

Voci della folla             - Ha ragione! Basta con le pre­potenze! Andiamo!

Cepario                         - (solo) Va', corri, torbido torrente, a ingrossare la fiumana della rivolta... (Si ode tra le quin­te, tra voci concitate, il grido straziante di Fulvia. Alcuni popolani rientrano fuggendo e attraversano di corsa la scena. Li seguono Tito e Cornelio, che portano il corpo di Silano. Lo depongono a terra, si inginocchiano al suo fianco)

Cornelio                        - Publio... Publio... sono io, Lucio Cornelio...

Silano                            - (morente) Comandante... sei tu?... Dove sono?... Perché questo silenzio... Non odo più nulla... (Si tocca addosso) Dov'è la mia corazza?

Cornelio                        - Calmati, Publio. Fui io a togliertela per curare le tue ferite...

Silano                            - (con grande sforzo fa per tirarsi su appog­giandosi al gomito. Guarda attorno) La mia ca­sa... (Con un grido) Fulvia!... Fulvia!...

Cornelio                        - Ora verrà... Ti porteremo in casa... Ti cureremo...

Silano                            - (divincolandosi) Anche tu menti, per gli dei... Lasciatemi... Voglio morire in piedi... (Tenta di sollevarsi, ma si abbatte morto)

Cornelio                        - Publio! Publio! Per questo la morte t'ha risparmiato sui campi di battaglia... Sei ben pa­gato... Ma hanno acceso un debito, per gli dei im­mortali, che tutte le loro vite non basteranno ad estinguere... (Alle spalle di Cornelio, tuttora inginoc­chiato accanto al corpo di Silano, si avvicina Cati­lina, seguito da Cetego e da Cepario. Cornelio, guar­dandosi le mani lorde del sangue di Silano) Che que­sto sangue mondi l'anima mia da ogni pietà di me stesso e degli altri. (Catilina pone la sua mano sulla spalla di Cornelio. Costui si volta, adagio, come aspet­tandoselo. Si alza lentamente)

Catilina                         - Cepario ti indicherà un luogo sicuro dove nasconderti. Sarai tra amici. Li parleremo con calma e ti verrà assegnato il tuo compito. (Cornelio sta per avviarsi con gli altri, allorché giunge Sem-pronia, trafelata)

Sempronia                     - Lucio! Sei vivo grazie al cielo! (Ve­de il corpo di Silano, tace)

Cetego                          - E è con noi!

Sempronia                     - No!

Cetego                          - Ma sicuro! C'è voluto un po' di tempo ma hai vinto tu! Peccato che Quinto Curio non pos­sa più pagarti i diecimila sesterzi! (Ride) Chissà poi come avrebbe fatto!

Catilina                         - (a Cetego) Che dici... Sai che non è vero! (Cornelio guarda Sempronia come a chiederle conferma delle parole di Cetego. Sempronia sostie­ne il suo sguardo)

Sempronia                     - (a Cornelio) Non gli credi? Non sai chi è Sempronia? Non te l'ha detto Quinto Curio?

Cornelio                        - Che importanza ha? Quinto è morto. Silano è morto. Questo solo è vero. Per il resto non c'è più tempo.

Catilina                         - (ai suoi) Sia data a Publio Silano de­gna sepoltura. E sulla sua tomba sia posta la corona di quercia dei caduti sul campo. (A Cornelio) Andiamo. (Si avvia con Cornelio mentre gli altri vanno a sollevare Silano. Sempronia resta sola. Abbassa la testa, sfinita. Buio)

QUARTO QUADRO

L'interno di una casa di un quartiere popolare. Una stanza abbastanza ampia, dal soffitto basso, in fondo una porta dà in un'altra stanza. A sinistra dei gradini scendono verso la porta che dà sulla strada. In un angolo della stanza sono fasci di armi. Cor­nelio, in piedi, sta annotando con uno stilo su una tavoletta. Dalla scala sta salendo Tito, l'ex legiona­rio, un sacco sulle spalle. Lo depone a terra. È stan­co e sudato. Rovescia il sacco e ne escono gladi, ac­cette, archi, faretre.

Tito                               - Ecco il resto della caccia. Un giorno o l'al­tro si accorgeranno che dalle caserme sparisce tutto...

Cornelio                        - Vogliamo finire questa nota?

Tito                               - (prendendo a mano le armi e deponendole accanto alle altre. Cornelio prende nota) Dieci gladi d'ordinanza... Sette asce da pioniere... Vengono dai depositi dei vigili... Questa si che è stata una impresa... da ieri hanno cambiato il comandante...

Cornelio                        - Perché?

Tito                               - E che ne so? Non lo dicono alla truppa. Fanno, disfano, sempre a loro capriccio. Ma in aria c'è movimento... Sei archi da campagna con rela­tive faretre complete... Non so a cosa serviranno, vi­sto che ci sgozzeremo da vicino, magari dentro la stessa casa o la stessa strada...

Cornelio                        - Hai visto i tuoi compagni?

Tito                               - Tutti, signore. Ardono d'impazienza, non parlano d'altro. La verità è che la stagione è bassa e non c'è molto da fare. Sperano, come me.

Cornelio                        - Dirai a ciascuno di non perdere di vista i propri uomini. Controllarne lo stato d'animo, tenerne alto il morale. Cauti nel reclutamento.

Tito                               - Si capisce. Le spie abbonderanno di questi tempi.

Cornelio                        - Si, ma non solo quelle. Abbondano i violenti per vocazione, i profittatori. Noi vogliamo risanare la Repubblica, non aggiungere sangue e cor­ruzione alla corruzione. Sia ben chiaro per te e per chiunque.

Tito                               - Bene, signore, lo dirò agli altri. (Fa per andarsene)

Cornelio                        - Non... vi occorre del denaro?

Tito                               - No, signore.

Cornelio                        - Davvero? Dovrete pur vivere, voi e le vostre famiglie. Dicevi che il lavoro scarseggia...

Tito                               - Ma un po' di liquido circola... Qualcuno unge le ruote della rivoluzione... Dicono che sia Mar­co Crasso...

Cornelio                        - (dopo un'esitazione) Comunque, se oc­corre ho già dato il tuo nome al mio banchiere. Non è un leone, ma simpatizza per noi. Non vi tradirà.

Tito                               - Per Ercole, mi sembra di avere cambiato stato, in compagnia di un banchiere, d'un signore come te e d'un milionario come Marco Crasso. Quan­do mai si son visti i ricchi allearsi coi miserabili? Si vede proprio che i tempi sono maturi... e che quando gli dei hanno deciso di perdere qualcuno gli levano contro i suoi stessi pari...

Cornelio                        - Lascia stare gli dei, mio buon Tito. Non credo che si interessino di queste faccende.

Tito                               - Signore, tu non credi agli dei?

Cornelio                        - Non più come una volta, almeno...

Tito                               - Ma allora... Chi ha fatto tutto... il sole, le stelle... e a chi dovremmo affidarci noi miserabili? Sono essi a darci la speranza...

Cornelio                        - Hai ragione, Tito, la speranza. (Come a se stesso) Se c'è un Dio deve essere in noi stessi, come la speranza. In te, in me, in tutti. Per questo siamo uguali. Capisci?

Tito                               - Tu uguale a me, signore?

Cornelio                        - Va', mio buon Tito. Se hai animo sem­plice gli dei ti soccorreranno.

Tito                               - Pregherò anche per te, signore...

Cornelio                        - Bene. (Tito esce, dopo poco rientra Prisca, una popolana cinquantenne, con la scusa di mettere ordine va verso la catasta delle armi)

Prisca                            - Allora... è proprio deciso... Dicono che la statua di Giove stanotte s'è mossa sul Campidoglio.

Cornelio                        - Menzogne, furfanterie! Voci messe in giro da chi ha interesse a spargere il panico e go­vernare con lo spavento!

Prisca                            - Cosi sia, signore. Ma da stamani, le don­ne sostano inginocchiate davanti ai templi e levano supplichevoli le braccia al cielo, e tendono i figli commiserandoli... Anche le signore, dicono. Avvolte in veli neri, le stesse che fino a ieri si tingevano il viso, pregano davanti i simulacri...

Cornelio                        - La sola grazia che possono implorare è che la nostra vittoria sia rapida e decisiva. E lo sarà, Prisca. Tu dubiti?

Prisca                            - Io so che ci vogliono nove mesi a far maturare una spiga e tanti per avere un figlio. Anni perché diventi uomo. Il mondo va terribilmente pia­no, signore.

Cornelio                        - E con queste idee ti metti dalla nostra parte, rischi la casa, la libertà, la vita?

Prisca                            - E da che parte dovrei mettermi? Da questa parte ci son nata, di qua ci sono tutti i nostri morti. Se va male ricominceremo. Siamo abi­tuati.

Cornelio                        - Perdonami, Prisca. Io stesso non so leggere nell'anima mia: ardo e gelo, soffoco d'impa­zienza e rabbrividisco di tristezza, sono pronto a uc­cidere e mai la vita di un uomo mi è pesata di più.

Prisca                            - Sei troppo stanco, signore. Giorni senza dormire, tra l'angoscia e i pericoli... C'è un limite a tutto... Vedi di riposarti un po'... Certo non è un pa­lazzo come il tuo ma la biancheria è pulita, l'ho cambiata anche oggi... Un po' di vino caldo? È già pronto... (Esce. Cornelio si siede. Prende un libro da uno stipo. Comincia a leggere. Poi si distrae. Pensa. Prisca rientrando con una coppa di vino cal­do) Che pensi, signore?

Cornelio                        - Penso che anch'io ho i miei morti da questa parte. I soli amici che avevo.

Prisca                            - Che essi riposino in pace. La troppa fan­tasia turba la loro quiete, signore. (Gli dà una coppa che Cornelio beve) Dicono che li riavvicini a questa riva...

Cornelio                        - Dove sei, Quinto?... Esiste ancora qual­cosa di te nello spazio infinito? (Un attimo di silen­zio teso. Poi si odono colpi violenti battuti all'uscio della strada. Cornelio si scuote, si alza. Continuano i colpi più forti) Olà, chi batte questi colpi? (Dalla scala salgono Cetego e Lentulo, seguiti da Prisca con ima lucerna)

Cetego                          - Dormite tutti in questa tana? Sveglia, raduna gli uomini, distribuisci le armi.

Cornelio                        - Che succede? Dov'è Sergio Catilina? La Seduta al Senato è terminata?

Lentulo                         - Non ancora, ma c'è vento d'uragano.

Cetego                          - M'è testimone l'inferno che gli dissi di non andare.

Lentulo                         - Nemmeno loro ci credevano. Erano li­vidi di paura quando è entrato nell'aula. Non gli hanno permesso di parlare. La vecchia cornamusa ha emesso ruggiti di leone. L'ha attaccato di fronte. Ha mostrato di conoscere più cose di quante in realtà non ne sappia. Ma l'effetto è stato violento tra quei conigli.

Cetego                          - Quello era il momento di venir via ac­cusandoli di tirannide.

Lentulo                         - Lui invece a fronteggiarli con un sor­riso sprezzante. Non lo faranno uscire vivo di li. Oc­corre radunare quanta gente si può e strapparglielo di mano prima che sia troppo tardi.

Cornelio                        - Vai, Prisca. (Prisca esce di corsa. Si incrocia con Gabinio che arriva)

Gabinio                         - Una grave notizia, amici. Fulvio ucciso da suo padre. Il vecchio deve aver sospettato e l'ha strangolato con le sue mani.

Cetego                          - Stupido ragazzo! Ignobile piccolo pavo­ne! S'andava confessando a tutte le baldracche di Roma per consolarsi della perdita di Sempronia!

Cornelio                        - Ha pagato con la vita! E in che modo!

Cetego                          - Debbo pure compiangerlo? I tuoi guer­rieri, piuttosto, pronti ad un tuo cenno, hanno smar­rito la strada? (Si odono voci di gente che sale, tutti si accostano alla scala, ed appare Catilina stravolto, acceso d'ira)

Catilina                         - La guerra è dichiarata. La finzione è morta. Poiché vogliono spingermi al precipizio, e-stinguerò l'incendio con la distruzione. Cosi ho gri­dato in faccia a quei pusillanimi. Presto un'armatu­ra! (Si toglie la toga. Cetego e Gabinio cominciano ad allacciargli sulla tunica una corazza. Entra Tito trafelato)

Tito                               - (a Cornelio) M'hai fatto chiamare signore? Gli altri aspettano in basso.

Cornelio                        - (a Catilina) Quali sono gli ordini?

Catilina                         - Partirò stanotte con una scorta. Fate attestare i cavalli sulla via Flaminia, oltre il fiume. Muovano da parecchie direzioni per non dare nel­l'occhio. (Cornelio si avvicina con Tito ai fasci delle armi, prende dei gladi, delle asce, glieli consegna)

Cornelio                        - (a Tito) Hai inteso? Radunerai due gruppi, il tuo e quello di Decio. Dirai a Decio di te­nersi ai miei ordini.

Tito                               - E tu, signore?

Cornelio                        - Non hai inteso? (Tito esce con il ca­rico delle armi)

Catilina                         - Cepario non c'è? E tu, Lentulo, cosi proteggevi l'uscita dal senato...

Lentulo                         - Son corso qui in cerca di rinforzi.

Catilina                         - Ora ascoltatemi tutti. Raggiungerò a grandi marce il campo di Fiesole. Assumerò il co­mando dell'esercito e mi porterò a una giornata da Roma. Voi agirete di qui come un grimaldello. Cor­nelio: curerai il reclutamento dei volontari e ne in­straderai il più possibile verso il nord. Mi occorre gente pratica e risoluta, capace dì assumere il co­mando di corpi armati. Cetego e Lentulo: vi occu­perete del fronte interno; che ad ogni nemico sia opposto personalmente un nostro seguace, ai capi i nostri capi, ai padri i figli che militano con noi. Si che al momento designato, quando riceverete miei corrieri, ognuno sappia con esattezza dove deve col­pire. Per questo Lentulo e Cetego, vi delego miei luo­gotenenti in Roma con diritto di vita e di morte su chiunque. Di ogni vostra azione risponderete a me di persona. Gabinio: spero che al momento giusto la tua mano non fallirà per la seconda volta.

Gabinio                         - Dovessi bruciarla, signore.

Catilina                         - Niente imprudenze Cetego. E tu, Len­tulo, svegliati! Diffidate, occhi aperti e orecchie tese. Il tradimento è fra voi, come un'ombra, ad ogni istan­te. Sapete la pena che spetta a chi tradisce.

Cetego                          - (pronto) E l'abbiamo dimostrato, mi pare!

Catilina                         - (frenandolo a stento) La tua lingua sa­rà sempre più impaziente del tuo pensiero? (Dà una occhiata a Cornelio per vedere se ha intuito ma in questa arriva Marco Crasso avvolto in un mantello)

Crasso                           - (a Catilina, come a un subalterno) Que­sta nuova imprudenza ci costerà cara!

Catilina                         - Decido io! (Più prudente) Un capitano deve capire quando è tempo di rompere. Lo sai tu stesso. Non c'era momento più propizio. I corrieri col danaro sono partiti?

Crasso                           - Da due giorni.

Catilina                         - Bene. Darai a Lentulo quanto occorre per il viaggio. Per ogni novità mi farai avere lettere al campo.

Crasso                           - Bada che so farmi restituire quello che ti presto!

Catilina                         - Rassicurati! Nessuna banca ti dareb­be migliori interessi! (Crasso e Lentulo via. Catilina si accosta amichevolmente a Cornelio)

Catilina                         - Un'ultima missione per te, buon Cor­nelio. Non potrei trovare un interprete più convin­cente. Sai parlare, tu. Chissà che non t'affideremo, un giorno, qualche incarico diplomatico. Il tuo con­siglio c'è stato di giovamento più di una volta.

Cornelio                        - Ti ascolto.

Catilina                         - Le tribù degli Allobrogi hanno amba­sciatori a Roma per protestare contro il rigore dei tributi. Marco Tullio in persona ha rifiutato ogni sgravio. Ha agito per noi ancora una volta. E quelli se ne lamentano ad ogni angolo di strada, assicuran­do di aspettar la morte unico rimedio alle loro mise­rie. "Bene," dirai incontrandoli, "se davvero volete essere umani, vi dirò io come fuggire ai vostri ma­lanni."

Cornelio                        - Vuoi farli partecipi della nostra guer­ra...

Catilina                         - Non ti mancherà il modo di persua­derli a grandi speranze. Sono gente bellicosa che mal sopporta il domìnio dei nostri magistrati. Pronti a ogni eccesso pur di sottrarsi alla loro rapacità.

Cornelio                        - E vuoi mescolare un barbaro infido, uno straniero inquieto e sanguinario a una querela tra romani?

Catilina                         - Per gli dei, non ho chiesto il tuo pa­rere! È un'ordine!

Cornelio                        - Ordinami di assaltare da solo il Cam­pidoglio. Lo farò. Ma per il consiglio che mi attri­buisci, ascolta: guardati da simili patti. Non inqui­nare il nostro buon diritto con una simile alleanza!

Catilina                         - Gli Allobrogi aspettano di incontrarti. Publio Umbreno, che è il loro legale di Roma, farà da tramite.

Cornelio                        - Non contare su di me.

Catilina                         - Ragazzo, la rivoluzione è una padrona severa che non viene a patti. Chi indossa una coraz­za, anche se gli preme lo stomaco, sa che non potrà togliersela prima del combattimento. Solo, tu dici. È una parola che non conosciamo. Non ci sono più individui tra noi, fino alla vittoria. Intesi. Domani ti abboccherai con gli Allobrogi. Un corriere mi infor­merà del colloquio.

Cornelio                        - Per l'ultima volta, Catilina!

Catilina                         - Per la tua vita, non una parola di più. (Entra di corsa Cepario)

Cepario                         - Signore, tu parti? Il nemico è in mo­vimento. Frugano le nostre case. Per poco sono sfug­gito alla cattura. Livia Sempronia è arrestata.

Cetego                          - Ecco la vendetta di Fulvio! Quello che gli sfuggi da vivo vuol trascinarselo all'inferno!

Cornelio                        - Di' piuttosto l'amaro frutto del vizio-Mescolate alle nostre schiere i vili e i corrotti...

Catilina                         - (agli altri) Aspettatemi di sotto. Scen­derò tra un istante. (Tutti escono, restano Catilina e Cornelio. Catilina prende da un sedile un mantello e lo indossa) Dicono che chiunque abbia governo di uomini senta il bisogno di aprirsi a qualcuno alla vi­gilia di eventi gravi. Bene, io non sfuggo alla regola, nonostante il mio cuore di ghiaccio. E scelgo te per la mia confessione. Te, che in altre circostanze avrei abbandonato alla sbrigativa giustizia di guerra. Per­ché? Con chiarezza non lo so nemmeno io. Forse perché tu soffri più degli altri in questo momento...

Cornelio                        - Io non soffro più di qualsiasi romano che abbia a cuore le sorti della patria.

Catilina                         - Menzogna, ragazzo. Forse noi non ci parleremo più come adesso. È dubbio persino che ci vedremo ancora. Esigo sincerità per sincerità. Guar­dami pure in faccia. Sono lo stesso Catilina di cui si affermano le cose più turpi: parte vere parte false. Sono lo stesso Catilina che sta per comandare una impresa dì cui i secoli non cesseranno di parlare, lo stesso che è pronto a servirsi di ruffiani e di prosti­tute se questo giova ai suoi fini. Ma un uomo è un uomo, non una statua di cristallo. È un universo in cui c'è posto per tutto, anche eccezionalmente per pietà. Di se stesso, intendo. Credi che io non abbia provato quello che provi tu in questo istante? Credi che non capisca i tuoi sentimenti per Livia Sempro­nia?

Cornelio                        - Compiango la sua sorte, come quella di chiunque altro al suo posto.

Catilina                         - Cosi parla il romano dei monumenti. Ma l'uomo, dentro, si tortura. Non è un uomo un romano? No, è qualcosa di più; è un'anima rivestita di orgoglio...

Cornelio                        - Di dignità.

Catilina                         - Sicuro, di dignità. La sola dignità che esista al mondo! Gli altri sono vili, barbari e corrot­ti! Sappi allora che fui io a pregare Livia Sempronia di attirarti a noi.

Cornelio                        - Non fui il primo.

Catilina                         - Ma fosti l'ultimo.

Cornelio                        - Accettò, comunque.

Catilina                         - Ma con un impeto che non le avevo mai visto.

Cornelio                        - Tanto da scommetterci.

Catilina                         - Fu il tuo amico Quinto a sfidarla. An­che lui ti credeva più di un uomo. Poi non so che cosa accadde. Pareva avesse ritirato la sfida.

Cornelio                        - Ma se ha confermato lei stessa!

Catilina                         - E non capisci, che era per disgustarti, per allontanarti da noi! Perché aveva paura! Perché ti ama! A che ti serve tutto il tuo diritto se non ca­pisci queste cose? Mi sfuggiva quando le chiedevo come procedesse l'intrappolamento. Non chiedeva che gli eventuali pericoli ai quali fosse esposta la tua sacra persona! Cos'è questo? Qual è il sentimento che ci fa dimenticare tutto, che attenua anche il piacere della vendetta?

Cornelio                        - No, troppo facile. Perché non hai par­lato prima?

Catilina                         - Perché il vostro piccolo intrigo non entrava nei piani della rivolta. Il suo aiuto non mi occorreva più.

Cornelio                        - Ma adesso t'occorre.

Catilina                         - T'avevo chiesto sincerità per sincerità.Era un'occasione unica. Peccato.

Cornelio                        - L'hai vista... dopo?

Catilina                         - No. Vidi quel ragazzo, Fulvio, disperato di non godere più i suoi favori. Sai perché? Ah, come le nostre azioni non sono mai pure, mescolate sempre di acri risentimenti. Penso a volte che di pu­ro non vi sia che la crudeltà; la fredda, lucida, spie­tata crudeltà della politica. Ma stanotte sono un uo­mo anch'io e piango sull'infelice sorte di Fulvio. Sen­za di te non gli si sarebbe letta in faccia la sua disperazione. Non si sarebbe scoperto. Non avrebbe confessato. E senza la sua confessione la vita di Sempronia ora non correrebbe pericolo.

Cornelio                        - Giurami che non menti.

Catilina                         - Sugli dei immortali? Un sacrilego co­me me?

Cornelio                        - Sull'anima tua.

Catilina                         - Catilina ha un'anima? Ecco in una stra­na notte una strana scoperta.

Cornelio                        - Sul tuo demone. Giura.

Catilina                         - S'è mai visto giurare l'evidenza? O che un altro giuri ciò di cui noi stessi siamo convinti? Puoi tu giurare che io mento? Avanti giovane san­gue, affluisci al cuore senza più freni! Lacrime, non abbiate vergogna di sgorgare! Petto, cessa di com­primere l'affanno e lascialo finalmente gridare!

Cornelio                        - (coprendosi con le mani il volto e repri­mendo un singhiozzo) Vile, vile, sono un vile...

Catilina                         - Finalmente il rigido cristallo è diven­tato uomo. Povera cosa un uomo... prigioniero d'ogni suo atto, legato da una invisibile catena agli atti di tutti. Cornelio, Fulvio, Sempronia, Catilina, piccole, effimere luci nel giuoco della necessità. Grandi e pic­coli, romani e non romani, uguali in questo terribile giuoco. Ora tu comprendi cosa ribolle nell'animo di quei barbari che vogliono affrancarsi da Roma. Uo­mini anche loro, come noi» sotto le stature gigante­sche e l'aspetto selvaggio. Anche loro capaci di di­sperazione. Eppure grande cosa è l'uomo se ha il potere di riscattarsi dalla necessità. Infidi, tu li chia­mi, sanguinari. E non siamo noi stessi infidi e non ci prepariamo a spargere sangue? E se dal loro aiuto dipendesse la nostra vittoria, o per lo meno l'affret­tarsi di essa, un minore spargimento di sangue, una più universale giustizia, una più pronta liberazione mia, tua, di Sempronia che in questo momento cor­re il più grave pericolo?

Cornelio                        - Domani vedrò gli ambasciatori.

Catilina                         - Ora so che troverai con loro il giusto linguaggio. E non temere, ci serviranno quanto ba­sta per vincere. Noi sapremo essere all'occorrenza padroni ancora più duri. Buonanotte, centurione.

Cornelio                        - Spero che avremo altri di questi col­loqui. Rinfrancano.

Catilina                         - Agirai d'accordo con Lentulo. E con Cetego. È un cervello caldo ma ha un braccio che non trema.

Cornelio                        - Farò il possibile.

Catilina                         - Farai il necessario. Buonanotte. (Se ne va rapido. Cornelio resta solo. È agitato da contra­stanti sentimenti. Dal fascio delle armi prende una spada. La sguaina. La guarda)

Cornelio                        - Ancora una volta. Un'ultima volta. La più crudele. Fino allora tregua alla ragione. Purché sia l'ultima. (Buio).

ATTO TERZO

PRIMO QUADRO

L'ufficio del console in Senato. Sulla sinistra un tavolo e un seggio. Più indietro la porta che collega l'uscio con l'aula del Senato. Sulla destra la porta che conduce fuori. In fondo una finestra. Cicerone al suo tavolo termina di leggere un plico. In piedi ac­canto alla porta che dà sull'esterno.

Cicerone                        - (a Pisone) Sia convocato il Senato. Or­dine del giorno: Sergio Catilina e Cajo Manlio siano posti sotto l'accusa d'alto tradimento. Mobilitazione dell'esercito. Comando delle forze in campo. Difesa della città.

Muzio                            - Il console Cajo Antonio. (Cicerone si al­za e muove incontro ad Antonio entrato da sinistra) Salute all'eminente collega.

Cajo Antonio                - E a te, Marco Tullio. Mi duole di non aver udito il tuo discorso. Lo giudicano smaglian­te. Un meraviglioso coraggio. Spero che il discorso sarà pubblicato.

Cicerone                        - Ti ringrazio, Antonio. Si, fu in realtà un buon discorso, e spero di prò alla Repubblica. In­tanto se ne misurano gli effetti: corrieri della Tosca­na informano che Catilina ha raggiunto il campo di Cajo Manlio presentandosi coi fasci e le insegne del potere consolare. Credono essi che non vi siano più consoli a Roma?

Antonio                         - Notizie sul loro esercito?

Cicerone                        - Bande raccogliticce, schiavi e misera­bili sollevati dal rancore e dalla demagogia. Un'occa­sione unica, Antonio, per aggiungere ai tuoi meriti la gloria militare. Ti vedo splendente d'energia.

Antonio                         - Vuoi che prenda il comando dell'eser­cito?

Cicerone                        - Volesse il cielo che io potessi, senza of­fendere la potestà del Senato, dire voglio. Io spero, questo si, spero per la salvezza della Repubblica che sarai tu a comandare l'esercito. A meno che tu non voglia barattare con me, più perito di leggi che d'ar­mi e più idoneo a ricevere un colpo a tradimento che a vibrarlo in campo aperto, l'onore della vittoria e i privilegi che vi sono connessi.

Antonio                         - E sia.

Cicerone                        - Radunerai oggi stesso i luogotenenti per concordare il piano di campagna. Ti raccomando Marco Petreio, amicissimo mio, per trent'anni tribu­no, pretore e luogotenente. Conosce uno a uno i suoi soldati, ti sarà di valido aiuto. E che Marte ti sia propizio, Antonio.

Antonio                         - A te non c'è bisogno d'augurare saggi consigli. (Antonio esce)

Cicerone                        - (a Pisone) Non lo trovi un uomo di va­lore? Non li porta bene i suoi sessant'anni?

Pisone                           - Per quel che ne so io, signore, soffre di podagra. Gli piace la buona tavola.

Cicerone                        - Al campo farà una dieta salutare.

Pisone                           - Una volta era assai tenero per Catilina.

Cicerone                        - Lo so. Ma un podagroso non lascia la tenda il giorno della battaglia. Sarà Marco Petreio a scendere in campo. Un podagroso a Roma può da­re fastidio anche senza muoversi il giorno del peri­colo. Lo mandiamo al campo, Pisone, con buoni guar­diani... Potessi fare altrettanto della moltitudine che si nasconde a Roma... Farai ripetere la promessa dei premi...

Pisone                           - Già fatto; i banditori hanno sfondato le trombe a furia di soffiare...

Cicerone                        - Ebbene?

Pisone                           - Nulla. Non una sola denuncia, una sola indicazione.

Cicerone                        - Per gli dei, che contagio è questo, se gli schiavi rifiutano la libertà e i colpevoli l'impuni­tà e gli affamati il denaro, pur di non svelare questa vergognosa congiura?

Pisone                           - Sono ormai premi troppo piccoli per le loro folli speranze. Un colpo di scure al primo sospet­to e non saremmo a questo punto. (Entra Muzio)

Muzio                            - Le due donne sono qui, signore.

Pisone                           - Bene. (A Cicerone) Eccole. Non c'è altro mezzo.

Cicerone                        - Ogni cosa è stata fatta a modo?

Pisone                           - Da una settimana sono nel medesimo carcere. Hanno mostrato reciproca simpatia.

Cicerone                        - Si dia inizio dunque alla commedia. (A un cenno di Muzio entra Sempronia. È evidente che non sa dove l'hanno portata. Guarda stupita in giro, poi, come vede Cicerone, fa un breve inchino) Avvicinati, Livia Sempronia... Per un pezzo non ces­seremo di stupirci. Purtroppo le nostre carceri ospi­tano i più specchiati cittadini.

Sempronia                     - Anche le prigioni di stato hanno bi­sogno ogni tanto di rialzare il tono.

Cicerone                        - Conosci le ragioni del tuo arresto?

Sempronia                     - No, signore.

Cicerone                        - Non le immagini?

Sempronia                     - No.

Cicerone                        - Conoscevi Fulvio Nobiliore?

Sempronia                     - Lo conoscevo.

Cicerone                        - Sai dunque che è morto?

Sempronia                     - Morto?

Cicerone                        - La sua fine ti dice qualcosa?

Sempronia                     - (esita) No.

Cicerone                        - Sembra che in casa tua si tenessero convegni... Come dire?... non chiari...

Sempronia                     - In casa mia si riunisce molta gente.

Cicerone                        - Anche Lucio Cornelio?

Sempronia                     - Lo conosco solo vagamente.

Cicerone                        - Le sue idee?

Sempronia                     - Non so se ne abbia. È un soldato.

Cicerone                        - Bene. (A Pisone) Risulta che abbia un avvocato?

Pisone                           - No, signore.

Cicerone                        - (a Sempronia) I tuoi amici ti hanno dimenticata.

Sempronia                     - Di questi tempi non ci si occupa mol­to degli altri.

Cicerone                        - E tu perché non hai chiesto un avvo­cato?

Sempronia                     - Perché non ho nulla da temere. Con­fido nella giustizia del console. La mia coscienza è tranquilla.

Cicerone                        - Ben detto. La figlia di Marco Sempro­nio non poteva parlare altrimenti.

Sempronia                     - (con uno scatto) Mio padre fu ucciso per aver parlato cosi! E il suo assassino banchetta ancora nella sua casa!

Pisone                           - L'accusa è falsa!

Cicerone                        - Chiunque avrà giustizia sotto il mio governo! E guai a chi sarà riconosciuto colpevole! Ora, ascoltami, Livia: da quanto tempo non vedi Ser­gio Catilina?

Sempronia                     - E come misurare il tempo, signore? I giorni non si sono inseguiti mai cosi in fretta.

Cicerone                        - Giorni, allora.

Sempronia                     - Mesi forse. Per ricordare occorrono interessi precisi. Sergio Catilina veniva in casa mia come molti altri. Ama la conversazione.

Cicerone                        - Soltanto?

Sempronia                     - E quei piaceri che aiutano a soppor­tare la noia. Prodigo di parole e di denaro, signore. Un uomo fortunato quando annotta e i discorsi si fanno più confidenziali. Caritatevole come me verso le umane debolezze. Forse ti eri fatto di me un di­verso ritratto. Ma gli anni premono e bisogna pure ingannarne l'assedio.

Cicerone                        - Tuttavia a te non occorre...

Sempronia                     - Signore mi lusinghi... Ma perché non essere sincera con te? È un'epoca in cui le gallerie sono piene di falsi. I mercanti d'Oriente vendono co­me originali delle copie malfatte.

Cicerone                        - (con un sorriso) A volte la copia è... come dire... Più suggestiva... (Si alza. Fa un cenno a Muzio. Sempronia si volta preoccupata. Vede en­trare Fulvia, che dà un'occhiata all'ambiente, poi, ve­dendo Sempronia, si inchina lievemente)

Cicerone                        - Livia Sempronia, sei libera. Ti proscio­gliamo da ogni accusa, deplorando la tristezza dei tempi, di cui spesso gli innocenti portano il peso.

Sempronia                     - Davvero posso andare?

Cicerone                        - Dirai con quale equità t'abbiamo giu­dicata.

Sempronia                     - Lo farò, signore. (Passa davanti a Fulvia, si volta di nuovo verso Cicerone) Per la me­desima equità, ti raccomando questa ragazza. È mol­to più infelice di me ed altrettanto immune da colpe.

Cicerone                        - (un sorriso incoraggiante) Conosciamo bene i nostri doveri... (A Muzio) La mia lettiga per Livia Sempronia. Presto!

Sempronia                     - (a Cicerone) Ti ringrazio. (A Fulvia) Che io possa incontrarti presto libera come me... Sai dove trovarmi... (Fulvia si inchina. Sempronia esceseguita da Muzio. Cicerone va alla finestra e guarda fuori)

Pisone                           - Falsa! Ipocrita commediante da trivio! (A Fulvia) Due minuti fa sosteneva che tu eri al cor­rente di molte cose... Ti sei confidata con lei?

Fulvia                            - No... Mai...

Cicerone                        - Ascolta, ragazza... La sorte è stata cru­dele con te, quasi quanto sta per esserlo con la no­stra patria. Altri lutti stanno per aggiungersi ai tuoi: altre ragazze come te stanno per essere private dei padri, dei fratelli, degli amanti... so che sei genero­sa: se fosse in tuo potere non lo eviteresti?

Fulvia                            - In mio potere, signore?

Cicerone                        - (avvicinandosi) Nessuno di noi sa pri­ma a quale destino è chiamato. Già una volta tu ave­sti fiducia nel console.

Fulvia                            - Bel guadagno! Mio padre ucciso e io in carcere!

Cicerone                        - Vi siete opposti all'esecuzione della legge! Tuo padre andava sobillando i cittadini contro lo Stato! Era un buon soldato. Chi ha stravolto la sua mente ora si nasconde alla giustizia. E i poveri pagano, come sempre! Non hai orrore di chi giuoca cosi con la vostra vita? Non hai desiderio di ven­detta, oltre che di giustizia?

Fulvia                            - Ho troppi desideri per poter scegliere. Ho desiderio di tutto, a cominciare dalla libertà.

Pisone                           - Sai che ci sono premi per chi denuncia chi trama contro la Repubblica.

Fulvia                            - Inutile. Ho già detto che non so niente. È la verità.

Cicerone                        - Ma ammettiamo che uscendo di qui tu potessi sapere... da qualcuno che conosci...

Pisone                           - Livia Sempronia per esempio... che non esiterebbe a fare altrettanto nei tuoi confronti...

Fulvia                            - Volete farmi fare la spia!... (Cicerone fa cenno a Pisone di continuare lui. Torna presso la fi­nestra a guardare fuori. Dalla porta rientra Muzio)

Pisone                           - Ragazza, sai cos'è una bilancia? Allora metti su un piatto la tua condizione di adesso: sei in carcere tra i sospetti. Non ti conviene nemmeno di fuggire. Basta una voce messa in giro su quel che facesti la notte dell'attentato e la tua vita ha le ore contate. Su quest'altro piatto metti la libertà... la si­curezza, quanto denaro t'occorre. (Incalzando) ...La vendetta contro chi t'ha ridotto a questo punto, la riconoscenza della patria...

Fulvia                            - (con rabbia improvvisa alludendo a Sem­pronia) A quell'altra non gliele avete fatte queste proposte. Si poteva offendere! Cadono sempre in pie­di quelle li... anzi... Non mi fate parlare... (Cicerone si volta, attento)

Pisone                           - Avanti, cosa sai...

Fulvia                            - Non so niente, ve l'ho detto...

Pisone                           - Basta, riportatela in carcere, finché non le torna la memoria!

Fulvia                            - (mentre Muzio si avanza per eseguire) No! Non so niente, giuro... Ma saprò... ditemi cosa debbo fare... (Buio)

SECONDO QUADRO

Una casa di popolani. La stessa dell'ultimo quadro del secondo atto. Cornelio, Gabinio, Lentulo e Cetego sono radunati assieme a due ambasciatori Allobrogi e Publio Umbreno, loro rappresentante in Roma. At­mosfera tesa, diffidente. Gli Allobrogi stanno leggen­do dei messaggi.

Cetego                          - E cosi? Che altro v'occorre? Nuclei di ve­terani attraversano ogni notte il Tevere per unirsi all'esercito di Catilina. Metà degli ottimati è con noi. Conoscete Marco Crasso... e Tito Volturcio. Publio Autronio, Marco Leca... Lucio Varguntejo... Pompeo Rufo, Metello Celere... Non è vero, Lucio Cornelio? La tua parola è oro, perché non parli? (Gli Allobrogi restituiscono a Cornelio i messaggi)

Cornelio                        - Cosa dobbiamo comunicare a Catilina?

Umbreno                       - Che gli ambasciatori degli Allobrogi promettono tutto il loro appoggio perché il loro paese aderisca alla rivolta. Spediranno corrieri oggi stesso.Appena avranno risposta vi incontreranno. (Tutti si alzano, inchini. Gli Allobrogi seguiti da Umbreno verso l'uscita)

Cetego                          - (a Umbreno) Bada che il tempo stringe, avvocato...

Umbreno                       - Anche nel loro interesse... (Esce. Restano i congiurati. Un silenzio pesante)

Cetego                          - Per Giove, guadagnamo una nazione alla nostra parte e sembra che abbiate perduto battaglia.

Gabinio                         - Che gli dei ci siano propizi.

Cetego                          - Cos'è che muta il prode Gabinio in una femmina?

Gabinio                         - Nulla. (Avvicinandosi a un doppiere) Come fate a vederci con questa luce... (Corregge la fiamma) Non c'è del vino? (Cornelio si alza, prende un boccale e una coppa, versa per Gabinio e per Lentulo)

Lentulo                         - (a Gabinio) Stanotte dovrai ispezionare i presidi... (Gabinio fa cenno di si. Beve)

Cetego                          - Avremmo impiegato mesi a fare i diffi­cili. Quella gente ha bisogno di stupore come tu del vino, Gabinio!

Cornelio                        - Per questo hai arricchito la congiura di nomi falsi? Pompeo Rufo, Metello Celere... Quando mai sono stati dei nostri?

Cetego                          - Fa impressione sapere che anche i due pretori sono con noi. Avete visto l'effetto.

Cornelio                        - La menzogna ha un effetto breve.

Cetego                          - Ma sconcertante. Quanto basta a colpire.

Cornelio                        - Ma, poi, quando si scopre, a destare i sospetti.

Cetego                          - E se la voce correrà chi sarà tanto scioc­co da crederli innocenti? Saranno dimessi dal coman­do in attesa di essere giudicati. Una cosa almeno ab­biamo raggiunto: che l'amico diffida dell'amico, il fratello del fratello, il padre del figlio.

Cornelio                        - È questa la tua rivoluzione?

Cetego                          - Ne hai forse un'altra, tu?

Cornelio                        - Non con le menzogne convincerei i miei legionari a raggiungere il campo di Catilina.

Lentulo                         - (conciliante) Se hanno bisogno di bei discorsi fai bene a farglieli. L'importante è che ven­gano con noi.

Cornelio                        - Vengono perché sanno che non li in­ganno. Che sono pronto a rispondere degli ordini.

Cetego                          - Eh via! Altri sono coloro cui dovrai ri­spondere!

Cornelio                        - Non altrimenti di come risponderei ai miei soldati. E a me stesso. Di come risponderò ai nemici sconfitti quando dovremo persuaderli che abbiamo combattuto anche per loro.

Cetego                          - Se è per questo, risparmiati la fatica. Non avremo nemici dopo la vittoria. Roma è per metà popolata di morti che camminano, convinti di essere vivi. E già è stabilita la mano che li colpirà. (Apre un mobile, ne trae dei fogli) C'è anche la tua porzione al banchetto. Meglio che tu lo sappia subito, ricorderai i loro nomi al momento giusto.

Cornelio                        - Qual è il loro delitto?

Cetego                          - Essere nati male. Portare nomi schiaccianti che da soli incitano alla superbia e alla disobbedienza. Nomi che si ripetono da secoli, sempre gli stessi. Padri, figli, nipoti, sempre lo stesso marchio di sopercheria e d'oppressione. Nascono a testa alta, i loro vagiti sono già ordini. Vecchie nutrici, vecchi pedagoghi si affannano a un loro capriccio... Ah! (Fa un gesto deciso di sterminio) Sterminarli tutti d'un sol colpo...

Cornelio                        - Molti giovani patrizi sono con noi.

Cetego                          - Polvere negli occhi. Sai come furono reclutati: per vizio, debiti, lussuria... Li impiegheremo B per uccidere i loro padri, che l'accusa non cada sudi noi.

Cornelio                        - (pacato) Tutto ricadrà su di noi, il benee il male! Anche di un solo morto inutile ci si chiederà conto. Quel giorno, unica nostra difesa sarà una idea grande e pura, che ci dia la forza di governa­ ci re... E che oggi ci dia la forza di uccidere...

Cetego                          - L'odio è un buon eccitante. Ce n'è abbastanza. Tenerlo vivo, nutrirlo, evitare che si corrompa...

Cornelio                        - T'illudi, t'illudi, Cajo Cetego. L'odio èuna munizione sterile.

Lentulo                         - (versandosi altro vino, a Cornelio) Par­la chiaro. Chiedi la rinuncia?

Cornelio                        - Chiedo un'epurazione dei comandi pri­ma di trovarci gomito a gomito coi sicari e i saccheg­giatori.

Cetego                          - Non si rifiuta una moneta perché è pas­sata per mani impure. Non siamo puri noi, più di quanto lo siano quegli altri. Ci serviamo dei crimi­nali. Gli altri si servono forse di gentiluomini? La guerra è la guerra. Questo pensa un uomo che non debba presentare alibi alla propria paura.

Cornelio                        - Per tutti gli dei, Cetego, non una pa­rola di più...

Cetego                          - M'ascolterai, invece. Tu parli come chi abbia ancora una scelta. È l'errore di tutti gli idea­listi. Si ritengono il centro dell'universo. Non c'è più scelta, Lucio Cornelio. Prova ad andartene. Dove an­drai? A mendicare il perdono di Cicerone svelando­gli la congiura? E pensi che ti ringrazieranno e ti daranno un comando?

Cornelio                        - Basta, Cetego!

Cetego                          - Ti arresteranno. Ti tortureranno per sa­perne di più. Ma ammesso che ti credano: quale na­scondiglio sarà tanto fondo da sottrarti al nostro pu­gnale? Quinto Curio lo sa...

Cornelio                        - Quinto Curio? Che nuova storia è que­sta? Fu ucciso dagli agenti del console!

Cetego                          - Fu il suo tradimento ad ucciderlo!

Cornelio                        - Tu menti. Rispondo della sua lealtà!

Lentulo                         - Calma, signori, inutile rivangare il pas­sato.

Cetego                          - Eh via! Basta con questi sotterfugi da donnicciole! (A Cornelio) Tradì come è vero che fu questa mano a farne giustizia!

Cornelio                        - (afferra un pugnale che porta alla cintu­ra, si getta contro Cetego) Assassino! (Lentulo e Gabinio sono pronti ad afferrarlo e a trattenerlo)

Cetego                          - Lucio Cornelio: di fronte a questo supre­mo consiglio ti accuso di codardia e di tradimento. Ti accuso di avere attentato alla vita del luogotenen­te di Catilina e ti consegno alla giustizia della rivo­luzione.

Lentulo                         - (a Cetego) Per gli dei, Cajo, frenati. Se i più prodi di noi si distruggono tra loro, che sarà degli altri? (A Cornelio) Ti sarà fornita ogni prova del tradimento di Quinto Curio. Mi impegno io stes­so. Questo varrà a placare il tuo rancore. (Cornelio si è lasciato andare su una panca, disfatto)

Cornelio                        - Menzogna, menzogna, menzogna! Su, sfoderate i vostri pugnali e liberatemi da questa nau­sea di vivere! Coraggio, Cajo Cetego, mostra a questi timidi allievi il colpo del beccajo. Come facesti con Quinto Curio!

Gabinio                         - (con sincero dolore) Signori, signori! Un esercito sta per battersi e i suoi capi si azzuffano come gladiatori! Pensa ai tuoi legionari, Lucio Cor­nelio.

Cornelio                        - Non cosi, buon Gabinio, avevo imma­ginato la lotta per la libertà... Una forza compatta, avevo sognato, come un'armata in campo... Essere di nuovo alla testa dei miei soldati; non più un pa­drone sconosciuto, anche se benigno, ma uno di lo­ro... e affrontare il nemico in campo aperto, insegne contro insegne... stracci contro aquile se volete... Ma al sole...

Gabinio                         - Vuoi raggiungere i tuoi soldati? (Agli altri) Quei legionari finiranno col disperdersi senza un capo di loro fiducia.

Lentulo                         - È una proposta saggia. Ci occorre chi accompagni gli Allobrogi da Catilina quando avranno deciso. (A Cornelio) Chi meglio di te? Li prenderai il comando dei tuoi uomini. (Agli altri) Noi pensere­mo a Roma.

Cornelio                        - Quale rapido mutamento d'avviso... Co­sa rimugina il tuo cervello, Publio Lentulo?

Lentulo                         - Nient'altro che una soluzione convenien­te a tutti.

Cornelio                        - Volete che io stesso porti a Catilina la mia condanna... la mia fine qui vi atterrisce. Vo­lete farmi giudicare da lui...

Lentulo                         - Ti offriamo un riscatto alla tua incertezza! E tu ci compensi con la diffidenza. Siamo tuoi amici.

Cornelio                        - Già... già... siamo amici... Ma d'ora in poi l'amico diffiderà dell'amico, il padre del figlio. Questo almeno l'abbiamo raggiunto. È, un buon la­voro. (Si alza) Bene. Vaglierò le vostre offerte.

Cetego                          - T'hanno fatto dono della vita. Non hai che da ricevere ordini.

Cornelio                        - No, amico. Non cosi. Ormai, si gioca a sopravvivere. Chi tiene banco? Tu, saggio Lentulo? Allora iscrivi sul mio conto trecento uomini armati, ancora dentro le mura della città, addestrati e pronti ad un mio cenno. Un buon farmaco per la mia sa­lute! (Entra Prisca)

Prisca                            - Una signora chiede di parlarvi. Il suo no­me è Livia Sempronia. (Entra Livia. Cerca di dissi­mulare l'agitazione con la spavalderia)

Sempronia                     - Ebbene, signori? Non v'aspettavate di rivedermi cosi presto. Godo nel trovarvi uniti. Tutto va per il meglio, spero...

Lentulo                         - Si, tutto va per il meglio. Ma tu?... Ti hanno interrogata? Sospettano?

Sempronia                     - (guardando Cornelio) Non temere, l'immoralità è un buon salvacondotto nelle prigioni di Stato. E la mia fama, a quel che ho visto, vale i miei meriti. (Ride) Perfino il console aveva un certo invitante languore mentre mi interrogava. Bell'uomo, del resto. Peccato... Giuro che quando parlammo di Catilina e degli altri, e come si spendeva la notte in casa mia... giuro che c'era dell'invidia nel suo sguar­do. Tutto qui. Libera di ricominciare. Sperano che ne sottragga qualcuno al combattimento... (A Cor­nelio) Anche di te mi ha chiesto.

Lentulo                         - Sanno tutto, allora...

Sempronia                     - No, solo se ti conosco. E le tue idee. Non credo che ne abbia, dico, è un soldato...

Cetego                          - Io dico che ne ha troppe... E troppe idee son meno di una...

Lentulo                         - Attendiamo la tua risposta, Lucio Cor­nelio. (Si inchina a Sempronia, esce con Cetego e Gabinio)

Sempronia                     - (riprendendo il fare leggero) Vedo che ci sei dentro fino al collo. Mi dispiace, ti ho tirato io in questo impiccio. T'hanno detto anche la cifra?

Cornelio                        - Tu sapevi che l'hanno ucciso loro...

Sempronia                     - Di chi parli...

Cornelio                        - Non mentire, Livia, per gli dei!... ac­cusato di tradimento... il più leale degli uomini, il mio solo amico.

Sempronia                     - Quinto Curio?... Loro?... E tu credi che io...

Cornelio                        - Non lo so... Non credo più a nulla... a nulla... (Avvicinandosi a lei impetuosamente) Grida­lo, Livia, che tu non lo sapevi, grida, che anche il mio cuore sordo possa udire...

Sempronia                     - E come si può credere a una donna come me, anche se grida? E che io lo sapessi o no, che t'importa? Tu vuoi che gridi la sua innocenza, perché non ne sei ben sicuro nemmeno tu...

Cornelio                        - No!

Sempronia                     - È cosi, è cosi, troppo onesto sei per negarlo... Ecco, ora sei veramente solo... Come io so­no da anni... Ora conosci il fondo della disperazione... Vattene, Lucio... fuggi il più lontano possibile... Ti aiuterò... un giorno che ci sarà bisogno di te...

Cornelio                        - (dopo una riflessione) Quel giorno sol­tanto chi avrà combattuto avrà il diritto d'essere ascoltato... Questa non è una guerra che tolleri i neu­trali... Sono solo, è vero... Ma forse è necessario es­sere soli per decidere...

Sempronia                     - E hai deciso?

Cornelio                        - Raggiungerò i miei uomini al campo di Catilina. Fuori di queste mura infette che sudano tradimento. Ah, risentire il vento, l'odore della cam­pagna, i nitriti dei cavalli... Combattere da soldato finalmente... Puoi dire a Lentulo che ho accettato la sua offerta. T'hanno lasciata qui per questo...

Sempronia                     - Addio, Lucio... Questo è veramente un addio. (Resta un attimo come aspettando una rea­zione di lui. Si guardano. Egli è teso, ma non si muo­ve e non parla. Con uno sforzo deciso Sempronia si volta, avanza verso l'uscita, Cornelio sempre più tesola segue con lo sguardo. Livia raggiunge la soglia del­la porta)

Cornelio                        - (quasi un grido soffocato) Livia! (Sem­pronia si ferma, come paralizzata, senza voltarsi) Li­via! (Sempronia si volta. Stanno a guardarsi un at­timo tesi l'uno verso l'altra. Poi, irresistibilmente, si corrono incontro e s'abbracciano con frenesia dispe­rata. Cornelio la stringe a sé e la bacia) Livia, Livia, Livia, Livia, Livia...

Sempronia                     - Non importa se non mi credi. È giu­sto. Aveva ragione lui. Ti metteva cosi in alto che gli chiesi ridendo se eri un dio. Lui disse: un uomo. Io risi ancora... "Un uomo a Roma?" Cosi... Sempre quel riso ha suonato contro di me, dopo... Quando tu ac­cettasti mi sentivo in colpa, avevo paura... Come se m'accusasse e non potessi difendermi... Non poteva ascoltarmi più... mai più... (Gridando a un tratto, di­sperata) Non sapevo chi l'avesse ucciso!

Cornelio                        - Lo so, lo so... ero solo e vi ritrovo tutti e due nel medesimo istante...

Sempronia                     - È come se mi sciogliessi da un om­bra. Tutte le notti in carcere ho sognato questo... Quando partirai?

Cornelio                        - Non so. Si aspetta una risposta.

Sempronia                     - Giorni?...

Cornelio                        - Si, giorni...

Sempronia                     - Giorni per vivere una vita... E quan­do più si vorrebbe essere soli...

Cornelio                        - Tu verrai con me... Non ti lascerò a Roma... Vivremo nascosti nel disordine come in una stanza nuziale...

Sempronia                     - Ti sarò di peso... intralcerò ogni tuo movimento...

Cornelio                        - Mi darai la forza di vivere o di com­battere. (A un tratto, come aprendo una finestra sul passato) Ricordi, quell'estate a Fiesole; prima che... quanti anni... ieri... la villa di Tullio Sanga dove eri ospite... La sera il profumo dei tigli... Quinto diceva i suoi versi... Io ti guardavo... Lontana, eri, come in una nube di porpora...

Sempronia                     - Ma ora sono qui... qui...

Cornelio                        - In quella villa è il quartier generale di Catilina.

Sempronia                     - Verrò con te... Starò con te, ora, sempre... (Si odono battere dei colpi al portone. I due si mettono in allarme) Aspetti qualcuno?

Cornelio                        - No... Sei certa che non t'abbiano se­guita?

Sempronia                     - Certa. Mi credono in casa. Il console mi ha fatto accompagnare con la sua lettiga. Un uo­mo anche lui, dopotutto.

Cornelio                        - Poi?

Sempronia                     - Poi sono uscita dal giardino... Sola. Longino m'ha dato questo recapito.

Cornelio                        - (indicandole una stanza) Ora è bene che non ti vedano. Di là c'è un'altra uscita.

Sempronia                     - Quando ti vedrò? Stanotte alloggio in casa di Longino. È un rifugio sicuro...

Cornelio                        - Presto. Stanotte... (Entra Prisca)

Prisca                            - Signora, una ragazza chiede di vederti.

Sempronia                     - Fulvia? Fulvia dimessa dal carcere? Fulvia! (Entra Fulvia, un po' torva, abbattuta)

Fulvia                            - Non t'occorre una schiava, signora? Se­no libera.

Sempronia                     - Fulvia! (Fulvia riceve il suo abbrac­cio gelida, rigida, senza ricambiarlo. Buio)

TERZO QUADRO

L'ufficio del Console in Senato.È notte. Sono in scena Pisone e due Centurioni.

In un angolo, Fulvia. Atmosfera d'attesa nervosa, che precede i grandi avvenimenti.

 (Entrano, come portati da una folata di vento, Pu­blio Umbreno e uno degli Allobrogi, che va ad ingi­nocchiarsi davanti a Cicerone)

Cicerone                        - (a Umbreno) Si sono mossi?

Umbreno                       - Poco fa. Diretti a Ponte Milvio. (Viso­ne fa un cenno al secondo Centurione che corre fuori. L'Allobrogo si rialza)

Cicerone                        - La prova è stata ottenuta?

Umbreno                       - Si, signore, come volevi tu. Sono un fedele servitore della repubblica.

Pisone                           - (indica Fulvia) Senza l'intervento della ragazza saresti ancora dei loro!

Umbreno                       - Ma no, signore. Ci riunimmo ieri serain casa di Longino. I legati, istruiti da me, dissero che occorreva una dichiarazione firmata dai capi perconvincere i loro concittadini... Cetego la scrisse, glialtri la firmarono e la contrassegnarono con i loro I sigilli.

Cicerone                        - La prova, finalmente...

Pisone                           - Ed erano diretti al campo di Catilina?

Umbreno                       - Si, signore. (Muzio si affaccia sulla porta)

Muzio                            - È qui. (Un moto di emozione fra i presenti. Lo stesso Cicerone fa un passo verso la porta.Poi si rivolge a Umbreno)

Cicerone                        - Resterai a disposizione del Senato finoa nuovo ordine. (A Muzio) Non siano lasciati corri­spondere con nessuno.

                                      - (Umbreno e l’Allobrogo s'inchinano ed escono ac­compagnati da Muzio)

Pisone                           - (a Fulvia) T'ha lasciato le chiavi del suopalazzo? (Fulvia fa un incerto cenno di si) Svelta, ragazza, quelle chiavi, non abbiamo tempo da perdere.

Fulvia                            - (dandogli le chiavi) Che farete ora?...

Pisone                           - (prendendo le chiavi) Sparisci se non vuoi altre noie. E domani vieni a riscuotere. (Fulvia esce. Poco dopo entra Cornelio, tenuto per le braccia dai due Centurioni che lo conducono verso il Conso­le. Depongono sul tavolo la sua spada ed il cinturone)

1° Centurione                - (dando un plico a Cicerone) Ecco la prova. La dichiarazione con le firme. (Cicerone apre il plico, guarda le firme, lo passa a Pisone)

Pisone                           - (a Cornelio) Dove sono i tuoi compagni? (Cornelio tace) Ti ho chiesto dove sono i tuoi com­pagni!

Cicerone                        - (a Pisone) Cercateli! Avete a disposi­zione un esercito! (Pisone esce concitato. Rientra Muzio)

2° Centurione                - (indicando Cornelio) Ha tentato di difendersi con la spada. Quando ha capito il tra­dimento dei legati si è arreso ai pretori. (Cicerone fa un cenno a Muzio ed ai Centurioni di uscire. Mu­zio esita)

Muzio                            - Come signore, solo?

Cicerone                        - Ho dato un ordine! Eseguitelo. (È evi­dente che Cicerone ha perduto la calma. Cammina su e giù concitato, nel tumulto delle emozioni, senza tro­vare le parole da rivolgere a Cornelio. Finalmente, con gesto un po' teatrale, solleva la spada di Cornelio deposta sul tavolo) Vuoi uccidermi? Di certo il mondo è sottosopra se i figli vogliono uccidere i pa­dri... Cosi tu fossi morto in battaglia... Alzare le armi contro la patria! Farti complice e sobillatore dei no­stri nemici! Eppure tu sapevi che questo braccio non sarebbe stato più debole di quello di Bruto!... Parla... Rispondi, chi, chi, con quali arti ha stravolto la tua mente... Un nome!

Cornelio                        - C'era un uomo a Roma...

Cicerone                        - Il nome!...

Cornelio                        - ... un uomo che era specchio di molte virtù. La giustizia usciva dalle sue labbra ancora più giusta... la pietà addolciva il suo animo severo... Non c'era sofferenza o infelicità che lo trovasse insensi­bile... come non c'era insulto alla libertà che non suscitasse in lui una sdegnosa reazione... (Cicerone lo ascolta intensamente avendo capito di chi sta par­lando) ... i giovani accorrevano alla sua scuola come l'assetato alla fontana... Uno lo conosco bene... aveva formato il suo animo alle parole di quell'uomo...

Cicerone                        - Per poi tradirlo!

Cornelio                        - Quell'uomo è morto, signore!

Cicerone                        - T'inganni!

Cornelio                        - Morto! Non so come, non so quando... non ero a Roma in quel tempo... Ma quando tornai non esisteva più... Al suo posto c'era la sua statua. Bella, signore, da sembrare vivo. Tanto che molti si ingannavano. Anch'io, sulle prime... Ma quando vidi chi s'era fatto scudo di quel simulacro e per qualiinteressi, allora compresi. Una statua era, gelida, di marmo. Lui era morto, signore. Quella statua ne tra­disce la memoria.

Cicerone                        - Tu stesso riconosci la tua sorte dispe­rata se al tradimento aggiungi l'insulto.

Cornelio                        - È la verità. Tu m'insegnasti a procla­marla a qualunque costo! La prova è che ti chiedem­mo misericordia! Ci fu negata! Chiuse tutte le por­te. Tagliati i ponti. Lui non avrebbe risposto cosi se era vivo!

Cicerone                        - Ragazzo, tu non conosci il prezzo del potere... Credi che la volontà di chi governa sia libe­ra? Che io abbia gioito delle repressioni? Nessuno sa quanta forza, quanto coraggio occorre per strap­pare giorno per giorno a chi t'è a fianco qualche lem­bo sgualcito di libertà...

Cornelio                        - Lo so, signore... Anch'io mi occupo di politica.

Cicerone                        - Alleato, complice delle tigri sanguina­rie...

Cornelio                        - Ci si illude di domarle, le tigri, quan­do abbiano mangiato un poco... È l'errore di chi ha fame e non ha altra scelta... Ma tu avevi una scelta. Milioni di romani ti tendevano le braccia, ancora di­sarmate.

Cicerone                        - Una moltitudine caotica, senza volto.

Cornelio                        - Tu glielo avresti dato! Quello della di­gnità umana. Prima che si oscurasse nel volto dispe­rato della rivolta...

Cicerone                        - Ho agito secondo la legge! Nulla ho fatto che fosse contrario alla legge! E tu la conosci abbastanza per applicarla. Giudicati da te stesso!

Cornelio                        - (dopo un silenzio) Ahimé, signore... Tu non conosci l'angoscia di vivere fuori e contro la leg­ge... Controllare ogni atto, frenare ogni impulso, es­sere ogni istante la propria legge senza soccorso d'av­vocati, di tribunali, di giudici. È un vivere sovruma­no...; e un morire... C'è, nonostante tutto, un sollievo a rientrare nella legge...

Cicerone                        - Dunque, giudicati... (Entra, non visto, Cesare e si ferma sul fondo)

Cornelio                        - Il bene e il male, signore, non sono di­visi dall'Oceano... Cosi gli uomini, anche i più ostili tra loro, sono legati a un medesimo destino... Tu ed io... non c'è errore che non abbia un seme di verità... Colpisci in me l'errore, colpisci il tradimento... que­sto ti darà la forza di appellarti al popolo e dargli le sue leggi... E il sangue di Cornelio servirà alla glo­ria di Cicerone. In nome degli dei, signore, guardia­moci dall'abisso dell'inutilità... Ecco, mi sono giudi­cato... Sentenza di morte... (Un greve silenzio: dall'e­sterno entrano i Senatori quando Catulo, Pisone, Mu­rena, Marco Crasso, Cesare, Catone, seguono Muzio e i Centurioni)

Catulo                           - Possiamo finalmente vederla una delle teste dell'Idra: volto livido, occhio torvo, saturo d'o­dio e di rancore...

Cesare                           - Io non vedo che una faccia d'uomo...

Catulo                           - Sono questi i tuoi amici, Cajo Cesare?

Cesare                           - (a Cornelio) Assumerò la tua difesa.

Catulo                           - Avranno anche una difesa!...

Cicerone                        - Saranno giudicati con tutte le garan­zie. Sia convocato il Senato. (Muzio esce. Dietro di lui Cicerone, poi Cornelio tra i Centurioni, poi Ce­sare)

Catulo                           - (a Crasso) Cosi sapremo la verità anche su dì te, Marco Crasso. Temo che tu abbia impiegato male i tuoi denari.

Crasso                           - Da quando in qua ti interessi dei miei affari?

Catulo                           - Da quando sei il banchiere della rivolu­zione...

Crasso                           - Mi risponderete di questa calunnia!

Catone                          - Ne risponderai in Senato! (Esce seguito da Catulo. Restano Crasso, Pisone e Murena)

Crasso                           - Anche voi credete a questa menzogna? (// silenzio degli altri pare una conferma) Debbo ri­cordarvi, signori, che i vostri affari stanno in piedi col mio denaro. Posso citare le cifre: le tue, Murena, e le tue, Cajo Pisone, e quelle di molti... Tutte regi­strate nel mio libro cassa. E so anche per quali spe­culazioni contrarie alla legge. Vi giuro che non cadrò solo, se debbo cadere. Ditelo ai vostri amici. Crasso ha tanta forza da far crollare il Senato! (Buio)

QUARTO QUADRO

L'aula del Senato. La luce del crepuscolo ne sfuma i contorni lasciandoli in ombra. Sarà bene in eviden­za soltanto il settore più basso dei seggi, a sinistra, e davanti ad essi il banco degli accusati, sul quale seggono Cornelio, Gabinio, Cepario, Lentulo, Cetego. Sul banco dei testimoni Umbreno e gli Allobrogi. Di fronte, il seggio del Console e dei Pretori. È l'intervallo tra un'udienza e l'altra. I Senatori stanno rien­trando nell'aula. Presso il banco degli accusati, Ce­sare sta accanitamente discutendo con Cetego.

Cetego                          - Per l'Inferno, rappresenti la difesa o l'ac­cusa? Non hai fatto che sostenere le nostre colpe... È un giorno intero che si discute.

Cesare                           - Cosi fossero tre. L'assemblea sarebbe sfi­nita e più disposta al rinvio...

Cetego                          - Per mia fortuna ho ancora amici e liber­ti pronti a tutto. Sono già in moto.

Cesare                           - Bada, l'avvenire è incerto, la morte sola è certa. L'importante, per ora, è sopravvivere. (Entra Muzio)

Muzio                            - Il console Marco Tullio Cicerone! (Tutti si alzano. Entra Cicerone preceduto dai Littori e se­guito dai Pretori. Raggiunge il suo seggio. Catulo gli si avvicina e gli parla a bassa voce. Cicerone guarda Crasso e annuisce)

Cicerone                        - In nome del Senato e del Popolo Ro­mano, la seduta è aperta. (Una pausa di studiato ef­fetto) Onorevoli Padri Coscritti, il giorno declina ed è il tempo di avviare questo dibattimento alle sue conclusioni. Le responsabilità sono state vagliate, le testimonianze udite, le prove raggiunte. Si tratta ora di stabilire la sorte riservata agli accusati. Decimo Giulio Silano, console designato, ha proposto pei rei di tradimento l'estremo supplizio; una decisione gra­ve, che noi prenderemo, se necessario, unicamente ansiosi della salvezza della Repubblica. Tiberio Nero­ne, del cui coraggio nessuno ha ragione di dubitare, crede che si debba deliberare solo quando si siano rafforzate le guarnigioni. Cajo Cesare ci ha ricordato la legge Porcia che proibisce di condannare a morte cittadini romani senza l'appello al popolo...

Catulo                           - E avranno ancora il titolo di cittadini romani questi miserabili assassini, nemici della pa­tria? (Cornelio si alza di scatto. Cesare fa per tratte­nerlo ma Cornelio si scrolla da lui)

Cetego                          - È un diritto che non potete toglierci!

Lentulo                         - Non potete accusarci di aver violato la legge e violarla voi stessi! (Si alza Catone)

Catone                          - Avete udito, signori del Senato? Siamo noi, ora, accusati di violare la legge solo perché con­sentiamo a una banda di criminali di continuare ad insultarci!

Cicerone                        - La legge è indivisibile! Siamo qui per giudicare, non per vendicarci!

Catulo                           - Giusto, chiarissimo console. La legge è indivisibile! Perché allora non rivelare ciò che mol­ti pensano, anche se fingono di ignorare? La cospi­razione ci avvolge coi suoi tentacoli, Padri Coscritti, e si annida tra noi, su questi scanni!

Voci                              - I nomi! Fuori i nomi! Vogliamo i nomi!

Catulo                           - Un nome soltanto, Padri Coscritti! Un nome che non esito a gettare davanti a voi perché sia fatta giustizia! Marco Licinio Crasso!

Crasso                           - È falso. Gli dei fulminino la mia testa, se l'accusa risponde a verità!

Cicerone                        - Il senatore Quinto Catulo è invitato a precisare la sua accusa.

Catulo                           - C'è un testimone. Chiedo che sia ascol­tato. (Cicerone fa un cenno a Muzio, che esce un istante, per rientrare seguito da uno dei due messag­geri che abbiamo già visto in casa di Sempronia. L'uomo è sorpreso e confuso di trovarsi in questo am­biente solenne)

Catulo                           - Quest'uomo fu arrestato la notte scorsa, da un mio presidio, mentre cercava di raggiungereil campo dei ribelli. Confessò di avere un messaggio di Crasso per Catilina.

Crasso                           - È falso! Non ho mai visto quest'uomo!

Voci                              - A morte Crasso! Siano puniti i traditori! (Molti tacciono e si scambiano pareri a bassa voce. Crasso scende dal suo scanno e avanza spavaldamen­te verso il seggio di Cicerone)

Crasso                           - Mi affido alla giustizia del Console contro la calunnia! So da dove parte l'accusa: gelosia ed invidia di mediocri, che scambiano per amor di pa­tria i loro rancori!

Catulo                           - C'è una testimonianza precisa!

Crasso                           - E basta una delazione di un mentitore per distruggere Crasso? (Cicerone si alza. Fa cenno di tacere. Poi, volgendosi al teste)

Cicerone                        - Il tuo nome?

Messaggero                   - Lucio Tarquinio, signore...

Cicerone                        - Confermi quanto hai confessato al Se­natore Quinto Catulo? (Il teste è reticente e confuso. Si volta ora verso Cicerone, ora verso Quinto Catulo, ora verso Crasso)

Cicerone                        - Puoi parlare liberamente.

Messaggero                   - Poi non mi faranno niente, signore?

Cicerone                        - Sai che c'è l'impunità per chi rivela notizie utili al bene della Repubblica.

Messaggero                   - È questo che volevo sapere. Se è co­si... confermo... (Sensazione in aula)

Crasso                           - E si dà più fede a chi mente per salvarsi che a Marco Crasso? Mi appello a questa nobile as­semblea! Giudichino i più specchiati cittadini, tu Cajo Pisone, tu Murena, e quanti hanno a cuore la verità. Giudichino loro se il teste è attendibile!

Catulo                           - C'è di più. Corre notizia che Marco Cras­so pagherà le spese per la difesa di quei delinquenti.

Cesare                           - Volessero gli dei che i debiti di Cajo Ce­sare fossero pagati con le ricchezze di Crasso... Non avrei più pensiero per l'avvenire... (Cajo Pisone si al­za lentamente)

Cajo Pisone                   - Il delatore faceva parte della con­giura, Padri Coscritti. La sua testimonianza è vizia­ta dal Sospetto e dalla paura. Un modo troppo como­do per sottrarsi al pericolo.

Catone                          - Quante paure si combattono in questa nobile assemblea, Padri Coscritti... Paura di Crasso di rispondere alle accuse, paura del testimone di pa­gare per il suo tradimento, paura degli amici di Cras­so che egli sia riconosciuto colpevole. Io mi doman­do quale bene possa venire alla Repubblica da que­sto consesso di paure!

Cicerone                        - Il console non ha paura, Marco Cato­ne; e con l'autorità che gli conferisce la legge chiede a voi, Padri Coscritti, che decidiate sulla validità del­la denuncia. Chi sostiene con Quinto Catulo la colpevolezza di Crasso? (Si alzano Catone e altri due Se­natori e vanno a porsi vicino a Catulo)

Cicerone                        - Chi sostiene che il testimone mente e che Crasso è innocente? (Una breve pausa. Poi si al­zano Pisone, Murena ed altri, sempre più numerosi e vanno a schierarsi vicino a Crasso)

Grida                             - Viva Marco Crasso! Abbasso i calunnia­tori!

Cicerone                        - Ci inchiniamo alla decisione dell'As­semblea e dichiariamo Marco Crasso libero da ogni sospetto. (Scoppiano applausi all'indirizzo di Crasso, che risponde con gesti di gioia ai suoi sostenitori e va a sedersi al suo scanno. Cicerone, dopo una esita­zione, fa cenno che il teste sia arrestato. Due guardie vanno a prelevarlo. Egli le segue confuso)

Messaggero                   - Ho detto quello che sapevo, ho detto la verità, la verità... (Lo trascinano via)

Cicerone                        - Si proceda nel dibattimento contro i cospiratori. (Cesare si alza approfittando del momen­taneo smarrimento degli altri per la vittoria di Crasso)

Cesare                           - Signori del Senato, a voi che siete il sale della terra compete un compito grave. Non è facile a un animo turbato dalle passioni distinguere la ve­rità. L'odio come l'amicizia, l'ira come la pietà non consentiranno mai ad alcuno di lasciarsi guidare sol­tanto dall'utile della Repubblica. E che dire della paura? Troppe volte ho udito nominare in quest'au­la un sentimento indegno del nome romano. Pauradi che, signori? Di un uomo che, al primo segnale di pericolo è fuggito al campo d'Etruria, lasciandoin Roma i suoi subalterni? Credetemi, è assurdo parlare di paura, come fa, con una ostinazione che non lo onora, il saggio Catone. Specie perché, grazie alla diligenza del chiarissimo console non s'è mai vistoun tale apparato di forze in pieno assetto. Quanto al­la pena proposta per i colpevoli, cioè l'estremo sup­plizio, posso dirvi che nel pianto e nella miseria la morte è un riposo degli affanni, non un supplizio. Essa dissolve tutti i mali degli uomini. Di là non c'è più né gioia né angoscia. Uccidere i condannati è come liberarli di colpo dalla loro greve pena di vi­vere. Perché non fustigarli?

Catone                          - La legge Porcia lo vieta!

Cesare                           - (di scatto) Ma la legge Porcia vieta an­che di condannare a morte senza l'appello al popolo! Volete rispettarla nelle cose minori e non nelle mas­sime? Voi mi potete opporre che nel caso presente la colpa è cosi grave da giustificare l'inosservanza della legge. Ed io non dubito della vostra lealtà nel giudicare cosi. Ma guardatevi, in nome degli dei, dal­lo stabilire un simile esempio. Se il potere finisse nelle mani di incapaci o di disonesti, essi si servi­rebbero del precedente da voi creato per applicare la pena senza appello non ai colpevoli, ma agli in­nocenti.

Cicerone                        - Questo, sotto il nostro consolato non accadrà mai!

Cesare                           - Lo so, chiarissimo Marco Tullio. Ma è tale la tua autorità in materia di legge, che un nuo­vo console potrà essere tentato dal tuo esempio a trarre la spada senza appellarsi al popolo. Chi sarà in grado allora di fermarlo o di indurlo a moderazio­ne? (Tace un istante. L'uditorio è impressionato) È un grave errore, signori del Senato, pensare che la tirannide si presenti sin dall'inizio con il suo volto di sciacallo. Al contrario, sia la tirannide di un uo­mo o di una fazione, essa appare sotto spoglie ingan­nevoli, come restauratrice dell'ordine e della libertà, là dove la carenza della legge apre una piaga infetta nella compagine dello stato. E voi vedrete il tiranno applaudito e onorato dalla moltitudine, fino a quan­do, simile a Crono, comincerà a divorare i suoi figli. È appunto per impedire simile sorta di eccessi e di sopraffazioni, che furono promulgate la legge Porcia e altre leggi che consentivano ai condannati di re­carsi in esilio...

Catulo                           - Deliberiamo dunque che i congiurati sia­no prosciolti perché aumentino l'esercito di Catilina!

Cesare                           - Niente affatto, Quinto Catulo! Non meno forte del tuo è il mio desiderio di libertà! Credo al contrario che gli accusati vadano tenuti in carcere; che i loro beni siano confiscati; e che nessuno sollevi più il loro caso né in Senato né di fronte al popolo. Chiunque agisca altrimenti sia dichiarato reo, da questa Assemblea, di attentare alla sicurezza della Repubblica. (Cesare ha terminato di parlare. Lenta­mente torna a sedersi al suo scanno, presso gli accu­sati. I senatori si raggruppano presso l'uno o l'altro di loro per consultarsi)

Cicerone                        - Nessuno intende parlare sulla proposta di Cajo Cesare? Decimo Silano, tu hai chiesto per i condannati l'ultimo supplizio.

Decimo

Silano                            - Infatti, come ha ben detto Cajo Cesare, può esservi per un romano un supplizio più grave del carcere? Questo io volevo intendere per ultimo supplizio.

Voci                              - Ha ragione Decimo Silano! Ha ragione Cajo Cesare! Al carcere! Al carcere perpetuo!

Catulo                           - Signori, qui si giuoca con le parole! Tan­to siete scossi dall'audacia di Cesare, da rinnegare ciò che avete dichiarato in questa assemblea? Un av­venturiero squattrinato, una lingua bifida e velenosa... (Non può continuare. Nasce un pandemonio tra i par­tigiani di Cesare e quelli di Catulo, che muovono gli uni contro gli altri per venire alle mani)

Cicerone                        - Padri Coscritti! Siate degni del vostro ufficio di giudici e della maestà di questa Assemblea! Tu, Tiberio Nerone?

Tiberio Nerone              - Data l'eccitazione degli animi, confermo la mia proposta di differire la decisione adaltro momento.

Cicerone                        - Mettiamo ai voti la proposta di Tiberio Nerone.

Voci contrastanti          - Ai voti! No! Si! (Catone scen­de lentamente dal proprio scanno, va a piazzarsi nel breve emiciclo davanti agli scanni, alza le braccia fa­cendo cenno agli altri di tacere)

Voci                              - Silenzio! Parla Catone! Silenzio!

Catone                          - (quando il silenzio si è ristabilito) Assai diverso è il mio parere, o Padri Coscritti, da quello di Cajo Cesare. Egli ha molto sottilmente disquisito at­torno all'ottimo governo della Repubblica ed ai pe­ricoli della tirannia. Ed io, nonostante il mio costume pubblico e privato sia cosi diverso dal suo, mi asso­cerei volentieri alle sue parole se la decisione che stiamo per prendere riguardasse cosa di piccolo momento; allora consiglierei io per primo calma, pru­denza e moderazione. Ma abbiamo l'acqua alla gola, miei nobili colleghi! E se Cajo Cesare non se ne preoccupa, tanto più è necessario che me ne preoc­cupi io, per me e per voi. Cajo Cesare ha certamente ragione quando vi prospetta le insidie della tirannide. Ma quale tirannide è più odiosa di quella che ci mi­naccia da vicino con l'urgenza delle catastrofi senza rimedio? Si cospira, si chiamano alla guerra i popoli della Gallia, nemici irriducibili di tutto ciò che è romano, si prepara un esercito, il nemico è dentro le mura e nel cuore stesso della città, si decreta la vo­stra strage, loavete udito. Perché, se non per imporre con le armi e con il terrore la più schiacciante delle tirannidi? Si, Cajo Cesare ha ragione quando asseri­sce che la legge Porcia e altre leggi vietano che si tolga la vita ai condannati senza l'appello al popolo. Ma quelle leggi furono votate quando il popolo ro­mano possedeva ancora le virtù, che danno diritto alla clemenza e alla moderazione. Cajo Cesare ha ra­gione, siete voi ad aver torto! Voi, che in luogo di quelle virtù coltivate solo il vostro egoismo! Che in casa siete servi del piacere e qui del denaro e dei favori! Più volte, Padri Coscritti, ho lamentato in quest'aula il lusso e l'ingordigia dei nostri concitta­dini. Non mi avete degnato di attenzione. Ora vi terrò altro discorso. Per gli dei immortali! Se stimate le vostre case, le vostre ville, le vostre statue, le vostre pitture più preziose della Repubblica; se queste cose, valgano quel che valgano, ma alle quali siete cosi at­taccati, volete conservarle; se volete godervi in pace i vostri piaceri, svegliatevi una volta tanto e pensate a difendervi. Qui non è in giuoco soltanto la libertà, ma la nostra stessa esistenza! (Le sue parole scuoto­no l'assemblea. Si odono mormorii, approvazioni, pa­role di paura)

Cesare                           - Non voglio credere che il Senato della Repubblica cederà al ricatto della paura.

Voci                              - Silenzio! Siete voi ad aver paura! Tradi­tori! Lasciatelo parlare!

Catone                          - Fa attenzione, Cajo Cesare, a non aggiun­gere l'insulto al sacrilegio! Poco fa, tu hai dissertato con ricercata eleganza sulla vita e sulla morte, ne­gando l'anima immortale. Hai sfidato ed irriso la fede tradizionale del popolo romano. (Agli altri) E voi lo avete approvato! Voi, che temporeggiate per pigrizia e mollezza d'animo e confidate negli stessi dei, che qui sono oltraggiati, perché salvino ancora una volta questa Repubblica dai maggiori pericoli. No, non coi voti né con le suppliche delle donne si procura l'aiuto degli Dei! Non implori gli dei chi si abbandona all'ignavia e alla codardia! Gli dei sono in collera per lo sdegno! (Di nuovo l'assemblea è scossa. I senatori si alzano uno dopo l'altro rinfacciandosi le loro paure)

Voci                              - Sia punito il sacrilegio! Se qualcuno ha paura osi dichiararlo!

Catulo                           - (a Pisone) Tu non parli, Cajo Pisone?

Pisone                           - Chi osa dubitare di me? Io sono per la condanna!

Voci                              - Anch'io! Anch'io! Anch'io! A morte i tra­ditori! Vogliono ucciderci. Siano uccisi!

Catone                          - Dunque, perché s'indugia? Poiché esisto­no prove e testimonianze che costoro sono rei di avere preparato stragi, incendi e altri crimini contro i cittadini e contro la patria, si dia loro, confessi e colti in flagrante, la pena prevista pei rei di delittocapitale. (Scoppia un uragano di grida)

Voci                              - Ai voti la proposta di Catone! A morte! A morte! All'estremo supplizio! (Cesare avanza rapido fino al seggio di Cicerone)

Cesare                           - Affido gli accusati alla magnanimità del console... (Cicerone è titubante. Guarda Lucio Cor­nelio che fronteggia il suo sguardo)

Una voce                       - Ai voti la proposta di Catone!

Catulo                           - Perché indugia il Console? È in giuoco la salvezza della Repubblica!

Una voce                       - Il consolato a Quinto Catulo!

Voci                              - (confuse e minacciose) Il Senato ha deciso! Vogliamo un uomo deciso! Richiamate Pompeo! (Ci­cerone osserva la crescente ostilità del Senato. Fi­nalmente si alza, con contenuta emozione)

Cicerone                        - (cercando di nascondere un fondo di ran­core) Debbo ricordarvi, Signori del Senato, che io sono quello stesso console, cui da mesi non è con­cesso un istante di sicurezza. Minacce e pericolo di morte m'hanno seguito nel foro, m'hanno spiato in Campo Marzio e in quest'aula, hanno bussato alla porta della mia casa. Ho visto intorno a me l'ango­scia e le lacrime della mia famiglia, di una moglie e di una figlia atterrite, di un bambino, che ho posto tra le braccia della Repubblica come pegno del mio consolato. Mi sono forse arreso per questo? Non siete stati voi a colmarmi di lodi, a decretare che la con­giura è stata scoperta grazie al mio coraggio ed alla mia diligenza? A ordinare per me una pubblica fun­zione di ringraziamento, onore mai toccato prima ad un magistrato civile?

Catone                          - Nessuno mette in dubbio i meriti e le virtù del console. Vogliamo solamente troncare gli indugi.

Cicerone                        - L'ho detto io stesso in apertura di se­duta, mio severo Catone! Ma che la rapidità non si­gnifichi fretta ed assenza di ponderazione.

Voci                              - Basta! Abbiamo già deciso! Ai voti la pro­posta di Catone!

Cicerone                        - ...un nerbo sufficiente di truppe assi­cura la regolarità del giudizio...

Catulo                           - (con sarcasmo) È una minaccia? Dobbia­mo considerarci in stato di sospetto?

Cicerone                        - È una garanzia della vostra libertà! Voluta da me! Come da me è stata creata la com­pattezza degli ordini sociali! Non solo dei maggiori, ma degli infimi! Non c'è liberto, ma che dico liberto, non c'è schiavo, per poco che la sua condizione sia tollerabile, che non detesti questa infame congiura!

Catulo                           - E cosa chiedono essi, compatti? Morte!

Voci                              - Morte! Morte!

Cicerone                        - (dopo una pausa penosa) Morte., mor­te... breve e oscura parola... essa ripugna allo spirito di giustizia... E tuttavia, se penso al destino riser­vato da Cesare agli accusati: privati a vita della li­bertà, confinati nei municipi, gettati in carcere come ladroni, privati dei beni, privati d'ogni ricorso al Senato ed al Popolo e dunque persino della speranza, unica consolazione nella disgrazia... (Si volge lenta­mente verso gli accusati) se questo è il destino riser­vato loro da Cesare, che pure è un uomo cosi gene­roso, allora, io dico             - non per crudeltà, Cajo Cesare, chi più mite di me? non per atrocità d'animo, sib-bene per un sentimento di umanità e di pietà verso gli accusati, meglio mille volte la morte, tregua agli affanni ed alle miserie; grave pedaggio che apre tut­tavia l'animo alla speranza di un riscatto. Per questo i filosofi l'affrontano con coraggio e spesso gli animi forti la desiderano. Non parlo soltanto per gli accu­sati, Signori del Senato, ma per me stesso. Giacché non m'illudo; scegliendo la morte per costoro so di attirare su di me, più di quanto io abbia già fatto, l'odio e la vendetta dei cospiratori, che ancora si na­scondono numerosi nella città. (Con vera emozione) Io so di giuocare assieme alla loro, la mia testa!...

Voci                              - Viva Marco Tullio Cicerone! Viva il Con­sole!

Cicerone                        - Poco importa, se mi conforta il vostro consenso e se l'aver salvato la patria dai nemici in­terni mi procurerà un po' di posto a fianco di quei grandi: i due Scipioni, Emilio Paolo, Mario, sopra­tutto Pompeo, che la liberarono dalla servitù di altri popoli.

 Voci                             - Viva! Viva il console Cicerone!

Cicerone                        - Una sola cosa vi chiedo: che in cam­bio della mia rinuncia al comando dell'esercito, al governo della provincia, al trionfo ed a ogni altro segno d'onore, ai miei privati interessi nell'interesse della patria, voi serbiate memoria di questi ultimi giorni del mio consolato. (Con crescente commozio­ne) E, se dovrò soccombere alla violenza dei malvagi, raccomando a voi il mio unico figliolo, il mio Marco... Basterà al suo avvenire che voi pensiate: è il figlio di colui che ci ha salvato tutti, rischiando solo se stesso. (Scoppia un uragano di applausi)

Voci                              - Viva Marco Tullio! Affissione! Affissione! (Alcuni senatori vanno a congratularsi. Cesare torna lentamente al suo posto)

Cicerone                        - Questo, Signori, è solo il mio parere. Sta a voi ora giudicare, soltanto a voi; vostra è la sovranità e la responsabilità. Io non farò che obbe­dire alle vostre decisioni, qualunque esse siano, e le farò eseguire finché avrò vita. Ai voti dunque la pro­posta di Marco Catone. (Grave silenzio. I senatori si alzano lentamente, uno dopo l'altro)

Voci                              - (con grave compattezza) A morte!

Cicerone                        - (china la testa approvando) A morte... (Buio)

QUINTO QUADRO

Lo studio del console in Senato. Una guardia pre­sidia la stanza. Sempronia, abbattutissima nonostan­te cerchi di farsi forza, aspetta impaziente. Da sini­stra, come provenienti dall'aula del Senato, entrano i condannati scortati da guardie. Attraversano la scena per uscire a destra. Passano Cetego, Lentulo, Gabinio e Cepario. Poi Pisone, Catulo, Murena, Catone. Quin­di Cicerone, che precede Cornelio scortato da una guardia. Mentre gli altri escono da destra, Cornelio si ferma. Cicerone osserva muto i due amanti, poi, uscendo, fa cenno alle guardie che lo seguono. Cor­nelio e Sempronia restano soli. Muti dall'emozione Sempronia si fa animo con disperata volontà.

Cornelio                        - Solo pochi istanti, Livia...

Sempronia                     - I soli veri, i soli nostri, nostri del tutto...

Cornelio                        - Hai ragione... La storia passa e ci la­scia indietro, sciogliendoci dal debito verso gli altri. Fummo mai cosi liberi? Ora so con certezza che non c'è stato un attimo in cui non t'ho amato più dell'anima mia...

Sempronia                     - Tu si... ero morta e mi facesti rivi­vere. Ma io non t'amai abbastanza da farmi disprez­zare... disgustarti, costringerti a rinunciare e a met­terti in salvo...

Cornelio                        - E che sarebbe oggi Lucio Cornelio? Un sopravvissuto a eventi troppo grandi, nascosto in qualche angolo di provincia a consumare in silenzio il suo disprezzo di sé. No! Ho scelto liberamente la mia sorte: l'avrei scelta senza di te e contro di te... Gli Dei sono stati generosi facendomi incontrare dalla mia parte... Ora basta, Livia... Non accusiamoci di ciò che è troppo più forte della nostra volontà... L'importante è credere che solo i duri di cuore muoiono veramente. Gli altri vivranno di ciò che hanno dato senza pretenderne il prezzo...

Sempronia                     - ...Vivranno sempre, sempre, sempre! Saranno la sola cosa viva, la sola speranza!

Cornelio                        - (con disperazione) Ma non ora, Livia,, non ora... troppo grandi furono i loro errori! Un'on­da d'ignominia si rovescerà su di loro e coloro stessi pei quali morirono li malediranno... Gli scolari man­deranno a memoria i nostri nomi per aborrirli... E le parole che ci condannarono saranno scolpite nel bronzo...

Sempronia                     - Molti capiranno.. Molti... più che tu non pensi...

Cornelio                        - (placandosi) Si, forse, tra mille anni, di più, forse, qualcuno comincierà a chiedersi il perché del nostro delitto... Ma cos'è il tempo ormai? Cos'è nel ricordo una vita piena? Un attimo. E noi lo stia­mo vivendo quest'attimo... (Si abbracciano con dispe­rata intensità)

Sempronia                     - Nessuno mi scioglierà mai da te, mai, per l'eternità... (Le guardie che rientrano restano per un attimo indecise. Cornelio è il primo ad accorger­sene. Si stacca da Sempronia, ostenta una lieta si­curezza)

Cornelio                        - (alle guardie) Eccomi, amici. Giacché si deve partire meglio affrettarci. (Guarda Sempro­nia) Addio Livia..

Sempronia                     - Addio, addio, ti rivedrò presto...

Cornelio esce a testa alta, seguito dalle guardie. Li­via Sempronia resta sola. Non vuole abbandonarsi. Cammina tesa, inquieta per la stanza. Giunge davan­ti al tavolo di Cicerone sul quale è la spada di Cor­nelio. La prende, la osserva, come un oggetto strano e prezioso. Ne è come affascinata. Dalla piazza sot­tostante scoppiano le grida della folla)

Voci della folla             - Evviva il console! Viva Marco Tullio Cicerone! A morte i traditori della patria!

Voce di

Cicerone                        - Cittadini di Roma! Coloro che cospirano contro la Repubblica non sono più!

Voci della folla             - Viva! Viva il console Cicerone!

Voce di

Cicerone                        - E ora, o romani, alle armi! Un esercito di facinorosi, comandati da Sergio Catilina, minaccia le vostre case, e la vostra vita. Annientate­lo! Mostrate che più d'ogni cosa al mondo voi avete a cuore la libertà e la salvezza della Repubblica!

Voci della folla             - Viva il console! A morte Cati­lina! (Di lontano si odono tamburi, passi in cadenza di truppa in marcia che si avvicinano. Sempronia alza gli occhi verso l'alto)

Sempronia                     - Se di là c'è pace e silenzio... Padre... padre mi ascolti? Dammi la tua forza, padre, e ten­dimi le braccia... (Si uccide. Il rullo dei tamburi e il ritmo di marcia aumentano di intensità mentre la scena si oscura lentamente. Durante i pochi atti­mi di buio i tamburi raggiungono il massimo d'in­tensità)

QUARTO QUADRO

L'aula del senato. Quando la luce si rialza i tamburi scemano di intensità; ora sono misti a grida della folla. L'aula del senato è deserta. Soltanto Cesare e Crasso di spalle, guardano fuori di una finestra, ver­so la strada da dove salgono le grida, il ritmo caden­zato dei tamburi, il passo dei soldati.

Voci della folla             - Viva le legioni vittoriose! Vit­toria! Vittoria! Largo ai vincitori (Da destra entra­no Quinto Catulo e Catone, felici. Come scorgono i due alla finestra, sapendoli di parte avversa, li pro­vocano)

Quinto Catulo               - Avete udito la sorte dei Catili­nari? Scompigliati, tagliati a pezzi, distrutti. Catilina e Manlio morti sul campo. Non uno vivo dei nemi­ci... Niente prigionieri, né durante il combattimento, né durante la fuga. Cos periscano i nemici della Re­pubblica... (Da sinistra è entrato il vecchio Murena, che ha udito le ultime parole di Catulo)

Murena                          - Mio figlio., avete notizie di mio figlio? Era nella coorte pretoria di Marco Petrejo...

Catulo                           - Magnifica truppa, i maggiori artefici del­la vittoria. (il vecchio Murena esce a destra, coster­nato, in cerca di notizie)

Catone                          - (a Catulo) Il Senato si radunerà oggi stesso per onorare i vincitori. (Catone e Catulo esco­no a sinistra. Da destra entrano Visone e Muzio in uniforme da campagna)

Crasso                           - Notizie dal campo?

Muzio                            - (ancora stordito) Sono vivo. Soltanto questo so. Sono vivo. Ora ho fretta: devo vedere il console... (Esce con lo stesso passo concitato con cui è entrato)

Pisone                           - La sua coorte è stata distrutta. Non ho mai visto battaglia più crudele. Ora giacciono me­scolati, amici e nemici, e ognuno copre, morto, il ter­reno conquistato combattendo.

Crasso                           - E Catilina?

Pisone                           - Avanti ai suoi, con la spada ancora in pugno; supino, gli occhi spalancati, che nessuna ma­no pietosa aveva chiuso... Morto bene... (Esce)

Cesare                           - Tanto buon sangue romano per riman­dare la partita forse di un anno, forse anche di die­ci.. Non sanno che i lutti civili chiamano lutti... (Men­tre parlano entra un gruppo di schiavi con secchi d'acqua e arnesi per pulire l'aula del Senato)

Crasso                           - Per ora noi abbiamo sopravvissuto.

Cesare                           - È tutto ciò che abbiamo fatto di buono in questa circostanza. (Si allontanano dalla finestra alla quale salgono ancora le grida di vittoria del popolo. Gli schiavi prendono il loro posto e guarda­no fuori)

Cesare                           - Andiamo, essi gridano troppo per una co­si incerta vittoria,... Odio i sacrifici inutili, le morti sprecate. Odio la violenza in nome della giustizia e la vendetta in nome della libertà.

 Crasso                          - Succede, da giovani, col tempo ti pas­serà.

Cesare                           - Può darsi. Infatti cerco la tua alleanza. (Entra un liberto e si rivolge urlando agli schiavi)

Liberto                          - Via di li, non è cosa che vi riguarda! Stasera c'è seduta, sbrigatevi! (Gli schiavi si allon­tanano dalla finestra e si chinano a pulire)

Cesare                           - Ti rivedrò, Marco Licinio. A domani... (Gli porge le mani)

Crasso                           - (gliele stringe) A domani... (Crasso esce da sinistra. Cesare da destra. Dalla finestra giunge una nuova salva di applausi, mentre gli schiavi, pro­ni, lucidano il pavimento e i seggi. Altri entrano portando festoni decorativi, mentre lentamente ca­la il sipario)

FINE